IL PREMIO NAZIONALE “RICCIONE” 1947 E ITALO CALVINO

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IL PREMIO NAZIONALE “RICCIONE” 1947 E ITALO CALVINO
Andrea Dini
IL PREMIO NAZIONALE “RICCIONE” 1947
E ITALO CALVINO
Portfolio
a cura di Antonella Bacchini
Società Editrice «Il Ponte Vecchio»
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Il Premio Nazionale “Riccione” 1947 e Italo Calvino
di Andrea Dini
Portfolio: Il Premio Riccione 1947 e Italo Calvino
a cura di Antonella Bacchini
© 2007 by Riccione Teatro
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La presente pubblicazione è stata realizzata in occasione
del 60˚ anniversario del Premio Riccione per il Teatro, 1947-2007
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Di questo premio abbiamo il dovere di fare qualcosa
di duraturo e di eminente, certamente sapremo potenziarlo per gli anni venturi, troveremo nuovi modi per
propagandarlo; ma tutto è possibile soltanto a condizione che il primo motivo della sua rinomanza il premio lo trovi nella esattezza, nella onestà della sua organizzazione.
Cesare Zavattini
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Rivisitando quel 1947 che ha visto l’istituzione del Premio Riccione e l’organizzazione di altre
importanti iniziative culturali e artistiche, come la mostra “Pittura italiana d’oggi” – inaugurata al
Palazzo del Turismo il 27 luglio dello stesso anno – alla quale presero parte con Emilio Vedova e
Renato Guttuso alcuni tra i maggiori artisti dell’epoca, risulta evidente come nell’animo dei primi
amministratori riccionesi del dopoguerra gli eventi culturali fossero considerati parte integrante
dello sviluppo turistico di Riccione.
Come scrive in questo stesso catalogo Andrea Dini l’idea del Premio Riccione nasceva dal desiderio
di istituire una sorta di contraltare adriatico al Premio Viareggio: la collocazione del Premio a
Ferragosto proprio in concomitanza con il Viareggio e nel cuore della stagione turistica testimonia
della volontà di creare un evento culturale “balneare”.
È curioso poi constatare che proprio il giorno stesso del Premio attribuito a Italo Calvino (sabato
16 agosto) il Cavalier Augusto Cicchetti, vicedirettore dell’Azienda Autonoma di Soggiorno e capo
dell’Ufficio tecnico (che si occupava del verde pubblico e dell’organizzazione delle manifestazioni),
nonché vivaista e progettista di giardini in proprio, scriva alla signora Eva Mameli Calvino, madre
di Italo e segretaria della Società Italiana Amici dei Fiori, per istituire un “concorso a premi”
nell’agosto dell’anno successivo per “incoraggiare l’iniziativa privata nella ricostruzione dei giardini
di questa spiaggia che hanno un’importanza turistica di primo piano”, destinati rispettivamente
“al più bel giardino privato della superficie dai 200 ai 600 mq., al più bel giardino privato della
superficie oltre i 600 mq. (sic!), al caffè e al dancing meglio addobbato” oltre ad altri premi.
Significativa è anche la collocazione del primo Premio Riccione in un grande e bel giardino,
quello del Dancing Savioli, in un periodo nel quale locali da ballo alla moda erano ospitati da ville
e giardini.
I nostri primi amministratori dunque avevano individuato nel verde e nella cultura gli obiettivi
sui quali fondare il futuro turistico di Riccione.
Quasi commovente sotto questo profilo il piano di ricostruzione Savorgnan del 1950, laddove la
previsione di sviluppo di Riccione ruota attorno a ville e villini con giardino con una limitatissima
espansione alberghiera e dunque con la salvaguardia del patrimonio verde della città, non per nulla
definita la Perla Verde dell’Adriatico e descritta nelle prime guide del Touring Club come città-giardino.
Aspettative poi disattese negli anni successivi, vittime dell’imprevisto successo di Riccione, legato
ad un altrettanto imprevisto sviluppo del turismo che diverrà negli anni ’50 e ’60 un fenomeno di
massa molto lontano da una visione della villeggiatura come fatto ancora elitario e destinato a
pochi, visione ancora sottesa al piano Savorgnan.
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Non è però tardi oggi per recuperare quegli obiettivi di salvaguardia del verde e di sviluppo di
iniziative culturali per dare nuovo impulso al turismo riccionese, non in una prospettiva nostalgica
di valorizzazione del (non poco) verde rimasto, sia pubblico che privato, ma in un’ottica di
valorizzazione anche turistica dei beni culturali e ambientali. Non per nulla e per mantenere questo
collegamento tra arte, cultura e giardini gli eventi legati alla celebrazione del sessantesimo
anniversario del Premio vedono accanto alla bella mostra curata dal Premio Riccione, in
collaborazione con l’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, e
a questo saggio-catalogo di Andrea Dini, l’inaugurazione del restaurato Giardino delle Ville – Parco
Papa Giovanni Paolo II, alla cui riqualificazione Riccione Teatro ha dato importante impulso e
contributo; parco che circonda la sede di Riccione Teatro a Villa Lodi Fè, villino di villeggiatura di
una famiglia emiliana.
Il che chiude il cerchio.
Giorgio Galavotti
Presidente di Riccione Teatro
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1947
Ci sono ricorrenze sterili e altre significative: i sessant’anni del Premio Riccione significativi lo
sono in massimo grado.
1947: la guerra è finita da due anni (il fronte è passato di qui appena tre anni prima, nel 1944); ci sono
ancora alberghi requisiti dalle truppe alleate, non tutti i prigionieri di guerra tedeschi sono tornati a
casa, le difficoltà della vita quotidiana, le ferite della guerra e dell’occupazione ancora si fanno sentire.
Nonostante questo – o forse proprio per questo – c’è una grande voglia di fare, di ricominciare, di
vivere: aprono (o riaprono) pensioni e alloggi, ristoranti, dancing, arene cinematografiche, esercizi commerciali. Intanto, il 15 giugno, il reduce di guerra Fausto Coppi vince il Giro d’Italia davanti a Gino
Bartali.
Il Comune e l’Azienda di Soggiorno svolgono un ruolo importante: oltre a occuparsi della ricostruzione materiale, dell’occupazione, delle infrastrutture, insomma delle necessità primarie, vogliono contemporaneamente marcare la rinascita della vocazione turistica di Riccione con iniziative di alto livello
culturale e artistico: una mostra di pittori con Renato Guttuso ed Emilio Vedova al Palazzo del Turismo
a fine luglio; un premio teatrale e letterario al Dancing Savioli a Ferragosto, con nomi importanti tra cui
Sibilla Aleramo e Cesare Zavattini. In più c’è un invitato, anzi un padrino d’eccezione: Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea Costituente.
1947: nel referendum del giugno1946 gli italiani (e le italiane, le donne al voto per la prima volta)
avevano scelto la Repubblica e inviato a Roma i deputati dell’Assemblea incaricata di redigere la carta
costituzionale repubblicana. La convergenza antifascista degli anni di guerra stava finendo: nel discorso americano di Fulton Winston Churchill aveva parlato di una “cortina di ferro” che ormai tagliava in
due l’Europa da Stettino a Trieste.
Nel maggio del 1947 la crisi del terzo gabinetto De Gasperi aveva avuto come esito l’uscita dal
governo di comunisti e socialisti: ci si stava ormai avviando alle elezioni politiche nazionali che l’anno
successivo, il 18 aprile 1948, avrebbero definito per quasi mezzo secolo la situazione interna e la collocazione internazionale dell’Italia. Oggi sembra un miracolo, ma la rottura politica tra socialcomunisti da
un lato e democristiani dall’altro non comportò anche la rottura costituzionale: l’Assemblea continuò i
propri lavori, concludendoli con grande tempismo il 22 dicembre 1947. La Costituente era presieduta,
dal 13 gennaio, da Umberto Terracini, genovese di nascita e torinese di adozione, come Togliatti e come
lui nell’Ordine Nuovo di Gramsci; antifascista, ebreo, era un comunista critico che ragionava con la sua
testa: l’aveva dimostrato in condizioni difficilissime nel 1939 sfidando l’isolamento dal suo partito mentre
si trovava al confino di Ponza e Ventotene (un isolamento nell’isolamento) per le sue posizioni in dissenso dalla politica di Stalin sul patto di non aggressione Molotov-Ribbentrop tra URSS e Germania
nazista. Anche i presidenti di assemblea, anche gli uomini cocciuti (11 anni di carcere e 6 di confino) e
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indipendenti vanno in vacanza e a Terracini deve essere molto piaciuto, per più di una ragione, quell’inaspettato invito la settimana di Ferragosto nella “fascinosa Riccione”. Invitato molto in ritardo e
senza troppe speranze da parte degli organizzatori con un telegramma spedito tre giorni prima della
serata di premiazione, la seconda autorità dello stato (dopo il Presidente della Repubblica Enrico De
Nicola) accetta inaspettatamente e arriva a Riccione con la moglie Maria Laura, che coltiva una vocazione teatrale e vede nel Premio un’importante occasione di incontro con critici e organizzatori di teatro
come lo scrittore Lorenzo Ruggi, l’efficiente e autorevole presidente della sezione teatrale del “Riccione”.
Con la settimana del Premio, la stagione dei bagni e della mondanità arriva al culmine: le temperature sono nelle medie stagionali, il tempo è bello; si guasterà – come al solito – pochi giorni dopo
Ferragosto.
1947: nascono in quell’anno i grandi festival europei, con una simultaneità non casuale; è rinfrancante vedere che, giusto dieci anni prima dell’istituzione della CEE con il Trattato di Roma del 1957,
l’Europa degli artisti, degli intellettuali, degli organizzatori di cultura c’era già, dal festival teatrale di
Avignone a quello di Edimburgo, mentre l’anno prima era stata la volta del festival del cinema di
Cannes che comunque ha deciso di celebrare i suoi sessant’anni in questo stesso 2007.
In tutti questi casi, assieme alla dimensione artistica e culturale, assumeva esplicito e grande rilievo
la finalità di promozione turistica.
Cannes, Edimburgo, Avignone: la Costa Azzurra, la Scozia, la Provenza si riproponevano all’attenzione dei turisti e dei viaggiatori: lo stesso intendeva fare la nostra Riviera con Riccione e il suo Premio.
Si parla oggi, da più parti2, di racconto del luogo come componente essenziale del marketing turistico.
Con il racconto di Riccione il Premio ha rimarcato, da quasi vent’anni, non solo le coincidenze tra la
propria storia e quella di Riccione, ma soprattutto ha seguito nelle sue successive evoluzioni, la metamorfosi di Riccione nell’immaginario collettivo3: dal turismo elitario delle vie e dei dancing nel verde al
turismo di massa degli anni Cinquanta e Sessanta, diurno, balneare e famigliare al turismo post-moderno degli anni Ottanta, notturno, collinare e nomadico fino al mosaico odierno, dove queste diverse
dimensioni convivono.
Fabio Bruschi
Direttore di Riccione Teatro
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Turismi della memoria, a cura di Andrea Pollarini; brochure pubblicata dalla Provincia di Rimini in occasione
dell’omonimo convegno ANCI, Rimini, 2005. Giancarlo Dall’Ara, Innovazione e territorio. Un nuovo paradigma
per lo sviluppo del turismo a Riccione, a cura di Itinera, Centro Internazionale di Studi Turistici, Milano, FrancoAngeli, 2006.
Pier Vittorio Tondelli, Ricordando fascinosa Riccione. Personaggi, spettacolo, mode e cultura di una capitale balneare, a
cura di Gianfranco Capitta e Roberto Duiz, Bologna, Grafis Edizioni, 1990. Volume realizzato in occasione del
40˚ Premio ATER per il teatro, quale catalogo della mostra omonima. Il Premio Riccione per il Teatro, a cura di
Fabio Bruschi, Associazione Riccione Teatro, Comune di Riccione, 1997. Pier Vittorio Tondelli, Riccione e la
Riviera vent’anni dopo: 1985-2005; a cura di Fulvio Panzeri, Rimini, Guaraldi, 2005.
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Il Premio Nazionale “Riccione” 1947 e Italo Calvino
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PREMESSA
Chi canterà le gesta della armata errante, l’epopea dei
laceri eroi, le imprese dell’esercito scalzo, chi canterà
l’anno di gloria e sangue trascorso sui monti?
Iniziava così, all’indomani della Liberazione, il primo maggio del 1945, sulla «Voce della democrazia» (organo del CLN di Sanremo), un articolo scritto da Italo Calvino, classe 1923, giovane
partigiano appena sceso dai monti1. Un Ricordo dei partigiani vivi e morti tracciato con partecipazione accorata ad una settimana dalla cessazione della guerra in Italia. «Chi enumererà la schiera di
quelli che non scesero, dei tanti morti lasciati lassù, con nello spento sguardo l’ultimo bagliore del combattimento o l’ultimo spasimo della tortura?» Domande tempestive, e certo sentimentali, date da quell’impeto irresistibile al raccontare che rivela una forte auto-candidatura a farsi bardo, la spinta alla narrazione di una fondamentale esperienza collettiva. Un’esperienza subito trasfigurata in epopea picaresca
(«l’armata errante», «i laceri eroi»…), filtrata letterariamente dai ritmi dei romanzi d’avventure o cavallereschi: «Chi tramanderà la lunga storia di imboscate e guerriglie, di battaglie e sbandamenti, di raffiche e cespugli,
di fughe e assalti?» Imboscate, fughe, duelli, assalti da “cantare” dunque («Chi canterà le gesta…», «Chi
canterà la battaglia…»), ché «la guerriglia fa rinascere in pieno secolo XX lo spirito avventuroso e cavalleresco dei secoli andati», come il giovane Calvino si premura subito di enunciare in un altro suo scritto,
di pochi mesi posteriore al Ricordo, in Castelvittorio paese delle nostre montagne2.
Se questi sono i primi segni perfettamente documentabili di una vocazione letteraria, Calvino nasce
scrittore di guerra: «[…] era venuta l’occupazione tedesca e, secondando un sentimento che nutrivo
fin dall’adolescenza, combattei coi partigiani, nelle Brigate Garibaldi. […] Da quell’esperienza nacquero, qualche mese dopo, nell’autunno del ’45, i miei primi racconti»3. Un esordio che avviene
quindi su di uno sfondo biografico, per il momento incentrato su di sé, sui propri traumi: e il primo
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I. CALVINO, Ricordo di partigiani vivi e morti, «La Voce della Democrazia», Sanremo, a.I, n. 13, 1 maggio 1945,
apparso assieme all’articolo di fondo Primo maggio vittorioso.
ID., Castelvittorio paese delle nostre montagne in AA.VV., L’epopea dell’esercito scalzo, a c. di M. Mascia, A.L.I.S.,
Sanre mo, s.d. [ma 1945], pp. 49-50.
«Il primo fu mandato ad un amico, che in quei mesi era a Roma; Pavese lo trovò buono e lo passò a Muscetta,
che dirigeva la rivista «Aretusa». Il numero di «Aretusa» uscì con molto ritardo, l’anno dopo. Intanto Vittorini
aveva letto un altro mio racconto e l’aveva pubblicato sul settimanale «Il Politecnico» nel dicembre ’45» (Italo
Calvino, in AA.VV., Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di E.F. Accrocca, Venezia, Sodalizio del Libro,
1960, p. 111, adesso in I. CALVINO, Saggi 1945-1985, t. 2, a c. di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, p.
2715).
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racconto pubblicato s’intitola significativamente Angoscia4, cui seguita, per quei mesi, l’inedito La
stessa cosa del sangue, narrazioni in cui si rievoca il momento della scelta partigiana e della prigionia
per rappresaglia dei genitori5. Attesa della morte in un albergo, sempre del ’45 e pure inedito, ha come
nucleo un altro episodio biografico, la carcerazione a seguito del rastrellamento6. La pagina calviniana d’esordio spicca per la sua singolarità: all’interno di un panorama letterario scandito dal
febbricitante slancio alla narrazione di collettivi “fatti straordinari”7, i primi racconti focalizzano il
loro oggetto su una condizione di mutilazione, angoscia, ambiguità o impotenza dei protagonisti,
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I. CALVINO, Angoscia, in «Aretusa», a.II, n.16, dicembre 1945, pp. 58-65, poi col titolo di Angoscia in caserma in
Ultimo viene il corvo (Torino, Einaudi, 1949, pp. 118-130). Adesso in ID., Romanzi e racconti, t.1, a c. di C. Milanini, M. Barenghi, B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1991 pp. 236-245.
«Noi siamo tutti vivi; voi di “laggiù” non potrete mai comprendere cos’è stato questo periodo per noi e come
si possa considerare fortunato chi l’ha scampata. Io più d’ogni altro ho ragione di dir questo, che la mia vita in
quest’ultimo anno è stato un susseguirsi di peripezia: sono stato partigiano per tutto questo tempo, sono passato attraverso una inenarrabile serie di pericoli e di disagi; ho conosciuto la galera e la fuga, sono stato più
volte sull’orlo della morte. Ma sono contento di tutto quello che ho fatto, del capitale di esperienze che ho
accumulato, anzi avrei voluto pure di più. […] Salutami i tuoi genitori e abbiti i saluti dei miei. Ne hanno
passate parecchie anche loro: furono arrestati per un mese ciascuno come ostaggi; mio padre fu lì lì per essere
fucilato sotto gli occhi di mia madre» (Lettera a Eugenio Scalfari, 6 luglio 1945, in «La Repubblica-Mercurio»,
a.I, n.1, 11 marzo 1989, p. 10, adesso in I. CALVINO, Lettere 1940-1985, a c. di L. Baranelli, Milano, Mondadori,
2000, p. 149-150). Si cfr. ivi anche la lettera a Marcello Venturi, 5 gennaio 1947, p. 176, in cui lamenta che i pezzi
dell’amico siano troppo «melodrammatici»: «Non si può scrivere tutto quello che si sente, a mia madre pure è
successa una cosa simile, solo che al muro non hanno messo una sedia, ma mio padre, tutto tal quale tranne
l’uccisione, ma io non potrò mai raccontare una cosa simile […]».
Per i tre racconti, si cfr. l’indagine biografica e testuale di C. MILANINI, Appunti sulla vita di Italo Calvino. 19431945, in «Belfagor», LVI (2006), I, pp. 43-61 (in particolare pp. 50-58) e B. FALCETTO, «Io ai racconti tengo più che
a qualsiasi romanzo possa scrivere». Sull’elaborazione di Ultimo viene il corvo, in «Chroniques Italiennes», n.75-76,
2005, pp. 97-133. Sia La stessa cosa del sangue che Attesa della morte in un albergo appariranno per la prima volta
in Ultimo viene il corvo, cit., pp. 99-107 e 108-117. Sull’elaborazione di Attesa della morte in un albergo, col titolo
Lamento per il compagno vivo, si veda l’articolo di Falcetto di cui sopra, pp. 112-122 (e pp. 127-129 per La stessa
cosa del sangue).
G. FALASCHI, Letteratura di fatti straordinari, in «Antologia Vieusseux», a.XXII, n.1, gennaio-dicembre 1986, pp.
15-36 e tutto il volume, del medesimo studioso, La resistenza armata nella narrativa italiana, Torino, Einaudi,
1976, alla cui appendice si rimanda anche per una parziale, ma ancora attuale, bibliografia (pp. 200-203), da
integrare con quella di A. BRIGANTI, La guerra, la prigionia, la Resistenza nella narrative e la poesia, in AA.VV.,
Letteratura italiana contemporanea, t.3, Roma, Lucarini, 1982, pp. 53-88. Per una descrizione topologica delle
funzioni della letteratura partigiana italiana, si cfr. B. MERRY, The Italian partisan novel: theme and variations, in
«The Mediterranean Review», a.IV, n.2, 1972, pp. 68-75. Già trent’anni fa Falaschi avvertiva del pericolo di una
certa ricognizione sulla letteratura partigiana, che svincolasse da una valutazione complessiva: «La critica
letteraria non ha fatto attenzione alla letteratura partigiana come fenomeno degno di uno studio complessivo;
e infatti ha assorbito l’argomento all’interno della letteratura neorealistica assegnandole in questa una zona
marginale […]. Ciò è potuto accadere perchè non si è cercato di studiare il tessuto di opera minori che costituiscono il quadro generale del fenomeno, ma si è fatta attenzione solo agli autori più rappresentativi (Vittorini,
Calvino, magari la Viganò e, più tardi, Fenoglio). […]Un’altra contraddizione, questa interna a parecchi critici
che attaccano il neorealismo da varie posizioni, sta nel loro giudicare negativamente il fenomeno salvandone
quasi tutti gli autori più rappresentativi o tentando di recuperarli in chiave antineorealistica. Tutto questo
accresce le nostre già forti reserve sulla funzionalità della bibliografia sul neorealismo nei confronti della letteratura partigiana» (p. 202).
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situando in una cornice da incubo gli intrecci quasi sempre autobiografici delle storie raccontate. La
pagina sembra allontanarsi dalla narrazione della spinta esiziale inflitta al fascismo dalla lotta partigiana, per mostrarci nel suo risvolto il faticoso e contraddittorio processo di una liberazione interiore, lo svolgimento di un dramma storico e esistenziale. Non il momento della risoluzione vittoriosa della lotta (che rimane sullo sfondo), in una prospettiva indiscutibile di certezze operative
(comuni a tanta letteratura dell’epoca): ma un rovello, la coscienza lacerante dell’importanza, unicità e fondamentalità della scelta di campo e della decisione, una scelta privata di moralità8. L’epopea
collettiva è ancora lontana, ma le scelte di affabulatore sono segnate.
Sceso dai monti della sua Sanremo ed eletta Torino a nuovo domicilio, dall’autunno 1945 al
dicembre 1946 Calvino s’impegna in un serrato tirocinio: fa lo studente di Lettere, scrive racconti su
racconti, si avvicina alla casa editrice Einaudi (per cui vende dapprima libri a rate), stringe amicizia
con Pavese, Vittorini, la Ginzburg (ai quali fa leggere i suoi scritti, confidando nei loro consigli), si
dà al giornalismo con molti articoli per «L’Unità», quindi fa il balzo verso il romanzo, scrivendo Il
sentiero dei nidi di ragno, d’argomento partigiano, libro che sarà pubblicato nell’ottobre 1947. Ed è il
successo, il riconoscimento di scrittore.
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Esplicita la testimonianza di E. SCALFARI (Quando avevamo diciott’anni…, in «La Repubblica», 20 settembre
1985): «Una sera – eravamo gia arrivati alla terza liceo, era il 1940 e la guerra stava lacerando l’Europa – uno di
noi tirò fuori la frase di Kant: “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”. Ci fu un gran silenzio
e Italo disse: “Forse è una cazzata, però bisogna pensarci bene, bisogna pensarci molto”». Ma si veda anche I.
CALVINO, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, in ID., Romanzi e racconti, t.1, cit., pp. 1197-1198: «Ero stato,
prima d’andare coi partigiani, un giovane borghese sempre vissuto in famiglia; il mio tranquillo antifascismo
era prima di tutto opposizione al culto della forza guerresca, una questione di stile […] e tutt’a un tratto la
coerenza con le mie opinioni mi portava in mezzo alla violenza partigiana, a misurarmi su quel metro. Fu un
trauma, il primo… E contemporaneamente, le riflessioni sul giudizio morale verso le persone e sul senso
storico delle azioni di ciascuno di noi. Per molti dei miei coetanei, era stato solo il caso a decidere da che parte
dovessero combattere; per molti le parti tutt’a un tratto si invertivano, da repubblichini partigiani o viceversa;
[…] solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile». La letteratura tuttavia non diviene per Calvino
un mezzo per una testimonianza limitata, una «confessione individuale» (I. CALVINO, in Inchiesta sul neorealismo, a c. di C. Bo, Torino, Eri, 1951, p. 47) ma il modulo interpretativo di un più vasto accadimento con cui lo
scrittore intrattiene un rapporto critico (si cfr. G.C. FERRETTI, Calvino: l’intelligenza del negativo, in ID., La letteratura del rifiuto, Milano, Mursia, 1968, pp. 167-176): il punto di partenza calviniano pone al centro un trauma
soggettivo: «Per molti di noi, fin da ragazzi, rifiutare la mentalità fascista voleva dire innanzitutto rifiutarsi di
amare le armi e la violenza; l’inserimento nella lotta partigiana implicò, dunque, oltretutto, il superamento di
forti blocchi psicologici dentro di noi. Ero venuto su con una mentalità che poteva condurmi più facilmente a
fare l’obiettore di coscienza che il partigiano; e a un tratto mi trovavo in mezzo alla lotta più cruenta. Ma –come
aveva scritto colui che per primo definì per noi questa posizione d’impegno e per primo la pagò con la vita
[Giaime Pintor, ndr.]– “l’ultima generazione non ha tempo di costruirsi il dramma interiore: ha trovato il dramma
esteriore perfettamente costruito”. La tragedia del nostro paese e la ferocia dei nostri nemici crescevano più
s’avvicinava la resa dei conti; la logica della Resistenza era quella stessa della nostra spinta vitale» (I. CALVINO,
in AA.VV., La generazione degli anni difficili, a c. di E.A. Albertoni, E. Antonini, R. Palmieri, Bari, Laterza, 1962,
pp. 77-78).
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Un percorso noto, molte volte narrato da Calvino stesso9; un percorso piano, lineare, irresistibilmente in ascesa che dobbiamo vedere forse con sospetto, viste le tante professioni di fede antibiografiche che Calvino ha compiuto lungo la sua vita, in cui contraddice (o integra, modificandole nella sostanza) le affermazioni fatte in precedenza10. A una prima verifica ravvicinata, infatti, il
quadro degli esordi si fa più faticoso: nella corsa al successo Calvino fa “buca” a un concorso
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Per uno scrittore così restio a parlare di stesso, sono invece molte le risposte ai questionari, o le prefazioni e
l’interviste in cui la biografia degli esordi è ripercorsa capillarmente. Si vedano i ritratti dati in: «Il Caffè», a.IV,
n.1, gennaio 1956, ripreso poi con varianti in Italo Calvino, in AA.VV., Ritratti su misura di scrittori italiani, cit.,
entrambi adesso in I. CALVINO, Saggi 1945-1985, t. 2, a c. di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, pp. 27092716; la sezione di Pagine autobiografiche nei Saggi 1945-1985, cit., pp. 2705-2929 contiene anche una Autobiografia politica giovanile (pp. 2733-2759, formata da due parti, uscite in «Il Paradosso», a.V, n.23-24, settembre-dicembre 1960 e nel volume collettivo La generazione degli anni difficili, cit.), Togliatti e de Gasperi (pp. 2803-2809), Il
mio 25 aprile (pp. 2810-2813), Sono stato stalinista anch’io? (pp. 2835-2842), Tante storie che abbiamo dimenticato (pp.
2912-2919), tutte rilevanti per la ricostruzione (specie sul versante politico) di questo primo periodo. Fondamentali sono però le prefazioni ai testi, in cui si ripercorre l’esordio: Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno
(pp. 1185-1204), Nota introduttiva 1954 al Sentiero dei nidi di ragno (pp. 1205-1207), Postfazione ai Nostri antenati
(Nota 1960) (pp. 1208-1219), in Romanzi e racconti, t.1, cit. e la Nota introduttiva a Gli amori difficili in Romanzi e
racconti, t.2, a c. di C. Milanini, M. Barenghi, B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1992, pp. 1282-1299. Hanno posto
attenzione agli anni 1943-1946 (e alle vicissitudini di Calvino partigiano, con documenti inediti e rivelatori): F.
BIGA, Italo Calvino, il partigiano chiamato Santiago, in «La patria indipendente» n.1, 2006, pp. 29-31. http://
www.anpi.it/patria_2006/01/29-31_BIGA.pdf e ID., Italo Calvino partigiano imperiese, in AA.VV., La libera «Repubblica» di Pigna, a c. di O. Contestabile, Imperia, Istituto Storico della Resistenza, 1985, pp. 94-98; e, principalmente, C. MILANINI, Appunti sulla vita di Italo Calvino, cit. Si cfr. altresì le voci Autobiografia, pp.63-65, Santiago,
pp.217-219, e Identità, pp.133-137, in D. SCARPA, Italo Calvino, Milano, Bruno Mondadori, 1999.
Se, nella struttura più tipica, la forma dell’autobiografia può apparire come il dispiegarsi di una mappa che
contiene tutti i dati dell’esistenza di un autore, disposti uno di seguito all’altro a formare un’immagine topograficamente lineare del percorso svolto, all’interno della mappa autobiografica di Calvino questi dati s’aduneranno per punti, indicheranno solo in parte l’idea di una successione di tappe, sovrapponendosi invece
stratificati in un itinerario spezzato e contorto che torna sempre su di sè. Punti di accumulazione, o di tensione,
essi staranno lì con la loro presenza a segnalare ora un episodio irrisolto, ora un caso non chiuso, comunque un
rovello inesausto di chi non riesce a porre davvero, nonostante le dichiarazione contrarie, una sacrosanta “pietra sopra” alle esperienze concluse. Il caso del Sentiero dei nidi di ragno, dell’opera prima inserita all’interno di
questa ipotetica mappa di accumulazioni e tensioni, è paradigmatico. I tentativi di ricostruirne la storia che
inevitabilmente si basano sulle notizie pubbliche calviniane debbono sempre fare i conti con questa discontinuità di sistema. Spigolando tra i materiali diseguali e più disparati che, per taglio e volume, costituiscono il
corredo di un’ipotetica autobiografia del giovane Calvino, si notano piccole e singolari lacune, spostamenti,
reticenze, buchi cronologici, informazioni concesse o meno a seconda dei contesti, tirate da diversi punti di
vista per adattamenti su misura. La mano dell’autore sceglie, dispone, commenta, puntualizza, confuta, si
assicura il divertimento di mescolare le carte, ammettendo apertamente di prendersi gioco del critico: «Dati
biografici: io sono ancora di quelli che credono, con Croce, che di un autore contano solo le opere (Quando
contano, naturalmente.) Perciò dati biografici non ne do, o li do falsi, o comunque cerco sempre di cambiarli da
una volta all’altra. Mi chieda pure quel che vuol sapere, e Glielo dirò. Ma non Le dirò la verità, di questo può
star sicura» (A Germana Pescio Bottino, 9 giugno 1964, in I. CALVINO, I libri degli altri. Lettere 1947-1981, a c. di
G. Tesio, Torino, Einaudi, 1991, p. 479). Si cfr. anche la lettera a Guido Fink, 24 giugno 1968 (in I. CALVINO,
Lettere 1940-1985, cit., p. 1004): «Lei secondo me si preoccupa ancora troppo di spiegare Calvino con Calvino,
di tracciare una storia, una continuità di Calvino, e magari questo Calvino non ha continuità, muore e rinasce
tutti i momenti […]», in cui l’affermazione dello scrittore va davvero contro a quanto egli stesso si trova a fare
ogni qualvolta s’impegna a ricostruire la propria carriera. (L’epistolario Lettere 1940-1985, d’ora in poi, sarà
solo citato con destinatario, data e pagina di riferimento.)
18
(quello per cui il libro era nato, a fine 1946); riceve critiche sempre più consistenti per il suo modo
di scrivere sospeso tra il saggistico e il narrativo; riesce (parzialmente, un ex-aequo) ad un altro
concorso, nell’agosto 1947 e, dopo la pubblicazione del Sentiero (la pietra fondamentale di una
carriera di romanziere), i tentativi di scrivere romanzi rimangono invece abortiti in un cassetto11.
La ricostruzione degli esordi – il suo diario in pubblico – si intreccia così con queste dissonanze,
con queste screpolature che s’incuneano corpose nel concerto armonioso proposto invece dalle
letture autoriali à rebours.
Gli svariati autoritratti del giovane Calvino, complice l’autore, non sanno mai infatti rinunciare alla tentazione latente della manipolazione, dell’evasività o al limite del depistamento; come se,
in sordina, il ritratto venisse di volta in volta aggiustato e corretto quasi a modo di autotutela,
seguendo una volontà tacitamente operativa di controllo e intervento retrospettivo sull’immagine
di sé. Sono pagine che ci restituiscono un ritratto d’esordiente sempre più mirato, da parte di uno
scrittore còlto tra reticenze, tentennamenti e aperte abìure. Lo scandaglio retrospettivo si esercita
con peculiare accanimento su questa fase iniziale (come appare dalla congerìe di postille disseminate in prefazioni aggiunte ai testi ed interviste)12, attraverso cui Calvino tenta di ricomporre l’archetipica immagine di sé eliminandone le discontinuità, in favore di una raffigurazione a tutto
tondo.
11
12
Un campione dei problemi post-romanzo. A Silvio Micheli, 11 settembre 1948, p. 231: «Forse non farò più lo
scrittore. Passo una «crisi», non voglio scrivere più come prima, ma non so ancora come scrivere dopo. Perciò
non scrivo.» A Elsa Morante, 9 agosto 1950, p. 290: «Il mio libro nuovo […] è in fase di faticosa elaborazione.
[…] Ma è passato il tempo in cui scrivevo di getto […]. M’accorgo che è stata la pressione della storia a portarmi avanti, e poi m’ha lasciato lì». A Mario Ortolani, 7 agosto 1954, p. 414: «Io continuo a scrivere cose che mi
vengono rifiutate, ne ho i cassetti pieni, e sono proprio quelle cui fatico di più, anni ed anni. […] Ho due grossi
romanzi nel cassetto: uno scritto dal ’47 al ’49 [Bianco veliero, ndr.], l’altro dal’49 al ’51 [I giovani del Po]. Adesso
ne scrivo un altro [La collana della regina, ndr.], faticosissimo anche questo: chissà se mi riuscirà?»
Nel gioco di specchi che lo scrittore conduce con il suo biografo estorsore di fatti privati, violatore della sua
privacy, i materiali pubblici sugli anni dell’esordio si accavallano e si contraddicono. Diventano anch’essi un
genere letterario con i propri limiti e regole, delle composizioni scritte ad hoc influenzatissime dalle circostanze
esterne, quindi umorali, volubili, un labirinto di letteratura che si somma a letteratura. Ricercarvi una verità
letterale significherebbe, in ultima analisi, piegarsi ai depistamenti dello scrittore. Non che si possa tacciare
Calvino di volontà depistante (nonostante la lettera a Germana Pescio Bottino, prima riportata); ma, specie se
la richiesta di notizie è rivolta al passato remoto, un “personaggio-Calvino” prende il posto dell’autore medesimo. Ogni riflesso biografico è vissuto come una formulazione di una racconto da limare rivedere correggere,
in cui al dato bruto si sostituisce il “romanzo”, l’entità fabulistica, “una” versione delle possibili versione dei
fatti, alterata dal tempo e dalla mutata prospettiva, introducendo una variabile turbativa che contrasta con i
leciti (critici) tentativi di storicizzazione. Ha meritevolmente affrontato il problema della “cancellazione” del
Calvino esordiente fatta da Calvino stesso F. SERRA, Gli esordi difficili, in ID., Calvino, Roma, Salerno, 2006, pp.
58,61. Sull’ “autoimmagine” calviniana ha posto l’accento J. FRANCESE, Due saggi calviniani, in “L’abaco”, a.I,
n.1, 2002, pp. 37-55 (che nello studio La ricezione dell’opera di Calvino nel mondo anglofono 1956-1976 esamina una
fase più tarda, ma ancora tipica, del percorso mitografico dell’autore a seconda del pubblico cui la storia è
rivolta). Sempre di Francese, si cfr. Lo scrittore che non venne dal freddo, ovvero il primo viaggio di Calvino negli
USA, in “Allegoria”, a.XIII, n.37, gennaio-aprile 2001, pp. 38-61.
19
Le storie di guerra, i drammi, i traumi, i tentativi affabulatori che sono i primi gradini della sua
opera (il dramma in tre atti I fratelli di Capo Nero, e i raccontini-apologo del 1943-194413, ma non
solo: anche gli articoli giornalistici e i micro-saggi per «l»Unità», i reportage, le commemorazioni
più emotive) subiscono un trattamento feroce dall’autore che si volge indietro. Le tappe formative
dell’apprendistato letterario sono di colpo ridimensionate e l’esordio ufficiale posticipato alla pubblicazione del romanzo, prova del nove tale da accreditare la tesi (a Calvino gradita) di una felicità
scritturale comunque pre-esistente nella sua opera, compendiata dall’arguzia pavesiana nall’acuminata etichetta di «scoiattolo della penna», agile ginnasta delle forme narrative. Nell’ideale biografia par lui meme, infatti, molti dei racconti che precedono (o accompagnano) la stesura del romanzo sono accantonati, posti volutamente nel dimenticatoio, con lento stillicidio di volta in volta
eliminati: della dozzina e più presenti nel volume del 1949 Ultimo viene il corvo (da cui si elimina
sulla soglia della pubblicazione due racconti-tipo come Vento in una città e Amore lontano da casa,
scritti nel periodo della stesura del Sentiero)14 solo la metà passano nell’edizione I racconti (1958). Il
rigido criterio selettivo viene riconfermato anche con la riedizione della prima raccolta, nel 1969; a
vent’anni di distanza Calvino opera nuove scelte, legittimando l’esclusione di tre testi del 1945, di
argomento resistenziale (Angoscia in caserma, La stessa cosa del sangue, Attesa della morte in un albergo)
con un’imputazione sintomatica: a conferma della fissazione del personaggio in una forma canonica, su cui prevale l’idea di uno sviluppo creativo senza brusche svolte, coerente e, principalmente,
innato, sono espulsi quei racconti più “fuori stile”, contrastanti con la pratica narrativa messa a
punto in seguito15.
13
14
15
Questi testi sono stati inseriti in I. CALVINO, Romanzi e racconti, t.3, a c. di C. Milanini, M. Barenghi, B. Falcetto,
Milano, Mondadori, 1994, rispettavamente alle pp. 443-496 e pp. 767-830.
Vento in una città e Amore lontano da casa si trovano in I. CALVINO, Romanzi e racconti, t.3, cit., pp. 952-959 e 960968. Le note di Bruno Falcetto per questi racconti, a pp. 1334-1335, indicano che per entrambi esistono testimoni «con impaginazione e caratteri identici a quelli dell’edizione 1949 di Ultimo viene il corvo». La datazione
risalirebbe rispettivamente al maggio 1946 e al gennaio 1947. Le citazioni da questi due racconti saranno accompagnate nel secondo capitolo dal numero della pagina direttamente a seguito del testo, in parentesi tonda.
La storia editorale dei racconti di Ultimo viene il corvo e delle raccolte è stata mirabilmente studiata da Bruno
Falcetto per l’appendice dei Romanzi e racconti, t.1, cit., pp. 1261-1305. A integrazione di quelle pagine del 1991,
ID., «Io ai racconti tengo più che a qualsiasi romanzo possa scrivere». Sull’elaborazione di Ultimo viene il corvo, cit.,
imprescindibile studio integrativo per i racconti di questo periodo e per l’elaborazione di Ultimo viene il corvo.
Le varianti ai racconti erano già state studiate più parzialmente da G. FALASCHI, Negli anni del neorealismo, in
AA.VV., Italo Calvino. Atti del Convegno internazionale (Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, 26-28 febbraio 1987), a c.
di G. Falaschi, Milano, Garzanti, 1988, pp. 113-140. Per un’analisi di molti dei racconti 1945-1947, si cfr. anche,
del medesimo studioso, il capitolo Italo Calvino, in La resistenza armata nella narrativa italiana, cit., pp. 96-151. Per
una complessiva (e persuasiva) interpretazione dei Racconti (spesso attraverso la lente di motivi esistenzialistici) si veda il bel saggio di F. RICCI, Difficult games. A reading of “I racconti” by Italo Calvino, Waterloo, Wilfrid
Laurier University Press, 1990, che a tutt’oggi rimane un punto fermo dell’esegesi calviniana. Si aggiunga
altresì di M. MCLAUGHLIN, il capitolo The apprentice artisan: the early short stories, in Italo Calvino, Edinburgh,
Edinburgh University Press, 1998, pp. 1-18. Silvio Perrella, con il capitolo Anni Quaranta nella monografia
Calvino (Bari, Laterza, 1999, pp. 3-28, e più specificamente pp. 8-17) ha il merito d’insistere sul valore dei
primissimi racconti e di Angoscia in caserma in particolare.
20
Dipanare il bandolo complicato dell’esordio, alleggerendone al contempo la matassa con l’eliminazione delle immagini mitologicamente consolidate, significa allora seguire Calvino all’interno della fase più metamorfica e insidiosa, alla ricerca del sostrato fondamentale di questa prima
stagione di romanziere e novellatore di guerra, sfondo progressivamente adulterato, sepolto dai
vari detriti e i molti depistaggi delle correzioni retrodatate16.
Un autore, Calvino, di cui solo la morte (e lo scatenarsi dei convegni in memoriam con le consuete esigenze di storicizzazione) ha riportato d’attualità i testi d’esordio, di solito oscurati dai bicipiti
della trilogia degli Antenati o dalla metaletterarietà di moda dei suoi ultimi romanzi. Nei vent’anni
che ci separano dalla sua scomparsa è finalmente assistito al rifiorire d’interesse, al limite dell’accanimento, per quegli anni di produzione narrativa e giornalistica fondamentali, recuperati attraverso racconti dispersi, articoli dimenticati, romanzi (come nel caso del Sentiero) altrimenti tradizionalmente letti secondo cliché17.
Scorrendo gli indici dei contributi, raccolti nei vari Atti, in numeri monografici di riviste o in
singoli studi si vedrà come gli anni dell’apprendistato abbiano moltiplicato il loro spazio. Non
ultima, per approfondire la storia dei testi, è giunta l’edizione mondadoriana dei Romanzi e racconti, con un sistema d’apparati esteso e fondamentale (pur per un’edizione non critica dei testi); a
questi si sono aggiunte le selezioni corpose dei saggi18 e una notevole campionatura delle lettere19,
16
17
18
19
Si cfr. ancora le correzioni ai primi due libri, discusse da B. FALCETTO, «Il sentiero dei nidi di ragno», pp. 12431260 e «Ultimo viene il corvo», pp. 1261-1305, in I. CALVINO, Romanzi e racconti, t.1, cit. Segnaliamo qui alcune
considerazioni riassuntive di Alessandra Briganti in merito al tipo di prodotto letterario dal quale Calvino
vuole riscattarsi: «prevale, tra il 1945 e il 1946, la corrente più legata ad una posizione di impegno inteso come
immediato rapporto di subordinazione della cultura all’ideologia, e che quindi vede una totale prevalenza
dell’elemento pratico, della funzione pedagogica, del momento etico sociale sull’elaborazione espressiva. […]
Ciò spiega quella sorta di uniformità ideologica e stilistica che caratterizza la maggior parte dei testi prodotti
in questo ambito: si tratta infatti in primo luogo di racconti destinati al grosso pubblico dei quotidiani e dei
periodici, che riflettevano in genere la tematica resistenziale, ovvero una problematica sociale caratterizzata
da una spiccata ambizione cronachistica» (A. BRIGANTI, Il neorealismo, in AA.VV., Letteratura italiana contemporanea, cit., pp. 29-30).
