dei piu` bassi tra i paesi occidentali e, in particolare

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dei più bassi tra i paesi occidentali e, in particolare, è modesto il
livello di diffusione dei personal computer, per quanto il volume di
vendite abbia segnato un notevole incremento nel 1999, trainato
dall’effetto di Internet. Per questo devono essere incoraggiate ed estese
le iniziative, già avviate, per promuovere, anche con la collaborazione
di imprese, istituti di credito e soggetti privati, la diffusione dei personal
computer nelle scuole ed agevolarne l’acquisto da parte delle famiglie.
A livello scolastico è necessaria una formazione che fornisca alle
giovani generazioni le basi conoscitive (a cominciare dalla padronanza della lingua inglese) che permettano di operare nelle condizioni
e con gli strumenti diffusi dai progressi tecnologici. D’altra parte la
rapidità stessa di questi progressi richiede una formazione di ampia
prospettiva, volta non tanto a trasmettere singole conoscenze settoriali, ma piuttosto a fornire le basi culturali necessarie per processi
di apprendimento che dovranno continuare, al di fuori della scuola,
per tutta la vita.
Proprio la rapidità con cui si susseguono le innovazioni tecnologiche rende, anche all’interno delle imprese, le attività di formazione
del personale un’esigenza permanente ed ineludibile, che comporta,
tra l’altro, costi non irrilevanti. Per queste attività, in considerazione
del fatto che costituiscono un arricchimento e una valorizzazione del
fattore produttivo più importante, sarebbero auspicabili, nei limiti
permessi dalla normativa comunitaria, interventi agevolativi da parte
dello Stato. In generale, in materia di formazione, potrebbero inoltre
essere utilizzati, in modo più efficace e più rispondente alle esigenze
imposte dalle trasformazioni che si registrano nel mondo del lavoro,
gli appositi fondi comunitari.
Lo svolgimento di attività di formazione da parte delle imprese
potrebbe condurre ad instaurare proficue forme di collaborazione con
le università. È stato più volte sottolineato nel corso dell’indagine il
grave distacco che nel nostro paese separa il mondo dell’università
da quello della produzione. Esso si riflette nelle difficoltà di incontro,
che si segnalano con sempre maggior frequenza, tra domanda e
offerta di lavoro.
Occorre, per questo, che vengano sostenuti e diffusi tutti gli
strumenti idonei a stabilire rapporti di cooperazione solidi e duraturi
tra imprese, università e centri di ricerca. In particolare dovrebbero
essere favorite le convenzioni o i contratti di ricerca, che, per le
università, potrebbero diventare un’importante fonte di finanziamento
e, alle imprese, potrebbero offrire l’opportunità di svolgere un ruolo
attivo nell’impostazione delle attività didattiche e di ricerca, beneficiando dei loro risultati, sia in termini di disponibilità di risorse
umane qualificate, sia in termini di progetti innovativi.
La collaborazione tra università e imprese potrebbe inoltre dar
luogo o all’istituzione di apposite strutture, come consorzi e centri di
ricerca, o all’organizzazione, all’interno delle università, di corsi di
laurea con specifici indirizzi. In questo modo, tra l’altro, si creerebbe
l’occasione per proficui scambi di personale (come, ad esempio,
l’inserimento di tecnici e ricercatori nelle imprese o l’utilizzo di
dipendenti delle imprese in attività di insegnamento).
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Nell’indagine conoscitiva sono state illustrate alcune interessanti
iniziative, già avviate o in fase di avviamento, relative all’istituzione, da
parte di imprese, di centri di formazione superiore o di corsi di studio
con i quali si mira a fornire una preparazione che, pur essendo
impostata su un ampio spettro di materie, risulti idonea ad un rapido
inserimento nei profili professionali emergenti. Simili iniziative dovrebbero essere promosse su tutto il territorio nazionale.
A tal fine potrebbe dimostrarsi particolarmente efficace un
intervento dello Stato mediante l’impiego dello strumento fiscale,
nella forma di defiscalizzazione dei costi sostenuti dalle imprese.
Dalla collaborazione tra università e imprese potrebbe trarre
vantaggio la stessa attività di ricerca, che potrebbe riceverne sostegno
e promozione e potrebbe essere maggiormente orientata verso le
applicazioni di mercato. In Italia, come è stato segnalato anche
durante l’indagine, la spesa complessiva per ricerca e sviluppo è
ridotta (in rapporto al PIL è di poco superiore all’1% e si colloca al
19o posto tra i paesi OCSE). La carenza non riguarda solo il settore
pubblico; le risorse destinate alla ricerca innovativa dalle imprese
private sono modeste.
È stato osservato che, in un sistema produttivo come quello
italiano, caratterizzato dalla prevalenza della piccola impresa, l’innovazione si situa, piuttosto che nella fase vera e propria della
ricerca, nella capacità di creare, utilizzando tecnologia già disponibile,
nuovi prodotti, adatti ad una determinata sezione del mercato e
rispondenti alle attese del consumatore.
D’altra parte si è tuttavia evidenziato che i processi di globalizzazione e di creazione di grandi aree valutarie tendono a distribuire
su diverse localizzazioni le fasi del ciclo produttivo di ogni industria.
Per questo è essenziale per l’Italia disporre delle condizioni idonee
(in primo luogo le risorse umane, le capacità di innovazione e ricerca,
le dotazioni infrastrutturali) a sviluppare sul proprio territorio i
settori o le fasi del ciclo produttivo a maggiore valore aggiunto e a
più elevato livello tecnologico e di conoscenza.
Nell’indagine è stata in proposito avanzata frequentemente la
considerazione che è l’economia del paese nel suo complesso a dover
essere in grado di sfruttare le opportunità recate dalle innovazioni
tecnologiche, le quali possono introdurre radicali trasformazioni
anche negli ambiti produttivi tradizionali. Dalla capacità di affrontare
queste trasformazioni dipendono le prospettive di crescita. È necessario
quindi sostenere le imprese che si impegnano a riorganizzare i
processi produttivi e distributivi mediante gli strumenti offerti dalle
tecnologie dell’informatica e delle comunicazioni.
Occorre a tal fine rimuovere le condizioni, di natura normativa,
burocratica o fiscale, che costituiscono di fatto un impedimento alla
diffusione delle nuove tecnologie, specialmente nell’esercizio di
attività economiche, e prestare attenzione a non introdurre forme di
regolazione che, pensate in rapporto a un determinato stadio di
sviluppo delle tecniche, si trasformino in un freno al dispiegamento
delle potenzialità offerte da ulteriori innovazioni.
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Si possono anche ipotizzare interventi agevolativi, analoghi a
quelli già previsti per spese di investimento, ma mirati in modo più
specifico a favorire l’adozione e il potenziamento delle nuove
tecnologie.
