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• La lingua del processo è da sempre un tema importante e
CONVEGNO DEL 30 OTTOBRE 2014
RELAZIONE DI BRUNO CAVALLONE
LA LINGUA DEL PROCESSO CIVILE ITALIANO
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La lingua del processo è da sempre un tema importante e affascinante.
Tra i tre generi del “discorso persuasivo” di cui parlava la Retorica di Aristotele –
il deliberativo, il giudiziario e l’epidittico – il secondo occupava già allora, e ancor
più ha occupato in seguito, la posizione dominante.
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I grandi maestri romani di retorica – Cicerone e Quintiliano – erano anche
e prima di tutto retori “operativi”, cioè avvocati. E un intero fondamentale settore
della teoria e della disciplina del processo, quello delle prove, è stato,
storicamente, proprio una creazione dei retori, non dei giuristi teorici (nel Digesto
infatti se ne parla pochissimo).
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Incidentalmente: la Institutio Oratoria di Quintiliano meriterebbe di essere
letta ancora oggi come un utilissimo “manuale dell’avvocato”. Vi si parla davvero
di tutto, comprese la tecnica della dettatura agli scrivani e l’assunzione dei
praticanti.
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Tuttavia, mentre la teoria e la pratica della retorica forense hanno
continuato ad essere coltivate nel corso dei secoli, solo in anni recenti l’analisi del
linguaggio degli operatori della giustizia ha attirato l’attenzione degli studiosi,
come capitolo comune alla linguistica e al diritto processuale.
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Nella nostra letteratura, il libro di Bice Mortara Garavelli, Le parole e la
giustizia, è un esempio e modello di queste indagini. Ma la produzione di
contributi significativi (libri, articoli, e soprattutto relazioni e interventi a
convegni) ha ormai raggiunto dimensioni inquietanti.
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Mi accontenterò dunque di qualche osservazione nell’unico ambito del
quale ho esperienza professionale e accademica, che è quello del processo civile
italiano.
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Della lingua del processo civile italiano mi è accaduto di parlare, qualche
anno fa, in un convegno dell’Accademia della Crusca sul tema L’italiano giuridico
che cambia, con un intervento dal titolo Un idioma coriaceo: nel quale cercavo di
spiegare come e perché il linguaggio del nostro processo civile sia rimasto
sostanzialmente impermeabile all’influsso di lingue straniere, e in particolare
all’invadenza dell’inglese.
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Mi occupavo, in quella sede, soprattutto del linguaggio, parlato e scritto,
degli avvocati del contenzioso (i litigators, nella terminologia americana), con
qualche ovvia ironia sui vezzi, gli arcaismi e i neologismi sgraziati che lo
affliggono: e però difendendolo e rivalutandolo (mi permetto una citazione
testuale) come “una sorta di armatura, o di cassetta degli attrezzi, con cui gli avvocati
difendono la propria identità socio-culturale e la propria funzione tipica, che è infatti
quella di tradurre in un idioma sintetico, e almeno parzialmente formalizzato, le
narrazioni che hanno raccolto, in termini più prolissi, variegati e sconnessi, dalla voce dei
clienti, o dalle carte che questi hanno rovesciato sulla loro scrivania. Il che poi significa, in
ultima analisi, trasportare i conflitti dalla loro dimensione reale a un piano artificiale e
metaforico, che è già di per sé un modo per risolverli, o almeno per esorcizzarli”.
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In quell’intervento, peraltro, parlavo molto poco del contraddittorio tra i
soggetti del processo, dal punto di vista della costruzione retorica dei loro
“discorsi”, mentre è soprattutto a questo, se ho ben capito, che rimanda il tema di
questo incontro, più che al lessico e alla morfologia dei loro diversi linguaggi
(ammesso poi che siano diversi).
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A questo proposito, allora, vorrei partire da un episodio che si trova nel
secondo dei cinque libri del cd. Gargantua e Pantagruel, opera tanto famosa quanto
raramente letta per davvero. Incidentalmente: François Rabelais – penalizzato da
una nomea riduttiva di umorista, con una propensione goliardica alla satira
anticonventuale, alla scatologia e agli eccessi alimentari – fu in realtà, come mi è
capitato di dire e scrivere in altre occasioni, anche un finissimo teorico del
processo e del giudizio.
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Si tratta qui di une controverse merveilleusement obscure et difficile, pendente
dinanzi alla Corte del Parlamento di Parigi tra due gentiluomini dei quali
omettiamo i cognomi per non offendere le caste orecchie del pubblico.
