Capitolo II - Gino Longo Memorie

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Capitolo II - Gino Longo Memorie
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Capitolo II
Si parte per Parigi - La madre falsa - Il viaggio in carrozzaletto - Le Raincy - La stirerìa di Bianca - Camilla Ravera "Ciondolino" e Salgari - La lezione di politica - La nascita di mio
fratello - Boulevard Voltaire - A scuola dalle monache Girotondi e canzoni francesi - Le biglie - Il mio precoce ateismo Guignol e il "garde-champêtre" - La giostra - I caffè parigini "Croissants" e "canards" - Le severe regole della vita cospirativa
- Saper ricordare e saper dimenticare - Le "leggende" da
mandare a memoria - Due memorie: una per le cose altrui,
l'altra per le cose proprie - Le "riunioni" - Ercoli (Togliatti) e la
Marisa (Rita Montagnana) - La mia amicizia con Togliatti Stefano (alias Carlo Roncoli: Mario Montagnana) e la Stefania Nicoletti
(Di
Vittorio)
e
Garlandi
(Ruggero
Grieco)
-
La
macchina da scrivere, la penna stilografica ed il fornellino Meta
Verso la metà del 1929 giunse la notizia che i genitori mi rivolevano con
sé, e che presto sarei partito per la Francia. Come poi seppi, mia madre era
tornata da Mosca a Parigi nel febbraio del 1929. Rivisto mio padre, era
rimasta subito incinta, ed a questo punto un bambino o due facevano lo
stesso.
La notizia mi eccitò, ma non certo per ragioni sentimentali. Dei miei
genitori, anche se li avevo lasciati da meno di due anni, non ricordavo
assolutamente nulla, neppure l'aspetto: coscienza e memoria si erano
svegliate in me soltanto dopo che li avevo lasciati. Mi toccò quindi, quando li
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rividi, riscoprirli: erano per me due perfetti estranei. Conoscevo ormai i
nonni e le zie, ma loro no. Potei quindi osservarli, quando li ritrovai, con
distacco ed occhio critico: la cosa mi aiutò.
Non avevo nostalgìa per i nonni che dovevo lasciare: ormai li
conoscevo, basta, rappresentavano una tappa superata. Viaggiare, cambiare,
quello sì: cose nuove da scoprire! Parigi poi in quegli anni non soltanto
rappresentava l'Europa, ma ne era il vero centro. Non che me ne rendessi
conto, ma l'invidia degli adulti, quella sì, l'avvertivo.
Non so prima dell'età cosciente, ma nei miei ricordi infantili, per
quanto
cerchi,
non
trovo
traccia
di
nostalgìe
affettive
o
di
legami
sentimentali. Feci l'esperienza di tali sensazioni soltanto assai più tardi,
verso i tredici-quindici anni, e soltanto nei riguardi delle mie infatuazioni
femminili, mai nei confronti di genitori o parenti. Questi ultimi mi sono
sempre apparsi tutto sommato come degli scocciatori, cui volevo bene sì (e
che, dovevo forse voler loro male?), ma dalla cui tutela era necessario
affrancarsi al più presto.
Il
giorno
tanto
atteso
arrivò,
assieme
ad
una
giovane
signora
elegantissima, snella, coi tacchi alti e cappello a veletta, dal profumo
conturbante ed esotico. Era una compagna svizzera, che faceva servizio di
corriere per il partito tra la Francia e l'Italia. Io avrei dovuto passare per suo
figlio, ed il viaggio lo avremmo fatto in carrozza-letto. Erano gli anni beati in
cui avevano, sì, già promosso i visti d'ingresso (totalmente sconosciuti prima
del 1914: bastava un passaporto rilasciato dalle autorità del tuo paese e potevi
girare il mondo intero), ma visti e passaporti non erano ancora una cosa
molto seria, e poi riguardavano soltanto gli adulti, non i ragazzi e noi
bambini. I ragazzi fino ai dodici anni passavano allora le frontiere come
semplice bagaglio appresso: non venivano neppure registrati nel passaporto
degli adulti. E' così che potei passare dalla Svizzera in Italia nel 1927,
dall'Italia in Francia nel 1929, dalla Francia in Belgio, in Germania, in
Polonia, in Russia negli anni successivi, senza mai aver avuto bisogno di un
documento di riconoscimento.
I viaggi, quindi, erano assai più facili che non oggi, anche per i
"rivoluzionari di professione" con relative famiglie: documenti falsi per i
genitori, e per noialtri nulla.