L’intervento dello Stato in questo ambito dovrebbe tuttavia
qualificarsi principalmente per la promozione e la realizzazione, anche
con il concorso di soggetti privati (per esempio nella forma del project
financing), di progetti di grande visibilità, diretti a dotare tutto il
territorio di quelle infrastrutture tecnologiche necessarie per rendere
possibile la diffusione e l’impiego dei più avanzati risultati del
progresso tecnologico, rivolto verso la convergenza nella trasmissione
di dati, immagini, suoni. Da questo punto di vista l’esigenza
prioritaria risiede nel dispiegamento su tutto il territorio di reti di
fibre ottiche. Gli interventi che sono stati intrapresi finora dalle
società operanti nel settore (alcune delle quali sotto controllo
pubblico) procedono in modo irregolare e frammentario, sia in
riferimento all’ambito territoriale nel quale vengono effettuati, sia in
riferimento agli standard tecnologici che vengono adottati.
Riguardo a quest’ultimo profilo si delinea il secondo compito
proprio degli organi pubblici, che consiste nella determinazione e, se
necessario, nell’imposizione di standard tecnologici uniformi, per
evitare sprechi di risorse e per impedire che la trasmissione di
informazioni, suoni, immagini trovi un ostacolo nella incompatibilità
delle impostazioni tecnologiche adottate.
Le infrastrutture necessarie all’impiego, su tutto il territorio
nazionale, secondo standard omogenei, delle tecnologie delle comunicazioni e dell’informatica, costituiscono la condizione per l’innovazione del sistema produttivo italiano. La loro realizzazione, alla
quale potrebbe essere destinata anche parte di risorse di carattere
straordinario, quali quelle provenienti dall’assegnazione delle licenze
di telefonia mobile UMTS, dovrebbe realizzarsi attraverso la cooperazione di soggetti pubblici e privati. Essa dovrebbe inoltre accompagnarsi all’informatizzazione della pubblica amministrazione, al fine
non solo di permettere quel recupero di efficienza degli apparati
pubblici necessario alla competitività del Paese, ma anche di fornire
alle imprese, mediante la creazione di portali o di reti o la diffusione
di strumenti volti a garantire un accesso sicuro, uno stimolo e un
sostegno all’innovazione dei processi di produzione e distribuzione (si
pensi al commercio elettronico).
Le infrastrutture.
L’importanza delle infrastrutture connesse all’impiego delle tecnologie dell’informatica e delle comunicazioni non deve indurre a
trascurare le infrastrutture tradizionali. Rispetto a queste ultime,
l’Italia si trova da tempo in una situazione di insufficienza, che
rappresenta un grave handicap per il sistema economico. Le carenze
riguardano sia il settore ferroviario, sia il settore marittimo, sia anche
il settore dell’autotrasporto, che pure, a differenza dei precedenti, è
stato privilegiato dalle politiche condotte nel passato; tali carenze
sono aggravate dalle difficoltà di ingresso di nuovi operatori che,
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mediante il gioco della concorrenza, potrebbero stimolare miglioramenti nella qualità dei servizi e riduzione dei costi (anche da questo
punto di vista il settore ferroviario è molto indicativo).
Negli ultimi anni la situazione si è aggravata, dal momento che,
anche a causa delle necessità imposte dalla riduzione del disavanzo
pubblico, la spesa per infrastrutture in Italia è diminuita in misura
consistente rispetto al PIL, ed è ora tra le più basse in Europa. Nel
frattempo i bisogni di mobilità delle persone e delle merci sono
enormemente cresciuti.
Un’appropriata dotazione di infrastrutture, quale parte dello
stock di capitale dell’economia, contribuisce ad aumentare il potenziale di sviluppo del sistema, migliorando la produttività degli
investimenti privati e riducendo i costi di produzione. Altrettanto
essenziale è un sistema efficiente di erogazione dei relativi servizi.
Come è stato osservato nel corso dell’indagine conoscitiva, le
piccole imprese, in particolare, stanno trovando un « collo di
bottiglia »: le reti dei trasporti (viarie, autostradali e ferroviarie) sono
assolutamente carenti, mentre le reti di telecomunicazioni hanno
lasciato scoperte proprio alcune zone ad elevata industrializzazione.
Vi è un problema relativo alle reti lunghe, strettamente legato
all’integrazione degli scambi commerciali. Sono stati segnalati i casi
dei trafori alpini, che risultano insufficienti rispetto al carico attuale
di traffico e determinano quindi una difficoltà di collegamento con
l’Europa centrale, o quelli di alcune autostrade, anch’esse sovraccaricate, che impediscono, ad esempio, uno sviluppo delle imprese
italiane verso i mercati dell’Est europeo. Le difficoltà riguardano
anche le cosiddette reti corte (viabilità ordinaria, fognature, fornitura
di acqua, linee elettriche), che creano problemi soprattutto alle PMI
dei distretti.
Occorre quindi recuperare un ritardo particolarmente grave nel
Mezzogiorno, ma che riguarda l’intero Paese, attraverso la creazione
di un sistema adeguato di infrastrutture « lunghe » e « corte ».
È da notare che le innovazioni che le nuove tecnologie introdurranno nei sistemi di produzione e di distribuzione non solo non
attenueranno le carenze della rete infrastrutturale, ma al contrario le
renderanno più acute. È vero, infatti, che la trasmissione di
informazioni per via telematica porrà fine all’emarginazione di
imprese lontane dai poli industriali, purché naturalmente sia ad esse
garantito l’accesso alla rete, e, in questo modo, permetterà di
superare distanze spaziali e arretratezze anche secolari. Tuttavia
proprio l’intensificazione degli scambi mediante il commercio elettronico richiederà strutture logistiche potenziate, capaci di assicurare vie
di comunicazione efficienti sia nella fase iniziale dell’approvvigionamento delle materie prime e dei prodotti intermedi, che in quella finale
della consegna dei prodotti.
L’auspicata innovazione del sistema economico mediante l’introduzione delle nuove tecnologie rischia nel nostro paese di incontrare
un ostacolo insuperabile nell’inadeguatezza delle infrastrutture tradizionali, sulle quali comunque dovranno passare i beni scambiati tra
le imprese o destinati ai consumatori.
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Complementare rispetto ad un potenziamento delle infrastrutture
che riavvicini l’Italia agli standards dei principali paesi industriali, è
la riqualificazione delle modalità di erogazione dei relativi servizi che
finora hanno penalizzato la competitività del Paese; sotto questo
profilo risultati importanti possono derivare dalle misure volte a
favorire l’ingresso, nei singoli settori, di nuovi operatori.
Le forme di finanziamento delle imprese; l’efficienza dei mercati
finanziari.
