1 Christian Albini 1. Passaggio d`epoca Per introdurre il tema con

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1 Christian Albini 1. Passaggio d`epoca Per introdurre il tema con
Reggio Emilia, 9 maggio 2009
LA QUESTIONE DELL’IDENTITÀ GIOVANILE OGGI
Christian Albini
1. Passaggio d’epoca
Per introdurre il tema con leggerezza, racconto un aneddoto ricco di risonanze.
Nel 2006, nella mia città di Crema, don Agostino Cantoni, morto un anno fa, che in veste di prete e
di insegnante è stato educatore di più generazioni di giovani, contattò un’ex-allieva a sua volta
divenuta professoressa nella scuola superiore. Alla bella età di 81 anni, domandò di poter incontrare
una classe, perché voleva ascoltare di persona i ragazzi di oggi. Così quell’insegnante raccontò
l’episodio: «“Voglio dare un titolo a questo incontro – mi dice per telefono – Avrei scelto di che
giardino sei? Che ne dici?”. Naturalmente lo trovo bellissimo, e mi vergogno dell’aridità razionale
della filosofia che insegno, quando sento svelare il segreto del giardino dei narcisi (gli innamorati di
sé), il prato delle margherite (la gioia di vivere), la pergola del glicine (il sostegno ai deboli), la
fontana delle ninfee (l’acqua limpida della fede)».
L’aneddoto, per prima cosa, suggerisce la varietà del mondo giovanile e la pluralità delle identità.
La questione dell’identità è la questione della pluralità.
Il tema è molto vasto e non pretendo di offrire una trattazione completa nel tempo a disposizione.
Piuttosto uno schizzo, delle pennellate, lasciando delle indicazioni per l’approfondimento personale.
Sappiamo tutti che cosa ci inquieta nel mondo giovanile: il bullismo, il consumo di alcol e
stupefacenti, l’uso irresponsabile della sessualità, la refrattarietà alle scelte definitive, la perdita dei
valori tradizionali, il distacco dalla fede religiosa, il conformismo, la vulnerabilità nei confronti dei
modelli consumistici, l’estraneità nei confronti del mondo adulto…
Un recente articolo di Isabella Bossi Fedrigotti sul Corriere della Sera che ha suscitato un ampio
dibattito, è un po’ la sintesi di queste inquietudini fin dal titolo: I nostri figli senza maestri.
Certo, non bisogna dimenticare che ci sono anche molti giovani che hanno comportamenti e fanno
scelte di segno diverso.
Non c’è “una” identità giovanile prevalente nella società di oggi, ma mobilità, fluidità,
oscillazione, coesistenza di differenze. Come in un giardino possono coesistere fiori diversi.
Un tempo il gruppo intorno all’individuo forniva delle risposte già elaborate alla domanda
sull’identità: chi sono io? Che cosa mi differenzia da chi è “altro” da me? Era il contesto sociale a
dire a ciascuno chi era e che cosa poteva aspettarsi. Dentro i canali che la comunità metteva a
disposizione, gli individui avevano piccoli margini di scelta, ma in cambio avevano molta sicurezza,
disponevano di modelli stabili di identità.
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Lo sviluppo dell’epoca moderna, fino alla post-modernità, ha prodotto un progressivo
affrancamento dell’individuo dal gruppo allargando lo spazio dell’autonomia e la possibilità di
realizzazione di sé. Ha fatto cadere i confini che separavano gruppi, territori e culture trasformando
il mondo in un pianeta globale, una società planetaria di cui tutti facciamo parte, nel quale ci
sentiamo interdipendenti e l’incontro con il diverso è esperienza quotidiana. È un vero e proprio
passaggio d’epoca da cui non si torna indietro.
Un secondo aspetto da sottolineare è la complessità provocata da mutamenti sempre più veloci,
intensi e frequenti che accrescono il grado di differenziazione nella società. L’ambiente in cui
viviamo cessa di essere omogeneo, familiare, prevedibile. Gli ambiti di vita si moltiplicano e
diventano sempre più slegati l’uno dall’altro. Attualmente la tendenza alla differenziazione si è
esasperata al punto da rompere anche l’unitarietà dell’identità e dell’esperienza individuali: il lavoro
interferisce sempre di più con la famiglia, il comportamento sessuale si discosta dalle convinzioni
religiose, l’appartenenza politica è sempre più fluida, l’etica è sempre più soggettivizzata,
diminuiscono le scelte definitive e aumentano quelle precarie. I ruoli assunti nel corso della vita si
moltiplicano e spesso si è costretti ad assumerne parecchi contemporaneamente, non senza
difficoltà: padre, figlio, marito, membro di un’associazione o di una chiesa, lavoratore, utente di
servizi, navigatore web, consumatore, appassionato di musica…
Gli esempi potrebbero essere innumerevoli; il punto è che l’identità individuale è divenuta
molteplice e variabile nel tempo. Oggi non siamo più quelli che eravamo ieri, non possiamo
sapere chi saremo domani e dobbiamo moltiplicare le nostre identità.