I punti di riferimento più solidi per un’interpretazione problematizzata degli esordi rimangono ancora: il volume di G. FALASCHI, La resistenza armata, cit.; G.C. FERRETTI, Le capre di Bikini. Calvino Giornalista e saggista
1945-1985, Roma, Editori Riuniti, 1989 (e in particolare pp. 9-45); L. RE, Calvino and the age of neorealism: fables of
estrangement, Stanford, Stanford University Press, 1990; F. RICCI, Difficult games, cit., (per aver privilegiato il
filone esistenziale prima di tutti); G. BERTONE, Le radici del Midollo. Critica, letteratura e lingua nel primo Calvino,
in ID., Italo Calvino. Il castello della scrittura, Torino, Einaudi, 1994, pp. 3-86; M. MCLAUGHLIN, A small scale-epic:
The path to the spiders” nests, in ID., Italo Calvino, cit., pp. 19-34; P. FERRUA, Italo Calvino a Sanremo, San Remo,
Famija Sanremasca, 1991; F. SERRA, Gli esordi difficili, in ID., Italo Calvino, cit.; P. SPRIANO, Un Calvino rivoluzionario, in ID., Le passioni di un decennio (1946-1956), Milano, Garzanti, 1986, pp. 11-32; C. MILANINI, Calvino e la
Resistenza: l’identità in gioco, in AA.VV., Letteratura e Resistenza, a c. di A. Bianchini e F. Lolli, Bologna, Clueb,
1997, pp. 173-191; B. FALCETTO, La tensione dell’esistenza. Vitalismo e razionalità in Calvino dal Sentiero allo Scrutatore, in «Nuova Corrente», a.XXXIV (1987), n. 99, gennaio-giugno, pp. 29-56 (nonchè, dello stesso, le note già
citate al Sentiero e Ultimo viene il corvo nel primo tomo del volume Mondadori).
I. CALVINO, Saggi 1945-1985, cit.
I. CALVINO, Lettere 1940-1985, cit.
21
specie per il primo periodo 1940-1950 (che ci permette di demistificare l’immagine pubblica data
da Calvino sull’esordio) e un album d’immagini, che ripercorre il tragitto biografico, per le amorevoli cure di Claudio Milanini, Bruno Falcetto, Mario Barenghi e Luca Baranelli. L’edizione mondadoriana rimane l’edizione di riferimento, anche per la ricchezza dei materiali inediti riportati e la
scrupolosa attenzione delle note ai testi.
Questo saggio intende incunearsi tra gli studi svolti attraverso una serie di sperimentazioni
critiche eterogenee, condotte per segmenti, intese a proporre delle riletture angolate, settoriali, di
un anno importante nel curriculum calviniano quale il 1947, scartando a priori l’obiettivo di coprire
con ottica totalizzante l’intero periodo degli esordi. Una scelta che, col mettere da parte un’organica indagine storica (seguendo ad esempio il percorso di Calvino passo passo dalle prime prove al
romanzo), lascia la ricostruzione degli esordi ellittica; ma una scelta che è stata assunta per fondate
ragioni, volendo evitare sintesi di dati oramai acquisiti e studiare invece il periodo 1945-1947 di
Calvino secondo un percorso a “problemi”(naturalmente suggeriti dalla lettura del romanzo e di
alcuni dei racconti o saggi a questo coevi). L’arco di tempo prescelto (dalle pubblicazioni 1945 alla
scrittura del Sentiero) si piega apposta a questa sperimentazione: tracciare col più basso margine
d’oscillazione possibile un primo itinerario stilistico, tutto dal di dentro, tra la “preistoria” (i racconti) e la “storia” (il romanzo) calviniana e, per l’occasione del volume stesso, studiare e ricostruire le complesse fasi del Premio Nazionale “Riccione” 1947, che laureò il Sentiero dei nidi di ragno a
pari merito col romanzo di Fabrizio Onofri Morte in piazza.
Lo studio che qui proponiamo col capitolo I, Il Premio Riccione per un romanzo 1947 e Italo Calvino
propone una cronistoria del bifronte «Premio Riccione 1947» (dedicato al dramma e al romanzo
«sociale») sullo sfondo della ricostruzione della riviera adriatica e del rilancio turistico-culturale di
essa, contribuendo con materiali inediti al percorso che portò il romanzo di Calvino a ottenervi
una vittoria ex aequo ma anche, purtroppo, alle ragioni della scomparsa della sezione «letteraria»
stessa, soppiantata per le edizioni future dal premio esclusivo per il teatro. L’indagine nell’archivio
riccionese ha permesso il reperimento di ricchi materiali documentari, che attestano i tentativi dei
promotori di fissare Riccione sulla mappa delle manifestazioni culturali italiane (come concorrente del Viareggio, almeno nelle intenzioni). Gli epistolari scambiati tra i commissari e il comitato
organizzatore aprono anche prospettive inedite sul percorso del Premio e sulla scelta dei vincitori,
e ci consentono anche di leggervi le avventure di un notevole numero di intellettuali (Aleramo,
Vittorini, Bilenchi, Luzi, Piovene, Zavattini) alle prese con la lettura dei testi e la disorganizzazione rampante di questa prima competizione. Questo capitolo, diviso in tre parti (di cui la prima,
Riccione 1947, è dedicata alla politica di ricostruzione materiale e culturale della città, e la seconda,
Il Premio Nazionale “Riccione” 1947, alla cronaca del Premio) esamina il legame tra il Riccione e
Calvino nella sua parte finale (Italo Calvino a Riccione), indagando le ragioni della cancellazione
pubblica che Calvino fece di questo suo ex-aequo e il rapporto conflittuale col romanzo o con gli
22
esordi tout court che esce dalla lettura biografica di questo periodo. In appendice al capitolo I è
riportata un’ampia sezione documentaria, che include un’antologia degli scritti del primo sindaco
di Riccione, Gianni Quondamatteo, giornalista per «L’Unità» (i cui articoli hanno provveduto a
formare parte del nostro studio sui problemi politico-culturali dell’immediato dopoguerra riccionese); la parte del Diario edito di Sibilla Aleramo dedicata ai giorni del Riccione (con la coda di una
polemica sui giornali locali suscitata da un partecipante, che, non soddifatto dall’esito del concorso, attaccò la scrittrice, nella sua qualità di presidentessa della sezione letteraria); un’antologia
delle poche cronache coeve sul Premio, che ci restituiscono oggi il sapore delle critiche e delle
congratulazioni (e, principalmente, dei pettegolezzi) che accompagnarono il varo della manifestazione.
Il capitolo II Per una cronistoria del Sentiero dei nidi di ragno. I dattiloscritti del Premio Nazionale
Riccione per un romanzo 1947 si offre come una esplicita integrazione delle veloci pagine con cui la
storia interna del testo è stata riportata nell’appendice al primo volume mondadoriano di Romanzi
e racconti (1991). Un’integrazione dovuta: è la prima volta che il Sentiero in una redazione anteprinceps, come quella di Riccione, viene affrontato con strumenti filologici. Tra le varianti manoscritte riccionesi se ne trovano difatti alcune notevolissime, di insperato aiuto per capire i procedimenti stilistici del primo Calvino. Varianti che attestano come avvenga per lo scrittore il passaggio,
per il genere “racconto di guerra”, dai tentativi marcati da influenze saggistiche (come Le battaglie
del comandante Erven o Castelvittorio paese delle nostre montagne)20 alla forma romanzesca, da un
resoconto pseudocronachistico che interferisce nella scrittura narrativa (visibile in una singola macrovariante) a come il problema è risolto.
Questo secondo saggio, che in parte fa da complemento e ripresa dei materiali del primo capitolo (per cui esistono inevitabili ripetizioni e sovrapposizioni), e in parte ne è totalmente indipendente (si può leggere come studio a sè) è diviso in cinque parti. Dopo un esordio generale sui
problemi affrontati da Calvino nella ricerca di una propria voce, di un proprio recit narrativo (Romanzo e nevrosi: la riconquista delle cose), la seconda parte si occupa di delineare la storia del rapporto che intercorre tra il romanzo e i racconti coevi attraverso le figure dei personaggi e delle loro
funzioni che nel romanzo sono recuperate (Il problema interpretativo degli esordi: il personaggio e il suo
ubi consistam). Si è infatti a lungo dibattuto sulla “consistenza” o meno del personaggio calviniano,
specie dopo la recensione pavesiana al libro (un la critico divenuto quasi imprescindibile per la
critica posteriore) in cui quella consistenza si negava: figure stereotipe, burattini, “incontri”, personaggi così delineati perché di marca fiabesca, ergo oggettiva. Il capitolo tenta di dare una risposta
“interna” al sistema racconti-romanzo a proposito di questo problema, ed individua nelle difficol-
20
I. CALVINO, Le battaglie del comandante Erven, in AA.VV., L’epopea dell’esercito scalzo, cit., pp. 235-244.
23
tà di Calvino a dominare la propria materia romanzesca una prima risposta. Segue la ricognizione
ravvicinata dei dattiloscritti inviati al Premio (I dattiloscritti riccionesi del Sentiero: le testimonianze),
con l’esame della particolare fattura dei dattiloscritti stessi e delle varianti dattiloscritte e manoscritte (in particolare su quelle che coinvolgono ripensamenti politici nella delineazione dei personaggi: I dattiloscritti riccionesi del Sentiero: il sistema delle varianti); conclude la ricognizione uno
studio dettagliato delle correzioni della battaglia del Sentiero (Le varianti alla battaglia del Sentiero,
c.86v-87r), colte contrastivamente con testi poco conosciuti come Ricordo di partigiani vivi e morti e
Le battaglie del comandante Erven, i cui moduli stilistici tornano ad affacciarsi alla scrittura del romanzo (e alla sua correzione). In appendice al capitolo II è riportata la collazione effettuata sul
testo dattiloscritto del Sentiero, che s’intende di integrazione all’appendice mondadoriana, cui si
rimanda per un confronto organico (visto che include le varianti delle versioni a stampa 1954 e
196421). In questa appendice è altresì raccolta una corposa selezione delle recensioni coeve al Sentiero e a Ultimo viene il corvo, utili per la ricostruzione del dibattito critico sollevato all’uscita dei
testi, un dibattito condizionante per l’immagine posteriore dello scrittore, come si discute nel capitolo.
Sono molti i debiti di riconoscenza contratti durante la ricerca e la stesura di questo saggio. Due
ringraziamenti sono purtroppo postumi: a Romano Bilenchi, intrattenitore d’eccezione, e a Mario
Luzi, per la gentilezza e la disponibilità dimostratami, che cortesemente si presero la briga di tornare con la memoria all’estate del 1947 e a discutere appunti, note e lettere sul Premio Riccione.
Si ringraziano inoltre: Antonella Bacchini, del Premio Riccione per il teatro, impareggiabile assistente di ricerche tra i faldoni del 1947 e di fonti giornalistiche, iconografiche e diritti d’autore;
Luigi Squarzina e Massimo de Francovich, l’uno per le notizie sul suo dattiloscritto inviato al Premio, l’altro per aver consentito la lettura del romanzo (ancora inedito) di sua madre, Eva Quajotto;
Francesco Biga, direttore dell’Istituto Storico della Resistenza d’Imperia, per la cortesia d’avermi
fornito i fogli partigiani con gli scritti del 1945 di Calvino (in assenza di un’edizione di quest’opere)
e il volume L’epopea dell’esercito scalzo; Silvana Barni, della Biblioteca Comunale «Alessandro Lazzerini» di Prato, per i testi di difficile reperibilità e le spedizioni dei materiali; i colleghi del Dipartimento di Spagnolo e Italiano a Montclair State University, in particolare Paolo Possiedi, David
Del Principe, Marisa Trubiano, Gina Miele, Enza Antenos Conforti e Linda Levine, per l’incoraggiamento e l’appoggio durante la scrittura di questo studio, che ha coinciso con un difficile semestre di sperimentazioni didattiche e d’interminabili riunioni; i miei laureandi Angela Amenta, Barbara Carbon, Daniela Busciglio, Emanuela Silvano, Karelia Tejada, Raffaele Peluso, Robert Otto-
21
Si cfr. B. FALCETTO, «Il sentiero dei nidi di ragno», in I. CALVINO, Romanzi e racconti, t.1, cit. pp. 1243-1260.
24
galli, Rosanna Zamloot e Steven LaPeruta, che spero continueranno a leggere il Calvino degli inizi;
il personale dell’Ufficio del prestito inter-bibliotecario di Sprague Library a Montclair State University (che mi hanno fatto avere innumerevoli articoli in formato pdf direttamente nella mia casella postale elettronica); e non per ultimo, un grazie sentito agli amici Franco Ricci, Joseph Francese,
Maria Jose Calvo Montoro, Angela Jeannet, Giuliana Sanguineti Katz, Anna Botta, Tomasina Gabriele e Beno Weiss, sulle cui pagine calviniane ho molto riflettuto e da cui molto ho imparato:
spero che questo studio ci porti ancora a discutere del nostro autore favorito.
Ringrazio Fabio Bruschi e Giorgio Galavotti, rispettivamente direttore e presidente dell’Associazione Riccione Teatro, che hanno voluto questo studio più articolato dopo aver letto il saggio da
cui tutto ha preso origine (Calvino al Premio Riccione 1947, in «Paragone-Letteratura», XLIV, N.S.
524-526, ottobre-dicembre 1993, pp. 33-59). Si ringraziano inoltre Mina Gregori e Alessandro Duranti della rivista «Paragone-Letteratura» per la concessione del permesso a riprodurre (qui, parzialmente) le pagine del 1993.
Una grazie va anche a Alessandra Stefanin, Irene Gambacorti, Simone Magherini, Roberta Gentile e Silvia Avigdor: lo sapete perchè.
Gino Tellini, Alessandro Duranti e Adele Dei del Dipartimento d’Italianistica dell’Università di
Firenze sono stati a suo tempo gli ispiratori dei miei studi calviniani: a loro va la mia gratitudine
per la generosità, la passione e il rigore filologico con cui hanno sempre insegnato e continuano a
insegnare letteratura italiana. A Alessandro Gori, infine, va il mio ringraziamento per avermi aperto gli occhi agli studi letterari.
Questo libro è dedicato a mio padre Mario, nella cui biblioteca ho fatto conoscenza dei primi
testi partigiani, e che pure suggerì, in tempi lontani, che andassi a Riccione alla ricerca di Calvino;
e a Silvana, Rossana, Chiara, Fabrizio e Andrew.
Last but not least, alla memoria di mia madre Lisoletta, che m’insegnò Fischia il vento.
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Capitolo I
IL PREMIO RICCIONE PER UN ROMANZO 1947 E ITALO CALVINO
1. Riccione, 1947
A rileggere i fogli cronachistici, i quotidiani e le brochure fai-da-te delle Aziende di Soggiorno
rivierasche che, in copie ingiallite e polverose, ci occhieggiano dagli archivi romagnoli invitandoci
a voltarne le pagine ormai consunte e sbiadite, l’estate adriatica del 1947 – la prima a celebrare,
almeno in parte, la ritrovata libertà post-occupazione alleata – fu tutta un turbinìo di balli, reginette
elette nei dancings con scritte al neon, sbronze di pregiato cognac Sarti, orchestre jazz e mosse swing,
diatribe sui due pezzi e i costumi jantzen, nuove discipline balneari imposte a colpi d’ordinanza e
censura delle nudità bipedi a passeggio sui lungomari1. Fu anche, però, la stagione in cui si mossero, esitanti, i primi passi dei premi letterari e dei festival di cinema o d’arte marittimi, in sintonia
con un evidente sforzo di promozione turistica che legasse lo svago e il divertimento mondano,
necessità scontata delle truppe vacanziere, a più tangibili e durature manifestazioni culturali, in un
quadro altrimenti desolante per la Romagna, regione isolata, di forte analfabetismo e scarsa produzione artistica o letteraria2.
Anno di inizi, per la riviera, il 1947 la vede provare a reinventarsi e ridefinirsi con «il lancio, su
di un piano internazionale, [...] fra Ravenna e Senigallia [...]» di una nuova identità «imperniata
1
2
Si cfr. il pezzo umoristico Ordinanze balneari per le spiagge italiane 1947, in «L’Adriatico. Corriere della riviera
romagnola», Rimini, n. 4, 5 luglio 1947, che si fa burla dei vari divieti che spuntano sulle spiagge a garanzia del
buoncostume, con doppi sensi d’ogni sorta: «Vivamente preoccupate per gli eccessi di licenza e i continui
attentati contro la pubblica moralità, che minacciano la quiete delle anime e dei corpi, le Autorità, presi gli
accordi [...] con il competente Sottosegretario alla Castità e pudore, hanno emanato l’ordinanza che segue. [...]
1. È severamente vietato pertanto agli uomini di entrare nel bacino delle donne. 2. Ad evitare che determinate
mode, infiltratesi attraverso il Cordone Sanitario e provenienti da paesi d’oltre Alpe, prendano piede sulla
locale spiaggia e turbino le coscienze giovanili, è fatto assoluto divieto alle bagnanti di indossare costumi a
mezza manica [...] 4. I tradizionali buchi alle cabine sono rigorosamente e tassativamente vietati. A tal uopo,
onde eliminare le fonti di cattivo esempio, è fatto obbligo a tutte le salsamenterie di sospendere [...] la vendita
di formaggi tipo “groviera”. [...] 7. Sono proibite le gite in bicicletta promiscue e l’uso del tandem nel quale
l’uomo monta dietro. 8. Sono severamente proibiti, sia per gli uomini che per le donne, i peli sul petto, i baffetti
di forma provocatoria e le vene varicose. [...] 10.È fatto divieto di servirsi di ciambelle con il buco.
Per una sintesi, si veda S. PIVATO, Provincia e non provincia. Le origini del Premio Riccione e la cultura in Romagna
nel secondo dopoguerra, in AA.VV., Il Premio Riccione per il Teatro, a c. di F. Bruschi, Comune di RiccioneAssociazione Riccione Teatro, 1997, pp. 9-21 (in particolare le pp. 9-14, che offrono un’analisi contestuale della
situazione in cui si trovò a operare il primo Premio Riccione). Si cfr. anche ID., L’isola dei sentimenti. Tipi stereotipi
e immagini in Romagna tra “800 e “900, Cesena, Il Ponte Vecchio, 2000, pp. 111-115.
27
sullo slogan Costa del Sole»3, col concorso diretto di una politica culturale un po’ a tentoni e anche
contraddittoria sostenuta dalle amministrazioni che ne governano i centri, ma che pone le basi per
l’intenso rilancio delle risorse economiche e intellettuali della costiera romagnola.
Si è incominciato dal nome: era necessario trovare uno “slogan” che per i turisti d’Italia e di fuori fosse
un miraggio di vita nuova e brillante. Era necessario superare gli antagonismi locali fra la “perla
verde” e la “costa verde”, fra la “spiaggia internazionale” di Rimini e le “glorie” di Gradara: così è
nata, per rivaleggiare in tutto con le grandi riviere di casa nostra e di fuori, la “Costa del Sole”; immagini balenanti di sabbie calde e di viali odorosi, di giardini tropicali, di acque invitanti.4
Le cartoline illustrate dei bar-tabacchi, gli articoli sulle riviste, i resoconti dei giornali locali e i
cartelli pubblicitari puntavano alla restaurata integrità dell’industria alberghiera della costa medio-adriatica, alla riaffermazione delle radici d’ospitalità e intrattenimento della zona5, recuperando il linguaggio dell’anteguerra esaltante la sublimità di questi luoghi, con testi enfaticamente
celebrativi e immagini dettagliate di giardini smaglianti e cabine spaziose, distinti hotel per tutte le
tasche e spiagge attrezzate, villeggianti in costume a far capannello nei «bagni» e colonie della
Camera del Lavoro brulicanti di bambini felici. La parola d’ordine era rassicurare, invogliare, invitare, passare in rassegna tutte le amenità che la regione prometteva a chi volesse approfittarne.
Iscritte in un «lembo di paradiso»6 indimenticabile, in quel «trapezio di terra corroso da una
ventina di torrentacci che arrivati a valle si mettono a fare i fiumi»7 impinguandosi in una Romagna «quaggiù bella grassa, tutta polpa»8, le seducenti città di secolare dantesca memoria «su la
marina dove’l Po discende/per aver pace co’ seguaci sui», da Cervia e Cesenatico a Cattolica,
3
4
5
6
7
8
La Costa del Sole. Comitato per la rinascita di Rimini, 1 maggio 1947, Archivi Storici, Comune di Riccione (ex
Azienda di Soggiorno), adesso contenuta in fotocopia nei materiali dell’Archivio Premio Riccione (d’ora in
poi, APR).
Il più gradito soggiorno sulla “Costa del Sole [articolo non firmato], «Posta-Sera» (Bologna), maggio 1947, Archivi
Storici, Comune di Riccione (ex Azienda di Soggiorno).
«Orchestre jazz, coi nomi di Angelini, Kramer, Barzizza, cantanti della Radio, festival della canzone, feste dei
bambini, veglioni del sorriso e della bellezza, gare di assi del pedale e dei motori: le idee più originali e più
brillanti sono nate dalla mente degli organizzatori. Giornalisti di tutta Italia verranno a Rimini a disputare la
più brillante coppa tennistica della stagione; lo Astoria Film percorrerà in lungo e in largo tutta la “Costa del
Sole” in cerca della fanciulla che dovrà interpretare fra le mura del maniero di Gradara la vicenda di Francesca
da Rimini; le strade di Cesenatico conosceranno l’entusiasmo di una tappa del Giro d’Italia; i viali di Riccione
ispireranno i più celebri scrittori in lizza per un grandioso premio letterario; i viali delle spiaggie marchigiane
proveranno il brivido delle “vespe” in gara appassionata e originale.» Il più gradito soggiorno sulla “Costa del
Sole, cit.
G. QUONDAMATTEO, Nostra inchiesta sulle spiagge romagnole. Se la Riviera Adriatica è rinata il merito è delle
amministrazioni popolari (I), in «L’Unità», 14 agosto 1947.
F. TOMBARI, Romagna, in «Riccione»(Rivista bimestrale edita dall’Azienda Autonoma di Soggiorno), n.1 21
marzo-21 aprile 1941 (XIX), s.i.p.
Ibidem.
28
divenivano sulla stampa un poetico, petrarchesco trionfo del liquido «refrigerio di fresche acque e
fresche ombre»9, da cogliersi «al fresco respiro dell’Adriatico»10. Spiagge e acque di questi lidi
costituivano «la soluzione più lieta e vivace» contro l’infame canicola ferragostana che «brucia gli
asfalti e le case delle città dall’interno»11. Tutti al mare! Ecco l’imperativo categorico. Di complemento, si offriva al visitatore la frescura gioiosa delle pinete sterminate e folte, intricate e ombrose
da Classe in giù, istoriate dall’immaginario boccacciano nella caccia infernale di Nastagio degli
Onesti (o nei cassoni dipinti del Botticelli), ora pacifiche, riposanti e appunto pittoresche, tornate
alla bellezza inquietante degli anni ’30 e dei primissimi anni ’40, tanto che «a camminarvi di sera in
autunno lungo la strada romea che vien giù da Aquileia, par di camminare in un quadro fiammingo»12, dove «fra i pini e le tamerici/all’invito di verdi rifugi/squillano canti felici»13.
A capo di queste reclami sfacciate e del frenetico carnet di iniziative mondane volte a richiamare
sulle sue morbide spiagge una «colonia bagnanti» altrimenti perduta, troviamo un paesotto di più
o meno diecimila abitanti scarsi, Riccione, una volta famosa «Perla Verde» di questo tratto litorale,
e adesso laboriosa cittadina intenta, nell’afa caratteristica dei mesi estivi, a riconquistare un titolo
improvvisamente decaduto tra il 1942 e il 1945, e svagare di nuovo quei villeggianti che a causa
della guerra, della distruzione delle sue spiagge e della miseria nera successiva alla fine del conflitto, se n’erano allontanati. Così ce la racconta il cronista de «L’Adriatico» Sergio Camporesi, con
l’articolo «Al Savioli è “scoppiato” Strariccione» che, nel numero 7 del 27 luglio, occupa in eminentissimo rilievo 3-4 colonne di stampa della prima pagina:
Riccione ha ripreso finalmente il ritmo e l’aria degli anni migliori: alberghi affollati, belle donne, gara
di eleganza tra i due sessi. Spiaggia d’un gusto adriatico particolare, raffinato, coi suoi aficionados,
Riccione è rientrata ormai in quella atmosfera che le era propria nel tempo anteguerra riguadagnandosi interamente l’appellativo di «Perla Verde» dell’Adriatico. A salutare questo ritorno agli antichi
onori e a premiare l’amore di chi non l’ha mai tradita per altri lidi, Strariccione è scoppiata come un
fuoco pirotecnico dando il via alla stagione 1947, partita con tutti gli atout per una vittoriosa corsa fino
a settembre inoltrato14.
Le danze contagiose del Dancing Savioli (uno dei più prominenti della cittadina) sono sintomo
di questo spirito celebrativo e vacanziero che avvolge cose e persone, con «l’orchestra Bertolazzi»
9
10
11
12
13
14
Ferragosto 1947, in «L’Adriatico. Corriere della riviera romagnola», Rimini, n. 9, 12 agosto 1947, p. 1.
Ibidem.
Ibidem.
F. TOMBARI, Romagna, cit.
L. ORSINI, Musiche del mare, in «Riccione», cit.
P. CAMPORESI, Al Savioli è “scoppiato” Strariccione, in «L’Adriatico. Corriere della Romagna», n.7, 27 luglio 1947.
29
che «costringe a ballare tutti». Nei riti propiziatori di Strariccione, a colpi di danze, è «impossibile
rimanere seduti» tanto che «nelle tre piste» del Savioli si finisce per «ballare stretti».
Segnale non ultimo della passata tempesta e della riconquistata allegria (o, se si vuole, di un
ritorno all’ordine della mondanità, a una certa restaurazione), è il tocco della moda: «Numerosissime le signore e signorine in abito da sera e proprio in questo senso la serata è stata un discorso
elegante e di gusto. Dopo tanto tempo di “sciatteria” post-bellica faceva bene agli occhi “vedere”»15, con la soddisfazione del Camporesi per l’inclusione del sesso maschile nell’evento: «Molti
gli uomini che hanno sentito non esser da meno del gentil sesso». È il premio alla «toilette più
elegante», fulcro della serata, che si rivela indicatore della nuova, pubblica libertà d’espressione,
che testimonia di una dittatura ormai trascorsa, di competizioni ora vere e non più orchestrate da
registi di regime: all’attribuzione del titolo, infatti, salgono gli applausi e partono, insistenti, i fischi, si scatenano le contestazioni alla giuria (con «qualcuno» che «scavalcò i fiori che circondavano la pista centrale arrivando fin sotto al microfono del presidente. Proprio come alla Camera!»).
Colpo di scena, «il pubblico dice no» al parere dei giudici, tanto che si va a finire con una vittoria
per acclamazione, e, sul giornale, a una conclusione di stampo politico sulle masse d’oggi: «Il
pubblico disse di no. Dopo aver detto per tanti anni “sì” finalmente ha potuto dire “no”!»16 La
democratizzazione del paese, sembrerebbe, ha toccato nel 1947 pure i concorsi di bellezza.
Prendendo titoli campione di quest’estate, riportati nel tripudio d’immancabili eventi locali e
raccontati per filo e per segno, strillano così le colonne de «L’Adriatico» (letterale “corriere” della
Romagna) o del «Giornale dell’Emilia»:
Proclamazione di MISS ADRIATICO al Club S. Marco. La grande festa marinaresca del 10 agosto a
Riccione. Invito a tutte le belle donne della Riviera»17
Riccione debutta con Strariccione. Caleidoscopico programma di feste.18
Al Savioli è «scoppiato» Strariccione.19
Stra-adriatico. A Riccione la grande serata del Club San Marco20
Inaugurazione a Riccione di una grande stagione lirica.21
15
16
17
18
19
20
21
Ibidem.
Ibidem.
«L’Adriatico. Corriere della riviera romagnola», Rimini, n.8, 5 agosto 1947.
«L’Adriatico. Corriere della riviera romagnola», Rimini, n. 4, 5 luglio 1947.
«L’Adriatico. Corriere della riviera romagnola», Rimini, n. 7, 27 luglio 1947, supplemento
«L’Adriatico. Corriere della riviera romagnola», Rimini, n. 7, 31 luglio 1947.
«Giornale dell’Emilia», Bologna, 3 agosto 1947.
30
La grande festa indetta da «l’Adriatico» al Club San Marco di Riccione per l’elezione di Miss Adriatico.22
Il miglior Veglione della Stampa sarà quello di stassera [sic] a Riccione.23
Tutte serate in “grande” e tutte galanti, in vicendevole gara per il titolo della più bella, della più
fastosa o memorabile. La «Notte Gialla al Savioli è stata un lembo d’Oriente trapiantato sull’Adriatico», «vivo interesse ha suscitato il “gala della moda”», mentre «la più bella gente ospite di Riccione» si dà appuntamento per il «gala del profumo»24. Nella “battaglia serrata tra vecchio e nuovo”
che di questi mesi costituisce l’intrattenimento e il pettegolezzo balneare giornaliero, spunta anche
la novità dei costumi di pizzo, mentre rimane senza risposta la domanda capitale (a doppia
colonna)«Vincerà il due pezzi o il [costume d’un pezzo, ndr.] jantzen?»25 – che, presumibilmente,
lascia col fiato sospeso i lettori più informati. A tutto spiano «L’Adriatico», lettura da spiaggia,
sforna titoli da rotocalco, che richiamano l’attenzione sui benvenuti ospiti e le esponenti del gentil
sesso della riviera (in ispecie straniere), che svettano da festa a festa e da città rivierasca in città
rivierasca per competere per titoli e denaro, o per gadget mica male come bracciali d’oro o affini,
offerti in ricompensa dello sfoggio della bellezza. Lunghissimi titoli e occhielli della pagina giornalistica rivestono addirittura una funzione di rubrica narrativa, con capitoli e annotazioni stuzzicanti sulle competizioni:
La Contessina BIANCA MARIA SASSOLI della ROSA, gloria muliebre felsinea, applaudita unanimamente. GUERDA [sic] STOLLE, Miss Vienna, dichiarata la più graziosa ed affascinante ospite straniera della nostra Riviera. Imbarazzi della giuria tra tante bellezze. Il cav. Corsanici offre un bracciale
d’oro e incassa fior di quattrini. Il nostro direttore [Luigi Bosello, ndr.] brilla al microfono ma causa il
cognac e le troppo fascinose candidate deve farsi compresse ghiacciate alla testa. Successo completo
della elegantissima festa.26
Si fa strada il ritratto di una Riccione targata 1947 spensieratamente gaudente e festaiola, «più
che mai linda, vivace, attraente e confortevole, veramente all’altezza della sua fama»27 pre-bellica
e quasi l’ante litteram, potrebbe sembrare, di quella odierna che con la vicina Rimini costituisce il
sacro binomio del divertimento diurno e notturno, la diade della vacanza garantita di sole e mare
22
23
24
25
26
27
«L’Adriatico. Corriere della riviera romagnola», Rimini, n. 10, 20 agosto 1947.
«Giornale dell’Emilia», Bologna, 17 agosto 1947.
«L’Adriatico. Corriere della riviera romagnola», Rimini, n. 7, 31 luglio 1947, alla rubrica “Danze-Ritrovi».
«L’Adriatico. Corriere della riviera romagnola», Rimini, n. 5, 13 luglio 1947.
«L’Adriatico. Corriere della riviera romagnola», Rimini, n. 10, 20 agosto 1947.
P. BIGNAMI, Riccione... (titolo a piacere), bozza d’articolo. In APR.
31
(e di avventure galanti). Nel 1947, però, quella Rimini distrutta dai bombardamenti alleati (in quanto
a piè della triste “linea gotica”), ancora arrancava per tornare agli splendori degli anni ’30 e ai
primi ’40, mentre Riccione, «per la sua posizione geografica e per essere uscita quasi interamente
intatta dalla guerra»28 (mancata dai bombardamenti, rispetto alla vicina Rimini, ma sfiancata dall’occupazione alleata) già poteva pianificare un rilancio più concreto e dinamico, attuare un piano
turistico che l’avrebbe prestissimo rimessa in posizione centrale sulla mappa delle spiagge italiane
orientali, e non certo come il lido che la famiglia Mussolini, di disgraziata memoria, s’era scelta per
il riposo e il ricaricamento dell’uomo della Provvidenza. Il quale, dal canto suo, da bravo erede
della romanità compendiata nel motto “mens sana in corpore sano”, era stato comunque usato dagli
slogan pubblicitari riccionesi a garanzia delle virtù rintempratrici della zona, verbatim:
Bisogna fare agire gli elementi della natura sul nostro corpo, prima di tutto l’aria, il sole, il movimento, se vogliamo veramente – secondo l’immagine carducciana- scendere tra le grandi ombre senza il
petto meschino e il polmone contratto29.
Accenni a premature discese nell’Ade a parte (specie se fatte già in tempo di guerra), niente di
più adatto di Riccione per una dieta salubre da amministrarsi dove «il sole, che nei fiammeggianti
meriggi avviva di bagliori le morbide sabbie della spiaggia risanatrice, in questo trionfo di verde si
addolcisce come per godere, anche esso, della benefica frescura di questi giardini»30.
Una Riccione, parrebbe alla lettura, pienamente ricostruita, o perlomeno di una ritrovata confidenza, reidentificatasi col verde e le verzure che riporta alla memoria l’enfatica ode che Gaetano
Bagalà, redattore capo della rivista edita dall’Azienda Autonoma di Soggiorno, le aveva dedicato
nel lontanissimo 1941, in cui la vocazione naturale della città («Ovunque, il verde afferma il suo
dominio»), diventava l’epitome in miniatura della stessa gloria italico-romana per l’«invadenza
scapigliata di questa lussureggiante vegetazione, che, ribelle ad ogni costrizione, vuole dappertutto espandersi: tutto conquistare»31. La Riccione conosciuta e la Riccione da ritrovare nell’immaginario dei suoi bagnanti prendeva consistenza dal trionfo floreale, da quelle aiuole, siepi, giardini e
pinete che la costituivano. Con le «pioppe» del viale Cesare Battisti, i platani del viale Martinelli, e
i «pruni rosso bruni» del viale Principi di Piemonte, la varietà e il numero formidabile delle piante
aveva garantito al paese lo status di città-parco. Nella litania vetero-dannunziana degli arbusti e
arboscelli riccionesi, recensiti da Bagalà, è la lode sperticata ai «pini dagli asprigni tronchi, che
svettano verso l’azzurro per schiudere contro il sole i loro verdi ombrelloni – opulente magnolie
28
29
30
31
Ibidem.
B. MUSSOLINI, citato nell’articolo di G. BAGALÀ, La Perla Verde, in «Riccione», cit.
G. BAGALÀ, La Perla Verde, cit.
Ibidem.
32
dalle foglie carnose e lucenti – abeti dalle lunghe braccia e dalla cima aguzza- superbe tamerici –
fronzute pioppe, che al fremito della brezza marina trepidano di riflessi argentei – severe quercie –
riposanti cedri – ridenti oleandri – corone di gerani – palme flessuose – roseti – panneggi di edera che
avviluppano tronchi, pendono dai rami, s’abbarbicano sui muri – spalliere di sempreverdi, di caprifoglio, di rododendri»32. Loci amoeni per eccellenza, come da topos invitanti agli “amori” e al
rifugio, vi appaiono «nella gloria dell’estate», «nello scorcio di un viale, o nell’ombra di un parco,
le fiorenti nudità della giovinezza, ancora odoranti di salsedine», e pare che «per il rinnovellato
mito di Venere, deità marine siano emerse dalle onde per riposare, anch’esse, negli incantati giardini della «Perla Verde»33. Già il 4 maggio 1946, dalle colonne del quotidiano “Città Nuova”, ben
due articoli puntavano, come ‘voci dalla provincia’, all’esaltazione della “meravigliosa plaga” riccionese, che nonostante le “profonde tracce di devastazione” lasciate dalla guerra “aspra e dura
che ha sconvolto il mondo” poteva ancora contare sul “verde intenso dei prati e degli abeti”, sui
“flessuosi festoni di erbe rampicanti lungo le cancellate” delle ville in parte rovinate dal passaggio
del fronte. A Riccione, insomma, come sottolineava Camillo Del Mastro (tentando la poesia paesaggistica alla Bagalà):
Nessuna asperità: la natura, qui, sembra rivestita di un dolce velluto. Verso il tramonto il lungomare
assume un aspetto quasi magico, e le tinte smorzate dal mare sembrano effuse dalle mani della
primavera, regina soave che vi accarezza lo sguardo e vi rapisce lievemente l’animo in un mondo di
sogni, circondandovi di vaghe forme e di colori, di riflessi, di suoni e di tutti gli armonici contrasti
della sua impareggiabile bellezza.
Legata a questi aspetti esteriori del panorama e della natura è l’esistenza di chi ha il privilegio del
soggiorno in questa meravigliosa plaga; attraverso il paesaggio di questo estremo lembo della terra di
Romagna voi sentite di comunicare con Dio e con tutte le cose create, come se il vostro corpo si
disciogliesse inebriato in una levità e dolcezza senza fine. Ecco di lontano Gabicce ed il romantico
Castel di Gradara che si adagiano soavemente sotto la volta azzurra del cielo in una sinfonia di colori!
Ecco il sorriso affascinante del mare e la pudica venustà dei fiori nelle aiuole e nei giardini. Errando
pei viali ombrosi che corrono verso l’Adriatico quasi in una fantastica e folle gara per immergersi
nelle onde e assaporarvi l’algoso profumo, tutto rinasce in noi: sensi, immaginazione, cuore, volontà.
Una pace ineffabile avvolge e ritempra i nostri spiriti.
È utile insistere su quest’immagine arboricola e floreale, chè Riccione lega decisamente la sua
vocazione all’accoglienza turistica di stazione balneare allo sviluppo del suo paesaggio cittadino,
32
33
Ibidem. Il pezzo, condito da numerosissime fotografie, mostra una Riccione immersa nel verde, una foresta
litoranea da cui spuntano occasionali i tetti delle abitazioni o degli alberghi.
Ibidem. Gli articoli di C. DEL MASTRO, Aspetti del paesaggio riccionese dopo il fronte, e di A. CICCHETTI, Riccione e
i suoi giardini, che fanno il punto della situazione del patrimonio forestale di Riccione durante la ricostruzione
della città (entrambi in «Città Nuova», 4 maggio 1946, e qui di seguito citati a testo), sono riportati nella sezione
V dell’Appendice a questo capitolo I, cui si rimanda per la lettura integrale.
33
all’architettura cautamente pianificata della natura. Il verde è Riccione, che ne caratterizza pure
l’indole degli abitanti, come mette in chiaro Augusto Cicchetti – vicedirettore dell’Azienda
Autonoma di Soggiorno e capo dell’Ufficio Tecnico del Comune (che si occupava del verde pubblico
e dell’organizzazione delle manifestazioni) – nel suo pezzo su Riccione e i suoi giardini:
Questo dell’albero e dell’aiuola fiorita si è fatto un culto quasi morboso per i riccionesi che li amano
non già di amore romantico, ma di quell’amore fatto di sacrificio che sa ricavare gioia e ricompensa.
Basta guardare con quanta cura e pazienza durante ogni inizio di stagione questa gente si dedica al
giardino. Nessun albergo, nessuna villa, nessuna casa, per quanto modesta, sono privi delle loro piante,
delle loro aiuole fiorite e dei loro vasi adorni di gerani e petunie. Accanto ai giardini privati traboccanti
di verde, lunghe teorie di alberi fiancheggiano la vasta rete stradale della cittadina. È una generosa
distribuzione di piante e fiori in giardini e passeggi che formano una oasi di verde che va a confondersi
coi vigneti e frutteti del retro-terra fra messi ondeggianti ad ogni lieve soffiar di vento, a donare il
primo saluto festoso al forestiero in cerca di svago e di riposo.
Per questo, necessaria è nei “programmi della ricostruzione” riccionese l’“intima collaborazione
fra giardinieri e architetti”, che assicuri “progetti legati intimamente alla natura e alla vegetazione
esistente”: “il verde va posto in primo piano quale principale elemento estetico ed igienico”. I
consigli sono puntuali:
Il giardino d’oggi deve ritornare ad essere, come in antico, opera d’arte regolata da principi di
composizione fra muri e vegetali e deve essere la risultante dello sfruttamento dell’ambiente naturale
al fine di ottenere effetti scenografici, architettonici e coloristici tendenti ad una perfetta unità d’insieme.
Il giardino della villa dev’essere qui una stanza all’aperto, ove prendere il sole, godersi il fresco, leggere,
mangiare, riposare, coltivare i fiori e vivervi liberamente e tranquillamente; mentre il giardino pubblico
è il luogo ove si svolge la vita movimentata dei festeggiamenti, dei concorsi folcloristici, dei campi di
tennis, dei galoppatoi, dei giuochi per bimbi, ecc. [...] L’ideale sarebbe poter abbattere lungo i viali le
stonate e brutte recinzioni delle proprietà private e sostituirle con muretti bassi ed armonici, affinché
il viandante spaziando coll’occhio entro i giardini privati, possa apprezzare le gioie intime che può
procurare una pianta maestosa o una pianta fiorita.