Le prospettive di sviluppo richiedono, come è stato più volte
messo in evidenza nel corso dell’indagine, il sostegno di moderne
forme di finanziamento, ed in particolare di mercati finanziari
efficienti, che offrano all’imprenditore la possibilità di condividere i
rischi di impresa con altri investitori e di raccogliere capitali per
finanziare progetti di investimento a costi più contenuti. Quest’esigenza si accentua in una fase di forte innovazione, che stimola il
sorgere di nuove iniziative imprenditoriali e il rinnovamento delle
strutture e dei processi produttivi già esistenti.
La globalizzazione dei mercati di capitali ha moltiplicato la
disponibilità di risorse finanziarie. Anche in Italia la situazione è
favorevole, come mostrano i dati sull’incremento della capitalizzazione
della borsa italiana e del valore degli scambi azionari. Un certo numero
di nuove società sono state quotate in borsa e, nell’ultimo anno, si è
trattato soprattutto di società a forte potenzialità di sviluppo, operanti
nei settori dell’informatica e delle telecomunicazioni.
Nonostante questa evoluzione positiva, il mercato azionario
italiano rimane più debole e limitato non solo rispetto a quello
americano e inglese, ma anche in confronto a quello dei maggiori
paesi europei (Germania e Francia).
Da questo punto di vista occorre intervenire sulle cause che sono
di ostacolo al potenziamento sia della domanda che dell’offerta di titoli.
Sul lato della domanda di titoli, il mercato finanziario italiano risente
della assenza di importanti forme di investitori istituzionali, quali,
principalmente, i fondi pensione, capaci di convogliare direttamente
redditi da lavoro in investimenti mobiliari. Nella disciplina dell’impiego del trattamento di fine rapporto, che già è stata oggetto di
iniziativa legislativa, e, più ampiamente, nella definizione del ruolo
della previdenza complementare, all’interno di un generale riassetto
del sistema previdenziale, deve essere adeguatamente valorizzato
l’interesse per la costituzione di fondi pensione, chiusi e aperti, che
possano giocare un ruolo significativo sui mercati.
A tal fine è decisivo l’utilizzo dello strumento fiscale. Una
adeguata defiscalizzazione sia per il lavoratore che per il fondo
costituisce un mezzo sicuro di diffusione di uno strumento essenziale
per l’equilibrio del sistema produttivo italiano. I fondi pensione
potranno inoltre avere risvolti importanti non solo rispetto all’attività
di raccolta del risparmio, ma anche sulla trasformazione degli assetti
proprietari caratteristici del sistema produttivo italiano.
Dal lato dell’offerta di titoli è stata sottolineata una scarsa
propensione delle imprese italiane a quotarsi e a ricercare in borsa
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i capitali per il proprio finanziamento. L’incremento della capitalizzazione della borsa è stato prodotto in ampia misura dal processo di
privatizzazione, che ha coinvolto alcune delle maggiori imprese
nazionali. È stata evidenziata una significativa relazione tra, da un
lato, la struttura del sistema produttivo, caratterizzato dalla presenza
di pochi grandi operatori e dalla frammentazione in piccole e medie
imprese, e, dall’altro, le modalità del suo finanziamento, che
mostrano un’alta incidenza dei debiti bancari, soprattutto a breve
termine e, per le micro-imprese, la possibilità di sostenere le proprie
iniziative di sviluppo soltanto con i mezzi derivanti dall’autofinanziamento. Questa situazione costituisce una penalizzazione sia per la
borsa, a causa del limitato numero di titoli, sia per le imprese, a
causa della loro fragilità finanziaria e dell’alto costo che vengono ad
avere gli investimenti.
Le prospettive di rafforzamento e di crescita dimensionale di una
parte importante delle imprese italiane dipendono dalla possibilità di
accesso ai mercati finanziari. Sul versante delle imprese, è necessario
che tale accesso venga agevolato, anche attraverso mirati interventi
normativi, che ne riducano gli oneri burocratici e fiscali.
La quotazione delle imprese italiane deve essere considerata nel
contesto del forte impulso all’integrazione dei mercati finanziari
derivante dalla liberalizzazione dei movimenti di capitale e dall’unificazione monetaria. Questo processo di integrazione trova un
ostacolo nell’assenza di istituzioni comuni, nella frammentazione, su
base nazionale, degli assetti normativi e regolamentari e nelle difficoltà
di pervenire, in sede comunitaria, a definire regole uniformi. È
importante che, in questa sede, l’Italia si adoperi con autorevolezza
nel sostenere le iniziative volte a stabilire una disciplina delle
operazioni finanziarie e del loro trattamento fiscale comune, nelle
linee fondamentali, a tutti gli Stati membri.
Nonostante queste difficoltà l’integrazione dei mercati finanziari
in ambito europeo è un processo alla lunga ineluttabile. Esso può
offrire, grazie all’aumento di liquidità e di spessore dei mercati in cui
si concentra la negoziazione, grandi opportunità alle imprese che
hanno idee e progetti di sviluppo e che sono disponibili a confrontarsi
con gli investitori. Tuttavia, se la presenza delle imprese italiane sarà
limitata, esso potrà accentuare fenomeni di impiego di disponibilità
raccolte in Italia per finanziare società che operano in altri paesi.
Le IPO (initial public offering) costituiscono un indice importante
della vitalità di un sistema economico. Oltre la quotazione in borsa,
l’iniziativa imprenditoriale può trovare sostegno finanziario in altri
strumenti. In particolare, per quanto riguarda il finanziamento delle
imprese innovative, con elevate potenzialità di crescita, ma anche con
alto rischio, negli Stati Uniti si è affermata su ampia scala la forma
del venture capital, praticata non solo da banche di investimento e
istituzioni finanziarie, ma anche da finanziatori privati e da apposite
strutture.
L’impiego di capitale di rischio in quote di minoranza di società
con elevate prospettive di sviluppo richiede da parte degli investitori
una notevole capacità di rinnovare le forme tradizionali del loro
intervento e di valutare il merito dell’attività economica che viene
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intrapresa e delle sue possibilità di successo. La considerazione vale
in particolare per le banche italiane, che nel passato hanno modellato
la loro struttura e la loro attività su un sistema imprenditoriale
chiuso, spesso costruito su base familiare, propenso all’indebitamento
piuttosto che ad accogliere capitali di rischio, privilegiando i servizi
tradizionali rispetto proprio al settore dell’investment banking.
Nel corso dell’indagine è stato inoltre suggerito il ruolo che, per
il consolidamento delle imprese, può essere svolto non solo dall’apporto di fondi da parte di investitori istituzionali (che, per le imprese
di grandi dimensioni, può portare alla configurazione del modello
proprietario della public company), ma anche dalla partecipazione
diretta alla proprietà da parte dei dipendenti, mediante piani di
azionariato per il personale, anche realizzati mediante un uso più
esteso dello strumento delle stock option.