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Erano gli anni in cui Carlos Contreras, ossìa Vittorio Vidali, arrivò dagli
Stati Uniti a Mosca, ove si recava per la prima volta, attraversando tutta
l'Europa, munito unicamente di un misterioso documento battuto a macchina
in caratteri cirillici su carta intestata dell'"Amtorg" (ente sovietico per il
commercio con le Americhe) di Nuova York, con un bel timbro rotondo del
medesimo sotto un testo indecifrabile. Su tale documento si erano poi
accumulati visti e nullaosta delle più varie autorità dei paesi di transito. Fu
soltanto alla frontiera sovietica che Vidali scoprì, non senza raccapriccio, che
il misterioso documento, col quale aveva girato mezzo mondo, era una
scherzosa dichiarazione d'amore della dattilografa dell'"Amtorg", alla quale
aveva ovviamente spiegato che voleva andare in Russia, ma evidentemente
anche fatto una corte un po' spinta.
Le carrozze-letto del 1929 poi! La "Compagnie Internationale des
Wagons-Lits et des Grands Express européens", fondata nel 1876 per
sfruttare in Europa quanto già collaudato negli Stati Uniti da George Pullman
(1831-1897), che vi aveva fatto fortuna creando le prime carrozze-letto,
carrozze-ristorante e carrozze-salone, era ancora al vertice della sua fama.
Con sede sociale a Bruxelles, direzione generale e commerciale a Parigi,
direzione tecnica ed officine a Losanna, possedeva, tra le due guerre, circa
800 carrozze-letto, 260 carrozze-ristorante e 30 carrozze-pullman (queste
ultime circolavano soltanto su alcuni percorsi). I più famosi percorsi gestiti
dalla compagnìa ai tempi d'oro erano stati, prima della grande guerra, il
mitico "Orient Express" (Londra - Parigi - Milano - Venezia - Trieste Zagabria - Belgrado - Atene - Sofia - Istanbul), l'"Express du Nord" (ParigiColonia-Berlino-Varsavia-Pietroburgo,
con
carrozze
dirette
anche
per
Amsterdam, Londra, Bruxelles e Mosca), l'"Express du Sud" (Parigi-Madrid),
quello del Danubio (Parigi-Vienna), il "Train Bleu" (Parigi-Nizza).
Vi erano poi il "Madrid-Barcellona", il "Parigi-Roma", il "MilanoNapoli", nonché la Transiberiana, sulla quale il servizio era stato affidato alla
filiale russa dell'onnipresente compagnìa. Nell'Europa della prima metà del
secolo la "CIWL" era un'istituzione, ed al suo monopolio sfuggivano soltanto
le linee inglesi, nonché, tra le due guerre, i percorsi dell'impero tedesco e
dell'Europa centrale (con il Berlino-Vienna-Budapest-Bucarest), controllati
da una società concorrente, la "Mitropa", fondata nel 1916, in piena prima
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guerra mondiale, dalle ferrovìe di Stato tedesche, e sopravvissuta fino alla
fine della seconda guerra mondiale.
Vladimir Nabokov (1899-1977), nel suo libro di ricordi ("Altre sponde",
1954), descrive l'"Express du Nord", il Parigi-Pietroburgo, con carrozze per
Smolensk e Mosca, di prima della guerra del 14-18, composto di sole
carrozze-letto, con carrozze-salone e carrozze-ristorante, che circolava due
volte alla settimana via Berlino. Arrivati alla frontiera tedesco-russa i
viaggiatori trovavano, dato lo scartamento diverso dei binari sul territorio
dell'Impero russo, un treno identico al loro, con la stessa numerazione dei
posti e delle carrozze, che li attendeva dall'altra parte della banchina, mentre
il personale della compagnìa si dava da fare per trasferire i bagagli. Dopo la
prima guerra mondiale, l’"Express du Nord" scomparve (venne sostituito da
un semplice Parigi-Berlino), ma apparve per contro un altro grande percorso,
il Roma-Milano-Basilea-Amburgo-Copenaghen-Stoccolma, con vetture per
Genova, Venezia e Brindisi. E invece della Transiberiana si ebbe per un certo
periodo, negli anni venti, un servizio Shangai-Nanchino-Pechino gestito dalla
compagnìa.
Tornando ai miei ricordi, la carrozza-letto del Torino-Parigi mi piacque
subito. Corridoio con passatoia, gabinetto ben pulito, una cabina tutta
mogano e ottoni, con larghe cuccette sovrapposte che ti facevano sentire un
navigatore, mentre il moto del treno creava anche il rollìo. Caldi i colori:
marrone scuro la carrozza (non blu notte come più tardi), rossicci i mogani,
crema la passatoia, gialli gli ottoni. E poi i letti morbidi, le coperte soffici, le
tendine ovunque, le luci smorzate, il vaso da notte, la pesante lampada da
tavolo in ottone, con l'abat-jour di perline di vetro, la "veilleuse" blu, il
lavandino con acqua calda e fredda! Nel 1929 le carrozze-letto della CIWL di
Bruxelles erano ancora sostanzialmente quelle della "Belle époque" e
dell'"Orient Express", non quelle che sarebbero successe loro dopo.