Gli albergatori nel valorizzare il soggiorno nelle loro case con piazzali ombreggiati da folte fronde e
ornati da aiuole fiorite, debbono mantenere intimi punti di contatto coi giardinieri per la scelta di
quelle piante che abbiano influenza psicologica nello esaltare a scopo turistico le caratteristiche
climatiche della località.
(Di sculture paesaggistiche il Cicchetti se ne intendeva. Della sua famiglia, d’altronde, dal
capostipite Lodovico al padre Vittorio – giardinieri, botanici, architetti del paesaggio – era stata
l’idea di rendere Riccione una città giardino, in cui ogni casa avrebbe avuto un appezzamento di
terra nel qual far crescere tanti alberi; ed è infatti da questa geniale, e influente, intuizione che
viene poi costruita l’immagine della cittadina stessa, da recuperare nel dopoguerra.)
34
Se, da una parte, la fama riccionese continua a riposare sullo smeraldo del mare e dei suoi
parchi e giardini (ma sarà da verificare se davvero, nell’estate del ’47, la città giardino così esaltata
nel ’41 non abbia perso alberi durante la guerra), dall’altra sono i suoi nuovi locali notturni a
portarle riconoscimento, ed attrarre una folla ballerina, godereccia e danarosa. In questo contesto,
la rassegna stampa è unanime nell’indicare il miglior spazio per le ronde del piacer di metà
notte:«clou dell’alta mondanità riccionese, aperto alla brezza marina», dall’«incantevole posizione» e dal «pubblico sceltissimo», è il Club San Marco del cavalier Corsanici, dominio dei superlativi assoluti dei giornali del pomeriggio, appellato «il privilegiato dei dancings», il «signorilissimo
dancing annesso all’Albergo omonimo, che respira la grande aria marina situato com’è in fondo al
Viale Ceccarini di fronte al grande piazzale»34.
Dato il suo nome di leone alato, il locale aveva inagurato le festività danzanti il 15 giugno, a
inizio della stagione balneare, con «una notte a Venezia», concepita a seguito dell’invito della stampa
italiana e internazionale a Riccione per «prendere visione di quanto l’amministrazione e l’Azienda
di Soggiorno avevano fatto»35 (per fugare dicerie varie sull’inadeguatezze della ricostruzione, che
poteva tenere lontani i potenziali turisti). La cronaca dell’immancabile «Adriatico» ce lo consegna
alla storia con le sue «decorazioni di gusto veneziano» ma «sobrie ed eleganti che poi sono lo
“stile” fisso del notissimo dancing, senza sfacciate intonazioni folkloristiche» di basso rango. Figlio
orgoglioso della «Perla Verde», allora, «il palchetto dell’orchestra [...]» toccato da «uno sfondo
floreale» in linea con la vocazione naturista della cittadina e «fiori a profusione torno torno alla
pedana da ballo», fatti risaltare da «effetti di luce riuscitissimi», da «luce indiretta e multicolore»
per un colpo d’occhio «particolarmente di buon gusto»36.
Non solo il cavalier Corsanici aveva fatto le cose da gran signore, ma aveva pure ingaggiato
«un’orchestra jazz che non esitiamo a definire superba, quella del M.o [Leonardo] Principe di Milano, la quale incide per la Casa di Dischi Odeon». Nomi di qualità e richiamo immediato si muovono quindi disinvolti sul bagnasciuga riccionese di questi giorni, col Principe conosciuto come «il
Benny Goodman italiano» (mentre, per non smentire il sangue familiare, Peppino Principe è il
«nuovo [Gorni] Kramer»), cui si somma la partecipazione della notissima Luciana Montenegro di
Radio Bologna «dalla voce soave, colei che già fu soubrette di Sergio Ala» (e che avrebbe deliziato
«con la sua morbida voce i frequentatori del San Marco per tutta la stagione») e di Piero Graglia di
Radio Torino («il sentimentale del microfono»), quest’ultimo «reduce dai successi al “Martini” di
Venezia, in un repertorio di canzoni inglesi, francesi o spagnole», tocco fino e esterofilo per serate
34
35
36
Riccione inaugura la stagione 1947 con l’apertura del Circolo Adriatico e del Club San Marco, in «L’Adriatico. Corriere
della riviera romagnola», Rimini, n. 4, 20 giugno 1947.
Ibidem.
Ibidem.
35
al night che rifuggivano dall’autarchica canzone nostrana. A fronte della lancinante ode di Edith
Piaf La vie en rose – subito esportata in terre italiane-, che poteva d’altronde fare, pur coi suoi «occhi
belli», una Eulalia Torricelli («da Forlì»)? Musica troppo da balera: cantare l’amore sconveniente (e
suicida) tra «una tale» che «ha tre castelli» e una guardia forestale («il cui nome è De Rossi Giosuè»), con piroette di ballo liscio, non avrebbe dato lustro a spazi adatti ai lenti o alle eleganti
movenze jazz. (Chissà, però, se non si intrufolassero sinuose al San Marco le melodie di Amado mio
– immortalato dalla popolarissima, rossa Gilda di Rita Hayworth nel film omonimo, che aveva
impazzato sugli schermi italiani nel ’46, e da noi esportate da Betty Curtis. Forse, in originale?
Dopotutto, nell’effimera «notte blu/ che non tornerà più» a fronte delle decorazioni floreali della
pista da ballo, «si inebria il cuor/del profumo dei fior»).
Il Graglia e la Montenegro sono riconosciuti come «due ottimi cesellatori» e indicati quali «specialisti del genere», ma c’è da riconoscere subito, nella cronaca, come la Montenegro offra ben altro
come attrattiva. In un locale che si fa punto di forza di invitare «tutte le belle donne della Riviera»
alle sue feste e ai suoi concorsi, Luciana Montenegro è l’accessorio perfetto. Oltre la voce celestiale
esibisce una presenza invidiabile che certo non stona con la ripetuta (sessista, diremmo oggi) politica della bellezza muliebre: «mazzetto di fiori nei bruni capelli», la cantante si muove al microfono
in «abito lungo di squisita fattura in organdis di seta a macchie colorate» che richiama alla memoria «la stupenda colata di colori dalla tavolozza di Disney (ricordate?) in Saludos Amigos»37. Completa il quadro dei talenti assicurati al San Marco anche Mario Magni, «il cantante specialista di
swing», pronto a gettare scompiglio sulla pista coi suoi ritmi nervosi.
Il San Marco viene scelto per la Stra-Adriatico del 2 agosto e per la proclamazione di Miss
Adriatico del 10 (sponsorizzata dal giornale «L’Adriatico» stesso), e per l’elezione di Miss Riccione
1947 del 17 agosto («all’americana, con grandi striscioni e stendardi») all’interno del Veglione della
Stampa e del convegno giornalisti emiliani. «Dalla inflazione delle feste che di questo hanno soltanto il
nome, il San Marco si tiene da parte per quella linea di serietà aristocratica che lo caratterizza»38 (così ci
informa puntale il giornalista mondano): non ha bisogno di «strombazzature pubblicitarie» il suo sponsor, la ditta Luigi Sarti e figli, col Cognac «Gran Premio» (il quale, con l’etichetta equestre – una testa di
cavallo di razza-, indica già il pregio di un cognac “vincitore”). Nella volontà degli organizzatori, la
Stra-Adriatico «è qualcosa che deve stare a confronto e magari superare tutto quanto di “straordinario”
è stato fatto nel campo della più brillante mondanità balneare»39, a ridosso dello zenith stagionale,
Ferragosto. Si faranno vedere a Riccione, aggiungendo un pizzico di celebrità al cocktail di nomi dello
37
38
39
Riccione inaugura la stagione 1947 con l’apertura del Circolo Adriatico e del Club San Marco, cit.
Stra-adriatico. A Riccione la grande serata del Club San Marco in «L’Adriatico. Corriere della riviera romagnola»,
Rimini, n. 7, 31 luglio 1947.
Ibidem.
36
spettacolo, divi affermati e emergenti della rivista teatrale, come la popolarissima coppia Marisa Maresca e Walter Chiari (protagonisti, nel 1946, di Se vi bacia Lola, e in cartellone anche nel 1947 con Simpatia
e Rosso di sera).
In questo «caleidoscopico programma di feste», però, come sottolinea l’articolo «Riccione debutta
con Strariccione», un evento ne prenderà la meritata palma: «il diapason verrà raggiunto la sera della
proclamazione del PREMIO NAZIONALE RICCIONE 1947 dramma e romanzo, al quale hanno concorso i più bei nomi del teatro e della letteratura italiana», e la cui premiazione è fissata «per la sera del
16 agosto durante un ballo di Gran Gala» (l’ennesimo, dunque) al dancing Savioli, «alla presenza dei
componenti le Commissioni formate dai nomi più illustri che il Paese possa oggi vantare nel campo del
Teatro e della Letteratura»40. In coincidenza del Premio, dal 14 al 17 agosto «avrà luogo la Mostra
Nazionale del Libro, la prima che si svolgerà in Italia e che sarà una completa rassegna delle opere edite
negli ultimi sei mesi, e che si cercherà di contrapporre alle novità straniere in una nobile competizione».
Non solo l’avanspettacolo o il cinema (con la «Grande Veglia Danzante “Strariccione”, sabato 19 luglio,
con raduno delle stelle cinematografiche»), o l’opera (Rigoletto, 6 e 8 agosto, con Tito Gobbi nondimeno,
il 7 il Barbiere di Siviglia e il 10 un concerto al Teatro Dante) ma i nomi più risonanti della cultura italiana
sarebbero giunti nella rinata Riccione, per quella mezzanotte del 16 e per quei nomi dal cappello della
giuria che rappresentano, o vorrebbero rappresentare, l’ora di riscatto morale e spirituale della città, la
prima pietra di una ricostruzione a tutto tondo, dato che fino a quel momento si era puntato sul ristabilimento materiale delle condizioni di vita cittadine.
Da tutto ciò è facile arguire quanti e quali siano i motivi di attrazione che Riccione offre quest’anno agli
ospiti che affluiranno in ispecie dall’alta Italia. Anche dall’estero affluiscono richieste: Svizzeri, Canadesi Svedesi hanno da tempo fissato camere presso i migliori alberghi. Dall’Inghilterra stessa sono
preannunciate in arrivo intere famiglie di Ufficiali, che dimostrano con questa preferenza di avere
veramente sentito il senso di ospitalità e la bellezza del nostro paese tanto da darne la preferenza. E
oggi Riccione è un grande quartiere dove tutti lavorano per rendere più confortevole il soggiorno, e
gli alberghi stessi fanno a gara nel completare la attrezzatura che la furia della guerra aveva in parte
devastato41.
La ricostruzione del patrimonio alberghiero è stata un passo doveroso e in parte controverso. Ha
sofferto delle requisizioni e dei danni che l’occupazione militare ha causato alle strutture (da riparare e
riconvertire). Improvvisamente, si teme che cada nelle mani di speculatori e di forestieri, pronti a aprire
nuovi bar, ristoranti e hotel, senza il concorso della popolazione riccionese. Gli albergatori di Riccione
40
41
P. BIGNAMI, Riccione debutta con Strariccione.Caleidoscopio programma di feste, in «L’Adriatico. Corriere della riviera
romagnola», Rimini, n. 4, 5 luglio 1947.
P. BIGNAMI, Riccione... (titolo a piacere), cit.
37
fanno blocco: una petizione del 18 aprile 1946, spedita al Comune dalla Sezione locale dell’Associazione Italiana Albergatori, chiede che «le richieste di nuove licenze per esercire bar, caffè, ristoranti e pensioni in Riccione da parte di persone non residenti in Riccione siano respinte»42. Il proprietario dell’hotel «Lido», Piero Arpesella, era stato uno dei primi (già dal gennaio 1946) a rimboccarsi le maniche per
conto suo, e rimettere in sesto l’edificio, come ci restituisce la cronaca:
Superando difficoltà di carattere eccezionale, il Sig. Arpesella, uno dei primi nella lotta partigiana, sta
affermandosi nella ricostruzione turistica del nostro paese. Il «Lido», uno dei più centrali locali della
nostra città43 sarà ben presto cantiere di attività, assorbendo, fra l’altro, un conspicuo numero di lavoratori per gli ingenti lavori che occorreranno per il suo riattamento, viste le notevoli distruzioni e
danni dovuti alla guerra e all’occupazione. Mentre si prevede lo sblocco, da parte delle Autorità Militari Alleate, dei migliori alberghi, quali il Grand Hotel e l’albergo Bagni, Riccione si appresta così al
lavoro per ridiventare un vivo centro di attività turistica e alberghiera44.
Un anno e mezzo più tardi la situazione sarà radicalmente normalizzata, grazie alla derequisizione degli alberghi e al pronto intervento restaurativo. Nella stagione 1947, la città poteva infatti
reclamare il Grande Albergo Riccione (il Grand Hotel) come «il più moderno e importante di tutta
la regione», con 400 letti, ascensore, concerti, campo da tennis e cabine proprie sulla spiaggia (secondo la sua stessa pubblicità) o anche l’Albergo Europa Mazzoni, su Viale Dante, al numero civico 12, di cui le locandine ci decantano la «posizione centrale e tranquilla, indicata per lunghi soggiorni. 50 camere tutte con acqua corrente. Bagni. Giardini ombreggiati. Servizi accurati in ogni
42
43
44
«I. Gli esercenti di Riccione sono per la maggior parte inattivi da tre anni per causa della guerra e aspettano con
ansia la prossima stagione per rifarsi una vita nova. Hanno i locali chi parzialmente, chi totalmente requisiti e
sperano di realizzare col lavoro un guadagno che li compensi almeno in parte dei danni avuti, oltrechè dalla
guerra quelli più gravi dalla lunga occupazione delle truppe Alleate. Essi sperano appunto che l’Autorità
agisca in modo da favorire questa loro giusta aspirazione col non concedere licenze agli improvvisati esercenti
e agli speculatori provenienti dalle grandi città. II. Nel centro di Riccione in un raggio di 200 m. nella prossima
stagione vi saranno in funzione 9 esercizi di ristorante (Lido, Savoia, Zanzani, Colombo, Mazzoni, Pensione
Veneta, Eden, Platani e Stazione) senza contare 6 requisiti. Con ciò, non si può dire che vi sia necessità di altri
ristoranti, specialmente in centro come pare si stia preparando. III. [...] Lo sfruttamento di questo paese da
parte di chi non ha concorso al suo sviluppo non deve avvenire e l’Autorità deve impedirlo. Chi per Riccione
ha sofferto e soffre tutt’ora (e come!) ha diritto di lavorare e di guadagnare senza dividere con gli speculatori
ultimi arrivati i vantaggi derivanti dalle propie [sic] iniziative. IV. Questi speculatori alla fine di stagione se ne
vanno col loro guadagno in tasca e Riccione non ne trae alcun vantaggio, mentre se i riccionesi guadagneranno
Riccione presto tornerà a risorgere. V. Gli esercenti riccionesi durante l’inverno hanno dato al Comune gli aiuti
in diversi modi per i disoccupati, ma questi aiuti invernali non li troverà certo presso gli speculatori che vengono
solo alla bella stagione per raccogliere i frutti seminati dagli altri». (Memorandum del 18 aprile 1946, indirizzato
al Sindaco di Riccione «e per conoscenza alla Questura di Forlì». In Archivi Storici, Comune di Riccione, e
tenuto come fotocopia in APR.)
Sul Viale Ceccarini, cui «l’ampia terrazza sul lato a mare dell’Albergo offre una visione magnifica di tutta la
spiaggia nel vasto quadro di un incantevole panorama» (come dalle pubblicità a stampa del 1941).
Un grande albergo: “Il Lido” sarà pronto in maggio a Riccione, in «Città nuova», Bologna, a.I, 16 gennaio 1946.
38
ramo ed una eccellente cucina danno la sensazione della Casa propria. Aperto tutto l’anno. Riscaldamento a termosifone». O l’Albergo Vienna e Turismo, «sul mare, grande parco, casa preferita
dalle famiglie, trattamento ottimo, tutte le comodità moderne». Da questo campione, infine, l’Albergo Boemia, in viale Principe di Piemonte, «albergo di prim’ordine, sul mare. Camere con tutte
le comodità moderne. Cucina ottima. Cabine proprie. Posteggio automobili». Alberghi che da soli,
in virtù spesso dei loro nomi, ci indicano la vocazione europea e d’accoglienza dei turisti austriaci,
tedeschi e cecoslovacchi, che già nell’anteguerra frequentavano assiduamente la costa romagnola
e Rimini e Riccione in particolare.
Anche se la città si presenta «in condizioni abbastanza decorose»45, problemi legati al turismo
permangono. Spesso ci sono le lamentele dei villeggianti, in casi di crisi idrica improvvisa, o per
l’ancora insufficiente illuminazione delle strade. Isolate proteste che vengono amplificate dai gestori degli alberghi, che reclamano la necessità del ripristino totale dei servizi. Si conserva a questo
proposito la risposta che il sindaco di Riccione, Gianni Quondamatteo, invia in data 9 luglio 1947 al
signor Severo Savioli (proprietario dell’omonimo albergo e dancing), che il 6 luglio si era lagnato
dell’insufficienza dell’acquedotto riccionese, a fronte della richiesta dei suoi ospiti. Savioli si era
spinto a affermare – dall’interno di una lettera apparentemente ossequiosa ma piena di accuse
all’amministrazione – che «nulla era mutato e che tutto era al punto di prima» della fine della
guerra, e che se «passi da gigante» erano stati fatti in altre stazioni balneari «più danneggiate di
Riccione», la cittadina ancora non aveva l’indispensabile. Non solo: con l’affondo alle politiche
della giunta, reclamava che Riccione sarebbe stato di nuovo «all’avanguardia delle città balneari»
così come lo era prima della guerra, se solo i lavori comunali avessero mantenuto il ritmo di «quelli
che i privati avevano fatto per proprio conto»46.
Quondamatteo, seccatissimo, ribatte punto per punto e non solo perchè colto sul vivo dell’amor
proprio dell’amministratore.
Il tono usato dal sindaco nella sua replica e il quadro riassuntivo che si dà della situazione di
Riccione tra il 1946 e l’estate del 1947 rendono questa lettera un prezioso controcanto alle pubblicità iperrassicuranti di una Riccione tutta a posto che verrebbero dalla lettura dei giornali. Servono
altresì a contestualizzare i problemi e le difficoltà con cui la giunta comunale dovette fare i conti
per l’ordinaria amministrazione del paese, e testimoniano dei conflitti legati alla ricostruzione della città. Non secondariamente, ci offrono un giudizio politico sul rapporto tra pubblico e privato in
questi anni.
45
46
Relazione del presidente sull’andamento dell’Azienda Autonoma di Soggiorno, 30 dicembre 1947. Verbale di
deliberazione, reg. n. 32. In Archivi Storici, Comune di Riccione e tenuto come fotocopia in APR.
Lettera di Severo Savioli a Gianni Quondamatteo, 6 luglio 1947, in Archivi Storici, Comune di Riccione, e tenuto
come fotocopia in APR..
39
Leggendo la sua lettera del 6 corrente, avrei provato, innanzitutto, un senso di commiserazione se
avessi potuto capacitarmi della sua buona fede. Come riccionese, ella non può ignorare che la guerra
ha portato alle sole proprietà comunali ed ai servizi pubblici, danni non inferiori ad un quarto di
miliardo, e che, l’occupazione alleata durante ben tre anni, ha raddoppiato l’importo dei danni subiti!
Ella non può ignorare che dopo il passaggio del fronte, i nuovi amministratori del Comune hanno
trovato le casse comunali vuote, il paese senza viveri, l’impianto di illuminazione pubblica completamente distrutto, il servizio di nettezza urbano polverizzato, tutte le attrezzature derubate, le strade
sconvolte, due terzi degli edifici requisiti, tutti i ponti ed il porto canale distrutti, l’acquedotto gravemente danneggiato.
Questa tragica eredità, Sig. Savioli, non deve dimenticare che è il brillante risultato del ventennio
fascista ed invece di pretendere favolosi miracolismi dei nuovi amministratori, dovrebbe rammaricarsi dei troppi plausi e dei troppi consensi dati a questo regime distruttore.
E non è vero, Sig. Savioli, che tutto è al punto di prima. Tutti quei danni che ho elencato li ha riparati
Lei forse?
Non sa che fino ad oggi sono stati spesi oltre sessanta milioni di opere pubbliche e che le sovvenzioni
dello Stato non superano di poco i quaranta milioni?
Non sa Lei che l’acquedotto è stato ripristinato e reso funzionante in poche settimane con una spesa di
tre milioni raggranellati con i più faticosi acrobatismi?
L’acquedotto era insufficiente anche prima della guerra, negli anni che nostalgicamente rimpiange ed
i nuovi amministratori se ne sono subito preoccupati, progettando d’urgenza un ampliamento di tale
servizio per undici milioni. Sollecitato più volte alle superiori autorità il progetto non è stato mai
finanziato. Malgrado questo con ripieghi e mezzi di fortuna abbiamo già dato disposizioni per l’inizio
dei lavori che ancora non sappiamo come potremo pagare.
L’impianto di illuminazione è stato ripristinato per due terzi della sua estensione con una spesa di un
milione e mezzo senza un soldo di contributo.
Le strade sono già state riparate, come media, almeno due volte, sotto la terribile usura del traffico
Alleato con una spesa di quasi venti milioni e con un contributo che non raggiunge a metà dell’importo.
Non si è aspettato la mano di Dio, Sig. Savioli, ma si è fatto quello che era umanamente possibile,
anche se certi cittadini, che sanno solo criticare non danno il minimo serio apporto di collaborazione.
La popolazione, i privati hanno fatto molto e l’Amministrazione gliene dà lode (vedi il miracolo della
ricostruzione del Ponte del Popolo per volontà dei lavoratori) ma lei non è fra questi, Sig. Savioli. Lei
ha ampliato il suo albergo senza rispettare il progetto a suo tempo approvato e compromettendo
gravemente l’estetica della zona. Ha costruito senza i regolari permessi, assumendo mano d’opera al
di fuori dell’Ufficio di collocamento, ed estranea al paese, non curandosi della grave disoccupazione
esistente nel paese.
Prima di erigersi a giudici severi, Sig. Savioli, bisogna sempre fare un esame di coscienza e vedere se
si ha il diritto di criticare chi lavora con abnegazione, chi ha solo come miraggio l’interesse cittadino,
e non interessi personali più o meno confessabili47.
47
Lettera di Gianni Quondamatteo a Severo Savioli, 9 luglio 1947, in Archivi Storici, Comune di Riccione, e tenuto
come fotocopia in APR..
40
La chiave di lettura sta appunto nel conflitto rimarcato tra «interesse cittadino» (pubblico, sociale) e «interesse personale» (privato). Notevole è anche l’indicazione sul mancato uso della manodopera riccionese, e nella sottolineatura di come lo smeraldo della perla sia opacizzato dalla
persistente, ancora «grave disoccupazione» nel paese. Il rischio, sembra avvertire il sindaco, è dimenticare di che lagrime e di che sangue sia impastata la ricostruzione, di come la pur necessaria
immagine da cartolina nasconda un lato oscuro di miseria e di indigenza che però non si può
dimenticare.
Ordinanze di carattere pubblico e ordini di servizio sono anche emanati per ripitturare la faccia
slabbrata della città e garantire un’immagine “pulita”.
Un’ordinanza dell’8 luglio 1947 mostra la preoccupazione dell’amministrazione «per la salvaguardia del decoro, della decenza e della morale nel centro abitato di Riccione Marina», per cui si
ritiene sia necessario adottare alcune limitazioni alla circolazione dei bagnanti in costume da bagno o da spiaggia»48 al di là della zona a mare del Viale Milano e D’Annunzio (onde evitare d’imbattersi, si presume, al riparo dell’ombre dei giardini, in quelle «fiorenti nudità [...] ancora odoranti di salsedine» di bagaliana memoria), sconveniente possibilità in tempi di decadenza morale e di
«due pezzi», che portano appunto a «un eccesso di nudità che va a detrimento della grazia, del
fascino e troppo spesso anche del pudore che nella donna non guasta mai»49. Dio ne scampi, poi, se
a giro vi fosse «il pezzo unico in pizzo trasparente (naturalmente rinforzato nei punti strategici,
seno e cavallo)» di cui si hanno «più audaci» esempi che «lasciano la trasparenza al seno limitandosi a ghirigori del disegno più fitti che nascondono le due sole macchie dei capezzoli» (anche se,
in verità, «i colori più in voga sono il blu fondo, il nero e il rosso cupo» – guastafeste dei voyeur
della spiaggia).
Una curiosa lettera dell’Ufficio del Sindaco al proprietario del Cinema Zanarini (in Viale Ceccarini), datata 13 maggio 1947, avvisa, prima dell’apertura stagionale, di un problema tipicamente
estivo, coniugato agli spettacoli cinematografici dell’arena all’aperto: durante l’estate precedente
(del ’46, dunque) si era verificato «il grave inconveniente che gruppi di giovinastri del luogo imitati da molti militari e sfollati stranieri salirono sui pini fiancheggianti il cinema gestito dalla S.V., [...]
per godersi da lassù gratuitamente lo spettacolo recando grave danno alle piante stesse»50. Nella
Perla Verde (ora non verdissima, causa la falcidie degli alberi di alto fusto causata dalla guerra, pur
se si pubblicizza lo status quo), il danneggiamento delle piante, sconfinante nelle turbative d’ordine
48
49
50
Ordinanza del sindaco, 8 luglio 1947, in Archivi Storici, Comune di Riccione, e tenuto come fotocopia in APR.
LISETTA, Battaglia serrata tra vecchio e nuovo. Una novità: costumi di pizzo. Vincerà i due pezzi o il janzten?, in
«L’Adriatico. Corriere della riviera romagnola», Rimini, n. 5, 13 luglio 1947.
Lettera dell’Ufficio del Sindaco al Cinema Zanarini, 13 maggio 1947, in Archivi Storici, Comune di Riccione, e
tenuto come fotocopia in APR.
41
pubblico, non è ammissibile. Il sindaco infatto procede con l’invito specifico a sopraelevare la recinzione e togliere la visuale gratis, pena il non rinnovo della licenza del cinema all’aperto. (Poco,
tuttavia, dev’esser stato fatto, se persino l’anno successivo, in data 21 luglio 1948, Francesco Manfredini, in qualità di Comandante dei vigili, raccomandava a Dino Olmeda, vigile presso l’Azienda
di Soggiorno, di «far qualche giro» vicino al cinema in viale Corridoni, di fronte al cinema Zanarini, dove continuavano a esserci «molti ragazzi che salgono sui pini e rompono i rami per gustarsi
meglio il cinema», con l’invito non solo a «fare scendere i ragazzi» ma anche, «se necessario» a
«darci una lezione con una tirata d’orecchio». I militari stranieri, stavolta, non c’entravano: se ne’erano andati col ritiro delle truppe alleate.)
A proposito di truppe alleate: il loro ritiro non aveva avuto il solo benefico risultato di alberghi
derequisiti e di spiagge senza carri armati. L’estate romagnola del 1947, libera dai cavalli di frisia
sul bagnasciuga, dalle prigioni di guerra a Miramare (coi relativi prigionieri e traffici di varia natura)51 e dalla presenza dei militari, inclini alle risse e alle dispute coi riccionesi, si distingue per la
scomparsa, o quasi, di un gruppo sociale ritenuto il prodotto immediato dell’occupazione straniera. La rinnovata stagione balneare segna il crepuscolo delle «segnorine», le improvvisate accompagnatrici «rumorose e impertinenti al braccio dei loro euforici compagni, quasi soffocate dal fumo denso
delle sigarette americane, ebbre di forti liquori (troppo forti per loro)52» tali da non sembrare neppure
«di nostra razza e perfino le strade ch’esse affollavano non sembravano le nostre» . La virtù italica,
corrotta dal verde dei dollari (più pregiato della vegetazione riccionese), poteva ora dirsi salva:
Nacquero con l’arrivo degli americani e fecero la loro apparizione insieme alle scatolette di «Corned Beef»
ed al «Tropical Chocolate» e come tutte le cose di quel tempo si sono rese di volta in volta più rare. Ora sono
quasi scomparse. Si conclude così la storia di uno dei tanti fenomeni che questo dopoguerra ha regalato ai
popoli che non hanno vinto e a loro graduale scomparsa è un segno inequivocabile di pace. [...] La folata di
vita facile che le aveva afferrate nel vortice di una triste miseria morale si è spenta con la partenza dei
soldati alleati e dalle illusioni marca U.S.A.
La condanna perbenista di questo mal costume indotto (nell’Italia bacchettona, sessuofoba e
ipocrita di questi anni, che pure a Riccione continuava a avere le sue “case da thè» da ricostruire,
discretamente tenute isolate e in periferia) si tinge di toni classisti e non solo moralistici, ché l’obiettivo è veramente la categoria delle «commesse di negozio, donne di servizio, cameriere negli alberghi, sartine principianti, ragazze superficiali e troppo fatue per rendersi esattamente conto della
51
52
Si cfr. nell’appendice a questo primo capitolo, gli articoli di Gianni Quondamatteo n.1-4, dedicati al campo di
prigionia di Miramare e al problema dell’occupazione alleata a Riccione.
Segnorine, in «L’Adriatico. Corriere della riviera romagnola», Rimini, n. 9, 12 agosto 1947, p. 1. Le citazioni che
seguono provengono ancora da questo articoletto.
42
loro esistenza», donne del popolo o di una piccolissima borghesia senza arte nè parte, che tornate
ad essere «signorine» ora
s’affannano ad inserire avvisi economici sui giornali [...] «Signorina bella presenza offresi commessa
qualsiasi impiego». Poveracce: hanno lasciato il centro e hanno trovato alloggio in una stanzuccia della
periferia o in un «prefabbricato» della periferia. Le pellicce, gli abiti costosi, le scarpine d’eccezione
finiscono dai rigattieri e fanno compagnia ai fazzoletti «souvenir» che gli americani non hanno voluto
più comprare. Sono ritornate quello che erano senza neppure troppe deformazioni mentali. Avevano
sognato la ricchezza, si erano ubriacate di vita facile, avevano sospirato sui grattacieli di New York.
Adesso s’accorgono d’aver sbagliato e di aver già pagato a caro prezzo il tempo d’allora: tornano ad
essere quelle che erano e che in fondo erano rimaste.
Come si glorificano le bellezze felsinee e i ginecei ambulanti che passano di dancing in dancing e
di coronazione in coronazione a ricevere comunque premi in denaro e gioielli per la loro eleganza
e squisitezza fisica di contessine, signore d’alto bordo, villeggianti danarose in cerca di luci della
ribalta, ecco qui invece il commento più malevolo che bonario, il dito puntato da moralisti su una
presunta trasformazione morfologica (da signorine a «segnorine», infatti) che però non celerebbe
la volgarità ultima, originaria, del loro status etico e di classe, il loro essere sottoprodotti della
società, quindi corruttibili, inseguitrici di facili miti «di vita facile», magari con New York sullo
sfondo. Le cronache mondane del «L’Adriatico» e le anonime rubriche di costume o di dibattiti
propongono una versione unica del fenomeno, assimilato hic et simpliciter alla prostituzione. Nell’estate del ’47 di segnorine si comincia a parlare di meno, a segno di un trapasso epocale.
Un’altra ordinanza, non datata, mette però il dito su una piaga sociale di più ampio respiro, che
senz’altro introduce qualche dissonanza negli armoniosi concerti dei ritratti della riviera: «in Riccione, specie Marina Centro vi sono molti accattoni e suonatori ambulanti che girano continuamente nelle principali vie ed in tutti i bar centrali di questa città. Questo deve cessare immediatamente, tutti i vigili, compresi quelli addetti ai giardini e alla spiaggia sono tenuti di fare allontanare
i sopra menzionati». La miseria del dopoguerra e l’ambulantato, sebbene volontaristicamente “rimossi” (pur dall’amministrazione di sinistra, che non può tollerare il vagabondaggio o l’accattonaggio per motivi di ordine pubblico, e di decoro, verso la popolazione turistica), permangono. È
necessario credere, infatti, ai resoconti giornalistici che indugiano sul lato mondano della vita quotidiana riccionese?
Contro la miopia dei giornali che creano anche a livello d’immaginario il ritratto d’opulenza e
di ristabilimento delle condizioni elitarie d’anteguerra, un più attento esame della «colonia bagnanti» – collettivamente vista, altrimenti, come composta da bellezze al bagno, ginecei balneari,
vivaio di veneri – apre diverse crepe al ritratto normalizzato della riviera; inoltre, questo ritratto a-
43
problematico cambia radicalmente quando si tenga conto di chi nella riviera abita, vive e lavora,
cioè tutta la massa di chi fornisce i servizi e gestisce il divertimentificio che già è Riccione.
Attento al risvolto “sociale” della sforzata rappresentazione pubblicitaria di spensieratezza riccionese (ai costi umani, cioè, della ricostruzione) è il giornalista fattosi amministratore Gianni Quondamatteo, nella sua duplice veste di cronista per «L’Unità» (o per «Città Nuova», condiretto con
Renato Zangheri) e di sindaco di Riccione ufficialmente eletto il 7 aprile 194653. Il sindaco-scrittore
avverte le contraddizioni del turismo che calpesta il bagnasciuga riccionese per portarvi i sospirati
sghei, in un contrasto che egli vede come il campione esemplare dei problemi sociali dell’Italia del
dopoguerra: la colonia bagnanti, secondo le cifre di Quondamatteo, è infatti costituita da «industriali, commercianti, grossi proprietari terrieri, vecchie e danarose famiglie, borsari neri e speculatori di ogni risma» (II)54, i quali costituiscono la maggioranza schiacciante, «il 90 per cento della
clientela», mentre quasi assente è quella che in passato costituiva la «una massa di manovra notevole nell’economia della riviera», la piccola borghesia di impiegati e professionisti.
Il giudizio morale è immediato: «da come procede la vita durante la stagione balneare, si avverte
che la guerra nulla ha detto, nulla ha insegnato alla maggior parte dei villeggianti. Per moltissimi
v’è stata soltanto un’antipatica parentesi, che ha impedito loro di continuare una vita frivola e intessuta di banalità» (II). A fronte della dura, quotidiana, materiale lotta per l’esistenza che deve affrontare la popolazione riccionese, nonostante le luci della ribalta che si accendono di sera a annullare
col glamour di balli e profumi floreali le fatiche e gli stenti di chi sta dietro alle scene, Quondamatteo
rileva amaro l’irresponsabilità di chi ora critica alcuni persistenti problemi della ricostruzione (come
aveva già fatto notare nella lettera al Savioli):
Pronti a muovere sciocche critiche – ignorando volutamente il dramma di queste zone- al paese che li
ospita, per un’illuminazione, ad esempio, ancora scarsa, per un lungomare non perfettamente sistemato o per un tratto di spiaggia non bene ripulito, ignorano o fingono di ignorare gli sforzi ed i risultati
lusinghieri delle amministrazioni comunali e delle aziende di cura e soggiorno nel campo della rico-
53
54
Per notizie sulla giunta e la situazione politica del dopoguerra riccionese, si cfr. I politici locali. Consiglieri,
assessori e sindaci del Riminese (1946-2001). A cura di P. Zaghini e G. Calbucci, Rimini, Capitani Editore, [s.d.], M.
MASINI, Deliziosa Riccione. Da ”Paese delle poveracce” a “Perla Verde dell’Adriatico”: una storia scritta sulla sabbia.
Con la collaborazione di M. Cavalli e J. Monaco. Rimini, Guaraldi, 1999 (da integrare con la complessiva
ricostruzione di ID., Rimini allo sbando. Kursaal addio! Da Clari a Ceccaroni tra macerie e caos. Rimini, Guaraldi,
[s.d.]).
Sono tre le inchieste di Quondamatteo a cui faremo riferimento in queste pagine: G. QUONDAMATTEO, Nostra
inchiesta sulle spiagge romagnole. Se la Riviera Adriatica è rinata il merito è delle amministrazioni popolari (I), in
«L’Unità», 14 agosto 1947; ID., Nostra inchiesta sulle spiagge romagnole. Erano il regno degli impiegati ora lo sono dei
borsari neri (II), in «L’Unità», 15 agosto 1947; ID., Nostra inchiesta sulle spiagge romagnole. Oggi i bagni di mare sono
un lusso per i privilegiati (III), in «L’Unità», 19 agosto 1947. Per comodità di rimando bibliografico, le citazioni
sono accompagnate dal numero romano, in parentesi, dell’inchiesta cui appartengono.
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struzione e del riordino dei servizi pubblici ed in quello dell’attrezzatura turistico-balneare. Non si è
imparato nulla, ma si continua a spendere a piene mani e ad imbottire il cane di razza di pasticcini o di
coni gelati (II).
Al contrario del tono entusiasta e del pettegolezzaio indotto degli articoli rosa, ritrovati puntuali
sulla stampa in merito alla riconquistata vita notturna riccionese, le inchieste di Quondamatteo ce
ne mostrano il rovescio (coi suoi costi, cifre alla mano), facendocene notare le ingiustizie. La differenza di tono da un Sergio Camporesi, per esempio, non potrebbe essere più ampia. La frivolezza
mondana è stigmatizzata, non di per se, ma, come leggeremo, per i suoi danni sociali e morali. Le
signore dei night-club «sfoggiano preziosi indumenti», indulgendo in forme di intrattenimento tra i
più superficiali: «nei «dancings» di moda che pretendono, ad evitare brutte figure, portafogli ben
guarniti, è la solita stomachevole storia della reginetta, del migliore «decolletè», del piedino meglio
calzato, dell’acconciatura più originale. (II)» Le sperequazioni abbondano nella mancanza di solidarietà sociale: dietro le «spalle nude» delle signore della società bene intente a rastrellare denari (o
a perderli) al gioco d’azzardo, spuntano «i borsari neri» che riempiono «gli assegni scrivendo spesso e volentieri “un miglione”» (II). All’uscita dai locali, la brutta sorpresa di una città al lavoro,
operosa, ma certo non glamour: «E non era bello, non era grazioso, per i giuocatori che rientravano
all’albergo all’alba, incontrare gli addetti al servizio di nettezza urbana (600 lire al giorno) che lavoravano già da 4-5 ore: facevano polvere ed ingombravano la strada. (II)».
Quondamatteo punta il dito su un tipo d’informazione priva di responsabilità sociale, nella quale
i cronisti mondani, a pagamento, naturalmente, si immergono dai piedi alla testa nella mischia, e non
citano se non si è almeno contesse o se l’abito da sera della tale signora non valga quanto guadagna un
impiegato in sei mesi. Titoli su quattro, cinque colonne, corsivi, asterischi, addirittura pagine intere e
rivoli d’inchiostro [...] che vengono dedicati ai pettegolezzi della spiaggia, alle acconciature, ai sorrisi,
alle gambe delle intervenute alla tale o tal’altra festa (II).
Il risvolto è immediatamente politico. La polemica colpisce l’irresponsabilità di chi sceglie d’“informare” facendo parte della truppa dei festaioli, e che propina senza soluzione di continuità le
notizie di costume assieme a quelle nazionali e internazionali, che di riflesso ne escono banalizzate
o falsificate per un pubblico qualunquista o poco attento:
Naturalmente si tratta degli stessi giornali del pomeriggio o della sera che in prima pagina scrivono che
quattro milioni di soldati si affacciano minacciosi sulle rive del Baltico, che Tito sta marciando su Trieste, e che per la terza guerra mondiale non serve il calendario, ma basta guardare l’orologio tanto è
vicina. Il tutto viene sorbito insieme ad una coppa di gelato da menti pensose e preoccupate per il
colore della cravatta da mettere quella stessa sera (II).
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Questa inchiesta, pubblicata proprio al centro delle feste, delle gale e dei raduni dell’estate 1947,
poteva certo rappresentare un quadro tutto sommato fosco delle possibilità economiche dei lavori della
zona – in questo rapporto amore-odio, irrinunciabile, tra chi, come l’amministratore, aveva comunque
bisogno del turismo per sopravvivere e chi, come il giornalista, non può che condannare l’atteggiamento di certa «colonia bagnanti» verso la città ospite.
I costi della vacanza, a confronto colle entrate degli stipendi, vengono messi nero su bianco da
Quondamatteo:
Le 20-25 lire giornaliere di un’ottima pensione d’anteguerra, non servono a comperare il più piccolo gelato
che ne costa 30. Le pensioni di oggi hanno moltiplicato per 60 le loro rette.Vi è molto meno circolante,
quest’anno, affermano gli albergatori e gli esercenti. Ma ve n’è sempre troppo, per i lavoratori che avvertono profonde dissonanze fra la loro vita e quella della colonia bagnanti (III).
Per far comprendere al lettore del 1947, ignaro del costo sociale del lavoro, che cosa significhi far
parte della classe operaia o finanche della piccola borghesia del dopoguerra, Quondamatteo riporta un
elenco che ci è oggi utilissimo, in quanto le comparazioni basate su stipendi e costo della vita ci illuminano sulle condizioni di vita delle classi che il sindaco (e l’amministrazione comunale PCI-PSI) sentono
di rappresentare:
Un direttore di un’azienda di soggiorno della riviera, che ha il difficile compito di dirigere e coordinare
ogni attività turistica e balneare, ha lo stipendio di un comune impiegato. Un addetto al pesante e difficile
servizio di salvataggio sulla spiaggia, ha un salario di 800 lire giornaliere, pari al prezzo medio di un
biglietto d’entrata in un dancing. Altrettanto dicasi per un vigile estivo, che dopo tre mesi, va naturalmente
ad aumentare il numero dei disoccupati. Un venditore ambulante di gelati solidi, dopo aver camminato
per 8-10 ore al giorno, ha un ricavato netto che non supera le 700 lire, cifra media che spende un bagnante,
ogni giorno, per le sigarette. Una addetta ai telefoni dei centralini della TIMO, dopo 8-9 ore di pesantissimo
servizio, ha uno stipendio mensile che non supera le 6.000 lire, quanto cioè costa un’acconciatura per una
signora che voglia presentarsi ad una serata di gala in un qualsiasi locale (III).