In ogni caso occorre osservare che, oltre ad un forte rinnovamento e ad una maggiore dinamicità delle strutture creditizie e
finanziarie, gli strumenti di finanziamento innovativi, al pari della
quotazione sui mercati azionari, richiedono, anche da parte degli
imprenditori, una diversa, e più moderna, cultura organizzativa,
manageriale e finanziaria. La richiesta di finanziamenti sui mercati dei
capitali comporta la trasparenza della gestione e dei suoi risultati, la
vigilanza degli investitori, anche la contendibilità del controllo
proprietario. Il finanziamento nella forma del venture capital implica
l’apertura della proprietà al socio investitore, che può anche
richiedere di essere coinvolto nella conduzione dell’attività imprenditoriale. Le stock option e i piani di azionariato per il personale sono
correlati a una diversa definizione del ruolo del management, e del
suo rapporto con la società, e a una partecipazione diretta dei
dipendenti alla proprietà e alla gestione dell’azienda.
Le politiche a sostegno della concorrenza.
La competitività delle imprese e, in generale, del sistema italiano,
in un contesto caratterizzato dall’apertura e dall’allargamento dei
mercati, deve misurarsi, su scala internazionale, con quella di altre
imprese e di altri sistemi. L’introduzione della moneta unica ha
l’effetto di potenziare il processo di integrazione agevolando i
confronti sui prezzi e sulla qualità dei beni e servizi. In questo nuovo
ambiente occorre abbandonare l’illusione che si possano rafforzare gli
operatori nazionali mediante protezioni e restrizioni alla concorrenza, da cui derivi, in modo artificiale, una rendita di localizzazione.
Tali misure (peraltro soggette ai divieti comunitari) finiscono per
recare danno sia al Paese nel suo complesso, per il quale beni o
servizi vengono ad avere un costo maggiore di quello che si
registrerebbe in un mercato aperto e concorrenziale, sia alle stesse
imprese protette, che, relegate ad operare entro ristretti confini
geografici, vedranno compromesse, nel lungo periodo, le loro potenzialità di sviluppo.
Per questi motivi le politiche a favore della concorrenza – anche
attraverso una regolamentazione meno rigida e penetrante, capace di
adattarsi alle trasformazioni derivanti dai progressi tecnologici –
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costituiscono esse stesse un contributo alla crescita del paese. Gli
interventi dovranno indirizzarsi in particolare al settore dei servizi,
che ha un peso prevalente rispetto al complesso della produzione e
dell’occupazione, è caratterizzato dalle maggiori potenzialità di
espansione e incide in misura rilevante sulle condizioni e sulla
competitività dei processi produttivi industriali. In Italia, del resto, i
servizi sono il settore nel quale – come è stato osservato nel corso
dell’indagine – più a lungo si sono protratte (e, in parte, continuano
ancora a manifestarsi) logiche regolatorie impostate a livello nazionale e fortemente ispirate a obiettivi di natura protezionistica.
Nel corso dell’indagine sono stati presi in considerazione la
distribuzione commerciale, i servizi professionali, i servizi assicurativi
e finanziari. Un’attenzione particolare è stata dedicata ai servizi di
pubblica utilità. L’assetto di tali servizi è stato radicalmente modificato dal programma di privatizzazioni, che, per le sue dimensioni,
risulta il più ampio tra i paesi OCSE.
La privatizzazione dei servizi di pubblica utilità non è tuttavia
sufficiente a dare origine a mercati concorrenziali, anzi può
concludersi nella trasformazione dei grandi monopoli pubblici in
monopoli privati; per questo deve accompagnarsi, nei singoli rami,
con un’altrettanto incisiva opera di liberalizzazione e di creazione
delle opportunità di ingresso per nuovi operatori.
Nelle telecomunicazioni, in cui è stato raggiunto lo stadio di
liberalizzazione più avanzato, è necessario mantenere una efficace
politica a sostegno della concorrenza (che può portare ad una
riduzione dei costi per i consumatori), congiuntamente alla promozione delle prospettive di sviluppo del settore, che sembrano
indirizzarsi verso linee di convergenza con l’informatica e con i media
audiovisivi. Il processo di liberalizzazione è stato definito, a livello
normativo, anche nel settore elettrico e, da ultimo, in quello del gas:
in ogni caso i tempi per il passaggio ad un mercato aperto non
dovranno protrarsi oltre i termini fissati.
In generale si è osservato che il principale ostacolo alla
liberalizzazione dei servizi di pubblica utilità deriva dalla compresenza di attività svolte in monopolio naturale (perché, in genere,
connesse ad una rete che non è economico duplicare) e attività che
possono essere svolte in concorrenza da più soggetti. Per impedire
all’impresa che ha il controllo sulle prime di estendere la posizione
dominante alle altre, occorre stabilire una separazione completa ed
effettiva tra le attività svolte in monopolio naturale e quelle che
possono invece essere svolte in regime di concorrenza o, comunque,
stabilire un obbligo ineludibile, per chi ha il controllo della rete, di
permetterne l’accesso ai concorrenti.
Rispetto a simili difficoltà, le direttive comunitarie di liberalizzazione delle public utilities determinano prı̀ncipi generali, tali da
lasciare spazio, nella specificazione delle modalità della loro attuazione, a forme di « concorrenza » tra sistemi normativi nazionali, che
possono anche accentuare l’eliminazione di vincoli ingiustificatamente
restrittivi.
Le considerazioni avanzate valgono in particolare per i settori,
come il trasporto ferroviario e il servizio postale, nei quali perman-
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gono estese aree di monopolio, cui si associa una mediocre qualità
del servizio e disavanzi strutturali che gravano sui bilanci pubblici.
Si segnala infine l’opportunità che quanto è stato fatto (e si sta
ancora facendo) in materia di privatizzazione e liberalizzazione dei
servizi pubblici a livello nazionale trovi rispondenza a livelli territoriali
più ristretti. Occorre a tal fine pervenire, in tempi brevi, all’approvazione definitiva di una nuova disciplina dei servizi pubblici locali,
che garantisca l’affidamento di quelli a prevalente carattere economico mediante procedure concorrenziali; il raggiungimento di questo
obiettivo presuppone la dismissione, da parte degli enti locali, del
controllo sulle società che erogano i servizi.
Gli assetti normativi. La riforma del diritto societario.
Le difficoltà che il sistema produttivo italiano incontra dipendono
non solo da ragioni di ordine economico, ma anche dal fatto che gli
operatori devono conformarsi ad un complesso di disposizioni
pletorico, instabile e, in parti importanti, non rispondente alle
esigenze attuali.