Da allora ho sempre mantenuto un debole per le carrozze-letto, mezzo
di trasporto individualista, confortevole (anzi, lussuoso) e peccaminoso,
superato in ciò soltanto dalle cabine dei transatlantici. Ideali per viaggi in
coppia, ma anche da solo. In opposizione all'aereo, mezzo di trasporto di
massa, in cui si viaggia in 50, se non in 350 persone, fondamentalmente
scomodo, costretto come sei a rimanere rannicchiato nella tua poltrona, e che
per di più ti trasporta da un aeroporto tutto cemento, alluminio e vetro, ad un
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altro perfettamente uguale al primo. Solo che la carrozza-letto dei buon tempi
antichi è praticamente scomparsa, e le poche rimaste decadono di giorno in
giorno. Comunque, per riprendere un'altra volta la carrozza-letto avrei
dovuto aspettare il 1942, e sarebbe stato... in Georgia.
Il Torino-Parigi arrivava alla "Gare de Lyon", stazione capolinea della
"Paris-Lyon-Mediterranée"
(PLM),
allora
compagnìa
privata.
La
rete
ferroviaria francese apparteneva ancora a diverse compagnìe, che si erano
spartite in concessione l'intero territorio nazionale: è soltanto nel 1937 che
vennero nazionalizzate, dando così origine alla "Société Nationale des
Chemins de Fer" (SNCF). Alla “Gare de Lyon” facevano capo alcuni dei treni
allora più famosi, tra i quali l'"Orient Express" ed il “Train Bleu". La stazione
era molto "Belle époque" come architettura, fregi e decorazione. Qualcosa ne
rimane e lo si può ancora scorgere, per esempio al ristorante.
Era fine estate: agosto o settembre. Venni rilevato da due sconosciuti, i
miei genitori, e dovetti salutare con un certo rimpianto la mia madre falsa:
elegante e misteriosa, aveva vellicato in me qualcosa di inconscio, ma già ben
presente. (Più tardi fu un fantasma che occupò un posto importante nelle mie
fantasìe masturbatorie). Mi fecero fare un primo giro e mi portarono a
mangiare al ristorante, ove mi stupì di non trovare il risotto: è che dovevamo
riprendere il treno. Non stavano a Parigi, ma a Le Raincy, un paesino di
qualche migliaia di abitanti, a tredici chilometri da Parigi sulla linea di
Meaux. I treni per Le Raincy partivano dalla "Gare de l'Est" ed erano i treni
parigini tipici della "Petite Ceinture": piccole locomotive antiquate ma molto
simpatiche trasportavano carrozze scure piuttosto lercie, a due piani, in
lastre di ferro chiodate, con scalette interne alle due estremità. Naturalmente
volli salire al secondo piano, che appariva un po' basso e schiacciato ai lati,
dalla parte dei finestrini, per via della curvatura del soffitto: quindi più
misterioso.
Il quartierino di due stanze era al piano rialzato di una villetta, e dava
su un giardino molto ombreggiato, con piante di lampone e ribes ed una
cagnetta bianca a pelo folto che apparteneva alla padrona di casa. Ricordo
che per il mio arrivo ci fu offerto il tè, con delle cialde stampate di foggia
varia, ripiene di marmellata solida, una specie di cotognata. Cagnetta e
cialde, così come le carrozze a due piani, le ricordo benissimo: ma i genitori
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no, la loro immagine è ancora sfocata, la metterò a fuoco soltanto qualche
mese più tardi, a Montreuil.
Avvicinandosi per mia madre il momento del parto, venni trasferito per
qualche settimana ad abitare presso la Bianca, la moglie di Edo (Edoardo
D'Onofrio), che gestiva una stirerìa poco lontano da dove stavamo noi.
D'Onofrio, già responsabile del Centro interno, era stato arrestato in Italia
l'anno prima, e la Bianca, lasciato il figlio dalla nonna, era arrivata a Parigi.
Il partito le aveva dato l'incarico di mettere su, con i soldi del partito, una
tintorìa-lavanderìa che avrebbe dovuto fungere da recapito clandestino per il
lavoro con l'Italia. Tale recapito era conosciuto da pochissime persone: in
pratica soltanto da Camilla Ravera, nuova responsabile del Centro interno,
che da lì a poco sarebbe partita anche lei per l'Italia, dal "fenicottero" Duccio
Guermandi, che assicurava i collegamenti, e da mia madre, ex stiratrice, che
avrebbe dovuto insegnare alla Bianca - digiuna - a stirare in modo
professionale. Perché col lavoro della stirerìa la Bianca doveva anche
mantenersi, ed inoltre il recapito non doveva destare sospetti, quindi essere
un laboratorio in piena regola. Fu dalla Bianca che conobbi la Camilla
Ravera, e questo incontro ebbe una certa importanza per la mia formazione.