Un quadro alquanto sconfortante, per tacere dei sacrifici che gli addetti all’industria del turismo – in
pratica, quasi tutti i riccionesi lavoratori- devono fare durante la stagione estiva, dato che «Da Cervia al
confine delle Marche, tolta qualche piccola industria a Rimini e a Cattolica, i paesi rivieraschi debbono
trarre dal turismo dei mesi estivi dal 70% all’80% delle loro entrate» (III), per racimolare «un gruzzoletto che gli consenta di affrontare l’inverno e di pagare i debiti contratti a primavera» (III). Per la sopravvivenza nella bassa stagione, tra ottobre e maggio, si arriva addirittura a situazioni di senza-tetto forzate in estate: «Chi affitta la casetta – costringendosi, molte volte, a vivere addirittura all’aperto- lo fa per
provvedersi del grano e della legna per l’inverno» (III). I lavori meglio retribuiti in questo periodo,
quelli a percentuale, hanno termini brutali: «Discretamente superano la stagione quelle categorie inter46
medie, come bagnini, concessionari della spiaggia e camerieri che lavorano a percentuale, a condizione
però di un lavoro estenuante che raggiunge talvolta le 15-18 ore giornaliere (III).» Per questo, annota
sconsolato Quondamatteo, «Soltanto i ceti privilegiati possono permettersi oggi il lusso dei bagni di
mare. Fra questi poniamo naturalmente chi per la guerra nulla ha sofferto e perduto e chi addirittura ne
ha tratto ingenti fortune (III).» Riccione, insomma, ha perduto il suo nerbo fatto di impiegati e professionisti (come aveva sottolineato anche prima), a causa della miseria delle classi intermedie: «Solo quando
sono messi con le spalle al muro da una ricetta medica, gli impiegati ed i piccoli professionisti si indebitano fino al collo e mandano per quindici giorni la famiglia in una spiaggia periferica» (III).
Appena diversa la situazione della classe operaia, almeno grazie alle colonie delle Camere di Lavoro, ritornate a svolgere, nei mesi estivi, per quanto possibile, un ruolo di alleviamento della pressione
fiscale sulle famiglie del popolo (sebbene in assenza di altro denaro per gli svaghi e di concreti mezzi di
trasporto): «Gli operai, quando sono fortunati, riescono a collocare un figlio in una colonia e si avventurano, una o due volte al mese, in massacranti viaggi collettivi su grossi autocarri per passare un’estenuante domenica al mare, in un tratto di spiaggia deserto, con una misera colazione al sacco» (III). Una
vittoria concreta per la classe operaia sarà indicata nella riconversione e l’utilizzazione della dilapidata
villa dell’ex-duce, trasformata in colonia:
Organizzati e guidati dal loro Consiglio di gestione, sono gli operai dell’officina meccanica dell’esercito
O.A.R.E. di Bologna, che si godono la villa dell’ex-duce. [...]
Il trapasso è simbolico e pratico nel contempo: i beneficiati pare però che non se ne avvedano. Gli operai ,
che hanno occupata la villa, si sono sostituiti, in questo scorcio di stagione, ai loro bambini. Fanno turni di
dieci giorni, pagano soltanto 400 lire il giorno e al mattino, come in una grande famiglia, compongono
amichevolmente robusti menù, che, per essere fatti da bolognesi, non lamentano mai la mancanza di tagliatelle, carne, frutta e buon vino. Come tanti bambini, questi operai anziani o giovani vivono in serenità
di spirito le loro prime gioiose vacanze balneari.
A dire il vero, erano spaesati, i primi giorni, e un po’ a disagio. Oggi si sono rinfrescati, si buttano con
vigore in acqua, nuotano a larghe bracciate, mettono in serio pericolo i remi del moscone, non si trovano
male fra le giovani bagnanti. La sera, per i giovani, ci scappa qualche volta il ballo, il cinematografo all’aperto o il gelatino in cara compagnia. I più anziani, invece, al fresco e di fronte al mare che muore con un
pacato sciabordio ai loro piedi, esauriti i corti o esaurita la partita a scopa e tresette, parlano della loro
fabbrica, di problemi di lavoro e di politica. [...]
Ecco dunque che quest’anno una ventata, sé pur timidamente, questa riviera, feudo di commendatori e di
contessine, di agrari e di corsari neri, ritrovo di sfacciata mondanità e di eleganza, nido di alberghi e dancing d’alto bordo, focolaio di pervertimenti e di prostituzione camuffata da sete, gioielli, baciamano.
I lavoratori si affacciano sulla riva del mare in veste di bagnanti. Sono le prime, sparute avanguardie di un
grande esercito che lotta anche per il riposo, lo svago, la salute. L’alto valore indicativo di questa prima,
grande vittoria non può sfuggire a nessuno. In un grande albergo, sulla riviera di Rimini , un gruppo di
lavoratori gode meritate vacanze. È un’ipoteca di indubbio valore, per l’avvenire.
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A Riccione, là dove un giorno prendevano triste consistenza i sogni di guerra e di rovine di una mente
pazza, s’alzano di sera canti di pace e d’amore di lavoratori che vedono per la prima volta il mare55.
Il segnale di «iniziative democratiche per un turismo di massa» viene dunque dalla classe operaia
della popolazione costiera stessa, e in particolar modo dalle sezioni del PCI che, «con le loro spontanee
iniziative» di marca cooperativistica, in intesa con le amministrazioni locali (spesso da loro controllate),
cercano di venire incontro al disagio economico che piaga le famiglie dei lavoratori, che con la costante
impennata dei prezzi e l’inflazione vedono restringersi il potere d’acquisto del loro già magro salario.
Corrispettivo dei canti di pace e d’amore che s’innalzano dalle colonie riconvertite dalla classe lavoratrice, alternativi ai dancings per portafogli danarosi, è la balera. Dell’iniziative autonome popolari, prodromi di un modello del turismo di massa (e dell’invenzione delle sagre delle «Feste dell’Unità»), alla
portata di tutte le tasche, ci riferisce «L’Unità» in merito a un esperimento della vicina Cervia, subito
esportato tra le cittadine rivierasche. L’esempio di Cervia qui raccontato non è da tacere, in quanto
mostra come a complemento degli inavvicinabili dancings, che si prendono l’esclusiva cronaca dei giornali (o della maggior parte di essi), esistono dappertutto sulla costa le balere, «senza grandi pretese»,
con «i prezzi [...] alla portata di tutti»56, spesso costruite da «comunisti-imprenditori edili», cui si legano
anche iniziative nel campo della ristorazione, con cucine e ristoranti popolari, a prezzi bassissimi perchè il materiale primo (gli alimentari) sono forniti «a prezzi modici dalle cooperative» mentre «cucina e
servizi» vengono «offerti gratuitamente da volenterosi compagni»57. Il cronista fiuta subito un modello
cui aderire (e che in effetti vedrà attecchirsi nelle zone «rosse» del paese):
Pensai subito ai possibili sviluppi di queste forme di attività, al turismo di massa, che ne potrebbe
nascere e prosperare, senza danneggiare il pur necessario turismo di lusso, di cui sarebbe per ora il
necessario giusto complemento.
Alla piattaforma ENAL non si incontravano solo modesti borsellini del luogo, ma numerosi villeggianti che gli alti prezzi tengono lontani dai locali più lussuosi. Ricordai i molti operai ed impiegati
milanesi che mi avevano detto di rinunciare con rammarico alla possibilità di trascorrere in luoghi più
salubri le loro ferie, e mi resi conto delle enormi facilitazioni che potrebbe fornir loro la perfetta attrezzatura cooperativistica e l’organizzazione democratica di questi luoghi.
Sulle nostre spiagge si incontrano molti bambini, molte famiglie che subito rivelano la necessità di
lesinare le spese. Evidenti ragioni di salute e di giustizia sociale consigliano di non lasciar cadere il
loro impulso a sacrificare qualcosa pur di permettere per sé e per i figli il godimento di una sana
villeggiatura. È invece necessario dare un incoraggiamento a questo impulso ed è simpatico vedere
55
56
57
G. QUONDAMATTEO, Colonie operaie organizzate dalle C.d.L. Anche cori di lavoratori s’alzano a sera sull’Adriatico, in
«L’Unità», 30 agosto 1947.
G.B., Iniziative democratiche per un turismo di massa. Ci son venuti incontro i compagni sull’assolata spiaggia di Cervia,
in «L’Unità», 29 luglio 1947.
Ibidem
48
che sono ancora i comunisti, con le loro spontanee iniziative, i primi a sentire questo bisogno dei ceti
migliori del paese58.
I «modesti borsellini», la «necessità di lesinare le spese» appartengono comunque a turisti a
tutti gli effetti, di pari dignità, che appunto considerazioni di «giustizia sociale» debbono sostenere. Quondamatteo punta pragmaticamente ai dislivelli distributivi di tutta una classe di lavoratori
e amministratori comunali, e alle inevitabili comparazioni con quelle classi di bagnanti, borsaneristi e arricchiti che affollano le spiagge – e di cui si ha certo bisogno per la ripresa economica della
cittadina, ma che fanno risultare tutte le contraddizioni della lenta opera di ricostruzione del dopoguerra nella zona romagnola, piccolo microcosmo dell’Italia stessa, e anche di moralizzazione
del paese stesso, che lascia accadere gli sprechi:
Tonnellate di benzina nutrono ogni giorno teorie lunghissime di macchine di lusso, con il valore di
una delle quali si tamponerebbe la disoccupazione invernale di un paese della grandezza di Riccione
o Cesenatico. Vita fittizia, stridore di contrasti acutissimi, sperpero e miseria, lusso e fame, s’accapigliano o vanno a braccetto in un paradossale turbine che dura 40-50 giorni. Quando d’inverno, su
questa riviera non più allagata di sole e di azzurro s’affaccia lo spettro del freddo e della fame con
l’aumento pauroso del numero dei disoccupati che non possono spendere più di dieci lire per una
minestra delle cucine popolari, risuona – amara e dolorante sferzata- nel ricordo turbinoso di una vita
frivola ed ingiusta, la impudente protesta di quel tal bagnante che si è lamentato che alle due di notte,
nel suo locale preferito, non ha trovato – ahi lui!- i tortellini in brodo ma soltanto volgarissime lasagne
verdi (III).
Tutto sommato, però, se questi problemi coinvolgono chi dell’industria dell’ospitalità usufruisce, sembrano non coinvolgere, o almeno non più, le strutture dell’industria stessa, che dopo uno
sforzo collettivo e comunale in particolare sono tornate fiorenti nonostante pronostici forse più
pessimisti. Quondamatteo, già l’anno addietro, nel gennaio del 1946, dalle colonne del suo quotidiano «Città Nuova» delineava i mille problemi che ancora piagavano «il lembo di paradiso» riccionese, che «indietro, troppo indietro nella ricostruzione per la ripresa della sua attività turistica,
unica risorsa per la vita stessa della sua popolazione». Il quadro dato a inizio anno era molto
sconfortante e, per la penna del giornalista ormai quasi amministratore, spaventosamente chiaro:
Il problema è RICOSTRUIRE, riparare, riattare, sistemare, pulire, arredare: riordinare i parchi e i giardini già tanto ammirati per il loro verde che allieta, spianare e illuminare i bei viali ombreggiati, i
marciapiedi, il lungomare, gli spiazzali, la bella morbida spiaggia, i palazzi del Comune, del turismo,
la Casa del Popolo, i Mercati, i campi di tennis, il vasto «STADIUM», le fontane, gli orti e i frutteti, le
58
Ibidem
49
serre e i campi fioriti, i negozi di ogni genere: tutte, insomma, le cento attrattive di questo lembo di
paradiso.Per fare ciò occorrono materiali (mattoni tegole calce cemento legnami vetri biancheria ecc.)
e mezzi che la eccezionale buona volontà dei riccionesi saprà trovare per accellerare il ritorno alla
normalità e alla floridezza collettiva e individuale di un tempo59.
Ai suoi occhi, la città di Riccione era il primo patrimonio dei cittadini stessi, «unica risorsa» per
il richiamo turistico d’accoglienza e ospitalità, il cui motore economico s’affidava alla «cordiale
sincera accoglienza dei cittadini di ogni classe e condizione», con «progetti di ricostruzione e riattamento, con ogni mezzo e senza mezzi, onde rifare le belle villette e le case alberghiere grandi e
piccole, un tempo lussuose o modeste, ma sempre ospitali e piacevoli». L’enfasi, di nuovo, è qui sul
ruolo che la collettività dovrà assumersi, che le amministrazioni popolari dovranno saper guidare,
a causa dello stato dei
servizi pubblici di viabilità, d’acqua, di illuminazione ai minimi termini, stazione ferroviaria da rifare
o quasi, poste telegrafi telefoni allo stato primitivo, scuole semidistrutte, alberghi e pensioni (un centinaio) massacrati e saccheggiati, ville e case senza serrande e anche senza tetti, reduci disorientati e
gente umiliata, operai disoccupati, materiali INDISPENSABILI mancanti, mezzi finanziari pubblici
insufficienti. Autorità prive di qualsiasi appoggio e perciò, mani e piedi legati, nella più sconsolante
impotenza60.
È per questo che l’iniziativa privata di Pietro Arpesella, albergatore del «Lido», era immediatamente apprezzata, in quanto la riparazione dell’hotel aveva apportato lavoro e benessere almeno
per un segmento della classe lavoratrice, diventando «esempio di generoso spirito di iniziativa e di
ricostruzione turistica», di cui si era auspicato l’emulazione.
Nonostante i gravi problemi strutturali e infrastrutturali di cui Riccione ancora soffre nell’estate
del ’47, i progressi ricostruttivi e la spinta entusiastica a reclamare la città curata e pulita dell’anteguerra sono indispensabili. Già nell’anno 1946 si assiste a uno sforzo quasi titanico di ristabilimento delle condizioni “normali” d’esistenza della città.
A fronte delle indubbie conquiste del ’47, è necessario porre la puntuale relazione del sindaco al
Consiglio comunale del dicembre 194661 per rendersi conto del difficilissimo compito svolto dall’amministrazione comunale dal suo insediamento, il cui ufficio tecnico, pur trovandosi «nell’“abla-
59
60
61
[G. QUONDAMATTEO] Problemi della ricostruzione a Riccione in «Città nuova», Bologna, a.I, 18 gennaio 1946.
Ibidem.
G. QUONDAMATTEO, Riccione. Il dopoguerra, la ricostruzione, la rinascita democratica [relazione di fine anno 1946
sull’attività della giunta comunale, in Archivi Storici, Comune di Riccione, e tenuto come fotocopia in APR.. Le
citazioni tratte da questa relazione saranno indicate nel testo in parentesi con numero arabo.
50
tivo assoluto” per mancanza di attrezzatura, di uffici, di personale» (come lo caratterizza efficacemente Quondamatteo), riesce a intervenire per il ripristino (e le continue riparazioni) dell’acquedotto, il cui funzionamento «il passaggio della guerra combattuta aveva completamente sospeso»,
anche a causa della la mancanza d’energia elettrica, che «rendeva impossibile l’emungimento dai
pozzi artesiani». Paese costituito da villette, alberghi e larghe fasce di verde, «Riccione si ritrova
con 110 case distrutte e 206 danneggiate, tre strutture alberghiere (e due colonie) rase al suolo e 65
danneggiate»62.
L’organizzazione del Comitato Comunale dei Senzatetto riesce a portare avanti 859 pratiche di
riparazioni edilizie, presentate dai sinistrati di guerra, ma la situazione rimane poco favorevole,
anche a causa della perdurante occupazione militare, che intralcia la ricostruzione delle infrastrutture viarie, essenziali per un paese che del turismo si fa la (quasi) unica risorsa: «purtroppo le
previsioni ottimiste hanno naufragato innanzi alla pesantissima occupazione militare che ha colpito il nostro paese con una particolare preferenza. L’ininterrotto traffico degli automezzi alleati ha
rinnovato anche questo inverno [1946] i danni di quello precedente (p. 15).» Sebbene, come continua, «tutti gli edifici comunali sono stati riparati dai danni più gravi. Il completo riassetto alle
condizioni anteguerra non si può pretendere in un breve giro di mesi e forse richiederà almeno un
quinquennio di lavoro e spese (p. 15)».
A fronte di un Comune che «non ha neppure i mezzi per risanare le ferite dei numerosi danni
della guerra combattuta (p. 15)», si punta alla ricostruzione anche estetica del paese, sulla cui immagine verdeggiante, ordinata e di città giardino, come visto, si era costituita l’industria turistica.
Lungi dall’essere tornata la scintillante “perla verde”, Riccione deve affrontare il problema della
pavimentazione dei marciapiedi rovinati durante la pesantissima occupazione militare, «problema ricostruttivo che è molto importante ai fini estetici del paese, ma che è molto gravoso economicamente tanto per risolverlo sarà necessaria una generosa partecipazione dei frontisti alle spese»
(p. 17). Tra bombardamenti, distruzioni e, più direttamente, la raccolta di legna da ardere per riscaldarsi in inverno, «anche i giardini hanno subito la sorte dei marciapiedi e per le stesse considerazioni si è dovuto rimandare la sistemazione a tempi migliori. L’alberatura è stata seriamente
falcidiata dalla guerra» in un censimento che porta Quondamatteo a concludere come «non meno
di tremilacinquecento piante di alto fusto siano state abbattute entro il paese» (p. 17).
Il quadro del «Riordino della spiaggia e delle colonie marine», alla fine del ’46 non è dei più
incoraggianti:
nell’immediato anteguerra, Riccione aveva raggiunto un notevole perfezionamento della sua attrezzatura da spiaggia. Tutta la zona balneare era provvista di moderni servizi igienici, di doccie d’acqua
62
F. LOMBARDI, Storia di Riccione, Cesena, Il Ponte Vecchio, 2002, p. 188.
51
dolce, di giochi di spiaggia, di bar, cabine, di posti pronto soccorso e di un organizzato servizio di
salvataggio. Il passaggio della guerra ha tutto distrutto. Fino ad oggi la Amministrazione ha fatto del
suo meglio per riparare quel poco che era rimasto dal «naufragio generale» e nella scorsa estate è
riuscita a riattivare n.6 gabinetti con servizi igienici [...]. Ha riordinato un servizio ridotto di salvataggi, ha ripulito la spiaggia almeno dei rottami più ingombranti e più dannosi (p. 22).
Il sindaco accenna anche al problema delle colonie marine, le quali «hanno subito anche esse
ben dura prova della guerra», tra le distruzioni (con due colonie, la Bertazzoni e la Toti, completamente rase al suolo; le altre danneggiate) e l’annosa occupazione militare che, al dicembre 1946,
ancora perdura, con le requisizioni ancora attive di colonie (assieme a case, alberghi e altre strutture comunitarie) e la destinazione militare di esse.
Con l’occhio puntato agli sviluppi edilizi futuri, la raccomandazione del Comune è l’allontanamento delle colonie dall’immediato centro balneare, per «un doppio ordine di considerazioni», da una
parte economico (in quanto funzionano da barriera «allo sviluppo della parte residenziale per gli ospiti
estivi e limita l’espansione» della città), dall’altra «per considerazioni morali educative»: «i bimbi degli
ospizi, specie per quanto riguarda la vita di spiaggia è bene che siano lontani dalla zona dei comuni
turisti che troppo spesso danno un quadro assai poco edificante ai giovanissimi ed attenti osservatori»
(pp. 22-23).
Il nodo della ricostruzione è sempre bifronte: se da un lato l’amministrazione è stata impegnata
nell’immediata riparazione delle infrastrutture per garantire il funzionamento essenziale della vita
quotidiana riccionese – appunto con l’elettricità, l’acqua corrente, il ripristino precario di fognature e smaltimento rifiuti, la riapertura dei mercati generali e della macellazione e nel campo dell’istruzione, delle scuole elementari e medie, questo tutto o quasi nell’assenza di sufficienti contributi statali – , dall’altro si riconosce come ben poco abbia potuto fare il Comune per lo sviluppo
dell’industria turistica, sulla cui funzionalità dipende la stessa sussistenza del paese:
[...] le difficoltà finanziarie in cui si dibatte l’Amministrazione non hanno permesso alcun lavoro di
sistemazione dell’attrezzatura balneare. Malgrado tuttociò, l’Amministrazione sta facendo ogni sforzo per riorganizzare il settore turistico per prepararsi ad affrontare il prossimo futuro. [...] si è giunti
finalmente alla nomina del Consiglio per l’Azienda Autonoma di Soggiorno, che potrà dare un indirizzo più proficuo alla ripresa turistica. (p. 29)
Si auspica che la sede dell’Azienda possa rimettersi «nelle condizioni da poter ricevere gli ospiti
estivi» (p. 29).
Spiccano però, fiore all’occhiello della giunta, talune importanti «provvidenze di carattere sociale» (p. 30), che esprimono chiare la preoccupazione della giunta verso i ceti popolari, in mesi in
cui si assiste sempre di più allo sgretolamento del loro potere d’acquisto e al giro di vite economico
52
delle politiche fiscali (e quindi, sociali) del governo di solidarietà nazionale, sempre più moderato,
che oggettivamente fa ricadere i costi della ricostruzione globale del paese sulle classi svantaggiate. L’amministrazione comunale, coraggiosamente, «per calmierare i generi di prima necessità e
per avviare le classi lavoratrici ad una sana organizzazione [...] ha avuto l’iniziativa di promuovere
la creazione di una cooperativa di consumo che ha avuto l’adesione piena e intera di tutta la popolazione», con magazzini per generi alimentari e legno e carbone, e due spacci di vendita (in paese
e a mare). La creazione della cooperativa ha subito il merito di aver creato un’indiretta «azione
calmieratrice a tutti gli altri esercenti» e, grazie ai propri prezzi scontati, già permette l’estensione
futura delle attività «alla panificazione, macelleria, frutta e verdura, tessili, calzature ecc.» con
nuovi spacci nelle zone periferiche.
Sei mesi prima della famosa estate 1947, il quadro della ricostruzione riccionese è tutto in piena
evoluzione.
53
2. Il Premio Nazionale “Riccione” 1947
Ma Riccione non vive di solo pane. Nel complicato quadro del rilancio d’immagine e dei tentativi concreti di miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini riccionesi, cade l’iniziativa culturale di un Premio, annunciato da Quondamatteo stesso, alla giunta, nella relazione di fine anno:
Nel campo della propaganda e delle attrazioni per la prossima stagione balneare l’Azienda ha già
programmato un grande concorso letterario nazionale che si ripeterà annualmente con cinquecentomila lire di premi.
I lavori posti in concorso sono: 1) un dramma in tre atti inedito a tema libero, di qualsiasi tendenza,
ma rispecchiante la situazione attuale, premio L.300.000. 2) una opera letteraria narrativa inedita a
tema libero di contenuto sociale, premio L.200.000.
Questa manifestazione si ritiene possa essere molto utile per il nostro Centro Balneare, per la grande
diffusione propagandistica svolta dalla stampa e dalla radio.
L’aggettivo «nazionale», da attribuire al Premio (sottolineato nel testo della relazione) manifesta da solo l’ambizione di porre Riccione al centro di una politica culturale svincolata da regionalismi e localismi particolari, di un’Italia rinata e una, e di cui si vogliono far conoscere e sottolineare
le storie contemporanee, attuali, ergo inevitabilmente “sociali” (su questa etichetta, vedremo, batteranno in molti la testa). Il contenuto “sociale” – se si richiama il contesto della relazione del
sindaco del dicembre 1946 o, se si vuole, l’attività pubblicistica di Quondamatteo stesso (i suoi
temi, i suoi commenti)- pare inevitabile. Al di là delle ipoteche ideologiche che si possono intravedere su siffatta etichetta, l’invito alla letteratura e al teatro è rivolto all’oggi, al quotidiano e allo
spunto di cronaca, affinchè si dia voce alla coscienza della situazione morale, politica, economica
(in altre parole, sociale) del paese, raccontato con opere che non svincolino da una responsabilità,
da un impegno verso la realtà di chi legge.
Promotore del Premio, assieme al sindaco-giornalista, fu il pittore e scenografo bolognese Paolo
Bignami, il quale era sfollato durante la guerra a Riccione, dove aveva un villino per i soggiorni
estivi (in viale Nino Bixio). Forestiero a modo suo, emiliano, ma innamorato della costa romagnola, Bignami comprese immediatamente le potenzialità del binomio cultura-turismo per il centro
balneare, che negli anni ’30 aveva visto comunque un turismo colto (ma elitario), che si poteva
ravvivare puntando sulla cultura impegnata, democratizzata dal “sociale”.
Sua sarebbe stata l’idea di un concorso teatrale e letterario63, entusiasticamente accolta da Quondamatteo e passata all’appena ricostituita Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo (di nomina
63
Secondo la testimonianza di Tommaso Enio Dellarosa, nel 1947 segretario particolare di Gianni Quondamatteo
e poi Sindaco di Riccione negli anni Cinquanta, in un’intervista condotta da Fabio Bruschi e Antonella Bacchini
e contenuta in APR.
54
prefettizia, che storicamente, però, non avrebbe mai visto di buon occhio un premio considerato
«di sinistra»). I costi furono sostenuti dall’Azienda, che non mancava di capitali grazie alla tassa di
soggiorno pagata dai numerosissimi, e di solito abbienti, sfollati senza domicilio riccionese (di cui
Bignami faceva tra l’altro parte), con contributo praticamente nullo dell’Amministrazione comunale, cui fu chiesta però la collaborazione e l’appoggio organizzativo64. Bignami fu scelto come
segretario del Premio non solo in quanto ideatore ma, grazie alla sua esperienza di lavoro teatrale,
come contatto scontato per l’Istituto del Dramma Italiano, sotto il cui patrocinio e la presidenza di
Lorenzo Ruggi si inaugurò il concorso65.
I documenti seguono l’iter del permesso prefettizio e comunale (che si ha col 10 gennaio 1947):
Il Sindaco informa come in seguito al suo personale interessamento, l’Azienda Autonoma di Soggiorno abbia deliberato di bandire un concorso denominato «Premio Riccione 1947» per una Commedia e
un’opera letteraria inedite e abbia, nell’occasione, condotto le necessarie trattative con l’Istituto del
Dramma Italiano per concordare le condizioni del Concorso stesso. [...] All’uopo verranno nominate
due commissioni giudicatrici, composte da persone competenti di fama nazionale e internazionale.
64
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Secondo S. Pivato, «tra i finanziatori dell’iniziativa figurava [...] un albergatore mecenate, Bertazzoni» (S. PIVATO,
Provincia e non provincia, cit. p. 15), di cui però non siamo riusciti a trovare menzione o documenti in APR.
La documentazione relativa alle fasi del Premio è contenuta in 12 fascicoli conservati presso l’Archivio del
Premio Riccione, (Villa Lodi Fè, Viale delle Magnolie 2, Riccione), collocazione: b2 1947, ognuno con una propria
intestazione, di cui si dà qui di seguito l’elenco: Delibere, Segreteria, Corrispondenza, Commissione Opera Letteraria.
Corrispondenza, Richiesta bando, Concorrenti al Premio, Rassegna stampa, Spedizione e ricevimento copioni, Giuria,
Giuria. Corrispondenza, Giudizi, Restituzione copioni.Vi è uno stato estremo di disordine nei fascicoli che contengono
le informazioni del premio 1947. Gli atti, le delibere, gli elenchi delle opere dell’uno e dell’altro si accavallano
all’interno di un medesimo fascicolo o per più fascicoli, col risultato di una grande frammentazione delle
notizie e confusione. Assai spesso il contenuto dei fascicoli non corrisponde strettamente all’intestazione datagli.
Ad esempio, in Giuria è contenuto il foglio su cui i dattiloscritti sono elencati per la restituzione, che a rigore
dovrebbe trovarsi in Restituzione copioni; oppure, alcuni fogli con l’elenco dei libri spediti in lettura ai
commissari si trovano in Commissione Opera Letteraria. Corrispondenza, e non in Spedizione e ricevimento copioni,
dove sarebbe stato più agevole censirli. Il fascicolo tutto sommato più cospicuo del gruppo è quello intitolato
alla Segreteria, in cui si trovano tra l’altro il bando di concorso; una cartolina postale spedita da Italo Calvino
con la richiesta di conoscere i nomi dei componenti della giuria, e la relativa risposta della segreteria (dovrebbe
stare nel fascicolo genericamente indicato come Corrispondenza); la relazione della giuria sulle opere partecipanti
(da collocarsi invece in Giudizi); alcune bozze di articoli giornalistici sul Premio e i vincitori (da collocarsi in
Rassegna Stampa). Non esiste inoltre un catalogo dei materiali esistenti in ogni fascicolo, con la grave possibilità
– da noi sperimentata direttamente durante questa ricerca – di smarrimenti (o sottrazione) di documenti. La
frammentazione dei documenti, lo stato precario di questi, soventi scritti sul recto e sul verso con informazioni
contrastanti; piegati, stracciati, con freghi, scarabocchi, senza un ordinamento gerarchico fra loro, moltissimi
privi di data (non esiste nemmeno un elenco ufficiale delle opere partecipanti) fanno auspicare il riordino
interno e la catalogazione e descrizione completa delle carte relative al primo anno di vita del Premio. La
situazione precaria dell’archivio era stata già rilevata negli anni ’90: «purtroppo il notevole fondo documentario
del Premio denuncia pessime condizioni conservative. [...] Oltre a questo, il disordine dei documenti» che
nonostante «riordino, inventariazione e catalogazione di quasi tutti i documenti del Premio» (come delineato
in limine al volume AA.VV., Il destino della scena. La drammturgia italiana e il Premio Riccione, a c. di Sergio
Colomba. Bologna, Grafis, 1990.) continua anche oggi, in assenza di un elenco preciso dei documenti per fascicolo.
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Espone poi come il concorso, che assume grande importanza per la ripresa turistica di Riccione, richieda che il Comune dia tutto il suo appoggio affinchè l’organizzazione del Concorso abbia pieno
successo e anzi concordi con l’Azienda Autonoma ogni iniziativa connessa al medesimo, come nomina del Comitato Promotore, delle Commissioni giudicatrici, ecc. Dopo avere accennato che le spese
del concorso e le entrate derivanti dal festeggiamento, che avrà luogo in occasione della premiazione
suddetta, saranno stanziate nel Bilancio dell’Azienda, chiede ai convenuti di voler adottare una deliberazione d’urgenza in merito all’oggetto poichè è necessario provvedere immediatamente all’organizzazione del «Premio Riccione 1947».
La costituzione del bando integrale viene retrodatata al primo gennaio, ed è così articolata:
1. È costituito il Premio Nazionale “Riccione” per l’anno 1947, complessivamente di L. 500.000; delle
quali L. 300.000 da assegnarsi a un lavoro drammatico di almeno tre atti di qualsiasi tecnica o tendenza,
in lingua italiana, non ancora rappresentato; e di L. 200.000 ad un’opera letteraria narrativa di contenuto sociale. Il lavoro drammatico avrà libero tema; dovrà però rispecchiare situazioni o travagli dei
tempi moderni.
2. I concorrenti ai detti premi per l’anno 1947 dovranno spedire i loro lavori alla Azienda Autonoma
di Soggiorno di Riccione (Ufficio “Premio Nazionale Riccione”) entro e non oltre il 15 giugno 1947
in duplice esemplare dattilografato ben leggibile. Le copie non leggibili saranno restituite all’autore con sospensione di ogni effetto di concorso, fino a che le copie non siano sostituite da altre
rispondenti a dette esigenze regolamentari.
3. I premi saranno indivisibili.
4. Ogni copione dovrà portare nome, cognome e indirizzo dell’autore. Sul copione potrà essere posto
anche uno pseudonimo. Nome e cognome vero dell’autore dovrà però anche in questo caso essere
cognito alla commissione.
5. Le commissioni aggiudicatrici dei premi terranno le loro riunioni in Riccione nei giorni precedenti
a quello della proclamazione dei vincitori; proclamazione che avrà luogo in Riccione la sera del 16
agosto alle ore 24 con impegno delle Commissioni a tener segreti i nomi dei prescelti fino al momento della proclamazione pubblica.
6. [...]
7. I manoscritti dovranno essere spediti in plico raccomandato e si restituiranno terminato il concorso, solo se richiesti dai concorrenti e con anticipazione da parte loro delle relative spese postali. In
tutti i casi ogni responsabilità per smarrimenti eventuali dei dattiloscritti, dei quali l’autore dovrà
sempre conservare presso di sè una copia originale, è da escludersi.
Riccione, 1 gennaio 1947, il Comitato Promotore.
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Nell’urgenza di spingere il premio a un felice battesimo e a garantire che gli scrittori della sinistra partecipassero numerosi (essendo i più sensibili, si pensò, alla clausola del “sociale”), già col
venti gennaio una lettera del comitato promotore aveva raggiunto le segreterie del PCI e del PSI,
sollecitando la diffusione interna del comunicato-stampa per gli intellettuali dei due partiti.
Ci pregiamo di inviare a codesta On. Direzione il Bando di Concorso per il «PREMIO NAZIONALE
RICCIONE 1947» Teatro e Letteratura narrativa, che dato il carattere sociale che si richiede alle opere
concorrenti interesserà certamente gli strati intellettuali e artistici aderenti al Vs/ Partito. Speriamo
vorrete cortesemente dare divulgazione interna a questa nostra iniziativa e ci teniamo a Vs/ completa
disposizione per tutti quei chiarimenti che riterrete necessari66.
Entro la terza settimana di gennaio Lorenzo Ruggi già aveva comunicato a Paolo Bignami l’accettazione di Corrado Alvaro a presiedere la giuria del romanzo. Il segretario scrive infatti allo
scrittore il 22, allegando il bando del concorso e informandolo che avrebbe mandato entro il mese
«la rosa dei nominativi per addivenire alla nomina definitiva». Dalla casa in Piazza di Spagna a
Roma, il 3 febbraio, Alvaro spedisce alla segreteria l’epistola forse più attesa, che con il suo assenso
ufficiale a guidare la commissione romanzo67 dà finalmente il via alla ricerca degli altri giurati.
Bignami e Quondamatteo si orientano sui nomi di Elio Vittorini, Sibilla Aleramo, Eugenio Montale, Guido Piovene, Cesare Zavattini e Marino Moretti (riportati qui in ordine, come indicato a
Alvaro in una lettera datata 15 marzo, in cui ci si augura «che i suddetti scrittori siano di Suo
gradimento», e si rimarca come si sia ancora nell’«attesa di ricevere le adesioni»). Prima di addentrarci nella cronaca spicciola del Premio, è però necessario indagare il profilo di questa giuria e, in
subordine, le scelte che Bignami e Quondamatteo operarono attraverso tale selezione, in quanto
l’esito del Premio (e non solo nei nomi dei vincitori, ovviamente legati a una giuria) dipenderà
dall’interazione di diverse filosofie di scrittura e di stile, cui dovrà aggiungersi anche una forte
componente di militanza letteraria e politica. I nomi scelti ci paiono il risultato di una strategia promozionale unica, calibrata al millimetro da Bignami e Quondamatteo; che poi questa commissione, nei
fatti, non riuscì (con defezioni, sostituzioni e contrasti interni) è veramente un altro paio di maniche.
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Tre settimane più tardi, quando col 16 febbraio il bando sarà spedito alle sedi dei giornali e riviste in tutta
Italia, sarà più chiara la strategia del concepimento “nazionale” del concorso. Due elenchi sono sopravvissuti
in archivio, che testimoniano forse di una complementarietà tra riviste (del centro nord) e giornali (del centro
sud) e la volontà capillare di raggiungere un pubblico più vasto possibile. Le riviste recensite sono: «La rassegna
d’Italia» (Milano), «Letteratura» (Firenze), «Belfagor» (Firenze), «Lettere ed arti»(Venezia), «Lettere d’oggi»
(Roma). I giornali sono: «Il Risorgimento» (Napoli), «Il giornale» (Napoli), «La Gazzetta del mezzogiorno»
(Bari), «L’Ora» (Palermo) – mentre il bando è pure inviato al Centro di Studi Anglo-Franco-Americano di
Palermo.
Lettera di Corrado Alvaro a Paolo Bignami, 3 febbraio 1947: «Ho ricevuto la Loro comunicazione sul Premio
Riccione e ringrazio. Ho preso visione del Bando di concorso e aspetto le segnalazioni che mi farete per la
Commissione Coi migliori saluti e auguri, Corrado Alvaro». In APR.
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Innanzitutto, perchè Corrado Alvaro come presidente della commissione romanzo? Al di là di
conoscenze dirette tra Ruggi e Alvaro (da non scontarsi, ma nei fatti non riconosciute), considerazioni di natura tattica e non solo letteraria non possono essere ignorate per la selezione: Alvaro,
oltre la fama come autore di Gente in Aspromonte e del recentissimo, fortunato L’età breve, aveva
fondato il sindacato nazionale scrittori e come giornalista dirigeva «Il Risorgimento» di Napoli.
Personaggio di primissimo piano, romano d’adozione, con preziosi legami con l’intellettualità della capitale e del sud, e dunque, prezioso per le sorti di un neonato premio letterario68. Nel tentativo
di dare smalto e una partenza sprint al premio, si era proposto secondo l’esempio viareggino una
giuria di altissimo profilo, tutta composta di scrittori. A rappresentanza “nazionale”, si licet, i contatti si rivolgono a scrittori tutto sommato (geograficamente) appartenenti a tradizioni letterarie
diverse, seppure (e non poteva essere altrimenti) con ampi intrecci interni: dal vicino di casa di
Cesenatico, Marino Moretti (unico romagnolo scelto), famoso più come romanziere di successo (La
vedova Fioravanti, I puri di cuore, etc.) che come poeta “crepuscolare” (Poesie scritte col lapis), al poeta
Eugenio Montale (i cui Ossi di seppia, Le occasioni e le traduzioni da Eliot l’avevano proiettato in una
dimensione di fama internazionale), in questi anni attivissimo nel giornalismo, ma radicato anche
profondamente nella linea ligure letteraria e nelle vicende fiorentine e giubberossiste della letteratura italiana sotto il tallone fascista, anche come direttore del prestigioso Gabinetto Vieusseux. Si
continua col “milanese” d’adozione Vittorini (e transfuga fiorentino), un altro scrittore fattosi giornalista prima a «L’Unità» di Milano, poi come direttore de «Il Politecnico» (rivista targata Einaudi
e finanziata dal PCI), la cui recente notorietà era legata al primo romanzo della Resistenza, Uomini
e no (1945), alla militanza comunista e per le posizioni poco ortodosse rispetto a una direzione di
partito della cultura (probabilmente ignorate a Riccione, in cui non pare ci sia eco della polemica
Togliatti-Vittorini). Si passa a Cesare Zavattini, pittore, umorista e scrittore per il cinema, di nota
fama internazionale: già nel 1946 era uscito Sciuscià, su suo soggetto (cui proprio nel ’47 sarà conferito l’Oscar per il soggetto e sceneggiatura). Nei giorni del Riccione, poi, Zavattini avrebbe anche
cominciato la scrittura di Ladri di biciclette, per Vittorio De Sica. Il nome di Sibilla Aleramo, d’altro
68
Tra l’altro, in quegli stessi mesi –ma ignorato da Riccione- Alvaro sarebbe stato coinvolto nella fondazione del
Premio Strega, con Maria e Goffredo Bellonci. Il Premio Nazionale “Riccione” può pure vantare il diritto di
primogenitura nei confronti dello Strega, il cui compleanno è il 27 gennaio 1947 (con un premio messo a
disposizione dall’industriale Guido Alberti di «duecentomila lire, per quei tempi più che dignitosa» somma,
come racconta l’ideatrice Maria Bellonci) sebbene annunciato pubblicamente il 16 febbraio 1947. A differenza
del Riccione, che puntava sul teatro e la narrativa inedita, lo Strega era stato disegnato per un testo edito
dall’aprile 1946 all’aprile 1947 e con un meccanismo “elettorale” che l’avrebbe distinto dal prestigioso Viareggio.
La composizione del collegio elettorale inoltre, a parte gli addetti ai lavori, comprendeva anche dei non letterati
in senso stretto: fu Corrado Alvaro, coinvolto nel premio fin dai primi momenti, «a osservare che il parere dei
non letterati di mestiere avrebbe temperato il parere dei letterati cosidetti puri, diroccando gli ultimi resti delle
oramai inutili torri d’avorio e avvicinando la narrativa alla lettura e al giudizio del pubblico»(M. BELLONCI, Il
Premio Strega, Milano, Mondadori, 1995, p. 12. L’edizione originale è del 1969.)
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canto, era ritornato sulle recenti cronache per l’adesione al partito comunista (del 3 gennaio 1946),
che aveva destato grande sorpresa nei circoli letterari e giornalistici. L’anziana autrice di Una donna
(del 1906, cui era legata la fama, il libro considerato come la prima Bibbia del femminismo) era
anche collaboratrice de «L’Unità», su cui scriveva articoli di varia natura. Non è da dimenticare,
per la scelta di questi scrittori, il fatto che Gianni Quondamatteo stesso, giornalista, fosse scrittore
per il quotidiano del partito comunista, e dunque in contatto – o possibilmente in contatto – coi
suoi intellettuali, almeno per i nomi che più insistentemente circolavano al tempo. Per Piovene, il
noto autore di Lettere di una novizia, invece basti il romanzo Pietà contro pietà (1946), che l’aveva
rimesso in circolazione come scrittore di merito “sociale” – in quanto anch’esso aveva trattato del
pruriginoso tema della Resistenza della recente storia italiana. Non guastava inoltre il fatto che
collaborasse al «Corriere della Sera», e quindi potesse far risuonare, assai più ampio, il nome del
Premio da battesimare.