La riforma amministrativa delineata dalla legge 59/1997 ha
introdotto gli strumenti per operare una significativa semplificazione
e riordino delle norme vigenti, mediante la delegificazione e l’approvazione di testi unici, che raccolgano, in modo ordinato, la
disciplina di intere materie. È importante che questi strumenti siano
utilizzati per definire un contesto normativo chiaro e rispondente alle
esigenze che emergono dalle trasformazioni economiche e sociali. A
tal fine, in particolare, è stata segnalata l’opportunità di dare piena
attuazione alle disposizioni già vigenti con le quali si prevede che per
gli schemi di atti normativi e di regolamenti si predisponga un’analisi
dell’impatto (in termini di costi e di adempimenti) che la nuova
disciplina proposta avrebbe sull’attività dei cittadini, delle imprese e
delle stesse amministrazioni pubbliche.
Le considerazioni sugli ostacoli che l’assetto normativo frappone ad
un pieno sviluppo delle potenzialità del sistema valgono in particolare
per quei settori dell’ordinamento che più da vicino riguardano l’attività
imprenditoriale. Nell’indagine è stata più volte sottolineata l’urgenza
della riforma del diritto societario, per la quale già è stato svolto un lungo
lavoro preparatorio (il progetto predisposto dalla Commissione Mirone,
tradotto, da ultimo, in disegno di legge delega).
La riforma deve proporsi l’obiettivo di modellare una struttura
societaria tale da agevolare l’attività imprenditoriale, che ne costituisce la ragion d’essere, anziché ostacolarla.
Da qui l’esigenza di introdurre elementi di flessibilità nel regime
societario, con riguardo sia all’adozione del modello societario, sia
alla disciplina delle sue forme organizzative, prevedendo l’ampliamento degli spazi regolati dall’autonomia statutaria. Queste forme di
flessibilità sono necessarie soprattutto per le società con una ristretta
compagine, nelle quali il socio ha il ruolo di imprenditore, o
comunque partecipa direttamente alla gestione dell’impresa.
Nella direzione fondamentale di favorire l’attività imprenditoriale
si pone anche la semplificazione delle procedure che interessano alcuni
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momenti fondamentali dell’attività della società, e in primo luogo la
sua costituzione e l’acquisizione della personalità giuridica. Possono
essere eliminati e semplificati i complessi adempimenti che in Italia,
in confronto con quanto accade negli altri paesi europei, aggravano
i costi e allungano i tempi necessari per dar origine ad una nuova
società.
Riguardo alla riforma societaria, un ultimo aspetto emerso nel
corso dell’indagine (e, del resto, presente nelle proposte in discussione) concerne le misure rivolte a favorire le possibilità di
finanziamento, con l’auspicio, in particolare, di un’attenuazione dei
limiti e dei vincoli oggi esistenti all’emissione di obbligazioni.
Trasferimento di funzioni alle amministrazioni regionali e locali e
modernizzazione degli apparati pubblici.
La competitività del Paese nel suo complesso ha bisogno del
contributo determinante della Pubblica Amministrazione. A tal fine
occorre una radicale trasformazione delle modalità di operare degli
apparati pubblici, che in prima luogo investa il suo assetto strutturale
e la ripartizione delle funzioni tra amministrazione centrale e
amministrazioni regionali.
La rispondenza dell’attività degli apparati pubblici alle esigenze
che provengono dal tessuto sociale e produttivo richiede, secondo il
principio di sussidiarietà, l’attribuzione della generalità dei compiti
amministrativi alle strutture pubbliche più vicine ai cittadini interessati, tranne quelle funzioni che, per la loro natura, richiedono di
essere esercitate ad un livello dimensionale superiore.
Quest’esigenza è ancora più forte in un paese come l’Italia, che
si caratterizza per una struttura economica molto differenziata, al
punto da rendere difficile la definizione di un identico ordine di
priorità per realtà territoriali diverse. Gli stessi distretti industriali,
come organizzazioni nate dal basso, conservano la loro specificità
regionale o provinciale. Essi mostrano nel modo più evidente come,
in un contesto economico segnato dalla globalizzazione, la realtà
produttiva locale si ponga in rapporto diretto con il mercato
internazionale.
In questo contesto lo Stato deve mantenere e sviluppare un ruolo
di indirizzo, di controllo e di coordinamento, e anche di supporto alle
strutture amministrative locali più deboli.
Il trasferimento dallo Stato centrale alle amministrazioni regionali e locali della massima parte delle competenze operative (tranne
appunto quelle, specificamente determinate, che si connettono alla
stessa unità nazionale), in una prospettiva, in ampio senso, di
federalismo, è la condizione per il successo della riforma amministrativa. Tale successo potrà dirsi raggiunto quando l’effettivo operare
dell’amministrazione risulterà rispondente ad una cultura istituzionale che privilegi il risultato e che riconosca come valori primari
l’efficienza, l’attenzione alla domanda, la soddisfazione dell’utenza.
Una impostazione dell’attività della Pubblica Amministrazione
secondo criteri gestionali non diversi da quelli del settore privato
induce a ripensare i confini stessi dell’intervento pubblico. Il ricorso
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a strutture pubbliche è necessario solo quando si tratta di garantire
la tutela di interessi generali, che altrimenti potrebbero essere
compromessi; altrimenti la scelta tra pubblico e privato deve essere
guidata dalla preferenza per le forme organizzative in grado di
erogare i servizi con maggiore efficacia e a costi minori. La chiara
consapevolezza di questi può fornire un’utile guida nell’opera di
contenimento delle dimensioni complessive della finanza pubblica,
volta a permettere un alleggerimento della pressione fiscale, di cui si
è detto all’inizio.
In ogni caso, anche nel perseguire interessi generali, la pubblica
amministrazione deve tenere conto di tutti gli altri interessi coinvolti
e ricercare, ovunque, sia possibile la collaborazione di soggetti privati.
Nel corso degli anni novanta e, con particolare intensità, durante
questa legislatura, la disciplina normativa della Pubblica Amministrazione è stata profondamente modificata, con l’intento di realizzare, a costituzione invariata, il trasferimento delle funzioni dallo
Stato alle regioni e agli enti locali, sia di imporre, nell’attività
amministrativa, criteri quali l’efficacia, l’economicità, la trasparenza,
la certezza dei tempi, l’unicità della struttura di riferimento per il
cittadino, la responsabilità gestionale della dirigenza, la semplificazione degli adempimenti. Su questa opera di ampio rinnovamento
normativo, il giudizio non può che essere positivo.
Il concreto funzionamento degli apparati pubblici rimane tuttavia
lontano da quegli standard di efficienza che i cittadini e le imprese
richiedono e che la normativa prescrive. Si tratta, dunque, di rendere
operative le riforme. Nel corso dell’indagine è stato più volte indicato,
come caso esemplare, il ritardo nell’attuazione dello sportello unico
per le attività produttive, una misura innovativa da cui possono
derivare effetti di forte semplificazione a vantaggio delle iniziative
imprenditoriali.