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I più fini giuristi d’Europa vi si sono impegnati per quarantasei settimane
(una durata in realtà perfino inferiore a quella che noi definiremmo
“ragionevole”) senza venirne a capo. La Corte manda allora a chiamare
Pantragruel, in fama di grande saggezza benché giovane: il quale esordisce con
una professione di fede nel principio di oralità, giacché ordina subito di bruciare i
voluminosissimi sacchi che contengono le carte del processo (ci vogliono quattro
asini per trasportarli) e dispone invece la comparizione personale delle parti,
peraltro dotate, come risulta dal seguito, di ottime capacità retoriche e cultura
giuridica. Quindi Pantagruel invita l’attore ad esporre le sue ragioni «secondo
verità, perché se dite una sola parola mendace, perdìo, vi stacco la testa dalle spalle»
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(questo sì era “dovere di verità”, altro che il flebile e velleitario dovere di lealtà e
probità del nostro art. 88 c.p.c.).
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L’attore illustra allora la sua pretesa in uno straordinario grammelot
forense, cioè in un linguaggio che in generale ha il suono e le cadenze tipiche di
un discorso avvocatesco, ricco di espressioni ricercate, di metafore, di citazioni
latine, ma è totalmente privo di senso. L’unica cosa comprensibile sono le
conclusioni: “la causa sia decisa da Vostra Signoria come di ragione, con le spese, i danni
e gli interessi”.
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Analoga, e speculare, è l’arringa difensiva del convenuto, rigorosamente
nonsensical fino alle conclusioni: “si conclude come sopra, con spese, danni e interessi”.
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A questo punto Pantagruel, tra lo stupore di “tous les Presidens, Conseilliers
et Docteurs”, che ammettono di non avere capito niente, si apparta in breve e
sofferta meditazione (“gemendo come un asino sottoposto a un salasso troppo cruento”),
e poi pronuncia una elaborata sentenza nello stesso astruso grammelot delle due
arringhe, e a sua volta comprensibile solo nella clausola finale: “spese compensate”.
Nondimeno, la decisione suscita l’entusiasmo e la gratitudine delle parti, felici di
non dover più sopportare altri costi, mentre la Corte e il pubblico acclamano
Pantagruel come un novello Salomone.
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Si può ricordare che la fonte implicita di questo episodio è la “lite tra
sordi” descritta in un epigramma greco, raccolto nella Antologia Palatina e poi
riprodotto negli Adagia di Erasmo da Rotterdam (del quale Rabelais si proclamava
discepolo spirituale): “Un sordo litigava con un sordo, ma di entrambi – era più sordo il
giudice, di molto. – L’uno esigeva cinque mensilità di affitto, l’altro – lo accusava di avere
macinato tutta notte. - Perché, chiese il giudice guardandoli stupito, litigate? – E’ vostra
madre, pagatele entrambi gli alimenti”.
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Anche quella decisa da Pantagruel è una lite surreale, ma – all’opposto
della lite tra sordi – il contraddittorio è perfettamente simmetrico, e quindi
soddisfacente. Non importa, insomma, che cosa dicano i litiganti e il giudice: è
essenziale soltanto che lo dicano nella stessa lingua, che si ascoltino
reciprocamente, e che adottino identiche strutture logiche (o illogiche) e retoriche.
In fondo, è lo stesso risultato al quale tendono, ai nostri giorni, i “protocolli” per
la redazione degli atti processuali civili.
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Quanto alla stessa lingua, nel nostro processo civile il problema parrebbe
non dover esistere, dato che, secondo l’articolo 122 del codice, “in tutto il processo è
prescritto l’uso della lingua italiana”. Vero è che bisogna poi tenere conto della tutela
delle minoranze linguistiche (è ben noto il bilinguismo dei fori dell’Alto Adige, e,
secondo una legge del 1999, davanti al Giudice di Pace delle località interessate è
possibile, almeno in teoria, esprimersi, tra l’altro, in albanese, in catalano, in
greco, in ladino, in occitano e in sardo). Poi c’è la terminologia anglosassone (che,
come ho già ricordato, non riguarda il linguaggio del rito, ma può riguardare
sempre più spesso la res in iudicium deducta, soprattutto in materia di diritto
dell’impresa e della finanza); c’è la sopravvivenza del latino (una volta mi capitò
di invocare in udienza l’applicazione dell’articolo 122, nei confronti di un dotto
collega e amico che, in una causa successoria, stava riempiendo il verbale di
citazioni dal Digesto). Si incontrano anche, ogni tanto, dolorosi arbitrii sintattici e
grammaticali, e ancora più spesso un uso troppo creativo della punteggiatura.