Tutto ciò è particolarmente evidente nei giovanissimi. L’adolescenza – in bilico tra sogno ed
esperienza – diventa la manifestazione principale e la metafora del passaggio e della ridefinizione di
confini.
2. Tra coscienza e arbitrio
La nostra condizione oggi è quella di chi fatica a trovare risposte già date perché tutti i grandi
serbatoi che le producevano, la famiglia, la patria, la chiesa, il partito, la classe si sono indeboliti e
qualche volta sono addirittura scomparsi. Il tessuto culturale tradizionale che li sosteneva – con
l’erosione delle categorie di Dio, di uomo e di mondo che ne costituivano i pilastri – è venuto
meno. Perdono la loro caratterizzazione di essenze oggettive e perenni, depositarie di una verità che
ci precede: il mondo e l’uomo sono sottoposti alla manipolazione della tecnica; lo stesso divino
diviene proiezione dell’umano nel contesto di una religiosità “fai da te”.
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Il venir meno di queste condizioni esterne trasferisce verso gli individui la responsabilità e anche la
fatica di disegnare un profilo di se stessi che corrisponda alle loro aspirazioni. Questo comporta
grandi margini di autonomia nella scelta, ma anche grandi rischi.
Si moltiplicano le opportunità di auto-realizzazione, ma anche l’eventualità della precarietà,
dell’indeterminatezza. Il contesto è quello del privato ricco che ha enfatizzato la gratificazione
istantanea dei desideri attraverso il consumo come stile di vita, ma anche fatto della flessibilità
una norma di vita.
Osserva Zygmunt Bauman: «L’elevazione della competitività e della ricerca incondizionata del
massimo profitto al rango di criteri fondamentali e persino monopolistici di distinzione tra l’agire
corretto e l’agire scorretto, giusto e sbagliato, è in ultima istanza il fattore ambientale che permea
l’esistenza della maggioranza degli uomini e delle donne della nostra epoca, del loro diffuso, forse
universale, senso di insicurezza. La vita frammentata tende ad essere vissuta episodicamente, come
una serie di eventi non connessi. L’insicurezza è il punto in cui l’essere si suddivide in frammenti e
la vita in episodi».
Un altro elemento determinante è il configurarsi di quella che Manuel Castells definisce la società
in rete, in cui la presenza delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione pervade
ogni ambito dell’esistenza. I riferimenti di spazio e tempo saltano. Ci si può mettere in connessione
istantaneamente da qualsiasi distanza creando nuove occasioni di relazione, ma anche dipendenze e
alienazioni che ostacolano i rapporti faccia a faccia. Oggi al centro di tutto c’è il presente,
l’istante. Non più il passato, come nelle società tradizionali, o il futuro, come nel mito del progresso
affermatosi con l’illuminismo, ma il “qui e ora”.
Ci sono opportunità e pericoli in questo stato di cose.
L’opportunità è quella di una maggiore consapevolezza di sé, di essere autori di un progetto di vita
che sia bella, buona e felice.
I pericoli sono la dittatura del desiderio, la frustrazione del fallimento, l’incertezza e il nichilismo
per cui ogni scelta diventa indifferente, ogni valore irrilevante e ci si rifugia nelle relazioni
ravvicinate e precarie, nella ricerca di emozioni e sensazioni forti, senza progetti forti per il futuro.
Dire “Io” ci viene immediato e spontaneo.
L’uomo è la misura di tutte le cose, lo sosteneva già 2.400 anni fa Protagora nell’opera Sulla verità.
Noi che apparteniamo al XXI secolo, siamo ancora più espliciti e diretti. Il principio che guida molti
modelli di vita potrebbe essere così riassunto: «Io sono la misura di tutte le cose». I giudizi, i
ragionamenti, le scelte oggi mettono al centro la coscienza dell’individuo, la sua autonomia, la sua
libertà, la sua volontà… Tutto ciò rischia di spingersi all’eccesso, nel momento in cui la soggettività
diventa soggettivismo, la coscienza scivola nell’arbitrio.