Da Roma «accetta molto volentieri» Zavattini in data 14 marzo, lusingato d’essere «incluso in
così onorevole compagnia»69. Del 15 marzo, giorno in cui si inviava da Riccione a Alvaro la raccomandata con i nomi dei membri invitati nella commissione, è invece il rifiuto dell’«onorifico incarico» da parte di Marino Moretti, il quale da Firenze scrive di sentirsi « poco adatto a giudicare libri
stampati» e «addirittura inidoneo a giudicare manoscritti». Ancora da Firenze, il rifiuto di Eugenio
Montale («con rinnovate scuse e ossequi») arriva per stretto giro di posta il 20 marzo su carta
intestata a «Il Mondo Europeo», di cui è collaboratore. «Ragioni di lavoro» lo costringono al forfait,
per «un lavoro gravoso» (come la lettura degli scartafacci per il premio) «che verrebbe a cadere in
un periodo nel quale è già troppo impegnato». (Le frequentazioni di premi letterari, per Montale,
avranno in seguito il marchio di Viareggio, per quasi cinque lustri, a partire dal 1950.) Meno male
che l’itinerante Sibilla Aleramo, tornata nella sua soffitta di via Margutta 42 a Roma dopo i soliti
numerosi soggiorni fuori città, conferma «molto volentieri» la sua partecipazione, «tanto più in
quanto tutti gli altri membri della Commissione sono suoi amici»70. Il 31 marzo è la volta dell’assenso di Guido Piovene, anch’esso poco stanziale, tra Roma, Milano e Parigi71, mentre l’ultima
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71
Lettera di Cesare Zavattini a Paolo Bignami, 14 marzo 1947: «Egregio Bignami, ho ricevuto, Suo tramite, l’invito
del Comitato Promotore del Premio Nazionale “Riccione” 1947 a far parte della commissione per il romanzo
presieduto da Corrado Alvaro. Accetto molto volentieri e La prego di ringraziare a mio nome i membri del
Comitato Promotore d’avermi incluso in così onorevole compagnia. Suo Cesare Zavattini». In APR.
Lettera di Sibilla Aleramo a Paolo Bignami, 23 marzo 1947: «Solamente oggi ricevo, respinta da Capri, la Sua
cortese dell’8 corr. Ringrazio per l’onorifico invito, e accetto molto volentieri, tanto più in quanto tutti gli altri
membri della Commissione sono miei amici. Attenderò dalla Segreteria tutte le comunicazioni relative allo
svolgimento dei lavori, delle riunioni ecc, e frattanto mi felicito con Lei e col Comitato per la nobilissima
iniziativa, a cui auguro luminoso successo. Con alta stima, Sibilla Aleramo». In APR.
«Ho ricevuto il vostro invito a far parte della giuria del Premio Nazionale “Riccione” ritornando da un viaggio
e perciò ho tardato a rispondere. Accetto la vostra designazione. Vi sarei grato però che mi scriveste subito per
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adesione è di Elio Vittorini, che «lieto» e con un grazie «sincero» per l’offerta, la spedisce il 2 aprile
dall’indaffaratissimo tavolo di lavoro milanese, dalla rivista «Il Politecnico».
L’assenso di Vittorini è tuttavia legato da una partecipazione a distanza, tale che il suo lavoro
«possa esser fatto da Milano», a causa degli impegni editoriali che lo costringono in loco. Sacro è
poi «qualche giorno di riposo» in agosto, ma «sul Tirreno», da cui si escludono viaggi «stroncanti»
e/o «stancanti» verso i lidi adriatici. (Dopotutto, la linea La Spezia-Rimini non era solo un’invenzione della linguistica e della dialettologia, ma, nel 1947, un ostacolo concreto di strade statali e
provinciali, barriere, montagne e valichi che avrebbero preso ore e ore a percorrerle in corriera ; e lo
stesso col poco collegato servizio ferroviario.)72 Bignami accetta il compromesso che lo priva della
presenza in situ, a Riccione, dello scrittore, pur di averne la partecipazione e, ovvio, lo sfruttamento del nome per il concorso. Quest’accettazione condizionata, vedremo, avrà un suo relativo impatto sul Premio stesso.
Assicurati dunque cinque giudici su sette al primo colpo, il comitato promotore (ergo, Bignami
e Quondamatteo) si mette alla ricerca dei sostituti per Montale e Moretti. Interpellando Vittorini a
questo proposito, i due chiedono aiuto non solo per la commissione romanzo, ma tout court per
romanzo e dramma, con quest’ultimo che ancora non riesce a trovare un’identità precisa. La sfilata
di attori o registi interpellati (Ermete Zucconi, Luchino Visconti, Rina Morelli, Vittorio De Sica, etc.,
il meglio insomma del meglio tra teatro, cinema e recitazione, cui veniva aggiunto Guglielmo Zorzi, commediografo, che però aveva accettato) non aveva sortito infatti effetti conclusivi ai primi
d’aprile.
La risposta che Vittorini manda a Quondamatteo il 26 aprile è, per noi lettori, importantissima,
in quanto è sintomatica della politica culturale svolta con il Premio e anche della necessità, sentita
a Riccione dall’amministrazione (nella figura del sindaco), di mantenere un certo controllo politico
(partitico?) nei confronti del Premio stesso, volto verso l’intellettualità impegnata (dato anche il
contenuto sociale del bando per la narrativa) ma anche decisamente “schierata” (e forse non poteva che essere così). Vittorini risponde puntuale alle interpellanze riccionesi (che, si deduce, avevano avanzato candidature specifiche):
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dirmi quando dovrei iniziare il lavoro di lettura e quando dovrei essere presente, giacchè sto per recarmi a
Parigi. Vi prego di rispondermi all’indirizzo: Corriere della Sera, Via Solferino, Milano, perchè tra pochi giorni
sarò a Milano di passaggio. Grazie, e i saluti più cordiali dal vostro Guido Piovene». In APR.
«Sono lieto di accettare la Vostra offerta e, creda, il mio grazie per essere rituale non è meno sincero. Vorrei però
subordinare l’accettazione alla condizione che il mio lavoro possa esser fatto da Milano: sono occupatissimo
nei miei libri e nella rivista. Così non mi sento di poter assicurare la mia presenza il 16 agosto. Mi prenderò allora
qualche giorno di riposo sul Tirreno: come affrontare il lungo stroncante [corretto in “stancante”, ndr.] viaggio da
Tirreno ad Adriatico? Molti cordiali saluti e rinnovati ringraziamenti, Elio Vittorini». In APR.
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Ferrata e Banfi vanno benissimo e, sempre fra i compagni, andrebbe benissimo Michele Rago [...]
oppure Romano Bilenchi [...] Ma se fossero necessari nomi di non compagni e tuttavia progressisti ti
suggerisco quello di Carlo Bo [..] o quello di Mario Luzi73.
Il tono è chiaro, la discriminante pure: una divisione tra “compagni” e no, partorisce almeno un
invito a «non compagni» ma «progressisti». D’altro canto, chi meglio poteva apprezzare un concorso sul “sociale” se non l’intellettualità più progressiva? Giansiro Ferrata (già da poco reduce dal
ruolo di commissario nel concorso Mondadori 1947, che aveva laureato Luigi Santucci, Oreste Del
Buono e Milena Milani per un romanzo da pubblicarsi nella Medusa arancione della casa editrice)
era un’indicazione quasi scontata, data la vicinanza geografica con Vittorini, la formazione solariana e la svolta comunista, nonchè la comune esperienza giornalistica a «L’Unità» milanese. Che
Ferrata non fosse propriamente ferrato in campo teatrale sarà da tenersi presente: da una lista di
attori e registi, infatti, si passa per il dramma a una lista in maggioranza di critici letterari e teatrali,
accademici e addetti ai lavori esterni (che non calcano cioè il palcoscenico o ad esso non solo legati
per la scrittura). Antonio Banfi, professore universitario, filosofo e critico, d’indirizzo a sua volta
“rosso”, farà paio con Ferrata per il dramma. (Altro nome da aggiungere al dramma, e di area
politica certa, è Vito Pandolfi, collaboratore del «Politecnico», traduttore da Albert Camus, Ernst
Toller, Ludwig Achim von Arnim, appena trentenne storico del teatro.) Bilenchi e Luzi, invece,
entrambi geograficamente fiorentini come Banfi e Ferrata lo sono milanesi, finiranno invece nella
commissione romanzo. Entrambi legati al Vittorini dei tardi anni ’30, e come lui finiti in redazioni di
quotidiani o riviste nell’immediato dopoguerra (Bilenchi con la direzione del «Nuovo Corriere», Luzi
come redattore a «Società»-due delle riviste più influenti del periodo in esame), questi scrittori sono
connessi da rapporti di forte amicizia e stima reciproca, nonostante che Bilenchi sia diventato comunista e Luzi sia rimasto al di fuori del partito (nella sinistra cattolica). La loro individualità poetica e la loro
indipendenza di giudizio sarà da tenere presente in merito alle modalità di valutazione di opere letterarie “sociali” (o, se si vuole, possibilmente “neorealiste”, anche se mai viene fatto ricorso a quest’etichetta nelle corrispondenze o negli appunti dei commissari).
Dal 2 aprile (accettazione di Vittorini) al 30 aprile, data in cui si inviano le raccomandate a
Bilenchi e a Luzi, non molto accade a Riccione. Bisognerà aspettare il 13 maggio per l’accettazione
di Luzi e al 22 maggio per Bilenchi, il quale si scusa «di non aver risposto prima perchè assente da
Firenze». Già il 19, nel ringraziamento di Bignami a Luzi, si annuncia come «fra breve sarà data
notizia attraverso la stampa della composizione delle giurie», e che in data 26 maggio è spedita
73
La citazione qui riprodotta viene da S. PIVATO, Provincia e non provincia, cit., p. 16, in quanto l’originale sembra
sia stato smarrito nell’Archivio del Premio Riccione. Pivato purtroppo non possiede più la fotocopia fornitagli
dalla segreteria del Premio, e ricerche interne non sono riuscite a far rispuntare quest’importante missiva, che
si vorrebbe studiare e citare interamente.
61
l’ennesima raccomandata a tutti i giudici, che conferma la composizione delineata il 30 aprile.
Unica notizia aggiuntiva: «entro il corrente mese sarà data divulgazione a mezzo Ansa a tutta la
stampa ed a mezzo radio dei nominativi di dette Commissioni. Entro il 15 giugno p/v., termine
utile per la presentazione dei lavori, verrà comunicato il progetto per la lettura e la classificazione
dei lavori concorrenti»74.
I due concorsi e gli altri appuntamenti riccionesi cominciano a pesare sulla scrivania del volenterosissimo Bignami, tutto preso da impegni più immediatamente concreti come l’inaugurazione della
stagione balneare riccionese e la festa della stampa (cardine della pubblicità e dei destini economici
della cittadina per quell’anno). Come i documenti d’archivio dimostrano, il segretario del Premio cura
infatti un ampissimo spettro di manifestazioni e scrive numerosi comunicati stampa firmando addirittura articoli per «L’Adriatico» per assicurarsi l’attenzione dovuta. Quest’opera aggressiva di promozione, rivolta in troppe direzioni, fa come (provvisoria) vittima illustre l’organizzazione del Premio stesso,
che alla fine di maggio ancora non ha finalizzato la giuria del Dramma e ha appena completato quella
letteraria. Cadono in queste settimane anche gli scambi con Ruggi sul ruolo delle commissioni e dei
commissari. Il presidente del dramma comincia infatti a scalpitare, e l’impazienza dimostrata verso
l’organizzatore, su vari livelli (formali e di contenuto), si avverte benissimo nelle lettere di cui rimane
testimonianza d’archivio, e che è bene riportare dato che i problemi indicati da Ruggi per il dramma
avranno un impatto effettivo anche per la commissione-romanzo.
Del 26 maggio 1947 è la prima, perentoria sollecitazione a Bignami: «è urgente che Lei mi completi la
Commissione e cominci a mandarmi il pacco dei lavori da sottoporre ad esame», seguita, nella stessa
missiva, da suggerimenti concreti per la sostituzione di due commissari come Luchino Visconti, regista, e Rina Morelli, attrice viscontiana, che non avevano potuto accettare («Vi proporrei Ruggero Ruggeri e Alessandro Varaldo» – l’uno, interprete pirandelliano per eccellenza, ispiratore di «Enrico IV»,
74
La documentazione è incompleta e contraddittoria: per il numero delle opere partecipanti al Premio c’è
discordanza (il numero oscilla nei documenti tra 25 e 28) e, principalmente, non esiste un elenco esaustivo dei
titoli dei romanzi e del nome degli autori partecipanti. L’elenco da noi stilato, dedotto dai fogli degli invii e dai
documenti sparsi (che di solito attribuiscono un numero al corrispondente manoscritto), ferma il numero dei
dattiloscritti a 26. Si danno qui in ordine di ricevuta: 1. Luigi Pasquini, Il podere sulla linea gotica; 2. Masino
Arcamone, Col vento e contro il vento; 3. Costantino Savonarola, Il grande domani; 4. Franco Selva, Il torrente; 5.
Bianca Bottelli, Una storia uguale alle altre; 6. Piero Cugini, Follia; 7. Alfredo De Donno, La danza degli abissi; 8.
Sergio Pirnetti, Ritrovare se stessi; 9. Maria Brandon Albini, I pellegrini del deserto; 10. Franco Spinelli, La casa del
Bruscone; 11. Bruna Varini, Festa al villaggio; 12. ?; 13.? 14. L. Persichetti, Il trionfo dell’anima; 15. V.Vecchi, Itinerario
d’Armida; 16. Andrea Carli, Traffico al Nord; 17. C. Federighini, Il mio paese nella vallata; 18. Italo Calvino, Il
sentiero dei nidi di ragno; 19. Enzo Machella, La sorella del secolo lontano; 20.Wanda Varini, Ed è subito sera; 21. Rosi
di Lauro, Donne uomini e orizzonti; 22.?; 23. Sergio Frosali, Ettore; 24. Giuseppe della Michelina, Un giorno prima;
25?; 26. Luigi Squarzina, Quelli a cui importa. Sono citati, ma non numerati, i seguenti dattiloscritti: A. Quario
Modulo, I maschi di Stato; Fabrizio Onofri, Morte in piazza; Eva Quajotto, Delfina; Angelo Sabatino, Viaggio nel
regno dei fanciulli. Il totale dei dattiloscritti recensiti è dunque 26. Stando alla corrispondenza tra Paolo Bignami,
segretario del Premio e la giuria, tuttavia, il numero totale dovrebbe raggiungere i 27 o 28 (o addirittura 30
secondo notizie di stampa).
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l’altro scrittore di teatro, giallista famoso, giornalista e anche fondatore della SIAE). Quello che Ruggi
ignorava, evidentemente, era lo scambio epistolare che Bignami aveva avuto da Milano con Vittorini, il
quale aveva offerto i nomi delle “personalità” (per lui) adatte a essere coinvolte nel Premio. Manca la
risposta di Bignami a Ruggi per la missiva del 26, ma certo la notizia dell’inclusione di commissari non
graditi al Ruggi risalta alla lettura della risposta risentita che il presidente gli spedisce il 28 maggio:
Debbo farle presente che in base a quanto mi era stato scritto in precedenza chiedendomi indicazioni di
nomi di Commissari disposti a leggere e utili al fine, avevo interpellato Ruggiero Ruggeri, ottenendone
l’adesione e mi proponevo di ottenere del pari l’adesione di Andreina Pagnani. I nomi che vedo introdotti
nella Commissione, danno alla medesima una fisionomia diversa da quella che mi era stata prospettata
anche agli effetti di costituire un gruppo attraente di persone la sera della festa e che sul ceto dei candidati
possa costituire per la notorietà dei nomi una desiderata attrattiva. Tanto il Banfi come il Ferrata rispettivamente scrittore e giornalista pure essendo egregie persone molto apprezzate nel campo letterario non mi
pare abbiano i requisiti che la Commissione ai fini di cui sopra richiederebbe. Lo stesso dicasi per il Pandolfi che particolarmente stimo, ma il cui nome non ha una risonanza nazionale che giovi ai fini suddetti.
Molto più noto il Palmieri [critico teatrale, ndr.] che va benissimo, anche perchè lettore assiduo e perspicace. Se non vi lasciate consigliare da chi è più pratico di queste cose, è inutile che scegliate persona competente in questa materia per poi non seguirne i suggerimenti, anzi creando qualche imbarazzo. Avevo anche
ringraziato Ruggeri per la sua adesione ed ora mi secca dirgli che non verrà utilizzato. Insisterei quindi che
cambiaste i nominativi della Commissione e mi permetto di aggiungervi come suggerimento anche il
nome di Alessandro Varaldo che conosco come lettore coscienzioso e che rappresenta un bel nome come
notorietà e credito75. [...]
Il 31 maggio Ruggi torna all’attacco, dopo che, evidentemente, da Riccione o non è arrivata
risposta (il che è possibile) o non è arrivata la risposta desiderata: «Le facevo presente la necessità
di sostituire a taluni dei Commissari indicati per la commedia, altri che avessero maggiore notorietà e fossero sicuramente dei lettori [...]». Le preoccupazioni di Ruggi sono fondate: si punta, da una
parte, sul richiamo del nome (per garantire un pubblico scelto per la premiazione e certo partecipanti allettati dal possibile legame del loro nome con un certo tipo di giuria), e dall’altra al timore
che il concorso non venga preso sul serio dai commissari stessi (che cioè, non leggano). Conclusione pessimistica: «siamo tanto avanti nella stagione che incertezze sulla Commissione non ci possono più essere, se no si pregiudica tutto il lavoro e l’esito, nonchè la serietà stessa della cosa».
75
Banfi e Ferrata verranno invitati a far parte della giuria drammatica, causando una reazione stizzita di Ruggi,
sintomatica anche di come l’inesperienza del comitato riccionese e anche la ferrea volontà del controllo dell’esito
del concorso (pendente sul sociale) venisse per essere accolta con risentimento da Ruggi – che da presidente
dell’Ente Teatro avrebbe voluto più addetti ai lavori che scrittori o critici nella sua commissione (per anche il
carattere pratico, di rappresentazione, di “teatralità” appunto dei testi da giudicare, non solo per qualità
letterarie). Altresì è da notare come la commissione del romanzo fosse interamente composta da autori – e
come il gentile rifiuto morettiano fosse anche di metodo, non solo di merito.
63
Ruggi chiede inoltre l’invio dei copioni per un esame preliminare da fare lui stesso, e una lista
provvisoria dei copioni finora mandati, di modo anche da decidere a chi farli leggere subito (e in
quale quantità), per «la necessità di conoscere le buone o le meno buone abitudini di ciascuno
come lettore per tenerne conto nel carico maggiore o minore di copioni. Sono tutti accorgimenti
che ci vogliono se si vuole arrivare alla meta coi copioni esaminati e relazionati coscienziosamente
come l’importanza del Premio esige».
Bisogna aspettare il 3 giugno per la risposta di Bignami, il quale lapidariamente considera, con
l’inclusione di Ruggeri, «completata» la Giuria del Dramma. Nessun accenno alla richiesta di sostituzione di Ferrata, Banfi e Pandolfi, che diplomaticamente non si affronta – a Ruggi è però chiesto di fare servizievolmente pubblicità alla giuria del Premio, data la sua posizione nell’Istituto del
Dramma Italiano: «sarebbe bene che Lei provvedesse a segnalarLa alla Stampa attraverso l’ANSA
così potrebbe essere pubblicata contemporaneamente su tutti i giornali». Al 3 giugno, rammenta il
segretario, i copioni «stanno arrivando numerosi ed a tutto ieri [il due giugno] ammontavano di
già ad oltre sessanta». Chiude la corrispondenza una captatio benevolentiae riferita alla struttura da
dare ora all’esame dell’opere, da regolarsi attraverso l’esperienza del presidente: «nessuno meglio
di Lei è in grado di organizzare la cosa» (del meccanismo, cioè, delle letture).
I contatti con la giuria del premio letterario riprendono, sembrerebbe, solo il 19 giugno, con una
lettera a Alvaro che viene informato dell’esito (per ora provvisorio) del concorso:
A mezzo Agenzia Orbis è stata divulgata la proroga per l’accettazione delle opere concorrenti al Premio Nazionale Riccione, dal 15 giugno al 30 giugno; nello stesso tempo si è data comunicazione della
composizione delle Commissioni aggiudicatrici del Premio. A tutt’oggi le opere per il Dramma ammontano a N. 201, le opere per il romanzo a N. 20 alcune delle quali di ben 800 pagine dattiloscritte.
Per facilitarLe il compito, e dietro Suo suggerimento potrei direttamente inviare ai Commissari le
opere concorrenti, e dato che essi sono suddivisi due per ognuna delle seguenti città
(Milano=Roma=Firenze) si farebbe in definitiva tre spedizioni. Allego alla presente la distinta delle
opere cosicchè Lei potrebbe fin da ora stabilirne l’invio76.
76
La ricerca dell’appoggio di Alvaro (coi suoi contatti attraverso «Il Risorgimento» di Napoli e il sindacato scrittori)
per la diffusione delle iniziative culturali riccionesi è lampante. Bignami si premura subito di informare lo
scrittore-giornalista dell’idea di un concorso per «Un articolo su Riccione»: «Nei giorni 14=15=16 corrente
mese si è avuto a Riccione il Raduno della Stampa col concorso di 18 giornalisti dell’alta Italia ed è nata l’idea
di indire un Concorso per «Un articolo su Riccione» da pubblicarsi su un giornale quotidiano senza limite di
lunghezza dal giorno 1 al giorno 15 luglio p/v. Il Premio è stato stabilito in L. 25.000/ o quindici giorni di
permanenza in un Albergo di 1 categoria di Riccione completamente spesato e compreso il viaggio di andata e
ritorno. Penso che la cosa possa interessare anche i giornalisti dell’Italia meridionale e nella eventualità che Lei
pure condivida la nostra opinione Le saremo grati se vorrà comunicarlo nel Giornale da Lei diretto. In questo
caso provvederemo ad inviarLe prospetti fotografie e materiale vario. Il Concorso è indetto dalla Azienza di
Soggiorno e dal Comune di Riccione, per informazioni: Segreteria Palazzo Turismo, Riccione. In attesa di cortese
Sua risposta in merito, e con distinti saluti.» In APR.
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L’invio dei dattiloscritti ai commissari cominciò circa quaranta giorni prima della proclamazione77. Fino a questa data prevalse la routine organizzativa. I pochi libri partecipanti, l’insuccesso
formale della sezione del Premio cedevano ora il passo all’intervento delicato del vaglio, che, visto
il numero ridotto degli scartafacci, poteva a ragione prospettarsi di tutto riposo.
Commenti sull’insuccesso del Premio letterario furono inviati da Zavattini a Bignami il 15 luglio: «Venticinque manoscritti sono davvero pochi. Speriamo di riuscire tutti insieme l’anno venturo a rendere più movimentata e numerosa la vita del premio».78 Al 15 luglio risulta anche consegnato ai giudici romani un altro dattiloscritto, quello di Eva Quajotto, pittrice, scrittice e amica
personale dell’Aleramo79. Cade il 19 luglio, da Vallerano, nelle campagne di Viterbo (dalla casa
della Quajotto, di cui è ospite), la richiesta di Sibilla di ricevere il romanzo di Fabrizio Onofri, che
la interessa «particolarmente»80. Lo stesso giorno 19 Bignami aveva riscritto a Zavattini, innalzando dunque il numero delle opere concorrenti a 27 e commentando che il «tema obbligatorio» era da
ritenersi il colpevole principale della scarsità d’invii (dato che il dramma, con una clausola più
vaga, ne aveva ricevuti più di duecento).
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Si aspettò, insomma, la scadenza degli invii al Premio, un indugio che fece addirittura scrivere l’Aleramo,
allarmata dalla mancanza di notizie, direttamente a Quondamatteo, come ci riferisce S. PIVATO, Provincia e non
provincia, cit., p. 16 («Come mai non abbiamo avuto più nessuna comunicazione [...] e tanto meno ricevuto
nessun manoscritto in esame»). Anche questa lettera è mancante dal novero di quelle che si trovano in APR e
al momento sembra irrecuperabile.
Il quale, nella stessa lettera, in assenza di notizie specifiche riccionesi sulle modalità della permanenza, esplicita
per la prima volta una richiesta (destinata a ripetersi numerose altre volte): «Sibilla Aleramo e io avremmo
desiderato qualche notizia di più sull’organizzazione del premio, sul come e quando del nostro viaggio e della
nostra permanenza. La prego di scriverci e di scrivere almeno alla signora Aleramo.» In APR.
«Roma, 1-VII-1947 Egr. Sig. Bignami. La ringrazio per la Sua sollecitudine nel rispondere al mio espresso. Ho
consegnato ieri il manoscritto a Cesare Zavattini. Il titolo del romanzo è: «Delfina» Voglia gradire i miei distinti
saluti. E. Quajotto. P.S. Passerò la 2a copia a Sibilla Aleramo e a Corrado Alvaro.» E: «Vallerano, 14-7-47 Egr.
Sig. Bignami, La informo che Sibilla Aleramo ha già ultimato la lettura del mio manoscritto e vorrei sapere se
devo spedirlo a un altro membro della giuria fuori Roma. In tal caso la prego di volermi informare precisandomi
l’indirizzo. Zavattini, ne ha una 2a copia che passerà ad Alvaro. In attesa di un Suo cortese riscontro la saluto
distintamente. E. Quajotto.» In APR.
Lettera di Sibilla Aleramo a Paolo Bignami, 19 luglio 1947 (conservata in APR): «Gent.mo Paolo Bignami,
Segretario Premio Riccione, ho avuto giorni fa la sua del 5, e soltanto ieri l’altro ho potuto ritirare a Roma il
pacco dei tre manoscritti, n.1, n. 3 e n. 4. Li ho portati qui in campagna, ove sono per qualche giorno di riposo,
e li sto leggendo attentamente. Verso il 26 tornerò a Roma, dove passerò a Zavattini o ad Alvaro i tre ms. per
averne in cambio quelli da loro letti. Però, nell’eventualità ch’essi non abbiano finito la lettura, Lei potrebbe forse
mandarmi senz’altro qualche altro lavoro. M’interesserebbe particolarmente avere quello di Fabrizio Onofri, se
possibile. Zavattini m’ha detto di averle scritto chiedendole notizie sul modo come si svolgeranno i nostri lavori,
sulla data di riunione a Riccione, ecc. Anche Alvaro, che è rientrato a Roma, deve averle scritto. Mi faccia sapere, la
prego, se posso arrivare costà entro la prima settimana di agosto, e continuare sul luogo le letture dei lavori concorrenti.
Mi scriva a Roma, Via Margutta 42. Mi dica anche in tempo a quale albergo sarò ospitata. Con molti saluti al Comitato,
e al Sindaco, mando a Lei una cordiale stretta di mano. [Sibilla Aleramo] [A seguito: Ho letto un altro lavoro
concorrente, quello della signora Eva Quajotto, che deve averle scritto.]»
65
Caro Zavattini, in risposta alla Sua cortese lettera del 15 corrente. A quest’ora avrà già ricevuto i
romanzi che Le sono stati spediti tre giorni fa. Sta bene per il romanzo di Eva Quajotto che fu a Lei
direttamente consegnato entro i termini del concorso, dato che non era più possibile spedirlo in tempo utile. I romanzi risultano così 27, veramente pochi, dato il Premio. Ma ripeto il tema obbligatorio
non ha entusiasmato. Peccato. Per il dramma invece sono pervenuti 226 copioni. Per quanto si riferisce al viaggio ed alla permanenza a Riccione saremo precisi entro il giorno 5 agosto, e questo perchè
dobbiamo fare gli inviti unitamente alla Commissione del Dramma che per ora è oberata di lavoro e
non sappiamo quando potrà essere libera per le ultime discussioni a Riccione. La prego vivamente di
inviarci i romanzi appena letti dai commissari residenti a Roma, e Le sarei grato se volesse Lei personalmente interessarsi della cosa. Immediatamente dopo invierò i romanzi dati in lettura ai Commissari di Firenze e Milano. Grazie di tutto e colgo l’occasione per inviarLe i più cordiali saluti.
Quello che Bignami di certo non si aspettava furono i molti grattacapi causati dai commissari
che, a fase operativa avanzata, piombarono sul tranquillo svolgimento del Premio e s’accumularono sulla sua scrivania, quasi a compimento di alcune predizioni o note cautelative di cui aveva a
lungo parlato Ruggi, presidente della Commissione Dramma, che conosceva certo i suoi polli81.
La prima doccia fredda arriva a Riccione per posta, a meno di un mese dalla proclamazione del
vincitore: è una lettera da Roma. La manda il presidente designato della commissione, Alvaro, il
quale in data 21 luglio mostra ancora d’ignorare tutte le decisioni prese a Riccione «da alcune
settimane» (invio dei dattiloscritti, organizzazione del soggiorno della commissione e così via).
Auspicando la nomina di un suo sostituto, si dimette dall’incarico «per ragioni di salute»82 (Sorte
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In primo luogo, piccolezze “tecniche”, ma non irrilevanti. Spaventati dalla mole delle letture, i giudici chiedono
compensi aggiuntivi al soggiorno gratis a Riccione. In data 9 luglio, così scrive Ruggi a Bignami: «ieri dunque
a Milano ho riunita la Commissione. [...] i commissari intervenuti, Banfi, Ferrata e Palmieri, [...] hanno espresso
il desiderio [...] che ad ogni lettura corrisponda per loro un qualche compenso materiale, non potendosi sottoporsi
a un lavoro che assorbe intere giornate, senza un minimo di sollievo economico. [...] i Commissari hanno
chiesto di essere assistiti da qualcuno nel lavoro di trasporto di copioni da una casa all’altra e in quello di
copiatura dei pareri». L’organizzazione del Premio, insomma, si fa già complicata. Ruggi, però, da stagionato
conoscitor delle peccata (letterarie), arruola dal suo ufficio avvocatesco anche un’impiegata, che diventa addetta
esclusiva al collegamento con i commissari, con la sensata spiegazione: «Guai se questo piccolo ufficio non mi
manterrà il collegamento esigendo il rispetto dei termini e sollecitando le relazioni e le letture, perchè ho trovato
nei Commissari cordialissimi e simpaticissimi colleghi, ma tutti presi da lavoro giornalistico o da periodo di esami, o da
imminenti partenze per luoghi balneari o congressi. Arrivare alla meta senza incidenti con un termine così ristretto, sarà
miracoloso. Dopo il 26 dovremo scambiarci (per leggerli tutti e sette) i copioni trovati degni di seconda lettura,
cioè di attenzione, e se saranno molti, voi capite quali nuovi apporti di fatiche siano per sopravvenirci.» In
APR.
Lettera di Corrado Alvaro a Paolo Bignami, in data 21 luglio 1947: «Tornato a Roma dopo alcune settimane di
assenza, trovo le Loro comunicazioni. Purtroppo, ragioni di salute ed esigenze di assoluto riposo, mi costringono
a pregare il Comitato Promotore di dispensarmi dall’onorifico incarico di Prsidente [sic] della Commissione
del Premio Nazionale Riccione 1947. Sarà quindi opportuno che Cotesto Comitato provveda a nominare un
nuovo componente la Commissione, la quale poi, in assemblea plenaria, potrebbe eleggere essa stessa il suo
presidente. Chiedo vive scuse e porgo i migliori ringraziamenti e saluti.» In APR. La motivazione di Alvaro è
diplomatica. L’appello alle necessità di ritemprare le cagionevoli ossa cela soltanto lo scopo di disincagliamento,
66
maligna: Alvaro sarà poi, in quel medesimo anno, in quella medesima estate, durante i giorni del Riccione, nella giuria del Premio Viareggio. Che l’aria versiliese fosse più salubre di quella romagnola?)
Costretto a cambiare i suoi piani, il 28 luglio Bignami chiede a Zavattini, a colui che «dimostra la
maggiore premura fra i componenti la commissione», di subentrare a Alvaro83; ma nella lettera accenna
inoltre che «per la lettura dei lavori [...] alcuni commissari non rispondono alle sue sollecitazioni» e che
per ora solo lui, Zavattini, e l’Aleramo, «dimostrano di avere preso sul serio la cosa», tanto da definirli
il punto d’appoggio del concorso84.
Il carattere della corrispondenza riccionese comincia a mutare di tono.
Inizia da lì il calvario d’interpellanze verso Bilenchi, Luzi, Vittorini e Piovene, attestato dagli appelli
a senso unico della segreteria, “sollecitazioni” mandate a pioggia e rimaste inevase85, con un silenzio
preoccupante che fa serpeggiare in Bignami il dubbio di una collettiva poca voglia di partecipazione.
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dello sganciamento dal Premio, data la mancanza del dono d’ubiquità per dividere Riccione con il più prestigioso
lido viareggino, al cui Premio (riposato e sanissimo, si presume) Alvaro avrebbe partecipato come componente
della giuria, come già aveva fatto l’estate precedente. La lettera, tuttavia, più che chiamare in causa la buona
fede d’Alvaro col piede su due staffe (i dispacci gli provenivano da Riccione sin da marzo), mette in questione
l’efficienza dell’inesperto Bignami, coi procedimenti cioè ch’egli aveva messo in atto per la conferma delle
nomine dei commissari, o la verifica del lavoro da loro svolto, etc.
La scusa d’Alvaro si merita pure gli auguri del comitato promotore riccionese, in data 28 luglio: «È con sincero
rammarico che il Comitato del Premio Nazionale Riccione apprende come le Sue attuali condizioni di salute
non le permettano di mantenere l’incarico di Presidente della Commissione del Dramma [sic]. Ho incaricato lo
scrittore Zavattini della successione e spero che tutto vada per il meglio. Si abbia da parte del Comitato e da me
i più sentiti auguri e cordiali saluti». In APR.
Lettera di Paolo Bignami a Cesare Zavattini, 28 luglio 1947: «Caro Zavattini, mi rivolgo a Lei che vedo dimostra
la maggior premura fra i componenti la Commissione del Premio Riccione. Ecco come stanno oggi le cose:
Corrado Alvaro scrive in data 21 luglio declinando l’incarico di Presidente della Commissione causa la sua
attuale malferma salute e suggerisce di nominare un’altro Presidente in seno alla Commissione stessa. Ora io
potrei scrivere a tutti i componenti la Commissione suggerendo un nome; il Suo. Lei accetta? Mi sia preciso in
merito, e, come spero se la risposta è affermativa anche questa contrarietà sarebbe superata nel migliore dei
modi. Per la lettura dei lavori poi alcuni commissari non rispondono alle mie sollecitazioni: ora scriverò
sollecitandoli ancora. Per ora solo Lei e la Signora Aleramo dimostrano di avere preso sul serio la cosa. E da
oggi mi appoggerò su di loro e provvedere [sic] a spedire altri lavori in lettura. Per tutto questo lavoro
preparatorio penso occorreranno una decina di giorni. Per il giorno 10 convocherò tanto Lei che la Signora
Aleramo a Riccione a completa spesa dell’Azienda di Soggiorno, e rimarranno fino ad assegnazione del Premio.
Attendo una Sua lettera e colgo l’occasione per ringraziarla fin da ora ed inviarLe i più cordiali saluti. La prego
di volere fare leggere la presente alla signora Aleramo, che come da Sua lettera del 19 luglio deve essere rientrata
in Roma». Scriverà a ruota anche il 29: «Caro Zavattini, faccio seguito alla mia lettera di ieri. In data odierna ho
provveduto a spedirle a mezzo dattiloscritti raccomandati i seguenti lavori concorrenti al Premio Riccione:
Ritrovare se stessi di Pirnetti/ I pellegrini del deserto di Brandon Albini/La casa dei Bruscone di Spinelli. In
totale Le ho così spedito in lettura N. 8 lavori che uniti a quelli spediti alla Sig.ra Aleramo (N. 9 ) fanno 17, che
spero Lei riuscirà a leggere entro il 9 Agosto. Il 10 Agosto Lei potrà così venire a Riccione e leggere i rimanenti
8 lavori ed arrivare alla premiazione col giudizio pronto su tutti i lavori concorrenti. Resto in attesa di cortese
Sua in merito e con i più cordiali saluti.» In APR.
Comunicazione-tipo, spedita ai commissari: «28 luglio. In data 16 luglio fu provveduto da codesta Segreteria a
spedirLe altri due dattiloscritti di lavori concorrenti al Premio Riccione. Non avendo avuto un cenno da parte
Sua, Le saremmo grati se volesse scriverci in merito a stretto giro di posta». In APR.
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La lettera che il segretario manda al quartetto a sole due settimane di distanza dalla proclamazione, in data 31 luglio, è indicativa:
In data 6 luglio e 16 luglio questa segreteria provvide a spedirLe cinque dattiloscritti di lavori concorrenti al Premio Riccione. Non abbiamo a tutt’oggi avuto un cenno Suo di ricevuta e questo ci preoccupa non
poco. Solo Zavattini e la signora Aleramo unitamente a Corrado Alvaro ci risultano impegnati nella
lettura dei lavori. Ci urge conoscere se Lei ha letto o meno i lavori, se dobbiamo spedirgliene altri, se possiamo
contare sulla Sua presenza a Riccione. Abbiamo stabilito che i componenti la Commissione venga [sic]
ospite a Riccione dal giorno 13 agosto a tutto il giorno 17 dello stesso mese. Lei potrà venire? Attendiamo una cortese e pronta risposta a questi interrogativi, anche per saperci regolare in caso di Sua
rinuncia.
La storia si volge al tragicomico. Cosa sarebbe accaduto al Premio, a questo punto, con una
collezione di rifiuti? Si noti soltanto l’astuzia bignamesca di affermare come Alvaro stesse collaborando in pieno con Zavattini e l’Aleramo, non volendo forse dare il via a una diserzione di massa
con l’annuncio dello sganciamento presidenziale, adesso che il segretario ha «i giorni contati per
condurre felicemente in porto la barca del premio Riccione»86. Consuntivo: a due settimane dal
traguardo i nomi effettivi dei giurati sono ancora in un limbo, il destino dei dattiloscritti incertissimo (sono stati letti, recensiti...?), e la presidenza ha cambiato d’indirizzo.
Di più: Zavattini, a causa di «un periodo di lavoro eccezionale che potrebbe vietargli di fare
quello che desidera» mette le mani avanti su una sua possibile assenza in loco («Le assicuro che
farò quanto posso per poter venire secondo le sue date a Riccione») pur augurandosi come «tutti i
sei giudici vengano a Riccione in tempo per poter discutere esaurientemente tra di loro». Nonostante la mole di lavoro (cinematografico) sulla sua scrivania – si sta scrivendo la sceneggiatura di
Ladri di biciclette, e di altri lavori – , Zavattini rimarca il chiaro impegno personale verso il premio:
«Per leggere i dattiloscritti, come Le ho detto, ho dovuto rubare le ore al sonno. Non Le dico questo
per vantare il mio modesto contributo al premio Riccione ma per giustificarmi anzitempo di un
eventuale ritardo nella mia venuta a Riccione». Sottolinea anzi, con forza, l’importanza seminale
del premio stesso, una occasione da non lasciar altrimenti cadere:
Di questo premio abbiamo il dovere di fare qualcosa di duraturo e di eminente, certamente sapremo
potenziarlo per gli anni venturi, troveremo nuovi modi per propagandarlo; ma tutto è possibile soltanto a condizione che il primo motivo della sua rinomanza il premio lo trovi nella esattezza, nella sua
onestà della sua organizzazione.
86
Lettera di Cesare Zavattini a Paolo Bignami, 31 luglio 1947. In APR.
68
L’onore (l’onere?) della presidenza è cavallerescamente ceduto:
Mi sono permesso di proporre la Signor [sic] Aleramo per la presidenza in quanto è di noi la più
illustre e la più anziana. La ringrazio tuttavia, caro Bignami, di aver pensato a me: non è più necessario che io mi dilunghi sulle ragioni del rifiuto. Ho letto tutti i manoscritti ricevuti. Altrettanto la signora Aleramo. A lume di naso, spero che due o tre dattiloscritti non comuni, sui quali battagliare tra noi,
ci saranno sicuramente.
Al pari di Ruggi, eloquentissimo con Bignami su pregi e (principalmente) difetti di questo premio inaugurale, Zavattini offre consigli concreti all’inesperto organizzatore:
Si ricordi che il verdetto della giuria dovrà praticamente essere emesso non oltre il giorno 14 per poter
avvisare il vincitore. Questo gioverà anche alle non trascurabili ragioni «cura e soggiorno» della vostra iniziativa. Ha telegrafato a Piovene? Conosco i miei polli e so che un telegramma li costringerebbe
a decisioni inequivocabili. È necessario che almeno cinque giudici si trovino sul luogo del delitto dal
giorno 10-11 al giorno dell’assegnazione. Per l’anno venturo studieremo cose tali da gareggiare onorevolmente con il quasi antico premio Viareggio.
Grazie e cordiali saluti dal suo
Zavattini.
Chissà se voglie omicide possedessero Bignami al pensiero di questi commissari lenti, riottosi,
taciturni, svogliati. Purtroppo, su tale «luogo del delitto» si sarebbe prematuramente ucciso il Premio letterario, con una pila d’assenze, e non qualche giudice che se lo sarebbe a questo punto
meritato.
Agli sgoccioli del concorso, in data 3 agosto, il segretario scrive ancora a Zavattini, suo unico
referente certo, una letterina ch’è tutta un programma:
Caro Zavattini, ho letto con piacere la Sua ultima lettera e trovo giustissime le Sue osservazioni, e le
Sue apprensioni che pure sono da me condivise. M.Luzi, E.Vittorini, G.Piovene, R. Bilenchi hanno
tutti avuto in lettura i dattiloscritti ma solamente ieri e da Luzi ho ricevuto la resa di due dei dattiloscritti inviati e senza alcun cenno di accompagnamento. Perciò a tutt’oggi io non so se i suddetti signori
siano vivi o morti. Oggi stesso farò tanti telegrammi come Lei suggerisce e che si aggiungeranno agli infiniti
espressi che ho già inviato. Resta fermo il Suo arrivo e quello della Signora Aleramo per il 10 a Riccione.
In questo frattempo la terrò sempre informato.
Incrociandosi nella stessa data è la lettera speditagli dall’Aleramo, la quale lo tiene al corrente, ora in
veste di presidentessa, dei progressi fatti con la lettura e lo ringrazia dell’«onorevole nomina».
87
Da Firenze, il 1 agosto 1947 (in una lettera che senz’altro Bignami ricevette dopo il 3), Bilenchi si era giustificato
del silenzio, d’altronde attribuito a viaggi fuori-porta («Io risposi regolarmente alla vostra lettera del 6 luglio;
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Gent.mo Bignami, ho ricevuto la sua del 29 luglio, e anche i tre dattiloscritti (Onofri, Varini, Persichetti), che ho già letti e passati a Zavattini, dal quale ho avuto in cambio gli ultimi da lui spediti da costà.