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Ma, in definitiva, tutti i soggetti del processo scrivono nella stessa lingua,
e le marginali divergenze (per esempio, gli aggettivi “defatigatorio”, “apodittico”
e “tuzioristico” sono usati solo dagli avvocati, il verbo “appalesarsi” solo dai
giudici, etc.) non sono maggiori di quelle che si trovano nel linguaggio di italiani
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di regioni diverse: per esempio, quando un siciliano usa il passato remoto dove
un lombardo userebbe il passato prossimo.
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Evidentemente, però, il problema non è questo, bensì è per l’appunto,
come insegnava Rabelais, quello della coerenza tra i rispettivi discorsi. E riguarda,
prima che il rapporto tra i difensori e il giudice, quello tra gli stessi difensori.
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Perché il fatto è che, nel processo, i discorsi dei difensori vengono prima,
sia logicamente che cronologicamente, di quello del giudice, che ad essi si deve
inevitabilmente conformare.
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Secondo le regole e la prassi del rito civile, la domanda dell’attore e la
risposta del convenuto si incontrano prima che il giudice apra il fascicolo, e le
comparse conclusionali sono – come spesso si dice – dei “progetti” o delle
“bozze” della sentenza (naturalmente, negli intendimenti degli avvocati che le
redigono). La sentenza sostanzialmente ne riprodurrà l’epigrafe (aggiuntavi la
formula “In nome del popolo italiano”: gli avvocati scrivono in nome dei loro
clienti), e la narrazione dello svolgimento del processo; ne riprenderà in varia
misura le argomentazioni “in fatto e in diritto” recependole nella motivazione; ne
ricalcherà le conclusioni (o meglio quelle della parte che risulterà vittoriosa) nel
dispositivo, dopo averle depurate dalla consuete untuose implorazioni (“voglia il
Tribunale Ill.mo”, “piaccia alla Corte Ecc.ma”, etc.), che del resto potrebbero
anche non esserci se noi avvocati italiani seguissimo l’esempio dei colleghi
svizzeri e tedeschi, le cui conclusioni sono di solito formulate in termini assertivi e
perentorii, proprio come un “dispositivo anticipato”: la domanda dell’attore è
accolta, il convenuto è condannato a pagare la tale somma, etc..
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Ora, la costruzione logica e retorica degli atti dei difensori dovrebbe
potersi già desumere dalla lettura e da una ragionevole applicazione dei “modelli
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normativi”: l’art. 163 per la citazione in primo grado, l’art. 167 per la comparsa di
risposta, l’art. 183, 6° comma, perle famigerate “tre memorie” ivi previste, l’art.
342 per l’atto di appello, l’art. 360 per il ricorso per cassazione, e così via (di come
debba essere fatta la comparsa conclusionale l’art. 190 non dice nulla, ma il
modello, come già detto, è quello offerto dall’art. 132 per la sentenza.
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Nonostante tutto questo, peraltro, quotidianamente ci si trova dinanzi ad
atti processuali, dove i diversi elementi del discorso (le allegazioni, le
argomentazioni e le richieste che lo compongono) sembrano uscire da un
frullatore piuttosto che dall’applicazione dei modelli normativi di cui sopra, o dai
precetti di Quintiliano.
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E la prima vittima di questo disordine, logico e retorico, sarà proprio
l’avversario del cattivo retore: che, prima di rispondere, dovrà impegnarsi nella
individuazione e nella paziente ricostruzione delle tesi della controparte, così
paradossalmente legittimandole, prima di spiegare che sono sbagliate.
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Di riflesso, poi, di questo stato di cose soffrirà il giudice, soprattutto dove
saranno stati entrambi i difensori a malmenare la logica e la retorica, dando luogo
a una specie di “lite tra sordi”, come quella poco fa ricordata. E proprio questa
difficoltà potrà diventare, anche oggi come allora, un pericoloso incentivo alle
decisioni “della terza via”.
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Le cause di tutto ciò sono molteplici, ma a mio avviso si collocano “a
monte” della disciplina e della prassi del processo civile, e cioè soprattutto nella
formazione degli “operatori della giustizia”.
