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pagina 12 il manifesto DOMENICA 23 MAGGIO 2010 Quasi mancassero feste, festival e festività, così che sembra di vivere in un eterno «non compleanno» alla «Alice nel paese delle meraviglie», è stata proclamata oggi una nuova celebrazione, la «Giornata nazionale per la promozione della lettura», che ha un sito con un nome in inglese maccheronico (www. ibookyou.it) e uno slogan ricattatorio: «Se mi vuoi bene, il 23 maggio regalami un libro». C’è da augurarsi che il neonato Centro del libro e l’Associazione degli editori, promotori dell’iniziativa, rivelino presto quanto è costata la campagna pubblicitaria e qual è stato l’effetto sulle vendite dei libri. Più interessante, ma più complesso, sarà capire se la festività avrà conquistato nuovi lettori. Per il momento ci si deve accontentare di un calendario fitto di incontri (e tra i tanti, vanno segnalate le attività curate a Napoli dai Presidi del libro nella rassegna «Vediamoci a Scampia», www.vediamociascampia.it). INTERVISTE · Parla l’autrice di «Come un uccello in volo» L’Iran minimalista di Fariba Vafi Marina Forti A pprodare alla scrittura non è stato facile per Fariba Vafi. Oggi è una delle scrittrici di maggior successo in Iran: ha pubblicato una raccolta di racconti e quattro romanzi che sono divenuti in breve dei best seller, ha ricevuto i premi letterari più prestigiosi del paese. La sua figura rappresenta bene una nuova generazione di scrittori (in gran parte scrittrici, per la verità) apparsi sulla scena letteraria dell’Iran dopo la Rivoluzione islamica del 1979. Questo è un aspetto dell’Iran poco noto all’estero, dove pure ne sono apprezzati il cinema e le arti visive: un effetto collaterale della rivoluzione è stata una grande produzione letteraria, narrativa, poesia, saggistica. E le donne sono protagoniste: come autrici ma anche editrici, fondatrici di riviste letterarie, giornaliste, blogger. Certo, l’Iran è il paese dove imperversa la censura, dove vigono rigide regole della morale islamica, e alle donne sono imposti limiti precisi, ma – nonostante la censura e le limitazioni, o forse proprio per questo – una nuova generazione di autrici si è creata un proprio spazio. Fariba Vafi è tra le più note. Nata nel 1962 a Tabriz, capoluogo di provincia nel nord del paese (dove la lingua parlata è l’azeri), cresciuta in una famiglia tradizionale, dopo essersi diplomata alla scuola statale ha cominciato a lavorare come operaia in una fabbrica di abbigliamento. In cerca di indipendenza economica ha frequentato la scuola di formazione della polizia femminile islamica a Tehran; tornata a Tabriz, ha trovato lavoro come guardia carceraria, dove però non ha resistito più di tre mesi. Nel frattempo si era sposata, aveva avuto due figli... Fin da adolescente, ci dice, voleva fare la scrittrice: «A scuola scrivevo bene e tutti mi incoraggiavano. Ho continuato a inseguire questo sogno anche quando facevo altri lavori, anche nei momenti della mia vita in cui mi sembrava impossibile realizzarlo». Nel 1988 è stato un traguardo pubblicare il suo primo racconto. C’è quindi un po’ di lei nella protagonista-voce narrante di Come un uccello in volo, il suo primo romanzo – prosa scarna, quasi minimalista, ma elegante, attenta ai particolari. Vediamo una moglie e madre riluttante («sono stufa di dovermi occupare costantemente dei bambini, del muro scrostato, dello scaldabagno rotto, degli scarafaggi che non scompaiono con nessun insetticida») che combatte con le difficoltà quotidiane del vivere e un marito indifferente, si sente schiacciata dal ruolo DA PAGINA 11 Maria Teresa Carbone Citazione ironica, visto che il volume rivisita l’opera di alcune «grandi madri» della cucina francese, a partire dalla «santa dei gastronomi», Eugénie Brazier. A dimostrazione che, quando si parla di cibo, ogni iperbole rischia di naufragare nel ridicolo – forse perché il gusto si evolve, e lo testimoniano i «piatti di cucina meticcia» raccolti in Ricette scorrette da Andrea Perin tra una trentina di immigrati in Italia (Elèuthera), forse perché, come scrive Sapo Matteucci nel suo bel «prontuario di cucina quotidiana» q.b. La cucina quanto basta (Laterza) «ai fornelli non si può essere mai sicuri di sé fino in fondo». Gli fa eco Paola Mazzarelli introducendo Banco n. 2, che porta la firma di Beppe Gallina, «storico» venditore di pesce al torinese mercato di Porta Palazzo (Edizioni Blu): «Quanto ai consigli e alle ricette, qualcuno troverà che manca questo e quello. In tutti i libri manca qualcosa. In compenso però, c’è sempre qualcosa che non vi aspettavate di trovarci». È il bello dei libri, e della cucina. che per tradizione le è assegnato («Non sono una madre, non sono una figlia, non