Oltre a questi, mi restano da leggere quelli dati da Zavattini ad Alvaro: speriamo che Alvaro rientri a
Roma prima della mia partenza!! Sono letteralmente massacrata da tutte queste letture, con questo
caldo feroce! E penso con spavento agli altri otto lavori che Lei mi farà trovare al mio arrivo! Attendo
il biglietto per l’autopulmann, anche per sapere la società di trasporto dalla quale dovrò informarmi
dell’orario ecc. Zavattini mi ha informata del colloquio telefonico con Lei, sono grata ma anche preoccupata per l’onorevole nomina a Presidente della Giuria! Speriamo che tutto si svolga con generale
soddisfazione. A presto dunque, molto cordialmente,
Sibilla Aleramo.
Venendo, porterò con me tutti i dattiloscritti giunti a Zavattini e a me.
Due giorni dopo la lettera a Zavattini sugli «infiniti espressi» mandati e da mandare, quasi al
limite della disperazione e per necessità questa volta di tipo anche organizzativo la caccia ai morosi fatta da Bignami si spinge addirittura fin sulle soglie parentali o di lavoro, per avere notizie: e nel
caso dei fiorentini Bilenchi e Luzi come corretto corollario dell’affermazione sconfortante «a tutt’oggi io non so se i suddetti signori siano vivi o morti». A Luzi, infatti, Bignami scrive in data 5
agosto:
Non avendo ancora ricevuto risposta alle mie lettere mi sono rivolto a Romano Bilenchi [presso “Il Nuovo
Corriere”, ndr.] il quale mi ha suggerito di scrivere all’indirizzo dei Suoi genitori87. La sono ancora a pregare
di confermarmi il Suo arrivo a Riccione il 13 agosto, e sapermi dire se ha letto i 5 dattiloscritti che Le ho inviato
in data 6 e 16 luglio u.s.
Non c’è traccia di una risposta luziana negli archivi riccionesi; ma da Firenze le cattive notizie fioccano puntuali in data 8 agosto con la rinuncia inaspettata di Bilenchi:
non ho risposto a quella del 16, perchè ero fuori Firenze in villeggiatura. Tornato oggi, vi assicuro che io ho
letto tutti e cinque i dattiloscritti inviatimi, tre dei quali mi sono stati rispediti in villeggiatura»). Le smanie
della villeggiatura, comunque, non avevano colto solo lo scrittore-giornalista, in quanto Luzi stesso si trovava
in questo periodo al mare, sulla costa tirrenica, complicando le comunicazioni e gli scambi dell’opere da leggere:
«Non posso ritirare dal mio amico Mario Luzi i dattiloscritti che lui ha letto, per la semplice ragione che Luzi
si trova fuori Firenze, vicino a Viareggio. Vi avverto di non scrivergli più presso «Società», ma all’indirizzo di
Via Condotta 10, Firenze, che è quello dei suoi genitori. Dato che è impossibile scambiare dattiloscritti tra me
e Luzzi [sic], vi rimando senz’altro quelli che io ho già letto. Comunicherò poi a Luzi le mie osservazioni.»
Almeno, la buona notizia data era la certezza della partecipazione a Riccione: «È certo che io sarò a Riccione
dal 13 al 17. Cordiali saluti. Bilenchi. P.S. - Spedite pure altri manoscritti, ma non posso prendermi l’impegno
di passarli a Luzi.» Bignami scriverà poi a Bilenchi il 5 agosto: «Ho avuto ieri la Sua cortese lettera e La ringrazio
per la comunicazione circa la Sua permanenza a Riccione dal 13 al 17 agosto. Ho ricevuto i 5 dattiloscritti che
Lei ha rimandato ed oggi stesso ho provveduto a spedirLe i seguenti: Il sentiero dei nidi di ragno/ I pellegrini del
deserto. Grazie per quanto si riferisce a Luzi al quale scrivo oggi stesso. In attesa e con molti cordiali saluti.» In
APR.
70
Sono spiacente di dovervi comunicare che, per l’improvvisa malattia di due redattori, mi è impossibile
essere a Riccione dal 13 al 17 corr. So di compiere verso di voi una scortesia, ma la colpa non è mia, tanto
che sono disposto a... inviarvi i certificati medici dei miei due redattori. Appena letti gli ultimi manoscritti
inviatimi, ve li ritornerò. Parlerò con Mario Luzi e dirò a lui quello che penso sui lavori letti, in modo che, sia pure
indirettamente, sarò presente costà. Vi prego di scusarmi e vi saluto cordialmente.
Cattiva notizia, questa, stemperata almeno dalla certezza finale che Luzi farà l’onore della visita e
sarà il portavoce dell’amico.
Elio Vittorini, bontà sua, scrive a Bignami dal suo rifugio sarzanese «punto privato del mondo,
lontano dalle linee ferroviarie e dalle strade nazionali» il 5 agosto. L’epistola accenna a un solo «minimo» gradimento (del romanzo di Sergio Frosali, Ettore), ma non dà «giudizi dettagliati sui singoli libri»
(come si premura di chiedere in una noticina apposta accanto alla data):
Caro Paolo Bignami, [occorre che dia dei giudizi dettagliati sui singoli libri?] ho rispedito i cinque dattiloscritti avuti finora: tre in un primo tempo, due oggi. Il ritardo viene dal fatto che mi trovo da una quindicina di giorni in questo punto privato del mondo, lontano dalle linee ferroviarie e dalle strade nazionali.
Questa stessa è la ragione per cui vi prego di esentarmi dall’obbligo di presenziare a Riccione. Dovrei fare
20 chilometri a piedi per l’andata e 20 idem per il ritorno. Ma vorrei subito vedere gli altri dattiloscritti. Dei
cinque finora esaminati uno solo (Ettore) mi sembra degno d’un minimo di considerazione. Appena avrò
veduto il resto darò il mio voto per telegramma. Cari saluti,
Elio Vittorini.
Con la sua condizionale accettazione di partecipare al premio “a distanza”, come espresso immediatamente nella prima lettera alla Segreteria, lo scrittore si era messo al sicuro da viaggi travagliati (di
chilometri e chilometri) e da visite sui lungomari adriatici (non molto in voga, sembrerebbe, tra questi
scrittori: Alvaro, Montale, Luzi, Vittorini preferiscono la sabbia tirrenica o i sassi liguri alle verzure della
«Costa del Sole»). Non solo: al 5 agosto, a meno di undici giorni dalla necessaria proclamazione d’un
vincitore, Vittorini ha solo letto 5 scartafacci (il tutto giustificato, sembrerebbe, dalla mancanza di vie di
comunicazione nella zona di Bocca di Magra e Sarzana e, si può presumere, di uffici postali a portata di
mano) (Disdetta: che il telegramma inviato poi il 16 agosto, quasi alla chiusura del Premio, con il “suo”
nome del vincitore, gli sia costato una scarpinata incredibile?)
A ridosso della settimana conclusiva si presenta così la non confortante guerra dei comunicati.
Fin qui la via crucis di Bignami (e in subordine, del Premio), raccontata dai documenti riccionesi88.
88
Di tutt’altro tenore la corrispondenza che si legge tra Bignami e il feroce Ruggi, che a quanto pare aveva
domato i propri collaboratori. Così il presidente della commissione dramma scrive al segretario: «26 luglio.
Ritengo che saranno indispensabili almeno quattro giorni [per la discussione in loco, ndr.] perchè senza la
presenza contemporanea e continuativa di tutti i giudici, non è possibile raggiungere con serietà un pratico
71
Il Diario edito dell’Aleramo arriva in soccorso per i giorni tra il 3 e il 16 agosto, facendo da
complemento, integrazione e approfondimento a quanto cognito con le ricerche d’archivio89. L’annotazione con cui s’apre il resoconto del Premio è dedicata quasi interamente al romanzo di Onofri
(di cui, si ricordi, l’Aleramo aveva richiesto direttamente copia il 29 luglio).
Morte nella borgata90, di Fabrizio Onofri, che ho terminato di leggere un’ora fa, è certamente di gran
lunga superiore a tutti gli altri dattiloscritti concorrenti che ho letto (già undici, me ne mancano quindici, sette sono qui e otto mi aspettano a Riccione, spavento!). Non so cosa ne penserà Zavattini, al
quale lo passerò domani. Non è un capolavoro, ma ha una grande vitalità, di linguaggio, di fede, di
passione dominata. Sono contenta che sia stato scritto da un giovane del mio partito, nello stesso
tempo un poco mi rincresce perchè temo che votando in suo favore si abbia a pensare che il mio
giudizio sia inquinato da spirito di parte. È vero che nella giuria saremo quattro comunisti (Vittorini,
Bilenchi, Luzi, oltre a me) e due soli indipendenti (Zavattini e Piovene). Vedremo. Fabrizio è il figliolo
89
90
risultato. [...] Taluni anche vi domanderanno, suppongo, un anticipo di spese di viaggio, cosa che d’altronde è
troppo giusta dato il costo attuale degli spostamenti». Quattro giorni dopo, si notano addirittura «seconde
letture»: «30 luglio. I commissari stanno facendo le seconde letture, tutto procede bene» (Basterebbe confrontare
questa lettera con quella scorata di Bignami a Zavattini del 28, per toccare con mano la differenza
d’organizzazione e di impegno che la sezione dramma suscitò, grazie alla consistente opera di Ruggi.) Non
solo: la strategia promozionale del Premio s’informa sul Viareggio, per una serata di proclamazioni che abbiano
gli autori schierati sul palco. La missiva del 2 agosto a Bignami è alquanto informativa: «[...] In linea massima
credo che tutti verranno, ad eccezione forse di Pandolfi che non si è fatto mai vivo e che tuttora non ha mai
letto copioni, tantochè anzi sto disponendo perchè i copioni a lui riservati tuttora in deposito [...] vengano
distribuiti agli altri pure residenti a Milano. [...] La maggior parte dei Commissari hanno lavorato
coscienziosamente, sotto la guida e quotidiano rincalzo del mio ufficio di Milano. Ho già l’indicazione dei
preferiti da ciascuno, in modo che la cerchia comincia a stringersi con un fortissimo scarto da parte di tutti, ciò
che renderà meno gravoso il lavoro comunque assai assorbente e impegnativo degli ultimi giorni. Occorrerà
anzi che in via segreta la Commissione abbia già stabilito qual’è il lavoro vincitore, il giorno 14 o al più tardi il
giorno 15, se si vuole avere presente il vincitore la sera del 16, come credo accada a Viareggio. I Commissari che
ritengo interverranno saranno Zorzi, Palmieri, Ferrata e Banfi, oltre me s’intende. Quanto a Ruggeri, non
formalizzatevi se risponderà no [...] cercherò di indurlo a partecipare. In questo caso però bisognerebbe mettergli
a disposizione una macchina ed invitare anche la moglie che sempre lo accompagna. Certo la sua presenza
darebbe un notevole rilievo alla festa.» In APR.
Ringraziamo l’editore Feltrinelli per il permesso a riprodurre integralmente le voci diaristiche già edite in S.
ALERAMO, Diario di una donna. Inediti 1946-1960, a c. di Alba Morino, Milano, Feltrinelli, 1978. Notizie del
Diario dell’Aleramo in merito al Premio erano già state date da P.V. TONDELLI, Cabine! Cabine! Immagini letterarie
di Riccione e della riviera adriatica, in AA.VV. Ricordando fascinosa Riccione. Personaggi, spettacolo, mode e cultura di
una capitale balneare, a c. di G. Capitta e R. Duiz, Bologna, Grafis Edizioni, 1990 (che conteneva anche la
riproduzione della voce inedita del 9 agosto 1947). Il saggio di Tondelli è riprodotto ora in AA.VV., Pier Vittorio
Tondelli. Riccione e la Riviera vent’anni dopo, a c. di Fulvio Panzeri, Guaraldi, Rimini, 2005 e da A. DINI, Calvino
al Premio Riccione 1947, «Paragone-Letteratura», XLIV, N.S. 524-526, ottobre-dicembre 1993, pp. 33-59. Un altro
appunto inedito, del 13 agosto 1947, recuperato da Tondelli, era stato usato per la copertina di AA.VV., Il
destino della scena. La drammaturgia italiana e il Premio Riccione, cit.
Il titolo del romanzo di Onofri, tuttavia, secondo anche le annotazioni sui fogli volanti di spedizione, è Morte in
piazza. Si tratta certo di una svista dell’Aleramo (qualora non si possa ipotizzare una discrepanza tra il titolo
inviato e quello indicato sul manoscritto, ma non parrebbe il caso).
72
maggiore del mio indimenticabile Arturo; e l’ho conosciuto bambino. Ora è il capo dell’Agit-Prop. Il
suo primo libro, di qualche anno fa, non m’era piaciuto. Attacco subito la lettura di un altro scartafaccio.
Qualche calcolo, noioso ma indispensabile. Undici dattiloscritti letti al 3 agosto, con sette da
completare entro la partenza per Riccione dell’1191, con un ritmo da tenere di all’incirca uno al
giorno (di riletture, neanche a parlarne). Durante la permanenza a Riccione, invece, dall’11-12 al 16
(data della proclamazione), i dattiloscritti in lettura diventavano otto, una coppia al giorno, il che
avrebbe reso possibile solo una lettura assai sintetica e, si può dire, non certo molto ponderata.
Cattivi auspici sembravano poi accogliere l’Aleramo a Riccione. Un viaggio «piuttosto rovinoso» passato «in autopullman» lungo i muraglioni e le curve a gomito dell’Appennino («dieci ore su
una strada a continue curve- non m’è venuto il mal di mare nelle sue estreme conseguenze solo per
un miracolo della volontà di fronteggiarlo»); le letture da compiere per il premio che di lì a poco lei
stessa avrebbe tenuto a battesimo (desolatamente indicate come un «assillo»)92; la prospettiva di
discussioni sulla scarsa qualità di molte opere, una votazione da affrontare e, infine, «un mal di
capo e uno stordimento fastidiosissimi» durati «per ventiquattro ore», retaggio dell’ottovolante in
pullman. Una lista nutrita di segnali negativi, assieme alla malinconia del settantunesimo compleanno, da compiersi il 14. Dall’arrivo al 13 agosto, in queste condizioni penose, l’Aleramo si legge
ben cinque scartafacci: cinque in due giorni ma, come essa afferma, «in verità uno solo e attentamente: Il sentiero dei nidi di ragno, di Italo Calvino, un giornalista comunista che non conosco, libro
molto singolare, che io e Zavattini siamo decisi a far entrare in gara con soli altri due o tre, e che si
potrebbe premiare ex aequo con quello di Fabrizio Onofri)». I giochi sembrano già fatti anche
senza i restanti dattiloscritti.
Arrivata a Riccione in compagnia di Zavattini – ch’è riuscito a prendersi la meritata vacanza – ,
la coppia non incontra altri giudici della commissione per il romanzo, attesi tra il 13 e il 17; il loro
soggiorno anticipato è un garbo che l’amministrazione concede ai due più solerti lettori (anche se
si mangia la promessa di un giorno, il 10). Il 13 è il primo contatto con un solo altro commissario,
Mario Luzi, sebbene «se ne aspettino due per oggi» e già si sappia come «gli altri due (Vittorini e
Bilenchi) pare non verranno» con disappunto profondo della presidentessa: «peccato eran proprio
quelli con cui più desideravo incontrarmi»93. Il 14 agosto, annota l’Aleramo, poco si muove nel91
92
93
«[Roma] 9 agosto, pomeriggio sabato Il biglietto è arrivato stamane, ma soltanto per lunedì [11 agosto, ndr.], e
tanto io quanto Zavattini, col quale viaggerò, siamo indignati per questo indugio, non sappiamo come faremo
in così pochi giorni a sbrigare il lavoro con gli altri giudici a deliberare il premio (sabato prossimo,16!)[...]», in
P.V. TONDELLI, Cabine! Cabine! Immagini letterarie di Riccione e della riviera adriatica, cit.
L’autografo contiene la parola «assillo» e non, erroneamente come trascritto nella versione a stampa, «abisso».
«[13 agosto?] Noi della Giuria siamo interamente “spesati”, e data la gran fatica della lettura possiam dire, io
e Zavattini almeno, di meritarcelo. Gli altri giudici non sono ancora arrivati, se ne aspettano due per oggi, e gli
altri due (Vittorini e Bilenchi) pare non verranno, peccato eran proprio quelli con cui più desideravo incontrarmi.
73
l’aria (eccetto spiagge brulicanti o infuocate e la consapevolezza di avere un anno in più, di addentrarsi nella vecchiaia); del Premio, poco si fa, visto che «agli altri nostri commensali, che per ora
sono unicamente Mario Luzi e Ferdinando Palmieri [...] s’aggiungerà» ma solo «stasera Guido
Piovene con sua madre». Non rimangono che tre giorni per le riunioni e per deliberare la vincita.
Dato l’arrivo di Piovene la sera del 14, le giornate di discussione con la giuria azzoppata si restringono effettivamente a due, col sospetto, fondatissimo, che ci fosse poco da discutere (e per l’apatia
degli altri commissari, di cui l’Aleramo non riporta le opinioni – come se non ci fossero state-, e per
la qualità sconcertatamente bassa delle opere spedite al concorso). L’Aleramo, però, coscienziosa,
riporta la continua lettura, che s’intrufola nei riposi previsti, ma non avuti, del Ferragosto:
[...] Letti ancora altri due manoscritti, ma ora finalmente la fatica è terminata. Stasera ultima votazione
fra i quattro giudici e votazione. Io come presidente ho diritto a due voti, e farò pendere la bilancia a
favore di Fabrizio Onofri, il quale tuttavia dovrà dividere il premio con un altro giovane scrittore,
anch’egli comunista, Italo Calvino, autore di Il sentiero dei nidi di ragno, libro che non è neppur esso un
capolavoro, ma è indubbiamente assieme a quello di Onofri quanto di meno peggio è stato mandato
al concorso...
La paternità del risultato del concorso se la rivendica lei direttamente, dalla pagina conclusiva
sul Premio:
16 agosto, mattino
Tre voti favorevoli e uno contrario alla premiazione ex aequo di Onofri e Calvino: il contrario è stato
quello di Zavattini, il quale patrocinava il libro di un certo Luigi Squarzina, che invece non è affatto
piaciuto né a me né a Piovene né a Luzi. Stamane stenderemo tutti quattro assieme la breve relazione,
che stasera a mezzanotte leggerò al pubblico. Abbiamo deliberato di far alcune “segnalazioni”, e fra
esse quella del libro di Eva Quajotto, che speriamo possa trovare così un editore. Una volta di più ho
verificato il fenomeno della disparità e incertezza di giudizio letterario fra gente d’uguale cultura.
Parte con insistenza, in questi giorni, la campagna-stampa montata da Bignami basata sulla
suspence (presunta) per la scoperta dei talenti premiati, che avviene con l’orchestrazione delle notizie del Premio ai giornali (tutto sommato poco ricettivi, perchè pubblicano solo dei trafiletti vari).
Tra «ermetici salotti» volti alla congiura del silenzio, a sessioni concentrate e quanto pare lunghis-
Per domani sera o al più tardi venerdì mattina bisognerà deliberare per mandare in tempo il risultato ai giornali.
Sabato a mezzanotte, festa della Premiazione, in un gran Dancing, al prezzo d’ingresso di mille lire. Dal ricavo
verrà fuori non solo il mezzo milione per i due premi (letterario e teatrale) ma anche un fondo per l’anno
venturo». Questa voce dal diario (inedito) dell’Aleramo è stata riprodotta a copertina del volume Il destino della
scena. La drammaturgia italiana e il Premio Riccione, cit.
74
sime (coi commissari che «quasi in permanenza risiedono al Palazzo del Turismo», visto «l’immane lavoro che in queste ultime ore è piovuto loro addosso»), esce l’eroico ritratto della resistenza di
giurati indefessi pronti al sacrificio della salute in nome dell’Inedito scoperto. (Ben dunque aveva
fatto Alvaro, dalla malferma salute, a ritirarsi e a privilegiare i tomi già editi, e rilegati, del più
riposante Viareggio.)
Il 16 conosceremo i vincitori dei premi letterari «Riccione 1947».
Riccione 12 agosto.
Continuano a giungere a Riccione personalità del mondo artistico e letterario italiano per la solenne
assegnazione del Premio Riccione 1947. [...] Il segreto più assoluto avvolge i lavori delle due commissioni e prima della sera del 16 nessuna notizia trapelerà dagli ermetici salotti nei quali hanno luogo ogni giorno
scambi di vedute e giudizi sui lavori in esame. Sembra da una voce raccolta sabato sera e tutt’altro che
confermata che vi siano grosse sorprese nel campo del teatro [corsivi nostri]94.
Sorprese preannunciate al «Premio Riccione 1947». L’on. Terracini presenzierà la cerimonia.
Riccione 14 agosto.
Le commissioni giudicatrici del Premio Nazionale Riccione hanno concluso nella tarda nottata i loro
lavori. Nessun comunicato è stato però ancora diramato. Tutto lascia prevedere un grande successo
della serata al notturno Savioli in occasione della premiazione e in onore dei vincitori dei premi. Si dà
per certa la presenza del Presidente dell’Assemblea Costituente on. Terracini. Da quanto si è potuto
apprendere in via confidenziale in queste ultime ore sembra che tanto nel campo letterario quanto in quello
teatrale si avranno grosse sorprese. Un illustre critico teatrale membro della commissione avrebbe confermato ieri sera che col Premio Riccione il Teatro italiano ha rotto col passato e si è avviato con nuove
forme incontro a sicure acermazioni [sic]. Una alta personalità del mondo teatrale da noi avvicinata
ha testualmente risposto: «Da tempo non si era avuto un concorso così ricco di promesse»95.
MEZZO MILIONE DI PREMI IN LIZZA A RICCIONE
Sono arrivati, nella giornata di ieri [13 agosto, mercoledì, ndr.], i giudici delle due commissioni che
dovranno designare i vincitori dei grandi concorsi letterario e drammatico che il Comune e l’Azienda
di Soggiorno di Riccione hanno a suo tempo bandito tra gli scrittori italiani. Come è noto il “Premio
nazionale Riccione” sarà assegnato ad un lavoro drammatico di almeno tre atti, di qualsiasi tecnica o
tendenza, in lingua italiana, non ancora rappresentato: trecentomila lire sono l’importo di questo premio, mentre duecentomila saranno assegnate al vincitore del concorso per un romanzo. L’opera che
concorre a questo secondo premio deve, secondo il bando di concorso, avere contenuto sociale. Si sa
94
95
Il 16 conosceremo i vincitori dei premi letterari «Riccione 1947», in «Il Progresso d’Italia», n. 223, 13 agosto 1947.
Sorprese annunciate al Premio Riccione 1947 in «Il Progresso d’Italia», 15 agosto 1947.
75
già che al concorso drammatico partecipano 217 scrittori, mentre ventisette prendono parte a quello
per un romanzo. Le commissioni di lettura delle opere sono così formate: concorso drammatico: Lorenzo Ruggi; Guglielmo Zorzi; Ruggero Ruggeri; E.F.Palmieri; Giansiro Ferrata; Banfi; Pandolfi. Concorso per un romanzo: Sibilla Aleramo, Corrado Alvaro, Guido Piovene, Mario Luzi, Romano Bilenchi, Elio Vittorini. Segretario del Premio è Paolo Bignami. Gli ultimi arrivi dei commissari sono attesi
per stasera: oggi sono stati visti dal pubblico di Riccione, ed immediatamente riconosciuti, ad un
tavolo di Zanarini, la poetessa Sibilla Aleramo, giovanile e sorridente, l’umorista Zavattini indaffarato a polemizzare di copioni e d’arte, Zorzi e Palmieri che stavano discutendo sulla loro reciproca
origine veneta, Luzi serafico e calmissimo nonostante l’immane lavoro che in queste ultime ore è piovuto
addosso ai commissari che quasi in permanenza risiedono nel palazzo del Turismo. La proclamazione dei
vincitori avverrà durante una gran festa che avrà luogo nella notte di sabato sedici corrente al dancing
Savioli [corsivo nostro].96
A ridosso della premiazione, questo è il tono dei comunicati disseminati da Bignami, che sottolinea la (voluta) “eccezionalità” di un evento che negli stessi giorni del Viareggio ambisce ad essergli legato, per possibile nuova fama, dal versante adriatico:
Alla mezzanotte del 16 agosto verranno proclamati i vincitori dei due premi letterari Riccione 1947
con solenne cerimonia in occasione del ballo di gala della stagione. Ha partecipato al Concorso un
grandissimo numero di scrittori noti ed ignoti. Alla stessa entità cospicua del premio che è di mezzo
milione (300.000 commedia inedita, 200.000 per un romanzo) già imprime un carattere di eccezionale
importanza a questo nuovo premio letterario nazionale che sulla spiaggia adriatica rappresenta quello che per la
tirrenica fu da tempo istituito a Viareggio. Il nuovo premio infine ha la particolare finalità di mettere in
luce un commediografo. Importanti dichiarazioni saranno fatte sulla possibile rappresentatività del
lavoro premiato e degli altri eventualmente messi in luce dal concorso [corsivo nostro].97
Nessun svago da spiaggia, per i nostri giurati. Solo la mondanità dell’evento finale, accresciuta
dall’arrivo di Terracini e signora, i quali riusciranno a stimolare le fantasie dei cronisti raccolti in
Romagna per assistere al lieto evento del Premio. Ed è nell’«incantevole giardino» del Savioli, in
una «bella serata» di festeggiamenti e di cultura, «di gala e di spirituale godimento», che prende la
parola il sindaco Quondamatteo per salutare, attraverso il battesimo del Premio, teste il presidente
dell’Assemblea Costituente, il «processo di ricostruzione materiale e morale della nostra Italia».
Riccione balza in un sol colpo alla luce ed al calore dell’arte e dell’intelligenza nazionali. Accanto ai
suoi pregi balneari e mondani, che ne fanno una delle migliori spiagge d’Europa, la “Perla Verde
dell’Adriatico” pone questa sera un alto pregio artistico. Non più soltanto grande spiaggia di moda,
96
97
Bozza d’articolo non datata o firmata, in APR.
Ressa di concorrenti al Premio Nazionale Riccione in «Giornale dell’Emilia», Bologna, 13 agosto 1947.
76
ma nuova culla preziosa di preziosissime creature, care alle grandi tradizioni dello spirito e della
intelligenza italiani98.
All’interno degli sforzi dell’amministrazione per porre la città, le sue bellezze, la sua vocazione
non solo balneare a far parte della «rinascita artistica e spirituale» dell’Italia cui essa appartiene, il
fatto stesso che si sia raggiunta l’istituzione del Premio segna una prima vittoria:
una vittoria notevole segnano la stessa istituzione del premio, il fermo intendimento nostro di migliorarlo e nell’organizzazione e nell’ammontare [...], il lavoro difficile, sincero e gioioso dei commissari
che – me lo si permetta- nella loro chiara fama nazionale ed internazionale nel campo della letteratura
e del teatro, ci onorano questa sera della loro presenza, onorando in senso più lato la rinascita artistica
e spirituale della nostra Italia. [...]possiamo senz’altro affermare con orgoglio che il «premio Nazionale Riccione» è nato vivo e vitale e ciò costituisce la più ambita ricompensa per chi ha voluto ed ha
lavorato appassionatamente alla creazione del Premio stesso, per la dura fatica dei commissari, per
l’aspettazione [sic] della critica99.
Rimane fermo il giudizio da affidarsi alla storia («Il tempo dirà se questa serata avrà segnato
l’inizio fortunato di un nuovo ciclo nel campo del teatro italiano, e, in misura minore, in quello
della letteratura»), e già in questo contesto il premio letterario viene considerato quasi ancillare al
teatrale. Compiutosi il rituale d’introduzione e la prima lettura della giuria del dramma, che laurea «Emmelina» (fortemente voluta da Ferrata, coadiuvato da Palmieri) di Salvo dall’Armi (ma è
uno pseudonimo per una scrittrice timidissima, venuta a Riccione ma che non si fa vedere al Premio, Midi Mannocci), ecco prendere posto, per l’annuncio della palma letteraria, la presidentessa
della commissione-romanzo, Sibilla Aleramo.
L’itinerario accidentato del Premio sta finalmente per concludersi.
Non senza un piccolo colpo di coda: alla lettura pubblica del verbale per il romanzo, al contrario di quello osannante per la sezione del dramma (che aveva trionfato per le «qualità artistiche e
teatrali veramente superiori alle previsioni» delle opere spedite), l’esordio di quest’altra giuria è
poco incoraggiante:
La giuria del Premio Nazionale Riccione per un romanzo, presieduta da Sibilla Aleramo e presenti i
seguenti giudici: Mario Luzi, Guido Piovene, Cesare Zavattini, esaminati i ventotto manoscritti concorrenti non ha potuto riscontrare in nessuno di essi qualità artistiche tali da suscitare il suo deciso
consenso.
98
99
Discorso di Gianni Quondamatteo per l’inaugurazione del Premio Riccione, 16 agosto 1947, Archivio eredi Gianni
Quondamatteo , di cui una copia è conservata in APR.
Ibidem
77
Il battesimo del Premio non poteva però andare a vuoto, nonostante la sfilata di bruttezze passata sotto i pur distratti occhi dei commissari. Che, dal canto loro, addossavano in parte le mediocrità proposte al bando del concorso:
Nello stesso tempo rileva l’interpretazione limitata data al “contenuto sociale” imposto dal bando, e
si permette di consigliare al comitato promotore di togliere per gli anni venturi una clausola che può,
generando un equivoco sulle finalità del concorso, avere tenuto lontani molti concorrenti.
Un terzo delle opere meritavano però una segnalazione, se non altro per sottolineare l’impegno
diretto degli scrittori a narrare storie del quotidiano d’oggi e di ieri, appuntate tutte sul “sociale”,
sull’esigenza di rappresentare le passioni delle «recenti vicende» della recente storia italiana:
Fatte queste riserve, la giuria ha però constatato che un terzo delle opere sottoposte al suo esame
erano degne di considerazione per la commossa partecipazione dimostrata dai concorrenti alle recenti vicende della nostra vita nazionale, e segnala: “Col vento e contro il vento” di Masino Arcamone,
“Una storia eguale alle altre” di Bianca Bottelli, “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino, “Un
giorno prima” di Giuseppe della Michelina, “Ettore” di Sergio Frosali, “Morte in piazza” di Fabrizio
Onofri, “Il podere sulla linea gotica” di Luigi Pasquini, “Delfina” di Eva Quajotto, “La casa del Bruscone” di Franco Spinelli, “Quelli a cui importa” di Luigi Squarzina.
Compromesso utilitaristico – per non rovinare il battesimo del concorso – la decisione di procedere a un paio di riconoscimenti speciali, svincolandosi dal bando che dettava l’indivisibilità del
compenso (ma sventando la possibilità ultima di un premio senza vincitore):
Emergono tra questi per migliori qualità letterarie i romanzi di Italo Calvino e di Fabrizio Onofri, tra
i quali la giuria ha deliberato di dividere ex-aequo il premio.
A coronamento delle difficoltà e dei contrasti che avevano marcato il Riccione, propostosi ambiziosamente come corrispettivo adriatico (ma per gli inediti) del Premio Viareggio100, l’ultima delu-
100
I commenti della stampa che legarono Riccione a Viareggio, grazie anche alle (non fortuite) coincidenze di
date, ci furono subito: «Mentre a Viareggio veniva aggiudicato il premio omonimo a «Lettere dal carcere» di
Gramsci, a Riccione la stessa notte del 16 agosto si concludevano i lavori delle Commissioni, che hanno assegnato
il premio a Salvo Dell’Armi (sembra trattarsi di una donna) per la commedia e ad Italo Calvino e Fabrizio
Onofri, ex-aequo, per il romanzo. Riccione ha in tale modo dato inizio a una tradizione passibile dei maggiori
sviluppi, attrazione di prim’ordine negli anni a venire, tanto più apprezzabile in tempi caratterizzati dal più
sfacciato, banale, esibizionistico e plateale materialismo.Le grandi firme, per questo debutto, sono mancate
perchè polarizzate tuttora dall’ormai famoso torneo viareggino, nel quale il premio è stato assegnato all’opera
postuma di Antonio Gramsci, abbiamo detto, a giusto riconoscimento del suo alto valore ideale e umanistico,
con particolari segnalazioni per la Bellonci, Moravia, Pea, etc.
78
sione della serata: i vincitori non erano presenti a ritirare il Premio, deludendo le attese del pubblico e sabotando, almeno un poco, l’aria di mondanità dell’evento.
Fin qui l’aspetto immediatamente cronachistico del Premio, ricostruito con le integrazioni dei
documenti riccionesi e dei diari della Sibilla. Fin qui il versante noto, cui va dato ordine, e di cui va
tentato un approfondimento indiziario.
In assenza di documenti eloquenti, la mappatura interna della giuria col suo delinearsi di tendenze, giudizi, cordate o contrasti è però destinata a rimanere lacunosa. La ricostruzione tende a
essere parziale perchè completamente filtrata dall’unilateralità di giudizio dell’Aleramo, il cui Diario resta quasi l’unica nostra risorsa per fare luce sui passi finali del Premio. Nella carestia dei dati
non sempre il diario è bastevole, e quasi sempre mancano le contro-testimonianze, le verifiche
dirette, i riscontri coevi che possono svelare il grado di fallibilità della poetessa, quando questa
non si limita a registrare gli aspetti di cronaca e attribuisce opinioni e orientamenti critici101.
Per quanto riguarda gli altri commissari e le critiche da loro espresse al Sentiero e ai restanti
“scartafacci”, poco rimane di scritto102. Non tutti i membri della giuria vengono espressamente
101
102
Nel romanzo, inoltre, è stata scarsa la partecipazione al concorso (appena trenta autori), forse perchè il bando
poneva delle limitazioni, che speriamo nelle prossime edizioni siano eliminate, non solo per dare maggior
risalto e interesse al premio, ma anche perchè, a nostro modesto avviso, l’opera d’arte, il capolavoro, possono
ugualmente sortire da una trama che pur manchi di «contenuto sociale». E qui il discorso sarebbe lungo, se
non esulasse dai fini di una pura e semplice cronaca» (Z. Premio Riccione, in «L’Adriatico. Corriere della riviera
romagnola», Rimini, n. 10, 20 agosto 1947.)
Un caso per tutti, perchè verificato. L’Aleramo attribuisce un preciso orientamento ideologico a Mario Luzi,
sentendoselo accomunato dalla medesima fede politica, quando si prova a fare i conti con la reazione che un
premio a un autore comunista come Onofri susciterebbe: «...temo che votando in suo favore si abbia a temere
che il mio giudizio è inquinato da spirito di parte. È vero che nella giuria saremo quattro comunisti (Vittorini,
Bilenchi, Luzi, oltre a me) e due soli indipendenti (Zavattini e Piovene). Vedremo» (p. 151). Mario Luzi, da noi
interpellato il lontano 22 maggio 1989 nella casa di via Bellariva a Firenze (anche in merito di un appunto
contenente una serie di giudizi sui romanzi del premio, che riconobbe come di suo pugno), smentì decisamente
tale possibilità, attribuendo l’errore (la deduzione) della poetessa al ventaglio ampio di collaborazioni letterarie
con riviste o quotidiani di sinistra e comunisti come «Società», o «Il Nuovo Corriere» o «L’Unità» stessa.
Si riportano qui i giudizi sopravvissuti di Sibilla Aleramo e di Mario Luzi in merito a pochissimi titoli. Gli
appunti, su fogli volanti, sono conservati in APR. «Il grande domani, di Costantino Savonarola (di Bari)/
Mediocrissimo letterariamente, un polpettone che pretende essere il quadro delle varie correnti ideologiche,
dalla fascista alla comunista e alla cristiana, durante la guerra, a Roma e nel Sud» (Aleramo). Di Luzi abbiamo
note su quattro titoli, Sentiero compreso (ma si cfr. l’analisi dell’appunto relativo al Sentiero di Calvino nel testo del
saggio). Riportiamo qui i tre restanti: «Ritrovare se stessi. /Sergio Pirnetti./ Di una banalità assoluta, sballato»; «F.
Spinelli. / La casa del Bruscone. /Impianto tradizionale che avrebbe richiesto ben altro sviluppo per arrivare a
rappresentare e veramente a comunicare»; «Maria Brandon Albini. I pellegrini del deserto./ Quanto mai spurio, nè
il linguaggio nè gli elementi psicologici sono selezionati [?]. C’è qualcosa di trito, di volgare ma è riuscito a interessarmi
per un certo senso di agonia che sa dare alla disfatta francese di cui è la storia». Di alcuni degli scrittori partecipanti
al premio letterario e a quello del dramma rimane il solo giudizio sul copione teatrale, per esempio nel caso di
Wanda Varini o di Luigi Persichetti. Di Costantino Savonarola il caso ce li consegna entrambi. Le pagine battute a
macchina di Guglielmo Zorzi, con la firma autografa, ritraggono opere di valore essenzialmente nullo: «L’approdo,
di Costantino Savonarola: La madre –l’amante- il discepolo- il costruttore –lo scienziato, -ecc.ecc. Basterebbe leggere
i nomi dei personaggi per capire che si tratta del solito componimento fantasioso e sintetico e vasto, metafisico che
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citati nel Diario in merito alle diverse fasi del concorso; la mancanza di documenti integrativi lascia
nell’ombra completa il possibile ruolo svolto da Piovene con le sue preferenze e antipatie (su cui
tace l’Aleramo), riducendolo a giudice muto.
Quanto a Zavattini, invece, il Diario della poetessa è piuttosto chiaro: l’outsider Squarzina, Onofri e Calvino, nell’ordine, formarono il terzetto di nomi indicati, o almeno prediletti, dallo scrittore103.
A Bilenchi il romanzo di Calvino non piacque. Anzi, nessuno dei romanzi ch’ebbe letto gli sembrò di buon livello. Il giudizio dello scrittore, negativo su tutta la linea, lo rese ininfluente ai fini
delle attribuzioni dei premi104.
103
104
ha allettato i nostri primi anni di liceo. Ed è così: un dialogo astruso e profetico e... inconcludente e freddo verso
verità vecchie come il mondo. Che resta? noia e noia. Niente. Roma, 5/8/47»; «La quarta dimensione –dramma in
tre atti di Luigi Persichetti. Qui la quarta dimensione anzichè fatto oggettivo scoperto dalla scienza, non è che un
nuovo elemento psichico, intuitivo, acquistato non si sa come da Mauro Mauri. Un bel rospo che credo non sia stato
digerito nemmeno dall’autore. Figuratevi il pubblico! Il tutto poi condito di inafferrabili trapassi psicologici, inumani,
illogici, voluti... forse anch’essi dipendenti dalla quarta dimensione. Niente. Roma 7/8/47»; «L’assente –tre atti di
Wanda Varini. Andrea, marito di Ada, innamorato di Carla, durante una escursione alpina getta Ada in un burrone.
Di consequenza, come in Teresa Raquin, rimorso, reciproche accuse. Emma la madre di Andrea intuisce; Giovanna
la sorella di Andrea sente; i domestici forse sanno. Ma Andrea e Carla continuano a voce alta a parlarsi di cuore
con idee astratte, contraddicendosi continuamente, tanto per tirare in lungo. Finchè Andrea in ultimo confessa
e grida il suo crimine. E quella gioia di mammetta, invece di sentirne orrore lo accarezza, e tutto forse passerà.
Filastrocca vecchia vecchissima con continue divagazioni pseudo filosofiche sociali (c’entra anche qualche
chiaro accenno al divorzio) per condire questa stupida insalata, stupida e indigesta. Niente. Roma 6/8/47».
Il romanzo di Luigi Squarzina Quelli a cui importa (di cui si ha ancora copia a Riccione, dimenticata letteralmente
dall’autore stesso, il quale, da noi interpellato, non ricordava nemmeno di averlo scritto), è un romanzo a tratti
epistolare o in terza persona, e alterna delle parti di chiara scrittura teatrale o addirittura cinematografica, che
possono (forse) aver convinto, per affinità tecnica, Zavattini. La storia, che mescola l’idea di un attentato a un
politico (Togliatti?) con gli sbandamenti partigiani (un protagonista è un reduce che non riesce a reinserirsi in
società) a un aborto finito male, meriterebbe una rilettura attenta. Vero è che alcune parti sono alquanto
didascaliche e non nascondono un dibattito ideologico fuori dai denti (che lo appesantiscono), ma il testo resta
notevole non solo per la novità (o anche parte della scabrosità) dell’argomento, quanto appunto per la tecnica
compositiva mista, che probabilmente avrà spiazzato i suoi lettori, attenti a leggere i romanzi secondo criteri o
ideologici o d’unità stilistica.
In un colloquio tenuto il 24 marzo 1989 nella sua casa di via Latini a Firenze, alla presenza della moglie,
Romano Bilenchi negava validità alcuna alle opere da lui lette per il Premio Riccione. In merito a Calvino,
aggiungeva di non essere mai stato d’accordo sulla “commistione” di realtà e “favola” da Calvino attuata nei
propri romanzi e respingeva Il sentiero dei nidi di ragno come libro valido. Al di là del giudizio specifico
retrospettivo (dopo quattro decenni), più interessante sembra affidarci alle parole del Bilenchi intervistato nel
1950 da Carlo Bo per l’Inchiesta sul neorealismo (Torino, ERI, 1951), in quanto, almeno per l’intervista, Bilenchi
sembrerebbe ben disposto verso le cosidette opere “neorealistiche” (o comunque “sociali”) quando queste non
scadano nel cronachistico: «quando ciascun individuo, come accade in questi anni, è chiamato a prendere una
decisa posizione, morale prima ancora che politica, dinanzi alla società, è chiaro che anche uno scrittore è
obbligato a fare altrettanto: ed è giusto che si attendano da lui, che addirittura gli vengano chieste, parole che
anzitutto aiutino gli uomini a cui si rivolge. Per questo il compito dello scrittore è oggi, a mio parere,
particolarmente difficile. C’è però un grave pericolo [per gli scrittori, ndr.] che il loro realismo, insomma, non
divenga resoconto, che dall’impegno morale, e diciamolo pure, politico non li porti ad una facile, quanto inutile,
inumana divulgazione invece che ad un serio, quasi direi assoluto, e perciò poetico approfondimento delle
varie situazioni. E già che ci sono dirò anche (e intendo rispondere a chi ha interpretato il mio attuale silenzio
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È di Luzi, l’ultimo dei presenti a Riccione, che si conserva nell’archivio del Premio un parere
telegrafico, ma appetibile, sul Sentiero: «Italo Calvino / Il sentiero dei ragni [sic] / Segn[alato] da
Aleramo. Abbastanza abile approfitta della tecnica oggi diffusa da Vitt[orini] a Pratolini. Non manca qualcosa di buono, di vivace. Ma il racconto risulta un po’ immobile»105.
