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INTRECCI d’arte n.1 2012 CHE COSA RESTERÀ DEL POSTMODERNO?
Claudio Musso
L’analisi delle ere culturali del Novecento risulta a tutt’oggi complessa, sia per la difficoltà insita
nella individuazione di archi temporali distinti e separati in cui rinchiudere le diverse tendenze, sia
per la problematicità derivata dalla volontà di far convergere gli intenti e le produzioni dei singoli
movimenti in definizioni chiare e nette. Il concetto che più di tutti ha radunato su se stesso nel
tempo le maggiori contraddizioni è sicuramente il postmoderno.
È noto come il termine sia apparso in numerosi saggi, ed è altrettanto riconosciuto che l’area
semantica a cui si riferisce è stata tracciata da Charles Jencks e Jean-Francois Lyotard (C. Jencks,
The Language of Post-Modern Architecture, 1970; J.-F. Lyotard, La Condition postmoderne:
rapport sur le savoir, 1979). Ciò non toglie che intorno al lemma permanga un’atmosfera di
indefinitezza capace di creare enormi fraintendimenti ed estreme fascinazioni.
Forse proprio queste (e altre) ragioni hanno spinto due curatori e uno dei musei più importanti al
mondo a dedicare una colossale retrospettiva al Postmodernismo. La mostra è stata costruita come
un grande spettacolo di luci e colori che si propone di restituire l’immaginario che il postmoderno
ha creato, o meglio, ha ri-creato. È l’architettura in primis a riconoscersi ed esprimere al meglio le
caratteristiche di un’era post-, in cui il prefisso non serve soltanto a declinare una posteriore
collocazione temporale quanto a legarsi a una lunga serie di concetti come mediale, filosofico,
realista.
I tratti peculiari di un panorama multiforme e sfaccettato sono numerosi e su ognuno di essi il
dibattito non si è ancora quietato: uno per tutti, il ricorso a icone, stilemi, frammenti e brandelli di
una tradizione volta per volta ricomposti e ricombinati secondo una logica che l’avvento del digitale
ha riassunto nello slogan ‘copia e incolla’.
«Il recupero del passato, a sua volta, può essere designato con altri termini: ricorso alla citazione, al
remake, sfruttamento sistematico del “ritorno a”, senza dimenticare che proprio il territorio
dell’architettura ha inaugurato, già nel secolo scorso, due termini efficacissimi in proposito, quello
del revivalismo e dell’eclettismo […]» (R. Barilli, Il ciclo del postmoderno. La ricerca artistica
negli anni ’80, 1987).
Il percorso espositivo dedica giustamente specifiche sezioni alle intuizioni del trio Venturi, Scott
Brown e Izenur (Robert Venturi - Denise Scott Brown – Steven Izenour, Learning from Las Vegas,
1972), alla nuova frontiera del design inaugurata da Mendini e Sottsass, alla Biennale del 1980
curata da Paolo Portoghesi. Questi i prodromi di un atteggiamento che, in breve tempo, abbraccia le
arti visive, la moda, la musica, portando con sé il proprio modus pensandi, i tratti salienti, e
acquisendo elementi in grado di costituire una griglia concettuale capace di imbrigliare Jenny
Holzer e Kazuo Ono, Klaus Nomi e Grandmaster Flash, Rem Koolhas e Giulio Paolini. Ed ecco che
nella straordinaria organizzazione museale si insinua il germe della semplificazione, o quanto meno
il dubbio fondato che la sistematica giustapposizione di nomi, testi, opere abbia tralasciato qualche
particolare cruciale nella comprensione della ricerca dei singoli.
Onore al coraggio di un’operazione di raccolta e catalogazione eseguita secondo criteri
transdisciplinari dai risultati certamente appaganti sia per il ricercatore che per il curioso. Di certo
c’è che quell’amorfa e impalpabile condizione postmoderna ha lasciato delle inequivocabili eredità
nel presente ancora insondate e foriere di inedite letture tanto del passato prossimo quanto del
futuro anteriore.
Postmodernism. Style and Subversion, 1970 – 1990
a cura di Glenn Adamson e Jane Pavitt (Londra, Victoria & Albert Museum, 24.9.2011 – 15.1.2012;
Rovereto, MART, 25.2 – 3.6.2012) Londra, V & A Publishing, 2011