Per la riforma dell’Amministrazione vale in misura particolare
una considerazione che è emersa in modo ricorrente in diversi ambiti
dell’indagine, cioè che per favorire la competitività del Paese,
ottenendo, in tempi rapidi, risultati efficaci, piuttosto che ricorrere a
nuovi interventi normativi, occorre agire, sfruttando le possibilità di
una migliore e più razionale applicazione delle disposizioni vigenti.
Rispetto a questo obiettivo, i progressi tecnologici dell’informatica
e delle comunicazioni, che prospettano modifiche radicali nei processi
produttivi anche dei settori economici tradizionali, possono avere un
impatto altrettanto positivo sulla produttività e l’efficienza della
Pubblica Amministrazione. Il successo della riforma della Pubblica
Amministrazione è correlato anche alla sua modernizzazione, intesa
come capacità di sfruttare pienamente le opportunità che il progresso
tecnologico rende disponibili.
Nella ripartizione delle risorse pubbliche, pur perseguendo
l’obiettivo di mantenere un elevato avanzo primario, sarà comunque
opportuno evitare riduzioni degli stanziamenti relativi alla strumentazione informatica delle pubbliche amministrazioni, che dovranno
essere piuttosto incrementati, in considerazione dei ritorni positivi che
possono derivare da questi investimenti.
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Oltre un’adeguata dotazione strumentale, il recupero di efficienza
delle pubbliche amministrazioni richiede tuttavia anche una profonda
trasformazione delle loro modalità organizzative e operative. Nel
corso dell’indagine sono emerse tre direzioni di intervento prioritarie.
In primo luogo si è rilevata la necessità di informatizzare le
modalità di operare ordinarie delle singole amministrazioni, a
cominciare dai procedimenti più comuni (come quelli relativi al
trattamento dei dati dei registri più importanti, alla gestione dei
documenti, ai pagamenti). In particolare è stato osservato che uno dei
settori pubblici nei quali è meno evidente il miglioramento di
produttività ed efficienza indotto dagli avanzamenti tecnologici è
proprio un settore cosı̀ rilevante per il corretto funzionamento del
sistema economico come l’amministrazione della giustizia.
La seconda direzione sulla quale concentrare gli sforzi va
individuata nella promozione ed accelerazione dei progetti rivolti ad
integrare le diverse amministrazioni in sistemi a rete, che rendano
possibile la condivisione delle informazioni e la cooperazione, in
particolare tra le amministrazioni centrali e le amministrazioni locali.
A tal fine un impegno più intenso deve essere rivolto al completamento e alla piena operatività, in tempi ristretti, del progetto di
integrazione tra le anagrafi comunali e le banche dati di altre pubbliche
amministrazioni (ad esempio le Finanze, la sanità, gli enti previdenziali) le cui prestazioni sono strettamente connesse alla disponibilità
dei dati anagrafici e del il progetto di completa informatizzazione delle
procedure di pagamento.
Lungo questa linea possono inserirsi anche iniziative volte alla
creazione di portali verso l’amministrazione pubblica, capaci di dare
visibilità alle informazioni e ai servizi disponibili e di aiutare la loro
ricerca e selezione, nonché l’individuazione delle amministrazioni
eroganti. Non è eccessivo pensare che le reti e i portali delle
amministrazioni pubbliche possano diventare un’esternalità positiva
per il sistema sociale ed economico, fornendo anche alle imprese uno
stimolo e un supporto per l’informatizzazione dei processi produttivi
e distributivi (commercio elettronico).
Queste ultime osservazioni introducono il terzo aspetto da
evidenziare, che interessa i rapporti tra amministrazioni e cittadini. In
primo luogo l’utilizzo di Internet e delle reti che connettono le diverse
amministrazioni deve mettere a disposizione dei cittadini (nel rispetto
dei limiti previsti dalla tutela del diritto alla riservatezza) il
patrimonio di informazioni che le amministrazioni detengono: anche
rispetto a questa funzione, che pure è la più semplice, l’attuale
situazione italiana registra un generale ritardo; per settori importanti
della pubblica amministrazione è ancora marginale o dispersa la
disponibilità di informazioni strutturate su Internet.
Occorre inoltre che, secondo i suggerimenti elaborati dalla
Commissione europea nell’ambito dell’iniziativa « eEurope - Una
società dell’informazione per tutti », la presenza in rete delle
pubbliche amministrazioni permetta interazioni bidirezionali con i
cittadini e con le imprese, consentendo forme di partecipazione ai
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procedimenti decisionali, e divenendo lo strumento ordinario attraverso il quale provvedere agli adempimenti dovuti e accedere ai
servizi erogati dalle amministrazioni.
Rispetto a questi obiettivi risulta ancor più importante la piena
attivazione di strutture unificate – come lo sportello unico per le
attività produttive – che, nell’ambito di un determinato settore
gestiscano tutti i rapporti con i cittadini relativi a procedimenti o
servizi, che coinvolgono le competenze di molteplici enti o uffici.
L’internazionalizzazione del sistema produttivo.
Gli interventi strutturali che nel corso dell’indagine sono stati
evidenziati sono la condizione per una ricollocazione dell’economia
italiana nello scenario internazionale. L’evoluzione tecnologica ha
cambiato radicalmente il modo di produrre. Le vecchie regole dei
vantaggi competitivi, di tipo ricardiano, hanno perso gran parte del
loro fascino e della loro validità. Le vocazioni naturali sono state
sostituite dalla flessibilità e dalla adattabilità dei modelli organizzativi
alle più diverse condizioni geografiche ed ambientali.
Nasce da queste trasformazioni, profonde ed irreversibili, l’esigenza di ampliare il ricorso ai processi di internazionalizzazione sia
attiva che passiva dell’economia. Investire più all’estero per formare
presidi permanenti dell’economia italiana nei vari mercati. Ma
ricevere anche più investimenti diretti esteri, se non altro per
bilanciare i flussi finanziari in uscita. Un Paese più coeso, proteso
verso lo sforzo della modernizzazione in grado di comunicare con
chiarezza questo suo messaggio è il primo passo, necessario ed
indispensabile, per invertire un processo negativo, che colloca l’Italia
agli ultimi posti della classifica internazionale.
L’esperienza di altri paesi, del Galles come dell’Irlanda, che
nell’apertura della loro economia all’internazionalizzazione hanno
registrato brillanti successi, dimostra che le singole campagne
promozionali hanno un valore limitato, se il contesto più generale in
cui esse si collocano non è coerente con gli obiettivi che si intendono
perseguire.