A metà strada tra la noticina di lettura a scopo personale - da utilizzare magari in sede di discussione per le valutazioni finali - e, più persuasivamente, il carattere di “verbale” preso in loco a
riassunto del proprio e dell’altrui parere (teste quel “Segn. da Aleramo”), l’appunto è troppo sbrigativo per ricavare un giudizio di merito, circostanziato e deciso, sul romanzo; tuttavia, pure nella
sua misura semi-stenografata si riescono ad evidenziare particolari critici di cui dovremmo tenere
conto (e che oltrepassano comunque il generico apprezzamento dell’Aleramo, il “libro molto singolare”).
Si può, in primo luogo, dare rilievo proprio al rimando che in apertura Luzi fa all’Aleramo, alla
segnalazione della presidentessa. Il fatto che una segnalazione ci fosse da parte di uno dei giurati
contribuì senz’altro a incoraggiare una lettura o una discussione più attenta del dattiloscritto. L’indice della Sibilla puntato sul testo, come registrato dal poeta fiorentino, è insomma la garanzia del
“privilegio” che toccò in sorte al romanzo, un romanzo che non aveva altrimenti suscitato grandi
entusiasmi (Bilenchi lo ignorò, Luzi - è evidente - fu indotto a una riflessione più articolata dall’Aleramo, Zavattini gli preferì Squarzina).
Nel caso di Luzi, però, l’attenzione speciale s’infranse contro i risultati personali della lettura,
ché dalle cento e più cartelle del dattiloscritto egli, per formulare il suo giudizio, riuscì a spremere
soltanto “qualcosa di buono, di vivace”, niente di più. L’appunto si rivela allora prezioso per quello che tace, per il tono piatto, neutro, da referto. A Luzi bastarono pochissime parole per inquadrare il romanzo. Il giudizio sintetico non fu stroncatorio ma neppure favorevole: rimase algido. Tenendo poi di conto che il testo riccionese avrebbe costituito di lì a alcuni mesi il testo della princeps
(con qualche variazione), la lettura del commento luziano è anzi oggi raggelante per chi ha in
mente i toni laudatori della recensione pavesiana al libro (che lo saluta come il più bel romanzo
dedicato alla Resistenza), il la critico irrinunciabile per qualsiasi storia della fortuna del romanzo.
Si tratta di un’ottusità solo luziana, quest’accoglienza poco convinta? Un incidente critico? O, a
rovescio, è invece il peso, l’auctoritas di Pavese che con la sua lettura del Sentiero riesce a fare del
paradigma dello “scoiattolo della penna” il grimaldello ermeneutico vincente per Calvino?
105
106
con una rinuncia dello scrittore dinanzi all’attività politica) che gli stessi partiti, qualunque siano le loro ideologie,
hanno diritto di chiedere molto ai loro scrittori: ma debbono chiedere all’artista di non ripetere delle formule,
bensì di ricercare, ogni volta e sempre profondamente, onestamente le ragioni umane da cui i principi sociali e
politici stessi acquistano la loro validità» (p. 53).
L’appunto era stato reso noto in A. DINI, Calvino al Premio Riccione 1947, cit., p. 47.
A Marcello Venturi, 23 aprile 1947, p. 188: «Ferrata me l’ha stroncato [...]».
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Il giudizio di Luzi s’allinea in verità agli altri antecedenti l’uscita in volume, in cui l’entusiasmo
per il romanzo non fa nemmeno capolino e il caso letterario delineato (e voluto) da Pavese manco
si mostra di sguincio.
Nel suo calvario verso la stampa il Sentiero colleziona infatti una sequela di bocche storte o non
in pieno soddisfatte: fermato a una seconda lettura dalla giuria mondadoriana per il concorso per
cui era nato (che includeva il possibile defensor Ferrata, amico di Calvino, suggeritore del libro, il
quale però diventa il responsabile della sua bocciatura106), al deludente risultato riccionese, che
pur nella vittoria palesò un compromesso a denti stretti; dall’interesse controllato dell’Aleramo
(che preferì Onofri a Calvino, stando ai giudizi espressi sul primo) alle riserve di Vittorini (che in
una lettera del 20 maggio, in cui approvava la pubblicazione per Einaudi, si premeva di sottolineare il disaccordo, parziale, verso il romanzo)107.
La superstite nota luziana fa da (importante) controcanto anticipato alle giaculatorie pavesiane:
il solo dato che lì emerge per il Sentiero è il riconoscimento dell’appartenenza a un tipo di moda
letteraria, a un gusto, a una “fattura sintattica” delimitabile e precisa (quella che Emanuelli, in una
sua recensione, avrebbe chiamato il “recitativo secco”, saldando Calvino con la Ginzburg di È stato
così e la Milena Milani di Storia di Anna Drei). Il Sentiero, dunque, come un mero prodotto à la page,
dagli unici suoi pregi in un’abilità di scrittura alla maniera di..., in un tipo di recit che l’autore esemplerebbe sui due nomi di spicco di Vittorini e Pratolini; un romanzo che riceverebbe valore dal suo
107
108
E. VITTORINI, Gli anni del “Politecnico”. Lettere 1945-1951, a c. di C. Minoia, Torino, Einaudi, 1977, p. 121.
Interessante ascoltare Luzi, nell’Inchiesta sul neorealismo di Bo, delineare in che cosa consista per lui la validità
delle nuove tendenze narrative del dopoguerra (anche lui, come Bilenchi prima, si tiene lontano dalle
etichette):«Quanto ai due o tre libri che rapprentano un risultato nuovo, essi si pongono naturalmente fuori
discussione. Tuttavia, sarebbe curioso dimostrare, e mi pare possibile, che la loro novità non è per nulla dovuta
alle disposizioni realistiche dello scrittore: ma se mai alla forza d’interpretazione lirica di quella realtà. È la
delicata, trascorrente animazione che accende di un tenue fuoco le pagine delle sue cronache, che costituisce il
bel risultato di Pratolini. È la forza simbolica che Vittorini riesce a imporre nei suoi dati episodici, a fare che ci
appaiano libri nuovi. Non certo un particolare vigore nella percezione della realtà. Vittorini, Pavese, Pratolini
sono i temperamenti più lirici che sono andati piu in là. Si tratta, io credo, di realismo apparente. Non vedi del
resto come sono prevenuti di fronte alla realtà? Un vero scrittore realista riceve, accoglie i dati dell’esperienza
e solo in questa operazione fa risiedere il suo giudizio, solo in quanto assorbe senza appropriarsene gli oggetti
e le circostanze, le interpreta. La realtà è per lui un libro aperto, esatto. Ma nei nostri scrittori il sentimento
della vita, l’interpretazione della realtà precede l’atto di assumerla e sembrano esserne preoccupati. [...] si
tratta in altre parole più di un procedimento tecnico che di un abito spirituale. E, in quanto tecnica, una volta
separata come spesso accade, dalle sue ragioni profonde, dalla sua necessaria occasione poetica, può degenerare
rapidamente in tecnicismo. E come tecnicismo vanno considerati i modi espressivi crudi e realistici in molti
degli scrittori portati proprio dal favore di questa etichetta: gente che, sinceramente desiderosa di concretezza,
ha preso questa strada abbreviata: gente che pensa che realismo significhi senz’altro verità. Tuttavia non si può
negare che queste attitudini, quando non siano scadute a vizio ci appaiano come strade aperte per una letteratura
di più diretti interessi, di più incalzanti domande per l’uomo d’oggi.»(p. 89-90). Luzi coglie il particolare tipo
di realismo calviniano, il suo essere più “procedimento” che “abito spirituale” nell’apporre il suo nome contro
quello di Vittorini e Pratolini, appunto esemplari di una “tecnica” di interpretazione della realtà. Tuttavia,
sembra (possibilmente) che per Calvino possa anche essere presente un certo “tecnicismo”, e le riserve sull’autore
possano dipendere dai «modi espressivi crudi e realistici» di molte pagine del Sentiero.
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buon epigonismo108. La validità dello scrittore altro non consisterebbe che nell’essersi inserito in
questa scia con dignità, nell’avere utilizzato uno stile che però non basta, da solo, a riscattare il
romanzo dai suoi limiti. Limiti segnati anche da un plot “un po’ immobile”, dalla stagnazione di
una storia che paradossalmente avrebbe voluto nell’avventura (il massimo del movimento, come
l’aveva letta Pavese) il suo perno. Poca originalità, quindi: uno smacco gravissimo per un autore
che puntava (e aveva puntato) tutte le sue carte sul romanzo, senza mai avere messo in discussione
il proprio talento nel raggiungimento dell’obiettivo. Mai bilancio può essere più deludente per un
esordio (o pre-esordio che dir si voglia).
La partecipazione di Vittorini al premio rimane piuttosto defilata, eccetto per quel telegramma
spedito in extremis per gettare il voto a favore dell’autore adesso a contratto con Einaudi (cui lui
stesso appartiene). (Voto sentito come alquanto necessario, verrebbe ironicamente da aggiungere,
tale da fargli fare una scarpinata incredibile per raggiungere un ufficio postale e mandare un telegramma, se si pensa a tutte quelle storie di isolamenti, lontananze da paesi e postini che Vittorini
aveva accampato in una sua lettera a Bignami del 5 agosto per giustificare il silenzio, la non ricevuta dei testi per il concorso e, principalmente, il forfait della partecipazione in persona.) Il nostro
interesse verso Vittorini è naturalmente legato al peso che lo scrittore famoso avrebbe esercitato
magari per interesse di scuderia o di amicizia a far da sponsor al romanzo calviniano (come crediamo che, alla fine, fece). Un romanzo, non si dimentichi, al quale egli aveva già dato dopotutto il
definitivo placet per la stampa einaudiana. Nella sede riccionese l’assenso sarebbe stato dunque
sicuro.
La segnalazione, tuttavia, rimase ininfluente, dato che la decisione fu presa prima dell’arrivo
del telegramma, e anche dopo l’arrivo, come ci rende edotti la cronaca, si scelse di rimanere sulla
stessa decisione d’ex aequo109.
109
«All’ultimo momento un telegramma di Elio Vittorini, membro della giuria ma assente, sembrava dovesse
cambiare la situazione, ma poi tutto è rimasto come deciso» ( Giubo, Terracini ha conquistato Riccione, in «Libertà»,
Piacenza, 19 agosto 1947). Vittorini, però, ebbe un ruolo anche nelle sorti del romanzo di Onofri, Morte in
piazza. Il “caso Onofri” -se così si può chiamare, per un romanzo uscito vincitore al Riccione e oggi irreperibile, è in parte svelato da un carteggio tra lo scrittore e l’editore Einaudi (conservato presso l’Archivio Einaudi). Il
romanzo vincitore al Riccione fu, a quanto pare, fortemente voluto in lettura da Einaudi, raccomandatissimo
da Vittorini che gliene aveva detto «mari e monti». Una lettera senza firma del 20 agosto 1947, spedita a Onofri
a Roma dalla casa editrice, lo invita alla spedizione del volume a Torino: «Caro Onofri, adesso che hai preso il
premio Riccione, Einaudi smania di leggere il manoscritto in questione e ti tira dolcemente l’orecchio perchè
non gliel’hai ancora mandato. Vittorini gliene ha detto mari e monti, e insomma tutti smaniano dalla voglia.
Sappiti regolare». La nota apre in verità un complicato (e anche contradditorio) rapporto epistolare tra autore
e editore. «Stufo di aspettare» la risposta di Mondadori al quale aveva spedito copia di Morte in piazza, e con
cui adesso vuole sciogliersi «senz’altro da ogni impegno», Onofri propone il nuovo testo a Einaudi, che da
tempo ha promesso di pubblicargli un romanzo sotto pseudonimo (Manoscritto, a firma di Sebastiano Carpi,
uscirà nel marzo 1948): «tu [Einaudi] sei l’uomo e l’editore dei records. Un record di lentezza l’hai già battuto,
con me (Manoscritto). Non ti sentiresti di battere adesso un record di velocità (marzo) con Morte in piazza?»
La lettera non datata che contiene questa proposta [ma precedente al marzo 1948] porta due importanti commenti
autografi di Natalia Ginzburg e di Cesare Pavese. La Ginzburg è, in effetti, la lettrice che boccia non tanto il
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Il potere decisionale rimase in conclusione affidato ai quattro giudici balneari. E determinante
per la scelta dei vincitori fu l’ascendente di Sibilla Aleramo, agguerrita presidentessa, la quale
poteva rivendicare con Zavattini di non aver preso (troppo) sottogamba l’impegno di esaminare i
testi inviati. Il suggerimento, raccomandazione o decisione che dir si voglia di arrivare a un “exaequo” - sventando pure il pericolo delineatosi di non procedere all’assegnazione del premio, come
ci informa la cronaca - fu probabilmente loro opera congiunta, l’estensione di un’ideuzza già balenata in mente all’Aleramo il 13 agosto, ben prima di avere terminato la lettura di tutti i romanzi:
“io e Zavattini siamo decisi a far entrare in gara [il libro di Calvino] con soli altri due o tre, e [...] si
romanzo, quanto lo scrittore: «Non ho letto il romanzo ma sono contraria. «Manoscritto» è già brutto oltre il
lecito. Questo sarà probabilmente anche peggio: mi pare che qualcuno che l’ha letto l’ha trovato immondo
(non sono sicura ma credo che fosse Giansiro Ferrata). Natalia» Pavese controfirma questa posizione col lapidario
«Sono d’accordo con Natalia». Il risultato è che il romanzo non vedrà mai la luce in volume. Una nuova lettera
di Onofri a Einaudi (non datata) chiede che il dattiloscritto di Morte in piazza venga spedito a Emilio Sereni a
Roma, in quanto, come spiega lo scrittore, «io non ne ho copie a disposizione, e quella unica che esiste presso
«Omnibus» è stata mutilata e tagliata per la pubblicazione a puntate», una pubblicazione indicata come
«imminente». (A causa del reperimento di questo epistolario subito prima di entrare in stampa col nostro
saggio non abbiamo potuto verificare direttamente se Morte in piazza sia uscita, in effetti, sulla rivista indicata.)
Einaudi risponde il primo ottobre 1948 di non avere il manoscritto («tu sai che Morte in piazza io l’avevo giudicato
per sentito dire, cioè, mi pare, in base a quanto mi disse Vittorini che l’aveva letto per il Premio Riccione; ma
non ne posseggo il manoscritto»); non solo, Einaudi ricorda a Onofri come in uno scambio epistolare del 28
febbraio gli avesse consigliato di non «farne niente presso Einaudi» –non entrando in ragioni specifiche (come
aveva fatto la Ginzburg, per esempio, il cui nome, come quello di Pavese, non vengono mai diplomaticamente
avanzati dall’editore come la ragione per il rifiuto alla pubblicazione). La lettera del primo ottobre si guadagna
però l’imperturbata risposta di Onofri il 18 dicembre, il quale, avendo recuperato a quanto pare una copia del
manoscritto per Emilio Sereni, scrive affermando che «adesso abbiamo anche il suo imprimatur» (come se
Einaudi lo attendesse), annunciando poi come per «la fine dell’anno» [1948] Einaudi avrebbe ricevuto «il
dattiloscritto definitivo». Einaudi declina la pubblicazione il 22 dicembre, citando come scusa anche le vendite
non eccelse di «Manoscritto», causando una lunghissima risposta polemica di Onofri, con strascichi epistolari
che si risolveranno solo il 15 gennaio 1949, col secco no einaudiano. Unica annotazione interessante per la
nostra cronaca del Premio Riccione, è la ricostruzione di Onofri sull’iter del libro (quando accusa Einaudi di
averlo portato a credere di un accordo verbale di pubblicazione): « Nell’estate del ’47 tu mi chiedesti «Morte in
piazza» dopo che aveva vinto il Premio Riccione. Io ti risposi che il libro era impegnato con un altro editore,
che me ne dispiaceva, ma che, qualora fossi stato sciolto da quell’impegno (cosa che prevedevo, dato che il
romanzo era molto «rosso») sarei stato felice di tornare al «mio vecchio editore» anche se mi aveva fatto tirare
il collo in modo inverosimile con «Manoscritto». [...] Quando ci siamo avvicinati al tempo della composizione
(fine ’48) tu, che mi avevi detto di aver ricevuto il dattiloscritto da Vittorini, prima mi fai sapere all’improvviso che
non lo hai mai ricevuto [...] poi mi arriva quella prima lettera del voltafaccia [...]. Ora: Vittorini mi ha confermato
per lettera –in data 31 dicembre 1948- di averti consegnato il dattiloscritto a Bocca di Magra nell’estate del
1947. La tua lettera [...] è una vera e propria rescissione degli impegni assunti tra noi». Al di là del merito della
polemica di Onofri (e le contraddizioni tra la lettera da Torino del 20 agosto che richiede il dattiloscritto vs la
testimonianza presunta di Vittorini che confermerebbe una consegna di quello a Einaudi già prima della vittoria
ex-aequo), conta qui sottolineare la lettura effettiva fatta da Vittorini per il Premio Riccione – anche se votò poi
per la vittoria esclusiva di Calvino – e il possibile passaggio di mano del dattiloscritto (il che spiega anche il
non reperimento del medesimo a Riccione). È pure da sottolineare come la vittoria stessa di Calvino, per un
volume già in contratto e in prossima uscita, servisse a Einaudi e a Vittorini. Che poi il telegramma di Vittorini
spedito in absentia non fu tenuto di conto dal resto della commissione, è un’altra storia.
84
potrebbe premiare ex aequo con quello di Fabrizio Onofri”. In mancanza di campioni sicuri la divisione del premio fu poi accettata come metodo, nei fatti, da Piovene e Luzi. Scontata appare la premiazione di Onofri, caldamente spalleggiata dalla presidentessa (cui si può, per via congetturale, aggiungere Zavattini): “Io come presidente ho diritto a due voti, e farò pendere la bilancia a favore di Fabrizio
Onofri”. Scontata almeno per l’Aleramo, che fin dall’inizio aveva espresso un parere positivo sul romanzo, “di gran lunga superiore a tutti gli altri dattiloscritti concorrenti che ho letto” (ma la lettura risaliva all’inizio del mese). Un libro, quello di Onofri, certo “non [...] un capolavoro”, ma di “grande vitalità, di
linguaggio, di fede, di passione dominata”. Il ballottaggio con Morte in piazza, almeno nelle intenzioni (o
deduzioni) della poetessa, avrebbe riguardato dunque Calvino (teste la cordata Aleramo-Zavattini, tre
voti su cinque) e qualche altro romanzo da ripescare fuori da un non confortante mucchio.
Nella mediocrità generale si votò il minore dei mali, “quanto di meno peggio è stato mandato al
concorso”.
Una guerra tra poveri che non mancò di scompaginare alleanze e seminare discordia nella giuria,
causando contrasti sulla scelta finale, una volta giunti alla votazione risolutiva. Ché Zavattini, ad esempio, inserì nella rosa dei papabili il libro di Luigi Squarzina (Quelli a cui importa), non piaciuto però a
nessuno degli altri giurati, con la Sibilla in testa, i quali optarono piuttosto per la coppia Onofri-Calvino
(“Tre voti favorevoli e uno contrario alla premiazione ex aequo di Onofri e Calvino: il contrario è stato
quello di Zavattini, il quale patrocinava il libro di un certo Squarzina, che invece non è affatto piaciuto
né a me né a Piovene né a Luzi”).
Fu il meccanismo delle segnalazioni che mise poi le cose a posto, pacificò le coscienze e i gusti
individuali, in quanto venne programmato in modo da non scontentare nessuno. Nel verbale si trovano gomito a gomito il reietto Squarzina (creatura cara a Zavattini) e Eva Quajotto (proposta dall’amica
Aleramo, di modo che “speriamo possa trovare così un editore’), addirittura un Luigi Pasquini (del cui
romanzo Il podere sulla linea gotica l’Aleramo aveva scritto, in una sua nota, “Di veramente bello non c’è
che il titolo”), e Franco Spinelli (autore di un’opera liquidata come mediocre da Luzi). (Di Piovene, al
solito, non possiamo dire). Ma le discussioni, in ultimo, ci furono, come ci furono i compromessi, che
fecero scrivere a una desolata Sibilla: “Una volta di più ho verificato il fenomeno della disparità e
incertezza di giudizio letterario tra gente d’uguale cultura”.
La cronaca del Premio non si arresta però qui. Nel risultato in ispecie essa sembra investire la personalità dei giurati, i loro ascendenti, il modo d’interpretazione di una clausola che richiedeva alle opere
di avere uno scivoloso “contenuto sociale”. Per questo altri fattori più in ombra son forse da richiamare
per la vittoria d’Onofri e Calvino, altre motivazioni sguscianti, certo accessorie (e maligne), che s’impongono in una lettura indiziaria del concorso. Senza nulla togliere alla validità dei due testi laureati,
infatti, si può pure individuare alla base del loro ex aequo un forte segnale di schieramento, una considerazione politica (partitica?) magari di tipo irriflesso che da parte dell’Aleramo giovò nella scelta (e
nella sostenuta candidatura) dei due scrittori. A puntellare questo tipo di sospetto basta ancora la lettu85
ra attenta del Diario, laddove il ruolo e gli scrupoli della presidentessa si confondono col compiacimento della lettrice politicamente orientata110.
Le spie lessicali appaiono rilevanti. Ogni volta che i due sono nominati scatta puntuale l’indicazione
di appartenenza partitica: così il riconoscimento funziona per il Sentiero e per Calvino, “un giornalista
comunista che non conosco”, e per quell’Onofri figlio “del mio indimenticabile Arturo” (“Sono
contenta che sia stato scritto da un giovane del mio partito”), affermazione subito seguita da un
sussulto autocosciente rivelatore (“nello stesso tempo un poco mi rincresce perché temo che votando in suo favore si abbia a pensare che il mio giudizio sia inquinato da spirito di parte”) che finisce
proprio per esaltare, all’opposto, il “pericolo” di partigianeria. Il rilievo insistito, è certo, non implica automaticamente che la scrittrice avrebbe scelto il vincitore del premio in base alla sua ideologia, piuttosto che per meriti letterari - e cioè, come nel caso, due autori comunisti per disciplina
di partito; tuttavia l’accento ricorrente a modo di puntualizzazione orgogliosa e il tipo stesso di
personaggio che in questi anni è l’Aleramo ci autorizza a credere che nel diluvio delle segnalazioni
tale circostanza abbia fatto pendere la bilancia, alla fine, nella loro direzione.
Che il fattore politico fosse una variabile da mettere nel mazzo fu del resto già registrato dalla
cronaca dell’epoca, avvalorando coi suoi risvolti pubblici il timore privato dell’Aleramo di un giudizio “inquinato da spirito di parte”. Presentando i vincitori, un cronista poteva anche spuntare
con questo tipo di considerazioni:
110
L’Aleramo, entrata da poco nella politica attiva come militante del PCI, sentiva fortemente il senso ideale di
appartenenza al partito fino a renderla dubbiosa persino nella pubblicazione delle proprie poesie, poesie
“d’amore”, prive di quel contenuto “sociale” che essa pur ora rivendicava alla letteratura: «[...] ho provato un
senso profondo di scontentezza, quasi d’umiliazione... Attribuisco questa impressione al fatto d’aver riflettuto
che nella raccolta v’è assoluta predominanza d’argomento amoroso, [...] e dall’essermi chiesta non senza una
punta di sgomento, quale effetto potrà produrre la pubblicazione sui miei compagni comunisti, che non vi
troveranno quasi niun cenno sociale, avendo io sempre riserbato alla prosa le mie preoccupazioni o
considerazioni d’indole umanitaria, ecc... Se alcuni di costoro che vanno scrivendomi negli ultimi mesi e mi
seguono attraverso gli articoli dell’Unità [...] apriranno questo volume di tutte le mie poesie, non rimarranno
delusi o almeno sconcertati? Che fare? (S. ALERAMO, Diario di una donna. Inediti 1946-1960, cit., 4 febbraio 1947,
p. 135). Si cfr. anche l’annotazione del 25 settembre 1946, in cui si rimarca come il coinvolgimento di petto con
la politica abbia inquinato la sua prospettiva poetica, o comunque l’abbia “impacciata” (tanto da farle ricercare
il motivo ideologico esplicito, propagandistico o didattico): «Lettera di Salvatore Cappelli, che per la nascente
rivista «Foemina» mantiene il compenso di tremila lire per colonnina (io ne avevo chieste quattro) e accetta
solo uno dei due articoli che gli avevo spedito: «Il discorso sull’UDI», dice, «è interessante ma non può essere
utilizzato [...]. Tutte le variazioni di carattere ideologico hanno più valore se non sono dirette; e tu sei troppo
poeta per non esprimere in temi non obbligati la tua, la nostra nuova grande verità.» Ha ragione, certo. Ma il
tragico si è che questo del tema obbligato è un impaccio da cui non riesco io a liberarmi, da quando mi sono iscritta al
partito. Ho come il senso ossessivo di dover esprimermi propagandisticamente (bella parola!!) e, peggio, didatticamente.
Non concepisco più una pagina sostanziata d’arte, di poesia... Fenomeno transitorio? [corsivo nostro]» (S. ALERAMO,
Diario di una donna, cit. 25 settembre 1946, pp. 123-124.) Il tipo di romanzo proposto da Onofri (molto “rosso”,
nelle sue stesse parole), avrebbe senz’altro fatto breccia; e ci sia permesso anche congetturare che il capitolo IX
del Sentiero, snodo ideologico del testo, sulle ragioni della lotta resistenziale, avrebbe potuto impressionare
favorevolmente la poetessa.
86
[...] Calvino e Onofri sono tutt’e due comunisti, tutt’e due giovani e già noti: Calvino ha scritto degli
ottimi racconti sulla terza pagina dell’Unità e Onofri è popolare come agit-prop della direzione del
P.C.I., uno dei dirigenti degli intellettuali comunisti. Colpa del presidente la commissione, qualcuno
dirà certamente, la scrittrice e comunista Sibilla Aleramo111.
A dare conferma diretta della possibile carta da giocare ci pensa del resto Calvino stesso, lì sullo
scartafaccio. La sua speranza neanche tanto subliminale è esplicitata a chiare lettere sulla copertina
del dattiloscritto: il nome dell’autore si lega infatti, tramite una freccia, all’indicazione “Premio
Genova dell’Unità”, che spunta scarlatta a modo di captatio benevolentiae per dei giudici dall’area
politica più o meno dichiarata. Un’opera autopromozionale che aveva uno strategico, duplice obiettivo: rimarcare, come indicazione di militanza, la provenienza di un premio a suo tempo ricevuto
da un giornale di partito, e, col sottolineare implicitamente il premio stesso, rivendicare agli occhi
della giuria il “valore” di sé come scrittore, un valore già concretamente attestato dalla critica.
Le discussioni del Premio non si fermarono però all’agosto112.
111
112
Bozza di un articolo poi parzialmente pubblicato come Aggiudicato il Premio Riccione, in «Il Progresso d’Italia»,
n. 226, 17 agosto 1947.
In verità, vi furono polemiche di carattere locale, scatenate da Luigi Pasquini, «cittadino riminese, simpatica
figura di umanista, di quelle che in tempi ingrati come l’attuale allignano ormai soltanto in provincia (xilografo,
acquarellista, elzivirista, scrittore di frammenti e di strapaese, insegnante di disegno)» secondo il quale «la sua
opera non sarebbe nemmeno stata letta dalla giuria, per lo meno nella sua interezza, in quanto alcune pagine
incollate tra loro con resina indiana (diabolico accorgimento dell’autore!) furono trovate dal medesimo non
manomesse allorchè il manoscritto gli venne restituito». Così riporta la cronaca del fido «Adriatico» (Anacleto,
Il Premio Riccione e Luigi Pasquini. Un giudizio di Sibilla Aleramo, in «L’Adriatico», a.II, n. 4, 6 marzo 1948, qui in
appendice al Capitolo I), che integralmente trascrive il giudizio di Sibilla Aleramo sul libro (che, tra l’altro era
stato segnalato e che sarebbe stato pubblicato a Bologna da Cappelli nel 1951): «Il podere sulla linea gotica di
Luigi Pasquini- Racconto d’andatura cronistica sugli anni di guerra a Rimini e dintorni. Il tono è, ora accorato,
ora sentenzioso, ora umoristico, ma non assurge mai a efficacia di passione. Nessuna originalità di pensiero nè
di stile. In sostanza, lavoro mediocre, che ha l’unico merito di un riferimento esatto e minuzioso del tempo di
guerra nella provincia romagnola. Di veramente bello non c’è che il titolo». Eccetto che per il libro di Calvino,
che vide l’uscita da Einaudi nell’ottobre 1947 e uno straordinario successo, solo pochissimi titoli tra quelli
presentati al concorso letterario raggiungeranno una pubblicazione. Il censimento, condotto nei giacimenti
della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, ha permesso il reperimento di: Luigi Pasquini, Il podere sulla
linea gotica (Bologna, Cappelli, 1951. pp. 292), Piero Cugini, Follia (Brescia,Tip. G. Vannini, 1948, pp. 64), Franco
Spinelli, La casa dei Bruscone (Milano: M. Gastaldi, 1950, pp. 175), Angelo Sabbatino, Viaggio nel Regno dei fanciulli,
vittime della Guerra (Milano: M. Gastaldi, 1954, p. 58). Il libro di Luigi Squarzina è ancora inedito (e conservato
in APR); così come è purtroppo rimasto inedito il dattiloscritto di Delfina, di Eva Quajotto (da noi consultato
per gentile concessione del figlio Massimo De Francovich), romanzo di una bellezza ruvida e singolare, di cui
solo due cenni sono stati dati in questi anni. Uno, di Massimo De Francovich stesso, che presentò il primo
capitolo (col titolo editoriale Le parole, Paolo, Marta, la nonna) su «Nuovi Argomenti» (n. 46, terza serie, aprilegiugno 1993, pp. 18-21) accompagnato da una nota biografica (Mia madre, Eva Quajotto, ibidem, pp. 21-22) con
un breve riassunto: «storia di un bambino senza genitori: alla morte della nonna, nobile decaduta, lui e sua
sorella Delfina vengono affidati a dei tutori, in città diverse, poco prima dello scoppio della prima guerra
mondiale. Delfina non appare mai, viene sempre ricordata dal protagonista, legatissimo a lei, col pensiero
sempre teso a rivederla. Alle fine della guerra ’15-’18 egli fugge dall’opprimente e tetra casa del tutore, passa
attraverso molte esperienze adolescenziali, viene accolto come un figlio da due persone anziane e alla morte
87
Cade in ottobre una importante lettera di Zavattini, con suggerimenti diretti per il premio 1948
sollecitati dal Bignami, che subito si era messo in moto per assicurare una transizione senza scosse
alla seconda edizione113:
Roma, 7 ottobre 1947
Caro Bignami, Lei forse aspetta i promessi suggerimenti per il premio 1948. Ho soltanto una cosa da dire,
o meglio da ripeterle: tolga quel sociale che fu padre della scarsa affluenza di concorrenti. Inoltre chieda ai
componenti la giuria che si impegnino a leggere tempestivamente le opere, ma anche a passare la settimana, precedente l’assegnazione del premio, a Riccione affinchè partecipino alla discussione. La verità è che
quest’anno soltanto due giudici lessero tutte le opere. Come le dissi mesi fa, un premio diventa popolare e
giustifica la sua ragione di essere basandosi sopra un’organizzazione seria; non si accontenti di ottenere
l’adesione dei giudici; tutti dicono di sì; il difficile è che si sobbarchino poi agli oneri derivanti da quel sì. Le
ricordo che si pensò di ritoccare anche l’ammontare del premio uguagliandolo a quello per il teatro. Non
sarebbe male che lei compilasse o facesse compilare un piccolo regolamento interno per la giuria, credo che
ne esistano già di questi regolamenti, Lorenzo Ruggì probabilmente lo avrà già steso per il teatro, quindi
basterebbero poche modifiche per quello del romanzo. [...]
La saluto cordialmente e la prego di salutare il Sindaco,
Cesare Zavattini
La lista dei consigli, come si vede, è piuttosto azzeccata, e trova riscontro con le lettere che nella
fase preliminare del Premio a Bignami erano state spedite da Ruggi (che già delineava i possibili
problemi poi identificati da Zavattini stesso). Importante che la clausola del “sociale” fosse vista
113
del padrone di casa partirà alla ricerca di Delfina» (p. 22). Il secondo cenno, di Francesca Sanvitale, si trova
nella prefazione a Bestie e noi, il romanzo della Quajotto che si guadagnò recensioni lusingantissime (Cecchi,
per esempio, ne scrisse in termini molto positivi): la Sanvitale, tuttavia, attribuisce questo volume al dattiloscritto
spedito per il Riccione, che si era meritato una segnalazione, ignorando che il titolo fosse invece dell’inedito
Delfina (si cfr. F. SANVITALE, Jusfet racconta le bestie, in E. QUAJOTTO, Bestie e noi, Firenze, Giunti, 1995, p. 9).
Le coperture e i contatti politici rimangono essenziali per la riproposizione del premio, per la sua diffusione
regionale e per, ovviamente, il suo successo tra gli intellettuali della sinistra (come la notizia immediata del
concepimento del premio aveva rivelato attraverso le lettere spedite alle federazioni del PCI e PSI nel gennaio
1947). Conclusasi la prima edizione, Bignami prende carta e penna e spedisce una lettera a Leonildo Tarozzi,
segretario del PCI bolognese, di cui avverte il necessario coinvolgimento. La lettera va a rimarcare la necessità
delle alleanze tra federazioni e tra città per pubblicizzare al massimo un evento che coincidentalmente aveva
laureato ben due scrittori del partito: «A Leonildo Tarozzi/ Presso Federazione PCI Via Barberia 2 Bologna.
Caro Tarozzi, Il Premio Nazionale Riccione non ti ha avuto fra i concorrenti per il romanzo, e questo è spiaciuto
a me particolarmente che già ti pronosticavo fra i possibili vincitori. Come avrai appreso dai giornali il premio
per il romanzo è stato diviso fra i compagni Italo Calvino (che si trovava a Praga) e Fabrizio Onofri dell’AgitProp di Roma. Pensa che la sera della premiazione abbiamo avuto il conforto della presenza dell’On. Terracini
che a proclamazione avvenuta ha tenuto un magnifico discorso. La nostra iniziativa ha veramente interessato sia
per il numero dei concorrenti che per la «qualità» dei lavori. Per il dramma sono stati segnalati ben 12 lavori oltre al
premiato. Per notizie più precise potrai chiedere a Giorgio Fanti che era presente. So che tu ora occupi un posto in
Federazione e penso che il prossimo Premio Riccione debba avere la massima diffusione, perchè non vieni a Riccione?
Potremmo avere uno scambio di idee assieme a Quondamatteo. [...] Contiamo sul tuo appoggio [...]» (copia in APR.)
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come la principale responsabile del parziale fallimento del concorso letterario. Ci chiediamo però
se non abbia nuociuto al concorso letterario la scarsa pubblicità e l’inesperienza di Bignami nell’informare e rassicurare i partecipanti possibili; è noto come il concorso drammatico fosse stato strombazzato su riviste e pubblicazioni dell’Istituto del Dramma Italiano e che, ovviamente, avesse avuto l’occhio di riguardo del suo presidente Lorenzo Ruggi. L’apatia di Corrado Alvaro può aver pure
contribuito alla scarsa partecipazione.
Le decisioni per il 1948, a seguito delle relazioni dei vari giudici, furono piuttosto rapide. La relazione di Bignami al sindaco Quondamatteo (presidente del Premio) e alla Azienda Autonoma di Soggiorno (nelle persone del commissario straordinario Dott. Michele Bagli e del Direttore-Segretario Domenico Gentilini) è già pronta il primo novembre 1947. Essa si guadagna subito la decisa approvazione del
sindaco, che il 6 novembre sollecita l’Azienda al rinnovo dell’appoggio al Premio, «limitato, eventualmente al Dramma». Si chiede anche «di studiare l’opportunità di una nuova formula per il lancio» del
concorso stesso, del quale sottolinea «oltre all’indubbio valore propagandistico» (leggi: turistico) il fatto
che il premio abbia «posto la nostra spiaggia in prima linea nel campo delle affermazioni culturali».
Due giorni dopo, l’8 novembre, l’Azienda conferma l’appoggio al Premio «limitato al solo dramma» e
annuncia di star predisponendo il bando relativo. Il Premio si avvia quindi alla sua seconda stagione e,
nei fatti, si riconosce lo scacco della sezione letteraria.
Il bilancio, però, è positivo su tutti i fronti, che si includano le polemiche tra i giudici, o le disavventure estive di Bignami alle prese con l’organizzazione disorganizzata del concorso, sua creatura difficile. Come già aveva segnalato Quondamatteo la sera dell’inaugurazione (o come aveva più volte reiterato Zavattini, puntando all’importanza dell’evento), la creazione di una manifestazione culturale di
grande risonanza, frequentatissima, complessivamente, da scrittori e critici, aveva posto Riccione su
quella mappa della rinascita culturale italiana che così fortemente si voleva.
L’alleanza del Comune, dei privati e dell’Azienda Autonoma di Soggiorno aveva veramente dato
per frutto una creatura da seguire e incoraggiare e coltivare, una vittoria morale «tanto più apprezzabile in tempi caratterizzati dal più sfacciato, banale, esibizionistico e plateale materialismo», come s’era
peritato di sottolineare il recensore de «L’Adriatico» .
Bignami poteva allora finalmente mettere una pietra sopra all’edizione inaugurale, e guardare a un
futuro luminoso e speranzoso, per il Premio e la nazione stessa che l’aveva espresso:
Il valore morale del Premio Riccione va [...] oltre il valore materiale del Premio in se stesso, in quanto
dimostra come attraverso una nobile gara le giovani forze intellettuali del Paese trovano ampio campo di
esprimersi e praticamente di affermarsi; cosa questa tanto più necessaria oggi dopo una stasi ultraventennale che inibiva la libertà sia nel campo politico sia nel campo dell’arte.
Altri premi si sono avuti in Italia, quest’anno, ma nessuno di essi, nonostante prendessero il nome da
città ben più importanti di Riccione ha avuto il successo del Premio Riccione. E questo si può sicuramente affermare con prove di fatto, tanto ampia e sicura è la documentazione che ci permette di
89
pensarlo e dirlo alto e forte. Tanto è vero che altri Premi, a simiglianza di quello di Riccione (vedi
Sanremo) hanno già provveduto a bandire nuovi concorsi, anche per il Dramma, di mezzo milione di
lire.
Ma il Premio Riccione, forte del successo ottenuto, e che segna l’inizio di ciò che dovrà diventare una
nobile tradizione, darà stimolo e forza ai nuovi concorrenti che l’anno prossimo si cimenteranno ancora per il raggiungimento di un nobile ideale: far rifulgere ancora l’arte italiana divulgandola nella
giovane generazione del nostro Paese rinato alla democrazia.
per il Premio Riccione 1947
Il Segretario
Paolo Bignami
90
3. Italo Calvino a Riccione
Italo Calvino a Riccione non c’è mai stato.
Sanremese di scoglio, grifagno appartenente ai sassi della riviera ligure occidentale e ai beudi
dell’entroterra, alla sanguigna Riccione terra di sole, spiagge sabbiose, belle donne, amorazzi estivi, acque color smeraldo e concorsi letterari appena battesimati dedica in verità pochissimo inchiostro – e tutto epistolare – solo tra il febbraio e il settembre 1947, orecchiando come tutti i giovani
scrittori del tempo l’occasione di partecipare al fantomatico Premio Nazionale. Fantomatico, sembra certo, in quanto, come attestano le lettere scambiate tra Calvino e i suoi corrispondenti (o tra
Calvino e il segretario del Premio, l’imperturbabile Bignami, dietro lo stampino del «Comitato
Promotore», notizie precise di questo certame a sfondo sociale non si riescono a cavare, a parte il
bando di concorso stesso:
C’è un concorso a Riccione 200mila per romanzo sociale inedito, 300mila lavoro teatrale. 31 giugno
[sic]114.
Scrivimi del premio Riccione, se ne sai. La giuria, la serietà. Il regolamento l’ho.115
Concorrerò a Riccione col Sentiero dei nidi di ragno sebbene non sia ancora riuscito a sapere chi c’è nella
giuria.116
Intanto ho concorso al Premio Riccione col Sentiero, ma non ho la minima idea di chi ci sia in giuria. Sai
niente tu?117
Alla segreteria del Riccione Calvino aveva scritto in data 10 febbraio per avere un prospetto
«dettagliato» del Premio e principalmente per sapere se, o come, la partecipazione al concorso
fosse «vincolata» a una casa editrice118. Non sappiamo di alcune risposte fornitegli (eccetto dell’annotazione di Bignami sulla richiesta stessa), ma Calvino riscrive di nuovo il 14 maggio pregando
una comunicazione relativa alla «Giuria del Premio per opera narrativa»119, cui uno sbrigativo
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117
118
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A Marcello Venturi, 7 febbraio 1947, in I. CALVINO, Lettere 1940-1985, cit. p. 182. (Le citazioni seguenti dal
volume delle Lettere includeranno solo destinatario, data e pagina.)
A Marcello Venturi, 22 marzo 1947, p. 187.
A Marcello Venturi, 10 giugno 1947, p. 193
A Silvio Micheli, 20 giugno 1947, p. 194.
APR, cartolina postale mutila. «Spett. Azienda Au [...]/Desidererei u[...] dettagliato del vo[...] letterario
Riccion[...] In particolare vo[...] a) la composizione [...] b) se la premiazio[...] zo è vincolata a un [...] con una
casa editrice. Cordiali saluti/ Italo Calvino/ Via XX settembre 35/ Torino»
APR, Italo Calvino, 14 maggio 1947. (Anche questa cartolina postale è in parte mutila.)