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Le scuole di retorica (purtroppo) non esistono più da secoli. Nelle nostre
facoltà di giurisprudenza non esistono nemmeno, se non in qualche sporadica
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forma seminariale, corsi di legal writing, e la prima prova scritta alla quale si
sottopone lo studente è la sua tesi di laurea. L’angosciante esperienza della
preparazione e della redazione degli scritti negli esami di avvocato (e nei concorsi
di magistratura) non può avere un effettivo valore formativo. Dai nostri studi
legali è scomparsa o sta scomparendo la figura del dominus, che rivedeva e
censurava severamente gli atti dei suoi praticanti e allievi. Attribuire ai nostri
operatori della giustizia una comune e solida cultura umanistica è diventato un
esempio tipico di wishful thinking.
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Ma è proprio qui, allora, che si può innestare e giustificare l’adozione e la
diffusione di formulari e “protocolli”, intesi a restituire agli atti del processo civile
il necessario ordine e le altrettanto indispensabili intelligibilità e razionalità.
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Al riguardo credo tuttavia che si debba procedere con prudenza. Se questi
strumenti devono essere concepiti in funzione di rimedio, o di supplenza ex post,
alle carenze formative degli operatori della giustizia, di cui dicevo sopra, cioè in
sostanza come mezzi per insegnare (tardivamente) l’arte e la tecnica della
costruzione del discorso forense e giudiziario, allora la loro diffusione merita
ovviamente di essere incoraggiata.
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Se per contro questi formulari o protocolli tendono a costringere il
discorso dei difensori e quello dei giudici nell’ambito di una modulistica
tendenzialmente cogente (a prescindere dalla natura delle sanzioni previste per
garantirne
l’osservanza),
allora
essi
non
possono
non
suscitare
serie
preoccupazioni, per non dire spavento, quanto meno in un giurista e avvocato
anziano, già purtroppo insignito della medaglia per i cinquant’anni di professione
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Da questo punto di vista, infatti, non posso fare a meno di pensare alla
pericolosa e avvilente disciplina dei famigerati “quesiti” da formulare nel ricorso
per cassazione, per fortuna tramontata dopo avere procurato guasti gravi.
Meccanismo perverso, che da un lato imponeva agli avvocati assurde acrobazie
retoriche (per evitare, ed era difficilissimo, censure di inammissibilità); dall’altro,
mortificava la funzione della stessa Corte Suprema, riducendola alla compilazione
di un questionario: se avete risposto affermativamente al primo quesito, saltate il
secondo e passate al terzo, e così via.
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Analogamente, provo un serio disagio di fronte alle varie linee guida,
raccomandazioni e istruzioni pratiche vigenti presso gli organi giudiziari della
Comunità Europea, quando pretendono di disciplinare analiticamente le modalità
di confezione degli atti, e addirittura il numero delle relative pagine o righe.
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Rientrando
comunque
nei
confini
del
nostro
foro,
leggo
con
preoccupazione, per esempio, il punto 7B del protocollo milanese, dove si
classificano e si enumerano ventiquattro eccezioni di inammissibilità della prova
orale, dalla 7B-01 (testimonianza su fatto pacifico), alla 7B-24 (interrogatorio
formale deferito a un terzo). Se provo a immaginare uno scambio, per di più
telematico, di memorie cifrate redatte su questa linea, mi viene alla mente la
vecchia freddura dei due matti, che sghignazzano solo comunicandosi dei numeri
(75, 124, etc.), dato che questi si riferiscono a un repertorio di barzellette che
entrambi conoscono a memoria.
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Un discorso a sé meriterebbe infine il dogma, o il mantra, oggi trionfante,
della brevità, ovvero, in termini più nobili, del “principio di sinteticità”.
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Gaudent brevitate moderni, diceva la glossa di Accursio con riferimento a
un frammento di Ulpiano dove si parlava della semplificazione di un capitolo
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dell’Editto Pretorio, e il detto – oggetto anche di ironia da parte degli umanisti –
fu interpretato come un invito a eliminare “etiam syllabam unam non necessariam”.
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Ma il problema esiste davvero, ed è molto serio. Lo dico con la coscienza
in pace, perché, come avvocato, ho da tempo imparato a essere sintetico, e le mie
comparse di oggi sono lunghe la metà di quelle che scrivevo qualche decennio
addietro (se la mia firma compare in calce ad atti più prolissi, è perché questi sono
frutto della collaborazione con colleghi meno parsimoniosi). Come arbitro, poi,
sono stato talvolta preso da vere crisi di nervi di fronte a memorie difensive
lunghe duecento pagine.