La capacità delle imprese nazionali di affermarsi all’estero e la
capacità del paese di attrarre investimenti esteri, che promuovano la
crescita e l’occupazione, rivela, nell’età della globalizzazione e delle
grandi aree valutarie, la competività di un paese nel suo complesso.
Le condizioni più importanti per creare queste capacità mostrano la
correttezza dell’impostazione dell’indagine, che si è rivolta agli
elementi strutturali che caratterizzano l’ambiente in cui opera un
sistema economico. La necessità di un contenimento delle dimensioni
della finanza pubblica, volta a permettere una riduzione della
pressione fiscale, deve accompagnarsi a una ridefinizione della
struttura degli apparati pubblici, che, da un lato, trasferisca dallo
Stato alle regioni e agli enti locali la generalità dei compiti
amministrativi, che possono essere svolti in modo migliore al livello
più vicino ai cittadini, e, dall’altro, favorisca, nell’esercizio delle
funzioni pubbliche, l’apertura alla collaborazione con i soggetti
privati.
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Sul versante istituzionale si richiede inoltre un quadro normativo
caratterizzato da chiarezza e flessibilità, intesa come idoneità a
recepire le esigenze che provengono dalle trasformazioni dell’economia, della tecnica e della società. Molti risultati, come si è detto,
possono essere ottenuti, in tempi più rapidi, piuttosto che con il
ricorso a nuovi interventi normativi, sfruttando la possibilità di una
migliore e più razionale applicazione delle disposizioni vigenti; in
particolare attraverso un’amministrazione più efficiente, orientata al
risultato, alla domanda, alla soddisfazione dell’utenza. Quando,
comunque, si tratta di introdurre nuove forme di regolamentazione,
è necessaria un’analisi e una valutazione dell’impatto che le norme
in esame potranno avere sui cittadini, sulle imprese, sulle amministrazioni che ne sono destinatarie.
L’attività di regolamentazione dovrà in particolare rivolgersi a
rimuovere le misure (tra le quali, in molti casi, la stessa disciplina
rigida e penetrante) che, ostacolando la concorrenza, recano danno
al paese nel suo complesso, accrescendo il costo di beni e servizi
rispetto a quello che essi avrebbero in un mercato aperto e
concorrenziale.
Questa diversa impostazione delle finalità, della struttura e delle
dimensioni dell’agire pubblico può liberare importanti risorse, da
destinare alla formazione, alle infrastrutture, al sostegno dei processi
di innovazione del sistema produttivo. La sua forza e le sue capacità
di espansione sono condizionate anche dal supporto di un moderno
ed efficiente sistema finanziario. L’integrazione dei mercati dei
capitali condiziona la crescita di un paese alla capacità del suo
sistema produttivo di finalizzare le disponibilità finanziarie interne ed
estere al suo sviluppo. Su questo si misurerà il successo dell’Italia
nella sfida per la competitività.
(1) L’aggregato monetario M3, che costituisce l’aggregato monetario più ampio,
include, oltre la moneta in senso stretto (circolante e depositi overnight) e l’aggregato
intermedio (depositi a scadenza fino a 2 anni o con preavviso fino a 3 mesi), le
operazioni pronti contro termine, le quote dei fondi di investimento monetari e i titoli
di debito fino a 2 anni emessi da istituzioni finanziarie e monetarie.
(2) Tra gli indicatori presi in considerazione al fine di monitorare l’inflazione
attesa vi sono i salari, i tassi di cambio, i prezzi dei titoli e la curva dei rendimenti
(quest’ultima variabile assume particolare rilievo: poiché i tassi nominali a lungo
termine incorporano un tasso reale e l’inflazione attesa, variazioni nella pendenza
della curva riflettono verosimilmente cambiamenti nelle aspettative di inflazione).
A tali indicatori si aggiungono sia misure dell’attività reale, compresi i dati
risultanti da inchieste svolte presso i consumatori e le imprese, sia le previsioni di
inflazione delle organizzazioni internazionali, degli operatori e della stessa BCE.
(3) Corrispondentemente sono saliti dal 4 al 4,5% il tasso sulle operazioni di
rifinanziamento marginale e dal 2 al 2,5% il tasso sui depositi presso le banche
centrali.
(4) All’inizio del 1999 le banche centrali nazionali degli Stati membri dell’area
dell’euro hanno trasferito alla BCE una parte delle loro riserve valutarie per un valore
complessivo di 39,5 miliardi di euro; in ogni caso la gestione delle riserve rimaste
presso le Banche centrali non dovrà interferire con la politica monetaria e del cambio
condotta dalla BCE. Tra le ragioni che inducevano a prevedere un euro forte veniva
addotto anche l’eccesso di dollari che si sarebbe dovuto verificare in seguito al
conferimento alla BCE delle valute di riserva da parte delle banche centrali nazionali.
(5) Si tratta della privatizzazione della Banca commerciale italiana e del Credito
Italiano
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(6) Nel corso del 1997-1998 sono stati privatizzati il Banco di Napoli, la Cassa
di Risparmio delle Province Lombarde, la Banca di Roma, l’Istituto Bancario San
Paolo di Torino e la Banca Nazionale del Lavoro. Nel 1999 il Ministero del Tesoro
ha ceduto la proprietà del Mediocredito Centrale (e, insieme a questa, il controllo del
Banco di Sicilia).
(7) Si segnala in proposito che con il D.Lgs. n.153/1999 sono state dettate anche
disposizioni di agevolazione fiscale per le operazioni di concentrazione tra banche.
(8) Nel biennio 1997-1998 ha avuto luogo l’integrazione tra l’Ambroveneto e la
Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, che ha dato origine a Banca Intesa; la
fusione tra l’Istituto Bancario San Paolo di Torino e l’Imi; la concentrazione di un
gruppo di casse di risparmio del Nord con il Credito Italiano, da cui è nato il gruppo
Unicredito italiano. Nel 1999 si è realizzata l’aggregazione tra Banca Intesa e Banca
Commerciale Italiana.
(9) Cfr. interventi del Governatore della Banca d’Italia e del Presidente della
CONSOB nel corso delle audizioni del 20 e del 27 aprile 1999 presso le Commissioni
Finanze e Tesoro del Senato e della Commissione Finanze della Camera, nell’ambito
dell’indagine conoscitiva su « I più recenti sviluppi del processo di ristrutturazione del
sistema bancario italiano ».
(10) Cfr Banca d’Italia, Supplemento al bollettino statistico, serie « Statistiche di
finanza pubblica nei Paesi dell’Unione Europea », n. 62, dicembre 1999.
(11) Cfr Cer, Rapporto n. 6 del 1999, « Le imprese, gli investimenti e le politiche
pubbliche ».