91
Bignami, invece di fornire l’informazione incompleta (mancava ancora l’accettazione ufficiale di
Bilenchi, che arriverà infatti il 22 a completare la giuria), oppone il 19 un diplomatico «a giorni la
stampa di tutta Italia comunicherà la composizione delle Commissioni aggiudicatrici il Premio Nazionale Riccione 1947» – nemmeno distinguendo tra dramma e romanzo, come Calvino aveva fatto
nella domanda. La corrispondenza riprende necessariamente a giugno, quando, a seguito della
missiva a Venturi del 10 in cui gli annunciava la decisione di competere, Calvino spedisce al Premio
in data 12 i due dattiloscritti richiesti dal bando120.
La storia in seguito è nota, con la vittoria ex-aequo del Sentiero dei nidi di ragno e di Morte in piazza
di Fabrizio Onofri, subito riportata tutta in corsivo da «L’Unità» torinese in prima pagina, «lieta che
al suo collaboratore Italo Calvino sia meritatamente toccato il Premio Riccione. Essa porge le sue
felicitazioni [...] come pure all’altro giovane compagno, Fabrizio Onofri, vincitore come lui del Premio [...]»121.
Al telegramma speditogli a Sanremo che gli comunicava la vincita122, Calvino non potè neppure
replicare, trovandosi a Praga come inviato del quotidiano comunista per il festival Mondiale della
Gioventù123. A esso rispose la madre, in data 18 agosto124. Il verbale della commissione fu inviato
allo scrittore qualche giorno più tardi, il 22125. A quanto pare Calvino replicò subito con una nota
120
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Una lettera di Calvino contenuta in APR, indica l’invio del romanzo: «12-6-47. Alla Segreteria del Premio Naz.
Riccione. Spett. Segreteria, Vi invio 2 copie dattiloscritte del mio romanzo inedito «Il sentiero dei nidi di ragno»
per concorrere al Vostro Premio per un’opera narrativa di carattere sociale. Vi prego di comunicarmi i nominativi
della giuria, che non sono riuscito ancora a sapere, malgrado ve l’abbia ripetutamente chiesto. In attesa di un
Vs. cortese segno di ricevuta vi saluto cordialmente. Italo Calvino» (riprodotta in AA.VV., Pier Vittorio Tondelli.
Riccione e la Riviera vent’anni dopo, cit. p. 120).
«Calvino e Onofri vincono il Premio Riccione», in «L’Unità», Torino, 17 agosto 1947, p. 1. Trafiletto di prima
pagina, sul fondo, il corsivo è preceduto dalla notizia redazionale: «Riccione, 16 agosto. Il Premio Riccione,
riservato a scrittori nuovi sia nel campo teatrale che in quello del romanzo, è stato così aggiudicato: per il
romanzo, il primo premio è stato assegnato pari merito (L. 100.000 per ciascuno) a Italo Calvino con “Il sentiero
dei nidi di ragni” [sic] ed a Fabrizio Onofri con “Morte in piazza” ».
«Vincitore Premio Riccione parimerito Onofri», in APR, la cui copia archiviata porta la (possibile erronea)
indicazione “spedito il 19-8-47”, che contrasta col timbro del telegramma di risposta di Eva Mameli, in cui si
intravede il giorno 18.
Destini incrociati, il vincitore del Riccione ignora che uno dei drammi italiani in competizione al Festival («L’Italia
ha guadagnato il primo posto nel concorso di teatro drammatico con l’esecuzione diretta da Luigi Squarzina di
«L’uomo e il fucile», un dramma d’ispirazione partigiana di Sergio Sollima» come riporta da «L’Unità»di Torino
del 20 agosto) ha la regia di un proprio competitore. Luigi Squarzina, con Quelli a cui importa, sponsorizzato a
un certo punto da Zavattini (e infine segnalato tra gli altri romanzi) aveva fatto discutere di un ex-aequo con
Onofri a scapito di Calvino, scenario poi fermamente respinto dall’Aleramo. Per il viaggio di Italo Calvino a
Praga, si veda L. SURDICH, Calvino a Praga, in AA.VV., Italo Calvino. A writer for the next millennium. Atti del
convegno internazionale di studi (Sanremo 28 novembre-1 dicembre 1996), a c. di G. Bertone, Alessandria, Edizioni
Dell’Orso, 1998, pp. 313-322.
«Italo Calvino trovasi Praga/Grazie/Eva Mameli». Telegramma postale, da Sanremo, 18 agosto 1947. (In APR.)
«Signor Italo Calvino, / Come da telegramma inviatoLe Lei è risultato vincitore del Premio Riccione per il
Romanzo. Mentre ci congratuliamo con Lei restiamo in attesa di conferma Sua ricevuta della presente per
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(perduta) il 22 agosto, e tornato a Sanremo, il 27 manda un messaggio, in cui si richiede il malloppo
toccatogli («attendo l’arrivo del Premio»)126. Il 4 settembre, ancora da Sanremo, scrive agli organizzatori: «Cari amici, sono sempre in attesa del premio. Spero avrete ricevuto le mie precedenti. Avrei
proprio bisogno che mi mandaste subito questo premio. In attesa, vi saluto con cordialità»127.
Disorganizzati, i riccionesi, su tutti i fronti, anche nella spedizione del denaro dovuto; ma è
senz’altro toccante, qui, quell’«avrei proprio bisogno subito» della ricompensa espresso da Calvino,
l’indiretta ammissione della necessità del finanziamento per uno scrittore alle prime armi senza
molti mezzi (l’epistolario fa fede alle continue preoccupazioni di garantirsi un salario adeguato).
Eccetto che per l’incasso del sospirato vaglia o assegno, ogni rapporto con Riccione si ferma
d’ufficio con quest’ultima nota. La coda del Premio però è velenosa, chè Calvino a più di un mese
dalla proclamazione annuncia a MarcelloVenturi, come lui scrittore esordiente: «A Riccione se partecipavi vincevi anche tu»128, stigmatizzando non solo l’ex-aequo (un altro, dopo quello del Premio
de «L’Unità» di Genova, vinto a pari merito con Venturi stesso)129, ma le segnalazioni a pioggia (un
terzo delle opere) della commissione, scontenta su tutto.
Il Riccione segna un nuovo smacco coi premi letterari, quasi a vaticinio dei rapporti conflittuali
coi riconoscimenti a “esame” fatti da critici o colleghi scrittori che lo porteranno vent’anni più tardi
a rifiutare il Viareggio 1968 (con Ti con zero130). Si badi, tuttavia, che dalle forche caudine di una
nuova vincita “collettiva” Calvino ci sarebbe dovuto passare nel 1957 con un altro Viareggio, per Il
Barone rampante, accompagnato nei fatti dall’assegnazione del Premio a moltissimi partecipanti e da
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provvedere all’invio del Premio di L. 100.000. / Alleghiamo alla presente il verbale della Commissione. In
attesa di cortese risposta e con i più cordiali saluti» (In APR.)
Italo Calvino, cartolina postale, mutila, da Sanremo, datata 27 agosto 1947. (In APR.)
Italo Calvino, lettera da Sanremo, datata 4 settembre 1947. (In APR.)
A Marcello Venturi, 26 settembre 1947, p. 203.
Per la cronaca della vincita con Venturi e la rilevanza non solo biografica dell’episodio, si veda L. SURDICH,
Italo Calvino e il «Premio de “L’Unità”», in AA.VV., Italo Calvino la letteratura, la scienza, la città. Atti del Convegno
nazionale di studi di Sanremo, a c. di G. Bertone, Genova, Marietti, 1988, pp. 164-174.
«La bomba, del tutto improvvisa, è scoppiata al Premio Viareggio sul tardi, quando un piccolo telegramma
proveniente da Torino, ma scritto sulle Alpi per pugno di Italo Calvino, ha gettato lo scompiglio nel mare
ormai tranquillo di una edizione che aveva designato i suoi vincitori. Italo Calvino con poche righe ha rifiutato
il premio. Il testo del suo telegramma è il seguente: «Ritenendo definitivamente conclusa epoca premi letterari
rinuncio al premio perchè non mi sento di continuare ad avallare con mio consenso istituzioni ormai svuotate
di significato. Desiderando evitare ogni clamore giornalistico prego non annunciare mio nome tra vincitori.
Credete mia amicizia». (Pier Francesco Listri, Il rifiuto di Calvino del premio Viareggio, in «La Nazione», 13 luglio
1968 citata in AA.VV.,Viareggio 50. 50 anni di cultura italiana, a cura di Francesco Bogliari, Guglielmo Petroni,
Gabriella Sobrino, [s.i.l.], Edizione delle Autonomie s.r.l, 1979 p. 105). Si cfr. anche la lettera di Calvino al
direttore di «Tempo» di Milano, 26 luglio 1968, pp. 1006-1007 e a Michele Rago del 27 luglio 1968, p. 1008 (in
cui si menziona come Rago già aveva invano chiesto a Calvino che «nel 1957 rifiutasse quel premio che gli
avevano dato con altre 11 persone tra cui un ministro, un editore e un direttore di rotocalco»).
93
polemiche infinite131. (Per tacere dello sfortunato Ultimo viene il corvo, «fino all’ultimo nella rosa dei
candidati al premio St. Vincent» del 1949132 ma di cui non se ne fa niente).
D’altro canto, la spinta al romanzo era stata indotta dal desiderio di vincere un premio letterario, «un concorso indetto [...] dalla casa Mondadori come primo sondaggio dei nuovi scrittori del
dopoguerra»133, come avrà modo di raccontare nelle sue note biografiche, e come si legge nei carteggi dell’epistolario edito. Un romanzo sudato, cui Calvino approda leggendariamente, “tutto
d’un fiato”, “in venti giorni”134, terminandone la stesura col finire dell’anno, il 31 dicembre 1946,
appena in tempo per la scadenza del Mondadori. Abbandonato il corto respiro dei racconti si approdava ora alla misura lunga e complessa, tenuta assieme da un filo biograficamente sperimentato quale l’esperienza resistenziale. L’epistolario in cui Riccione viene qui e là citata s’intreccia per
qualche mese con le ansie del concorso Mondadori135, causate anche dalla spaventosa chiarezza
con cui il giovane scrittore sente il valore del testo stesso, la sua originalità o singolarità tematica e
di linguaggio, del trattamento della Resistenza («il mio romanzo è un boccone un po’ amaro da
ingoiare per palati conservatori e benpensanti, ma non è una cosa che si possa passare sotto silenzio e credo saranno obbligati a includerlo nei tre prescelti, o a motivare il perchè dell’esclusione»136). Il 3 gennaio 1947 aveva scritto all’amico Scalfari a Roma, con l’annuncio del primo parto
maiuscolo della sua penna di scrittore. L’anno 1947, per Calvino, si apre con un ritratto:
Ho finito in questi giorni il mio primo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno, un’esperienza di malvagità
e schifo umani, ma con una speranza di redenzione quasi cristiana (terrena, però), più dichiarata che
raggiunta. Un romanzo terribilmente mio, una rischiosa aspirazione di serenità137.
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Cfr. a Michele Rago, 27 luglio 1968, p. 1008 e la lista data a p. 145 in AA.VV., Viareggio 50, cit.Lo stesso volume
riporta a p. 199 la lista della rassegna stampa, su cui svettano titoli come Di male in peggio, Le pastette della gloria,
Tutti premiati (o quasi) a Viareggio, Premio di massa assegnato a Viareggio, etc.
A Mario Calvino, 1 ottobre 1949, p. 256. Il St.Vincent lo vincerà invece, distribuito assieme a una’altra «ventina
di premi» come «gran premio di giornalismo» nel 1950 («l’altra sera il casinò di St. Vincent che ha la buona
abitudine di dar premi e regali a destra e a sinistra m’ha omaggiato di 150mila lire». A Mario Calvino, 7 novembre
1950, p. 312). Il libro era stato in verità finalista anche al Viareggio, di cui ci dà notizia G. BOTTA, Sul corvo di
Calvino splende il mito partigiano, «Il Giornale», Napoli, a.VII, n. 198, 20 agosto 1950 (si cfr. la recensione in
appendice al capitolo II di questo volume).
I. CALVINO, Nota introduttiva a Gli amori difficili, in ID., Romanzi e racconti, t.2, cit., p. 1283.
Come ha fatto notare bene F. SERRA, nel suo volume Calvino, cit., nel capitolo III Gli esordi difficili (cfr. pp. 3361) la nascita del romanzo avviene per approssimazioni e si stende in un lasso di tempo più ampio (come dalla
lettura dell’epistolario, base della ricostruzione di questa prima fase). Importante far notare come ci sia la
cristallizzazione di questa notizia della “rapidità” (e conseguente felicità) della scrittura calviniana, diffusa
dall’autore stesso.
Cfr. le lettere a Venturi e a Micheli tra il gennaio e l’aprile, in I. CALVINO, Lettere 1940-1985, cit. pp. 174-191.
A Marcello Venturi, 19 gennaio 1947, p. 178.
A Eugenio Scalfari, 3 gennaio 1947, p. 172.
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La lettera a Scalfari è capitale per gli umori che muovono Calvino, e per quel tanto di posa,
orgoglio (e pregiudizi, si licet) su cui la “professione” dello scrittore – anche epistolare- lo porta. Per
noi, lettori d’oggi, non è il solito ritratto in punta di penna come si avverte nelle consuete note
esplicative ai testi, tentate dall’autobiografia ragionata, bilanciate sui sì-e-no delle molte presunte
verità di scrittura (dal 1954 in poi, quando è colto dalla passione prefatoria, che colpisce il Sentiero
due volte138); ne è il solito ritratto elusivo e taciturno ritagliato sugli scampoli delle omissioni, dei
ripensamenti e dei giudizi indotti che caratterizzano il materiale biografico posteriore139: ma l’intimità delle immagini comunicate senza restrizioni, finalmente coeve alla stesura dell’opera prima
s’accampano sulla pagina e ci lasciano cogliere il processo automitografico che ne muove la mano.
Preistoria romanzata, raccontata con ironica esagerazione, la genesi del Sentiero prende avvio,
quanto al prologo, sui tetti di una Torino in ricostruzione e in miseria, in una scomoda soffitta
dentro cui Calvino esercita un freddoloso tirocinio di scrittore («lo scrivere è però oggi il più squallido e ascetico dei mestieri: vivo in una gelida soffitta torinese, tirando cinghia e attendendo i vaglia
paterni»), lo speranzoso prodotto di un soggiorno irto di disagi e intoppi, passato tra comignoli e
cieli bigi e dedicato alla letteratura. Gli epicedi finanziari, si sa, costituiscono un risvolto comune tra
gli artisti esordienti, sottoposti ai fortunosi rovesci della sorte ed educati per forza di cose a lunghi
tirocini probatori («rare le grosse soddisfazioni e le fortune»); e il tono confessionale dell’epistola
non si sottrae di conseguenza a qualche concessione seriosa, di posa, al personaggio che Calvino si
sta costruendo con discrezione, tessera su tessera, confinandolo tra le righe, ammiccante ai canonici
travagli bohemien o all’umorose irrequietudini stemperate sulla pagina con tonalità a tratti retoriche
e magniloquenti da un’autore che già ben sa come amministrare la propria immagine pubblica:
Dici di non voler essere romantico e l’hai nel sangue, di non voler essere dilettantesco e tutta la tua
genialità è in questo tuo e forse nostro generoso dilettantismo. Meglio è accettare se stessi come si è, coi
propri dati ormai immutabili e i propri limiti, e cercare di volgere questi nostri dati e limiti nel senso
storicamente più valido. Io, epigono d’una generazione d’individualisti, accetto questa mia condizione
d’individualismo estremo e cerco d’essere un ponte verso altri che vengono o verranno, per cui tanta
mia problematica non vale140.
138
139
140
Si cfr. la Prefazione del Sentiero dei nidi di ragno e la Nota introduttiva 1954 al Sentiero dei nidi di ragno, entrambe
ripubblicate in I. CALVINO, Romanzi e racconti, t.1, cit., rispettivamente alle pagine 1185-1204 e 1205-1207.
«Ciascuno quando parla di sè, mente sempre. Io poi non ripeto mai la stessa notizia due volte di seguito nella
stessa maniera, perchè sarebbe troppo noioso» (A Edoardo Fea, 8 febbraio 1965, p. 852). Ma si cfr. anche la
lettera a Germana Pescio Bottino, 9 giugno 1964 (pubblicata in I. CALVINO, I libri degli altri. Lettere 1947-1981,
cit., p. 479, dove Calvino perentoriamente nega valore alla biografia e ai dati biografici, affermando come «di
un autore contano solo le opere. [...] dati biografici non ne do, o li do falsi, o comunque cerco sempre di cambiarli
da una volta all’altra». Per un autore singolarmente anti-biografico, però, abbondano gli scritti “memoriali” e
le riflessioni continue su episodi della propria biografia. Il rapporto (nevrotico) con la scrittura biografica in
Calvino è ancora tutto da scrivere. Si cfr. la voce Autobiografia e Identità in D. SCARPA, Italo Calvino, cit. pp. 63-65
e 133-137.
A Eugenio Scalfari, 3 gennaio 1947, cit.
95
Ma questo dilettantismo, però, per quanto «generoso», cede subito il passo a una “maturità”
orgogliosamente rivendicata, che se certo stride con le caute immagini d’introspezione appena
formulate, al contempo ne è la risultante più logica, la chiara consapevolezza del proprio ruolo e
responsabilità:
il ’46 è stato per me un anno enorme: un anno fa ero ancora uno sconosciuto e sotto molti aspetti un
immaturo, oggi sono in narrativa uno dei nomi più noti della nuova generazione, ho un discreto
seguito come critico, pubblico il massimo che si può pubblicare oggi, son amico di tutti i grossi nomi
delle lettere italiane141 [...]
Sul limitare dell’anno nuovo, al vecchio rivolto, Calvino traccia un bilancio di sé come scrittore
che è importante ripercorrere, in quanto anticipa strategie, avanza giudizi, dà la corda a progetti
futuri che includono sulla cima il romanzo, probabile e definitivo suggello di una vocazione letteraria. Notizie che fanno da pendant con quanto scriverà quasi cinque lustri più tardi, nel 1970:
Nel periodo immediatamente seguente alla Liberazione [...] comincia a scrivere racconti ispirati alla
vita della guerriglia, e stabilisce i suoi primi contatti con ambienti culturali di Milano (il settimanale di
Elio Vittorini “Il Politecnico”) e di Torino (la casa editrice Einaudi). Il primo racconto da lui scritto
viene letto da Cesare Pavese il quale lo passa alla rivista che Carlo Muscetta dirige a Roma (“Aretusa”,
dicembre 1945). Intanto Vittorini ne pubblica un altro sul “Politecnico” (cui Calvino collabora anche
con articoli sui problemi sociali della Liguria). Giansiro Ferrata gli chiede altri racconti per “l’Unità”
di Milano. I quotidiani sono a quel tempo di un foglio solo, ma un paio di volte la settimana cominciano a uscire con quattro pagine: Calvino collabora alla terza pagina anche de «l’Unità» di Genova
(vincendo un ex-aequo con Marcello Venturi) e di Torino (che ha tra i redattori per qualche tempo
Alfonso Gatto)142.
Al Premio genovese si accenna anche nella lettera a Scalfari, come buon presagio di futuri sviluppi (e guadagni): «il Premio Unità di Genova ha dato vincitore un mio racconto, ex-aequo con un
altro, rendendomi 25mila»143.
La scrittura del romanzo s’inserisce in questo progresso dall’apparenza inarrestabile, fatto di
riconoscimenti e di premi, in questo moto ascendente fiducioso che porta lo scrittore a formulare
piani ben precisi. Nel decalogo sul da farsi, all’apertura del nuovo anno, sono infatti prioritari la
laurea («con una tesi sul Conrad») e, finalmente, «vincere un premio letterario grosso», il sospirato
grimaldello per una consacrazione ufficiale.
141
142
143
Ibidem.
I. CALVINO, Nota introduttiva a Gli amori difficili, in ID., Romanzi e racconti, t.2, cit., p. 1283.
A Eugenio Scalfari, 3 gennaio 1947, cit.
96
Il 1947 si delinea come anno di svolta, l’avamposto da cui difendere e conquistare nuove posizioni. È l’anno del romanzo: il percorso per ricostruirne l’iter dalla prima stesura compiuta al felice
approdo in stampa presso Einaudi ne costeggia, scrittura esclusa, tutto l’arco. Il risultato fallimentare mondadoriano tronca di netto ogni aspettativa. E non solo per il carattere intrinseco della
bocciatura, che certo duole, ma perché a giudicare severamente il romanzo erano in parte stati i
promotori, coloro che più l’avevano sollecitato, e comunque gli scrittori come Ferrata e Vittorini
che così benevolmente avevano finora accolto i racconti:
[...] Pavese lo incoraggia a scrivere un romanzo; lo stesso consiglio egli riceve a Milano da Giansiro
Ferrata che è nella giuria d’un concorso per un romanzo inedito, indetto dalla casa Mondadori come
primo sondaggio dei nuovi scrittori del dopoguerra. Il romanzo che Calvino finisce appena in tempo
per la scadenza del 31 dicembre 1946 (Il sentiero dei nidi di ragno) non piacerà né a Ferrata né a
Vittorini e non entrerà nella rosa dei vincitori (Milena Milani, Oreste Del Buono, Luigi Santucci)144.
Sappiamo oggi, dalla lettura dell’epistolario, degli altalenii calviniani sul concorso (trepidazione, curiosità, irritazione – perchè Ferrata non si fa sentire- e vero disappunto per il giudizio negativo). Tuttavia, nel tiro alla fune di questi mesi, la ciambella di salvataggio gli era stata gettata dal
tutore Pavese, che in gennaio s’è già letto il romanzo e l’ha approvato. Il giudizio stesso di Pavese,
tuttavia, allorché Calvino gli propone subito la lettura del libro per la pubblicazione da Einaudi,
contiene svariate riserve, nonostante sia assicurato l’esito positivo («È senz’altro da stampare nei
N.C. [“Narratori contemporanei’, ndr]»145). E le riserve, d’altro canto, riguardano il nucleo ideologico del testo, lo spunto del romanzo stesso (il che non è cosa da poco): nel “racconto non di personaggi ma di avventure” che è il Sentiero, secondo Pavese, «grande stonatura» è «il capitolo del
commissario Kim che ragiona sul distaccamento di carogne dov’è il ragazzo» Pin, il «fratello di
puttana» che «va coi partigiani» alla ricerca della «purezza». Un capitolo stonato perché con esso
«si rompe l’angolo visuale del ragazzo», perché “non è ingranato nell’avventura, é un’esigenza
intellettualistica». Ma altri punti sono scottanti, in una lettura che si fa contraddittoria: «Inoltre
sovente il mondo del ragazzo é rotto da evocazioni che sanno di sintesi lirica adulta», rese con un
linguaggio «stonato» (ancora); stonature che sono poi ridimensionate da Pavese stesso con «ma ciò
è raro», contraddicendo le posizioni precedenti di cui il «sovente» in bella vista era il più cospicuo.
Dal canto suo Einaudi «se ne entusiasma e lo lancia facendo persino affiggere dei manifesti. Se
ne vendono seimila copie: un discreto successo, per quell’epoca»146.
144
145
146
I. CALVINO, Nota introduttiva a Gli amori difficili, cit., p. 1283.
C. PAVESE, in I. CALVINO, Romanzi e racconti, t.1, cit., p. 1244.
I. CALVINO, Nota introduttiva a Gli amori difficili, cit., p. 1284.
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Dalla ricostruzione di Calvino resta però fuori qualcosa. In una parola, la storia del testo. Lo
scrittore non fa cenno alla consistenza del testo, a una sua stasi (nel passaggio dal Mondadori a
Einaudi, da una bocciatura a un trofeo) o evoluzione. Un silenzio singolare, rafforzato da una più
grossa omissione. Quella di un premio letterario vinto; un premio letterario forse “periferico” come
il Riccione (sebbene si presenti come «Nazionale»), ma vinto. Quale può essere il senso di questa
cancellatura biografica? Può rappresentare solo una distrazione irrilevante di un racconto conciso,
attento a un ricostruzione globale, e non analitica, degli esordi? Il silenzio richiede un supplemento d’indagine. Le testimonianze sull’elaborazione del testo (poche e frammentarie, fornite dallo
stesso Calvino) si limitano infatti alla fase genetica, alla fase cioè esclusa dal dominio degli obiettivi prefissati per il 1947, come appare dalla lettera a Scalfari.
Spintosi al riesame pubblico della cronistoria del Sentiero, l’autore si arresta a un racconto particolareggiato degli aspetti legati alle contingenze di gestazione e nascita: indugia sull’ideazione,
lo svolgimento e gli intoppi connessi alla sperimentazione romanzesca, ma non si spinge mai analiticamente oltre. La soglia del percorso del testo in cerca d’editore, e di fama (il “far fuori il libro,
vincere un premio letterario grosso’), non viene varcata che en passant, laconicamente, ed una sola
volta, nel 1970.
Il meccanismo rivisitato del Sentiero si arresta invariabilmente lì, sulla coda del fatidico ’46, il
“grande anno” della lettera a Scalfari, per rimettersi in moto poi con l’uscita presso Einaudi dell’autunno seguente. Secondo gli schemi autobiografici calviniani, viene a trovarsi così tra la scrittura e la stampa del romanzo una sorta di terra di nessuno, in cui i disegni di autopromozione
scompaiono nel nulla. Il black out informativo dell’autore concorre ad annullare i vari passaggi e le
mediazioni, i progressi e le correzioni di rotta del testo, rendendone difficile e incerta la ricostruzione. Il Sentiero si troverebbe così compresso tra l’incudine di una genesi frettolosa (“in venti
giorni”, appunto) e il martello di un lancio editoriale con tanto di strilloni e manifesti, diventando
un organismo spacciato per compiuto e rifinito già dalla nascita, e per il quale si potrebbe ipotizzare, dati alla mano, una lunga stasi, un letargo che per quanto transitorio abbraccia ben dieci mesi.
Che il 1947, date certe premesse, sia per il Sentiero così vuoto, poco memorabile fino all’exploit
einaudiano, è perlomeno sospetto. Una possibilità che d’altronde, sottoposta a verifica, è subito
smentita dagli avvenimenti.
Tre avvenimenti scandiscono di fatto l’anno calviniano. Benché, riduttivamente, sia privilegiato
dall’autore quello estremo della pubblicazione, coronamento liberatorio di un’ansia di gratificazione e successo, non vanno trascurati gli episodi che stabiliscono un’altra immediata connessione
col romanzo, costituendone i filtri decantatori: la carta tentata (e fallita) del concorso Mondadori e
la vittoria, forse appannata dall’ex-aequo, del neonato Premio Riccione, un biglietto da visita, questo, spendibile a scopi editoriali.
Come si è visto, il primo concorso, fallimento incluso, si merita persino una menzione “ufficia98
le” da parte dell’autore nelle note biografiche, mentre sorprende la totale assenza di notizie sul
premio riccionese. La cronistoria del testo del Sentiero si propone quindi fin dall’inizio lacunosa. Il
“Premio Riccione per un romanzo”, assegnato ex-aequo a Fabrizio Onofri e a Calvino, si pone come
tappa immediatamente antecedente l’edizione in volume e, da un punto di vista redazionale, come
termine mediano del percorso del romanzo dalla stesura alla stampa.
Il recupero del testo inviato al concorso, conservato nell’archivio riccionese, ne ha avviato finalmente l’indagine ravvicinata degli stadi di composizione147. Il concorso, tuttavia, dovrebbe pure
avere una rilevanza biografica, che sarà interessante indagare nonostante la “rimozione” pubblica
fattane da Calvino: nelle fasi dell’avvicinamento al testo a stampa, oramai quasi certa dopo l’assenso di Pavese, esso giunge per il Sentiero (e lo scrittore) come l’occasione di riscatto dalla bocciatura mondadoriana. Il concorso adriatico non è precisamente il “premio letterario grosso” con cui
“far fuori il libro” secondo i piani di Calvino nella lettera a Scalfari, nondimeno costituisce un’opportunità da afferrare in vista delle possibile strategie promozionali del volume. Come abbiamo
già visto, Calvino menziona Riccione il 7 febbraio a Marcello Venturi e il 10 scrive agli organizzatori per informarsi se il Premio sia legato o no a una casa editrice. Sono questi i mesi dell’attesa del
Mondadori, dell’invito a pubblicare per Einaudi e, perchè no, del Riccione come possibilità di
riserva (fosse esso legato o no a una pubblicazione).
Avvalendoci dei dati disponibili, si può affermare che la carta del Premio venne giocata da
Calvino alla metà di maggio, quando il Mondadori era irrimediabilmente sfumato, a ridosso delle
decisioni finali di contratto con Einaudi, di cui aveva avuto rassicurazione (comunicata a Venturi il
23 aprile)148. Nell’archivio riccionese si conserva infatti una cartolina postale spedita da Torino il
14 maggio, con cui Calvino chiede ancora una volta lumi sulla composizione della giuria. Si tratta,
è chiaro, di una ricognizione esplorativa. La risposta della segreteria riccionese -che dice di pazientare- è spedita allo scrittore in data 19. In questo incrocio epistolare che interessa il destino del
romanzo cade anche un’importante lettera di Vittorini a Calvino, in data 20 maggio:
Caro Calvino, ho dato a Einaudi parere favorevole per il tuo libro. Però non sono del tutto d’accordo,
tu sai già come e perché, ormai ci conosciamo. Questo non significa che non sia rimasto stupito, a
lettura finita, che tu non sia stato tra i prescelti del premio Mondadori. Non capisco più niente. Milena
Milani sì e tu no? Santucci sì e tu no? Non conosco i loro romanzi pure non immagino quali grandi
progressi abbiano potuto fare sulla loro base di partenza. Per i racconti, scusami, non ho ancora potu147
148
Una prima ricognizione dei dattiloscritti del Riccione si deve a Bruno Falcetto, che li ha studiati
contestualizzandoli all’interno del più ampio movimento della variantistica calviniana delle tre edizioni del
Sentiero (1947, 1954, e 1964). Per le notizie sui testi e per le varianti, si cfr. I. CALVINO, Romanzi e racconti, t.1, cit.,
pp. 1243-1260. Per Riccione, in particolare, si cfr. le pagine1247, 1249 e 1257-1260.
«Dunque, il mio romanzo uscirà da Einaudi “subito”, cioè entro il ’47. Difatti Ferrata me l’ha stroncato per M.»
(A Marcello Venturi, 23 aprile 1947, p. 188).
99
to leggerli. Ho dato sotto col romanzo dato che c’era una decisione immediata da prendere. Tornerò
su di te al prossimo momento libero149 [...]
Per Calvino la situazione del Premio e del Sentiero si schiarisce nelle due settimane centrali di maggio. E interessante è notare che da Riccione, la settimana successiva, in data 26, viene inviata a Vittorini
copia della formazione definitiva della commissione, che porta a compimento le operazioni preliminari
del concorso. Ancora più interessante il fatto che l’adesione di Vittorini al Riccione risalisse al 2 aprile,
come da documenti d’archivio. Non è quindi azzardato supporre, dato l’antecedente di Ferrata col
Mondadori, che Vittorini comunicasse i nomi della giuria a Calvino, o che l’invitasse a competere al
Premio. Stavolta ci sarebbe stato il conforto di una presenza amica, “non [...] del tutto d’accordo” sul
romanzo, è vero, ma senz’altro più decisa a difenderlo di quanto non avesse fatto Ferrata per il Mondadori (tanto che Vittorini si dichiara addirittura “stupito” che il Sentiero non sia “tra i prescelti”).
L’avvicinamento al Premio riccionese è comunque compiuto da Calvino con circospezione. Il Mondadori, a quanto pare, aveva lasciato dei segni. La richiesta di conoscere tutti i nomi, il chi è della giuria,
prima di decidersi all’adesione al concorso, è rivelatoria: Calvino vuole stavolta tutelarsi il più possibile: prima di rimandare il Sentiero allo sbaraglio, data anche la certezza dell’uscita con Einaudi, lo scrittore vuole capire se la giuria anche soltanto sulla carta può essere più o meno favorevole. L’adesione
sembra dunque essere condizionata. L’assenso einaudiano di Vittorini e la presenza di questo nella
commissione può avere concorso alla decisione definitiva di partecipare a Riccione. O comunque la
baldanza sul valore del libro può averlo fatto decidere comunque quasi all’ultimo minuto, il 12 giugno
(data della spedizione dei dattiloscritti, come dai documenti d’archivio).
La storia del Sentiero, a questo punto, farebbe perdere le sue tracce e riemergerebbe con la vincita
dimezzata del 16 agosto e la successiva pubblicazione. L’attenzione data al libro da parte dei commissari, i giudizi conseguenti di lettura, sparirebbero nel nulla. Le notizie che possediamo sulle fasi finali del
Premio provengono come riportato in precedenza, per la maggior parte, dal diario di Sibilla Aleramo.
Assieme ai pochi documenti di un certo interesse ancora custoditi nell’archivio riccionese il Diario della
poetessa è l’unica risorsa che ci permetta di leggere in chiave retrospettiva l’iter concorsuale; e con il
verbale della vincita, che i giornali però non pubblicano, ma cui accennano, non si può che leggere in
questo concorso un nuovo smacco.
Come interpretare però il silenzio di Calvino su Riccione, l’omissione del primo trofeo pubblico che
il Sentiero conquistò avanti la vendita delle seimila copie einaudiane?
Come interpretare il silenzio su di un episodio che a diritto potrebbe vedersi di risarcimento morale
per l’autore, dopo il fallimento del Mondadori (menzionato invece nelle note biografiche)?
149
E. VITTORINI, Gli anni del “Politecnico”. Lettere 1945-1951, cit., p. 121.
100
La risposta, a ben vedere, è fornita dagli accenni retrospettivi di Calvino verso il libro, da quella
consequenzialità accreditata come indubitabile di “scrittura-pubblicazione-successo” che cancella e tace
le difficoltà, le cadute, i successi parziali e che puntella il ritratto (sempre più ingombrante) dello scrittore nato già adulto. La nascita del romanzo avviene infatti con le stimmate di una bocciatura che
l’autore tenterà sempre di riscattare, e che riscatterà a suo modo, compiendo una sorta di vendetta
postuma: scartato “ingiustamente” da un editore (Mondadori), criticato da lettori autorevoli (Ferrata,
uno per tutti) il Sentiero diventa invece il libro pubblicato da Einaudi che ne riconosce il valore intrinseco, “se ne entusiasma”, ci scommette sopra e lo lancia con tanto di manifesti e fanfare e lo porta al
meritato successo coram populo.
L’intermezzo riccionese - vuoi per la scarsa importanza che tale premio rivestiva, vuoi per il deludente ex aequo - non segnò mai le corde dello scrittore, neppure come calmante. Il Sentiero continuerà a
bruciare a Calvino, nel tempo, per molti altri, e più consistenti, motivi. Non solo per il pari merito,
Riccione stessa è una vittoria dimezzata: dalle segnalazioni a pioggia del verbale, indice di mediocrità
dei prodotti, il libro si stacca a fatica. Al giudizio negativo dei giudici Mondadori faceva dunque ruota
quello non esattamente lusinghiero dei riccionesi, che donava a Calvino un successo di stima, solo un
segnale di incoraggiamento. Sul piano critico non vi furono benefici immediati e evidenti. Riccione fu
anzi la prova generale dei contrasti che segnavano il libro e che dovevano investire a più riprese il
volume einaudiano. Furono anche la riconferma delle “stonature” contenute nel libro che Pavese aveva
rilevato, cancellate poi di colpo nella lettura pubblica.
Il debutto nel romanzo si porta subito dietro per Calvino uno strascico di irrequietudine e di disagi.
Il passaggio dai racconti non fu facile, disinvolto, come lo scrittore vorrebbe nelle sue rivisitazioni à
rebours, un colpo di coda dello “scoiattolo della penna”, cavalcantiano schivatore d’ostacoli di carta e
inchiostro; non fu di getto, e comunque non fu facile. Il risultato deludente contò molto nella biografia
di Calvino, il quale si affrettò a rimuoverlo, rimuovendo al contempo il parziale successo riccionese,
corollario degno del fallimento mondadoriano (di cui invece nel disegno mitografico, ebbe bisogno).
Siamo di fronte a un’omissione cosciente da parte di Calvino, all’episodio “dimenticato” perchè
biograficamente non importante, di tono minore, oscurato dall’imminenza della pubblicazione einaudiana. Un distacco attribuibile pure alla doppia delusione dell’ex aequo, dopo avere fatto buca nel premio letterario “grosso” che si voleva vincere (il Mondadori) e a non essere riuscito neppure a portarsi
via, intero, con il concorso del benevolo Vittorini e del suo telegramma di preferenza secca, il premio
periferico. È un risultato insoddisfacente per chi mirava ad allori più alti, per chi aveva creduto fortemente nel romanzo e se l’era visto respinto accompagnato da dissensi più o meno marcati, com’è facile
intuire a posteriori.
A misurare lo scarto traumatico per lo scrittore tra aspirazioni e realtà si rilegga la lettera a Scalfari,
con quella ruota di pavone, lo sfoggio di sicurezza, di felicità, con l’enunciazione degli obiettivi 1947
così a portata di mano visto i successi precedenti, le protezioni, le proprie risorse personali.
101
Anche in una intervista del 1982 il passaggio dal racconto al romanzo è immediato, indolore: il
Sentiero, una volta scritto, «was published and it was a success»150. L’immagine dello scrittore geneticamente versatile – scrittore di racconti come di romanzi – ne esce confermata. Il Sentiero diventa
un libro partorito felicemente e felicemente approdato al successo, tanto che ripercorrendone la
genesi Calvino lo vedrà nella prospettiva del volume «scritto» (di getto), subito «pubblicato» e certo
«osannato», con questa triade diventata il fattore certo dei rimandi retrospettivi, l’esempio della
capacità da parte di uno scrittore di racconti di confrontarsi con la scrittura romanzesca e uscirne
vincitore. (Anche la menzione della bocciatura gli serve: il romanzo, nel suo viaggio agli allori, è
brevemente frainteso e azzoppato ma sta in piedi valorosamente da solo). Non che l’operazione
ricostruttiva di Calvino non abbia valore intrinseco, come potremmo retrospettivamente concordare: dei libri della Resistenza, il Sentiero rimane il più luminoso. Tuttavia, il saltare il fosso dei racconti per il romanzo non è stata l’operazione più pacifica del mondo, come Calvino ha più volte tentato
d’accreditare; e sarà poi la forma romanzesca ritentata subito dopo con l’ineditissimo Bianco veliero
a creare grattacapi, per un autore che comunque continua a restare scrittore di racconti e a eccellere
nella forma breve.
Il Sentiero non costituisce affatto l’inizio, l’esordio di Calvino, da ritrovarsi invece nella serie dei
racconti scritti tra l’autunno del 1945 e la fine del 1946 (per tacere di tentativi antecedenti). La prova
del romanzo va letta invece come il primo vero esame, il primo passaggio sotto l’occhio scrutatore
e sempre meno indulgente di scrittori-amici e critici, le prime inevitabili forche caudine con tutto il
contorno di cadute, mezzi insuccessi, successi semi-riparatori.
Un esame che continuerà a tormentarlo per anni, legato alla scrittura del libro, al suo valore di
passaggio, di testimone di una fase della vita finalmente aperta (ma non necessariamente aperta
secondo i propri piani).
Il primo libro ti definisce mentre tu in realtà sei ancora lontano dall’essere definito; e questa definizione
poi dovrai portartela dietro per la vita, cercando di darne conferma o approfondimento o correzione o
smentita, ma non riuscendo mai più a prescinderne151...
Tutto è lontano e nebbioso, e le pagine scritte sono lì nella loro sfacciata sicurezza che so bene ingannevole, le pagine scritte già in polemica con una memoria che era ancora un fatto presente, massiccio, che
pareva stabile, dato una volta per tutte152…
150
151
152
W. WEAVER, Calvino: an interview and its story, in AA.VV., Calvino revisited, a cura di Franco Ricci, Toronto,
Dovehouse Editions Inc., 1989, p. 23.
I. CALVINO, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1202.
Ibidem, p. 1204.
102
At that time I was writing a lot of short stories [...]. At that time I was a short story writer, and if I has
said everything I have to say in the form of stories, I would have written a number of stories that I never
actually wrote153...
Nessuna altra opera, come il Sentiero, con le sue cancellazioni, le sue idiosincrasie, ha mai accompagnato Calvino così a lungo, per vent’anni, senza mai esaurire le dichiarazioni, le postille, i
distinguo, gli addentellati154. La separazione dal testo, attuata con la stampa del 1947, non sortisce
alcun effetto liberatorio, sembra anzi l’inizio di una vasta nevrosi che coinvolge il romanzo. Il
ritorno ossessivo su questo speciale luogo del delitto, l’ansia e il rimorso che lo accompagnano
palesano come il romanzo abbia per l’autore la complessità di un testamento anticipato, il libro che
ha condizionato, segnato, maledetto in qualche modo il suo autore con le stimmate indelebili del
guazzabuglio personale.
Nell’agosto 1947, quando la notizia della vittoria lo raggiunge a Praga, al suo lavoro di giornalista per “l’Unità”, l’ansia di pubblicazione è stata già placata da mesi (dal maggio almeno). Il libro
è stato davvero “fatto fuori” allora, e la premiazione appare come un fatto lontano – e, per le sue
modalità, non sollecita certo entusiasmi. Calvino si poteva ritenere già soddisfatto per l’uscita prossima sui piombi Einaudi: il romanzo accolto dai suoi lettori in maniera contrastata sarebbe stato
nondimeno pubblicato. Ciò che veniva dopo avrebbe costituito un di più benvenuto, ma tale da
non rimanere impresso come avvenimento determinante, tale da lasciare nel bene e nel male, come
il Mondadori, un solco netto tra un prima e un dopo per la sua carriera: la prima linea d’ombra
professionale era già stata finalmente varcata qualche mese addietro. E la nevrosi poteva cominciare.
Italo Calvino, a Riccione, davvero non c’era stato e, anche a lume di memoria, al «Riccione» non
ci sarebbe stato mai.
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W. WEAVER, Calvino: an interview and its story, cit., p. 27.
Si cfr. F. SERRA, Calvino, cit., pp. 59-61.
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