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L’adolescente è qualcuno che sta costruendo parole da dire su di sé. È di fronte a un bivio.
Il corpo può essere il luogo dell’ascolto di sé e di un vivere armonico, oppure feticcio da esibire e su
cui scaricare le proprie angosce, sottoposto agli effetti di comportamenti traumatizzanti che toccano
il peso, la pelle, le forme, i muscoli…
La sessualità può essere costruzione di intimità, di unione profonda, oppure ricerca smodata di
sensazioni appaganti.
Le relazioni possono essere momento di condivisione e comunione, oppure strumentalizzazione
dell’altro che accetto nella misura in cui è conforme alle mie aspettative.
Il lavoro può essere momento di crescita e contributo al bene comune, oppure esaltazione
dell’arrivismo in nome della ricchezza, del potere, del prestigio.
La spiritualità può essere ricerca seria del senso dell’esistere, oppure inseguimento fatuo di un
appagamento a buon mercato.
Dietro a queste coppie possiamo riconoscere in controluce i fenomeni del mondo giovanile che
lasciano sgomenti e preoccupati.
L’11 settembre ha aggiunto a questo quadro l’angoscia nei confronti di un futuro percepito come
minaccioso, esasperando il senso di rischio diffuso che era già stato notato da Ulrich Beck. La crisi
economica, di cui non sappiamo intravedere ancora la portata e gli esiti, sta facendo riaffacciare
anche nella nostra società opulenta lo spettro della scarsità, facendo intravedere il venir meno
della promessa, propria del consumismo, di soddisfacimento a breve dei desideri.
Questo scenario può comportare l’erosione dei legami sociali, verso un neo-tribalismo in cui viene
meno il senso della prossimità, della solidarietà, verso una ostilità generalizzata nei confronti di chi
non appartiene al proprio “branco” (homo homini lupus).
Scrive lo psicoanalista non credente Luigi Zoja: «Per millenni, un doppio comandamento ha retto la
morale ebraico-cristiana: ama Dio e ama il prossimo tuo come te stesso. Alla fine dell’Ottocento
Nietzsche ha annunciato: Dio è morto. Passato anche il Novecento, non è tempo di dire quel che
tutti vediamo? È morto anche il prossimo. (…) La vicinanza è sempre stata fondamentale. Col
XXI secolo la lontananza e i rapporti mediati dalla tecnica prendono il sopravvento: così la ricerca
di intimità si riaffaccia in forma contorte. Il bisogno di vicinanza, represso, si traveste di sessualità,
o di altri impulsi formalmente permessi». Si scolorisce l’immagine del prossimo, in favore di un
prossimo virtuale che non mi coinvolge in prima persona. L’involuzione dei rapporti sociali si
intreccia con l’evoluzione della tecnologia. La globalizzazione non è un evento solo economico, ma
anche morale. Si può davvero amare o solo conoscere quel che è lontano? E la sola conoscenza mi
permette, almeno, di essere giusto? Non c’è ancora niente che lo dimostri.
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3. Punti di incontro
Che dire e che fare, dinnanzi al panorama qui tracciato a grandi linee?
Una reazione immediata può essere quella del prevalere dello scoraggiamento.
La situazione di genitori ed educatori è difficile, esposta alla crisi da molti punti di vista. Anche gli
adulti, infatti, sono coinvolti nei processi descritti, vivono per se stessi le difficoltà e i disagi che i
giovani testimoniano in modo più diretto. Due rischi sono possibili. Il primo è l’arroccamento sulle
certezze consolidate, delle quali anche l’adulto dubita, ma che gli servono come ancoraggio per
dimostrare di non essere stato travolto. Oppure può esserci una sorta di inseguimento del
giovanilismo che finisce per costituire una vera e propria abdicazione alla condizione di adulto, una
rinuncia all’educare. Entrambe le strategie alla lunga sono perdenti: l’una perché non ha mezzi per
gestire le novità del nostro momento storico, l’altra perché ne ignora le controindicazioni.
Dobbiamo ammettere di non avere tutte le risposte, riconoscere i nostri limiti, ma non da
rinunciatari. Il cambiamento giovanile richiede un cambiamento anche agli adulti, nel loro stare
con loro. Dobbiamo essere consapevoli di questa necessità di ricerca di nuove modalità di
relazione educativa.