sono una moglie...»): si sente come «un uccello migratore» «rinchiuso in gabbia», finché trova dentro di sé la via per uscirne. Quando è uscito in Iran, nel 2002, Come un uccello in volo ha avuto un successo fulminante e ha sbancato i premi letterari. Ora per la prima volta viene pubblicato in Italia, tradotto dal farsi da Hale Nazemi e Bianca Maria Filippini per la neonata casa editrice Ponte33 di Firenze (www.ponte33.it). La casa editrice merita una nota a sé: fondata da tre studiose della lingua e cultura iraniana, nasce con il progetto di far conoscere la letteratura contemporanea dell’Iran. «In questi anni abbiamo visto emergere un linguaggio nuovo, una prosa snellita rispetto a quella dell’antica tradizione persiana», ci dice Felicetta Ferraro, cofondatrice di questa impresa editoriale insieme a Irene Chellini e Bianca Maria Filippini. «È una letteratura che è riuscita a trovare una sua forma specifica nonostante la censura e tutte le difficoltà, un po’ come è successo per il cinema». Però è poco conosciuta all’estero («stenta a emergere anche perché non corrisponde all’immagine che l’occidente si attende», nota Ferraro – spesso qui si confonde la letteratura iraniana con quella della diaspora: una letteratura di denuncia, per lo più riassunta nel cliché di copertine con foto di donne velate). Certo non rientra in questo cliché Fariba Vafi che giorni fa ha conquistato il pubblico della rassegna «Incroci di civiltà», a Venezia. In Iran a scrivere oggi sono soprattutto le donne, e con successo. A cosa è dovuto questo fenomeno? La rivoluzione e poi la guerra hanno catapultato le donne sulla scena sociale. Quando poi la vita è ripresa normalmente, è stato naturale per le donne cominciare a studiare e farsi avanti in tutti i campi, anche in quello letterario. Anch’io, come tante altre, ho cercato di capire quale fosse il mio posto nel mondo e scrivere è stato lo strumento più immediato ma anche più efficace. L’allargamento della classe media negli ultimi decenni ha rotto il monopolio che esercitava sulla letteratura un gruppo ristretto di persone, provenienti quasi sempre da strati sociali privilegiati. Sempre più persone hanno travasato le loro esperienze nella scrittura. Per le donne scrivere è diventato più facile via via che la società si è modernizzata e le famiglie sono diventate più piccole. Le donne hanno avuto più spazio e più tranquillità per scrivere. Inoltre, l’aumento del livello di studi le ha rese più consapevoli di sé. Nel libro che Ponte33 ha appena tradotto in italiano, Come un uccello in volo, la sua protagonista si rifugia nel silenzio... Attenzione, il silenzio di questa donna non è passivo. Non è neanche aggressivo. È un silenzio critico, pieno di domande. Nel suo silenzio, la protagonista guarda gli altri, osserva, s’interroga, e infine trova se stessa. È una sorta di riflessione che le serve per valutare la sua vita, per capire come proseguire. L’Iran non viene mai nominato direttamente. È un problema di censura o una sua scelta letteraria? La storia che racconto può accadere ovunque. È vero che molto dipende dal contesto nella quale è ambientata, ma a me importano i rapporti tra le persone, ciò che accade al loro interno, non all’esterno. Quale pensa sia il ruolo di uno scrittore nella società iraniana attuale? Scrivere, e ancora scrivere. In una società nella quale esprimersi diventa sempre più difficile, scrivere un bel racconto o un bel romanzo e tenere viva la letteratura è un compito importante e una grande responsabilità. cannes 63 EDITORIA Una giornata per promuovere la lettura (a suon di regali) UNA SCENA TRATTA DAL SOLE INGANNATORE 2 DI NIKITA MIKHALKOV. IN BASSO NELLA FOTO PICCOLA IL REGISTA. A DESTRA PABLO TRAPERO, IN LIZZA NELLA SEZIONE CERTAIN REGARD CON «CARANCHO». BOX IN ALTO KIRSTEN DUNST Sarà la crisi, ma parecchi hanno anticipato la partenza dalla Croisette. Sarà anche colpa dei film? Quattro autori in corsa per la Palma d’oro e i migliori sono fuori dal concorso. Chiude il kolossal di Mikhalkov Una edizione a due dimensioni Roberto Silvestri CANNES S e l’esodo dei festivalieri è iniziato giovedì scorso, un motivo ci sarà. Film bruttini o solo carini, e affari pochi. Edizione un po’ morta. Pochi cartelli di tutto esaurito. O di hotel ‘complet’. Certo, c’è la crisi. E per entrare nel Padiglione americano del mercato, sul mare, ti chiedevano 10 dollari, più che per entrare in uno stabilimento balneare. Qualche falso movimento, certo, ha acceso la Croisette, come la manifestazione dei nostalgici delle colonie che protestavano, sindaco di Cannes in testa, contro un festival (che riempie comunque d’oro la Costa azzurra) che «invita un film algerino che offende i francesi con i soldi francesi e che piace solo