(12) Cfr, Santarelli E., « Le imprese italiane nell’età dell’euro: problemi e
opportunità », in L’industria n. 4/1999.
(13) Cfr FMI, marzo 2000.
(14) Secondo il Sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei Ministri,
Sen. Passigli, il contenimento del costo del lavoro sarebbe il risultato dei ripetuti
interventi normativi (l’introduzione dell’IRAP, la proroga delle decontribuzioni nel
Mezzogiorno, la riduzione degli oneri per la maternità, gli sgravi triennali per i nuovi
assunti nelle aree depresse) che hanno portato alla progressiva attenuazione degli
oneri impropri a carico delle imprese.
(15) Cfr FMI, Conclusioni della visita di studio in Italia, marzo 2000.
(16) Cfr intervento del Presidente dell’ICE, Professor Fabrizio Onida, e tavole
allegate, in particolare Tavola 5.
(17) Cfr Lo studio, edito dal Mulino-2000, è riportato nel dossier 18/1, predisposto
dal Servizio Studi per l’avvio dell’indagine conoscitiva.
(18) Nello studio sono utilizzati tre indicatori: il cambio reale bilaterale basato
sul differenziale di crescita del CLUP, il tasso di cambio reale basato sul deflatore
del valore aggiunto, e l’indicatore Lipschitz e McDonald di profittabilità relativa delle
produzioni: l’indicatore (sintesi dei due precedenti) è pari al rapporto tra il cambio
reale basato sul CLUP e il cambio reale basato sul deflatore del valore aggiunto al
costo dei fattori.
(19) Cfr, Santarelli E., in L’industria n. 4/1999.
(20) Cfr Cer-IRS, « 10o Rapporto sull’Industria e la politica industriale », ed. Il
Mulino, 2000. Secondo i dati riportati dal Rapporto (riferiti al 1996) le risorse
destinate dall’Italia all’attività di ricerca e sviluppo sono state pari all’1% del PIL
contro il 2,3% di Francia e Germania e l’1,9% della Gran Bretagna. Il ruolo delle
imprese italiane nel finanziare investimenti in R&S appare limitato rispetto agli altri
paesi: con riferimento all’industria, emerge che le imprese italiane spendono in R&S
meno della metà rispetto alla media dei paesi europei.
Il ruolo delle grandi imprese (con più di 500 addetti) è importante: esse spendono
infatti l’80% della spesa complessiva in R&S, contro il 27% delle imprese con meno
di 50 addetti e il 20% delle multinazionali estere presenti in Italia. I dati evidenziano
differenze significative tra i settori: il chimico e farmaceutico, quello della
fabbricazione di apparecchiature elettroniche per telecomunicazioni, l’automobilistico
e quello aereospaziale rappresentano complessivamente il 50% della spesa per ricerca.
Inoltre, va rilevata la forte concentrazione territoriale della spesa nel Centro-nord
dove si realizza l’85% degli investimenti in R&S. L’analisi delle domande di brevetto
depositate all’Ufficio europeo di brevetti di Monaco conferma la scarsa capacità
innovativa italiana.
La debolezza dell’Italia nel contesto internazionale in termini di R&S è in parte
riflesso della specializzazione produttiva del Paese, forte in settori a basso o medio
contenuto tecnologico e debole in quelli high tech. Un secondo aspetto strutturale
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risiede nella distribuzione dimensionale delle imprese: gli indicatori utilizzati non
consentono di rilevare il contributo innovativo delle PMI che spesso utilizzano altri
canali « informali » di ricerca e sviluppo.
Per le PMI, secondo i dati risultati da indagini Istat citati nel Rapporto,
particolare importanza assumono le innovazioni incrementali, mentre le innovazioni
radicali generano solo il 12% del fatturato. Nell’ambito poi delle piccole imprese
innovatrici (che hanno dichiarato cioè di aver introdotto innovazioni tecnologiche nel
periodo di riferimento), le spese in R&S rappresentano in media il 35% del totale,
mentre circa la metà dei costi delle innovazioni sono costituiti dagli investimenti
produttivi necessari a introdurre le innovazioni. Solo nei settori high tech le spese
in R&S rappresentano la voce più importante di spesa.
(21) Cfr. per una schematica ricognizione della questione la Nota predisposta dal
Servizio Studi della Camera, « Profili di differenziazione delle normative in materia
di lavoro a seconda del numero di dipendenti dell’impresa », febbraio 1999.
(22) Di tale avviso è il rappresentante di Mediobanca, mentre Banca Intesa ha
insistito di più su questa forma di finanziamento. Vedi anche l’intervento del
Presidente di Telecom.
(23) Cfr Cer, Rapporto n. 6/1999.
(24) Cfr Cer-IRS, « 10o Rapporto sull’Industria e la politica industriale ».
(25) I dati sono tratti dalla memoria depositata dal Sottosegretario alla Presidenza
del Consiglio, Senatore Passigli. Vedi anche l’intervento del Presidente dell’Autorità
per le garanzie nelle comunicazioni, Enzo Cheli, del Presidente dell’IBM-Italia, Ing.
Catania e del Presidente di Telecom, Roberto Colaninno.
(26) Come sottolineato dal Presidente di Telecom, dalle indagini Niche e Databank
emerge che nel 1998 la diffusione dei PC nelle famiglie del Mezzogiorno era pari
all’80% di quella del Centro nord; il rapporto saliva rispettivamente al 50% per le
famiglie e al 70% per le imprese con riferimento a Internet. Questi differenziali
indicano un ritardo del Mezzogiorno dell’ordine di 1-2 anni circa, valori rilevanti per
la Internet economy, ma di gran lunga inferiori a quelli che si riscontrano per le
infrastrutture, per l’accumulazione di capitale fisico e per la formazione delle risorse
umane.
Inoltre, vi sono molti segnali di recupero, sia quantitativi che qualitativi. A livello
quantitativo, dai dati dell’indagine Niche emerge una significativa accelerazione della
diffusione di Internet nel Mezzogiorno, mentre a livello qualitativo occorre ricordare
i casi di Catania, un’area in cui si è localizzata uno dei principali poli dell’industria
high tech italiana, della Banca del Salento, una delle prime a offrire servizi on line,
o di Tiscali in Sardegna.
(27) Cfr, Santarelli E.,1999.
(28) Alcune misure in particolare sono giudicate particolarmente onerose, e tra
queste la Carbon tax che determinerebbe un ulteriore svantaggio per tutto il sistema
produttivo, già penalizzato dall’eccesso di dipendenza dall’olio combustibile, da una
quota di carbone nettamente inferiore a quello degli altri paesi e dalla scelta di non
utilizzare l’energia a basso costo di fonte nucleare (v. intervento dell’Amministratore
delegato dell’ENEL, Franco Tatò).