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Nel che, del resto, non c’è nulla di nuovo. Nell’aureo manualetto intitolato
Lo stile legale del Cardinale Giovan Battista De Luca (1674), si trova un
ammonimento che sembra scritto ieri mattina: “Riesce per lo più la prolissità delle
scritture pregiudiziale alle cause così per la tardanza della loro spedizione (attesoché i
giudici vedendo le scritture troppo lunghe non si sanno indurre ad assumerne la lettura e
lo studio con quella facilità che si farebbe delle brevi, apportandoli noia e timore e la sola
vista, ed il concetto della maggior fatica) come ancora perché i giudici, o si annoiano, o si
confondono, ovvero si insospettiscono che si usi la prolissità per intorbidare la causa”.
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Il fatto è, peraltro, che la concisione esige, paradossalmente, molta
pazienza e molto tempo. Ho sentito citare più di una volta la frase con cui un
pensatore illustre (non sono riuscito a identificare precisamente la fonte, ma pare
si trattasse di Pascal), concludeva una sua lettera: scusami se ti ho scritto una lettera
così lunga, ma avevo poco tempo. E in effetti credo che la mole abnorme di molte
comparse sia dovuta al fatto che si tratta di frettolosi collages di scritti precedenti,
o di testi che riproducono tutto ciò che via via è venuto in mente all’estensore,
senza riletture e limature.
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Ma cosa si può fare per arginare la logorrea degli operatori della
giustizia? Le leggi processuali, soprattutto in questi anni, hanno variamente
invitato i giudici (che in realtà da questa malattia sono affetti meno
frequentemente) a redigere motivazioni “concise”, “succinte”, “sommarie”, e via
dicendo. Quanto agli avvocati, il precetto della brevità, oltre che nei regolamenti
delle Corti europee di cui si è detto, compare in termini abbastanza perentorii nel
codice del processo amministrativo. E l’anno scorso il primo presidente della
Corte di Cassazione, facendo seguito ad un’analoga iniziativa del presidente del
Consiglio di Stato, ha rivolto al presidente del Consiglio Nazionale Forense
un’esortazione che viene spesso citata, ma che è anche fonte di perplessità, dato
che non si capisce bene come il “principio di sinteticità” possa conciliarsi con il
famigerato “principio di autosufficienza” elaborato dalla stessa Corte Suprema
per alleggerire la fatica, e il trolley, dei consiglieri relatori, e che ha dato luogo
invece a ricorsi elefantiaci.
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Senonché tutte queste “grida” (in senso manzoniano) provenienti dal
legislatore o dalle Corti sono strette, alternativamente, tra il rischio di rimanere
flatus vocis, ovvero, all’opposto, quello di diventare strumenti lesivi del diritto di
azione e di difesa, garantito dalla nostra Costituzione nonché proprio dalla
Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Qualunque operatore pratico della
giustizia, per quanto devoto al “principio di sinteticità”, sa bene che, se vi sono
casi in cui dieci pagine sono anche troppe, ve ne sono altri in cui trenta sono
troppo poche.
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Condivisibili e meritevoli di attenzione, in ogni caso, mi sembrano gli
spunti offerti dalla recente giurisprudenza sia amministrativa che civile (anche di
questo Tribunale) che ha ritenuto di poter valutare negativamente, in concreto, la
logorrea dei difensori ai sensi dell’articolo 116 c.p.c. o in sede di distribuzione
delle spese di causa.
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Uno spunto suggestivo potrebbe poi ricavarsi, come spesso avviene, dalla
storia antica. Secondo la prassi del processo greco e di quello romano, poi recepita
nella Repubblica di Venezia, l’oratore otteneva preventivamente dal giudice,
previa trattativa, e tenendo conto delle esigenze di ciascun caso, un certo numero
di clessidre, il cui sgocciolio (a Venezia si usava invece la sabbia) avrebbe segnato
la durata invalicabile della sua arringa.
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Sembra che anche questa prassi, peraltro, non producesse sempre risultati
soddisfacenti. C’è infatti un epigramma di Marziale, dove il poeta si rivolge a un
avvocato, tale Ceciliano, che, autorizzato dal giudice a parlare per la durata di ben
sette clessidre, sta svolgendo un’arringa lunghissima e noiosa, e ogni tanto si
disseta con un’ampolla di acqua tiepida. Ma insomma, dice il poeta, perché non ti
bevi piuttosto l’acqua delle clessidre? Così estingueresti finalmente la tua sete e la
nostra noia.
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