«Come può un educatore (genitore, insegnante, pastore d’anime) – scriveva don Cantoni nel 2002 –
come può trincerarsi dietro le proprie sicurezze (chi non dubita non ricerca) ed emettere condanne,
senza porsi il problema delle proprie corresponsabilità (“i padri hanno mangiato l’uva acerba e i
figli hanno i denti legati”)? Come può attribuire ai giovanissimi una “densità del male”, quando
ancora non possiedono il senso critico necessario per giudicarlo? Come si può attribuire ai ragazzi
la permissività e la deriva della scuola, quando la riforma della scuola è stata pensata e voluta dagli
adulti, i cosiddetti “esperti”? Come si può attribuire ai ragazzi la responsabilità di “aver
abbandonato la chiesa, la pratica della messa domenicale e i sacramenti”, senza chiedersi se non sia
in questione lo “stile pastorale” delle comunità cristiane?».
Non possiedo ricette o formule magiche. Provo ad indicare alcune rotte di navigazione, pur senza
poter prevedere gli approdi.
1. A livello culturale, soprattutto in ambito cattolico, manca ancora una recezione positiva del
processo di formazione dell’identità. Il concetto moderno di identità introduce in antropologia le
dimensioni della soggettività e della storicità che sono accolte in maniera ancora problematica. Solo
gli studi di Ignazio Sanna e un recente convegno dell’Associazione Teologica Italiana hanno
iniziato a misurarsi con queste tematiche, senza partire da una posizione di rifiuto pregiudiziale. Il
punto è riconoscere, come fa Franco Giulio Brambilla negli atti del convegno citato, che
dall’emergenza del soggetto moderno, dal bisogno di scoperta della propria identità, proviene
un’istanza legittima, indipendentemente dalle derive che sono sotto gli occhi di tutti. Si tratta del
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valore assoluto della personalità del singolo. Personalità che ci viene data come germinale alla
nascita e che attende la nostra collaborazione per la piena fioritura delle sue qualità mentali,
sentimentali, fisiche e spirituali. Oggi non basta più che siano gli altri a dirci chi siamo. C’è un
bisogno maggiore di autenticità, di scoperta e di scelta in prima persona. Tutte esigenze sacrosante e
positive. Se poi in molti giovani prevale il conformismo, è per la frustrazione di questo bisogno.
Non esaltiamo sempre i bei tempi andati. Se, per esempio, c’è stato un progressivo distacco dalla
fede, non è anche perché alla passata adesione di massa alla religione non corrispondeva spesso
un’autentica esperienza di incontro con Dio. Forse, tanti percorsi educativi non avevano basi molto
solide… O comunque erano validi in una data epoca, ma non hanno retto al modificarsi del
contesto.
2. La chiave può essere un’educazione alla responsabilità, al “rispondere agli altri” come
principio delle scelte, alla riscoperta che non possiamo esistere senza l’altro. L’altro vale tanto
quanto me, l’altro è persona come me, l’altro è parte di me. La cordata è meglio della competizione
di tutti contro tutti. Se l’identità corrisponde alla centralità del soggetto, l’obiettivo di chi educa
diventa la formazione di un soggetto responsabile che non sia dominato dalla logica del desiderio. È
la proposta di Armido Rizzi in un testo significativamente intitolato Oltre l’ebra voglio. Dal
narcisismo postmoderno al soggetto responsabile. Il soggetto responsabile è quello che pratica
nuovi stili di vita, alternativi alla dittatura del consumismo, e intreccia nuovi legami. La riduzione
del tenore di vita, del superfluo, può essere l’occasione di riscoprire altre dimensioni dell’esistere,
meno individualistiche e più solidali. Nella prospettiva di Rizzi l’etica si combina con l’estetica: si
tratta dell’incarnazione del bene come cura del prossimo, dentro una vita che ne diventa la
trasparenza e gli altri ne possono cogliere la bellezza. La responsabilità è faticosa, ma bella. Per
questo può essere persuasiva.
3. La domanda capitale è: come trasmettere tutto ciò? Qui va fatto lo sforzo maggiore. Va
privilegiata la relazione educativa, prima ancora che la trasmissione dell’uno o dell’altro contenuto.
L’educazione come relazione. L’educazione come ascolto e vicinanza. Il ruolo non basta più. In
un clima che erode la prossimità, la vicinanza, la scelta spiazzante, inattesa, è quella di farsi
prossimi ai giovani, di stare loro vicino. È un gesto gratuito che testimonia cura, prendersi a cuore.