all’Humanité». O il «caso Panahi» (che ieri speriamo sia stato liberato su cauzione da Tehran, ma non sarà qui, sulla sua poltrona di giurato, rimasta vuota). Non credo che Fremaux abbia afferrato, però, l’attimo, come altre volte qui è successo. Specialmente in un momento cruciale, di capovolgimento tecnologico e di digitalizzazione forzata della sala e del dispositivo ludico del cinema, di strapotere americano del 3D (neppure un film in questo formato, a pochi giorni dai primi mondiali di calcio in rilievo, neppure Toy Story 3, è stato invitato, ma il guaio è che nessun film europeo in 3D è stato completato). Una grande retrospettiva sul cinema in 3D degli anni 50, e magari il restauro dei classici invisibili di Oboler, non avrebbe forse appassionato di più il pubblico dei giovanissimi, che qui storicamente anticipa passioni e mode? Non si è avuto il fegato di presentare in gara, e far vincere (vista la presenza di Burton) né film d’animazione né documentari, settori dove si sperimenta di più in questi anni. E anche i lavori televisivi selezionati, come L’esodo – Il sole ingannatore parte II di Nikita Mikhalkov o il Tavernier (ma non il Ruiz, ma non il Carlos) o Fuorilegge di Bouchareb, sono stati scelti più per le loro forme popolari, che mimano il grande cinema epico, che per la loro originalità o novità nel cimento e nell’armonia. Dovessi consigliare agli amici qualche capolavoro del concorso di Cannes 63, da vedere assolutamente, sarei in imbarazzo, direi piuttosto che tra i fuori gara ci si confronta di più con i miraggi del 3D e con il pensiero che muove le immagini: pensiero che muove le immagini. Godard, De Oliveira, Schmitz, il Ceausescu, i doc politici Usa, Gregg Araki (Kaboom), un classico del passato di Ghatak…Certo i nuovi, manierati, ma almeno liberi splatter visivi e mentali di Kitano e Weerasetakul, gli amici se li vedranno lo stesso… Perfino sul quartetto magico, due europei contro due extracomunitari, che si giocherà probabilmente la Palma d’oro, almeno a giudicare dai giudizi della stampa francese e estera accreditata, aspettando che la giuria eurodipendente si esprima, mettendo in minoranza Tim Burton, ho seri dubbi. L’inglese Another Year e il francese Des hommes et des dieux si compiacciono dello stile esistenziale british e del rito mistico gregoriano, come se non si potesse essere davvero moderni e progressisti, oggi, senza essere anche un po’ lefevriani, arcaici, premoderni. Il coreano Poetry e il messicano Biutiful sanno affrontare le brutture insostenibili di questo mondo, fissandole bene negli occhi, e in- ventano sistemi zen di sopravvivenza, anche se la malattia sta progressivamente offuscando la nostra sensibilità. Tra questi quattro è la partita, secondo la critica media, anche se per gli italiani qualcosa potrebbe arrivare dalla performance moderatamente selvaggia di Elio Germano (La nostra vita) o dalle immagini di Luca Bigazzi (per la fotografia di Copia conforme) che hanno depurato del mellifluo le tonalità stereotipate del panorama toscano (parola del New York Times). E Nikita Michalkov? Il padrino del cinema russo, odiato in casa perché fa man bassa dei finanziamenti pubblici e continua a dirigere come uno zar l’associazione dei cineasti, lasciando con le briciole Sokurov e i German, Panfilov e Todorovski, chiude il concorso con la seconda parte - dice ispirata al magnifico Salvate il soldato Ryan di Spielberg (a me sembra più Il dottor Zivago) - di Il sole ingannatore. La storia d’amore filiale tra un padre e sua figlia, che la guerra ha separato. Lui è un generale degradato e mandato nel gulag perché ha buttato una testa in faccia a una torta. Solo che la testa era di Stalin, e la torta lo ritraeva pure… Ma dal gulag il generale si salva e, combattendo sul fronte da private, si avvicina alla sua bionda figlia - è la forza dell’amore - che mai lo ha rinnegato sebbene dovesse, e che riesce a sua volta a sopravvivere, prima a un bombardamento nazista (citando Titanic) poi a una retata della Werchmacht che brucia vivi zingari e kolkosiani, e a cercarlo. «Un film sulla guerra e sulle sue aberrazioni. Ma anche sui suoi miracoli». Il bolscevismo, dichiara ai giornalisti, è stata la più grande catastrofe della storia Russia, ma non il comunismo, perché «molti comunisti ci hanno creduto davvero». E poi è stato anche Stalin, non solo lo sbarco in Normandia, a fermare Hitler. È bene che i giovani di oggi lo sappiano. Con un sacrificio di morti che meritava più di questo kolossal, più pomposo che epico ed esageratamente costoso (32 milioni di euro, comprendendo anche il terzo episodio, e le 15 puntate tv) ma che certo non tifa per lo stalinismo. Quella scienza esatta che ha permesso di scoprire e eliminare ogni specie di comunista.