In un’epoca di passioni tristi, spente, l’educatore appassionato che si spende per i giovani smuove
qualcosa. La passione viva è contagiosa. Come sosteneva don Lorenzo Milani: «Il maestro dà al
ragazzo tutto quello che crede, ama, spera. Il ragazzo crescendo ci aggiunge qualche cosa e così
l’umanità va avanti». E se don Cantoni, per fare riferimento ancora a una figura di educatore che ho
conosciuto bene, aveva un segreto per attrarre giovani di generazioni diverse, stava in questa
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capacità di interessarsi a loro, di saper cogliere e accogliere ciò che era per loro importante e nello
stesso tempo comunicare ciò che era importante per lui.
Dalla perdita della vicinanza nasce un bisogno di vicinanza, dal momento che è una dimensione
insopprimibile e decisiva per la persona, a maggior ragione per un giovane. Se ai nostri ragazzi
mancano maestri, non sono certo i maestri che impartiscono lezioni, che pronunciano discorsi.
Come scrisse Paolo VI: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri
[…] o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (Evangelii nuntiandi, n. 41).
Il bisogno di vicinanza non coincide con il bisogno di parlare e le forme del contatto e dell’aiuto
sono molte. C’è da parte dei ragazzi anche una richiesta di vicinanze non finalizzate, di vicinanze
per stare, là dove c’è qualcuno che ha desiderio di stare semplicemente con loro. Questa esperienza
si è quasi completamente persa nella città dove i momenti della vicinanza devono essere previsti e
programmati e diventano sempre strumentali a qualche obiettivo. Ci si incontra per parlare e si
abbandonano quelle forme di vicinanza così importanti per la crescita come il camminare in silenzio
assieme. Gli adolescenti che non sanno o non vogliono parlare, trovano il vuoto e spesso la
solitudine ogni volta che tacciono. Anche tra gli adulti si è persa la gioia del sentirsi vicini e capirsi
per intese sottili. Il silenzio quasi sempre è di impaccio.
I ragazzi chiedono per prima cosa di essere riconosciuti attraverso il fatto di essere visti e accettati
per quello che sono, tollerando le loro provvisorietà e oscillazioni.
Ciò che diventa importante è il modo di stare: stare con e stare vicino. Così l’adulto, l’educatore, se
è coerente, diviene anche credibile. Ciò impone di spostare l’accento dal contenuto dello scambio
per portarlo sulla forma e sul processo dell’incontro.
C’è bisogno di inventare nuove occasioni, momenti e spazi di vicinanza tra le generazioni. Se
viviamo la morte del prossimo, l’unica risposta è farsi prossimi. In questo senso, un fatto che a mio
avviso esemplifica la figura del maestro che è tale in quanto testimone è la morte di don Milani,
così raccontata da uno dei suoi allievi: «Negli ultimi giorni di vita, ormai divorato dal cancro, don
Lorenzo voleva che noi ragazzi si andasse a fargli nottata. “Potrei pigliare un infermiere che sarebbe
più abile di voi”, mi disse un giorno. Ma voleva che si vedesse cos’è la morte, la sofferenza.
Insomma, don Lorenzo volle esserci maestro fino all’ultimo».
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Riferimenti bibliografici
Christian Albini, Quale cristianesimo in una società globalizzata?, Paoline, Milano 2003 (il
volume, al momento esaurito, è consultabile in rete sul sito <http://books.google.it>).
Associazione Teologica Italiana, L’identità e i suoi luoghi. L’esperienza cristiana e il farsi
dell’umano, Glossa, Milano 2008.
Zygmunt Bauman, Intervista sull’identità, a cura di B. Vecchi, Laterza, Roma-Bari 2003.
Miguel Benasayag – Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004.
Alberto Melucci, Il gioco dell’io. Il cambiamento di sé in una società globale, Feltrinelli, Milano
1991.
Alberto Melucci, Passaggio d’epoca. Il futuro è adesso, Feltrinelli, Milano 1994.
Armido Rizzi, Oltre l’erba voglio. Dal narcisismo postmoderno al soggetto responsabile, Cittadella
Editrice, Assisi 2003.
Ignazio Sanna, L’antropologia cristiana tra modernità e postmodernità, Queriniana, Brescia 2001.
Ignazio Sanna, L’identità aperta. Il cristiano e la questione antropologica, Queriniana, Brescia
2006.
Luigi Zoja, La morte del prossimo, Einaudi, Torino 2009.
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