Camilla Ravera (allora per me come per tutti la Silvia), nata nel 1889
(visse poi a lungo, che sarebbe morta nel 1988 a novantanove anni), già
iscritta al PSI dal 1918, a Livorno era passata al PCI, e ne era stata eletta a far
parte del Comitato centrale al Congresso di Lione del 1926. Dopo le leggi
eccezionali e l'arresto dei maggiori dirigenti del partito, aveva nel 1926-27
diretto il Centro interno. Emigrata nel 1927, era stata rappresentante del PCI
presso l'Internazionale nel 1928, e destinata poi nuovamente alla guida del
Centro interno nel 1929. Sarebbe tornata in Italia all'inizio del 1930 e vi
sarebbe stata quasi subito arrestata, su denuncia di un agente provocatore,
nel luglio del 1930. A succederle sarebbe stato mandato, all'inizio del 1931,
Pietro Secchia, che sarebbe stato anche lui arrestato nell'aprile dello stesso
anno. Entrambi sarebbero rimasti in carcere e poi al confino fino al 1943.
Preparandosi al prossimo rientro in Italia è chiaro che nel punto di
collegamento col paese (da dove partivano le istruzioni e la stampa
clandestina, e dove arrivavano le informazioni) la Silvia era per così dire di
casa. Ciò che succedeva dietro le quinte non lo sapevo ma la Silvia la vedevo
spesso. Severa, con i capelli già ingrigiti, portava gli occhiali ed allora mi
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sembrava alta. Era stata maestra, non si era mai sposata, e non le si
conoscevano relazioni maschili. Aveva allora quarant’anni, contro i ventinove
dei miei genitori, e mi intimidiva. Ma credo mettesse soggezione un po' a
tutti, salvo forse a Togliatti.
Della maestra di scuola che era stata qualcosa le rimase per tutta la
vita. Si occupò quindi anche di me: andando a scuola in Francia avrei
facilmente dimenticato l'italiano. Bisognava sfruttare il fatto che sapessi già
leggere, e farmi leggere in italiano, subito, ed il più possibile. Per prima cosa
mi regalò un altro libro tutto per me, "Ciondolino", che rilessi spesso e
conservai poi per lunghi anni, e consigliò ai miei genitori di ricorrere,
affinché la lettura non mi venisse a noia, a Salgari, visto che le avventure mi
piacevano. Rammentatevi che non avevo ancora sei anni!
"Ciondolino" (1895), di Luigi Vamba (Luigi Bertelli, 1859-1920), era un
libro delizioso. Dopo i "Viaggi di Gulliver", per mari e paesi, ecco ora un
viaggio nella natura, tra le formiche e gli altri abitanti del sottobosco.
L'autore, buon giornalista e scrittore per l'infanzia abbastanza noto, aveva
chiaramente preso ispirazione dalla "Vita degli insetti" di Jean-Henri Fabre
(1823-1916), famoso naturalista ed entomologo, ma anche buon scrittore, i
cui libri di divulgazione ebbero a loro tempo un meritato successo. Oggi in
Italia "Ciondolino" non è neppure più in catalogo, ma a me appassionò anche
più di Salgari.
Il
lato
positivo
di
Salgari
era
che
non
finiva
mai:
terminata
un'avventura, ne era pronta un'altra. L'attenzione poteva essere così tenuta
desta senza difficoltà, ed infatti continuavo a reclamare un volume dopo
l'altro, mettendo a dura prova lo spirito di risparmio di mia madre. Perché,
trattandosi di libri italiani, non si potevano prendere in prestito in biblioteca,
bisognava andarli a comperare in una librerìa specializzata parigina e pagarli.
Unica possibilità, passarli poi ad altri figli di compagni nelle mie stesse
condizioni. Emilio Salgari (1862-1911), giornalista, a suo tempo aveva scritto
più di cento romanzi (ottantasette titoli, più una ventina di apocrifi,
pubblicati tra il 1893 ed il 1919), che occupano quarantasette volumi
nell'unica edizione più o meno completa che io conosca (quella già del
Viglongo). Non ricordo quale fosse l'edizione in cui lo lessi allora: ero pur
sempre un ragazzino e non avevo ancora imparato a badare alle indicazioni
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bibliografiche. Si trattava comunque di fascicoli in brossura abbastanza
sottili, illustrati, e con la copertina di carta a più colori.
Credo di averne letto in quegli anni (cioè tra il 1929 ed il 1931) almeno
una quarantina. Rammento, tra i titoli, "Il corsaro nero", "La regina dei
Caraibi", "Jolanda, la figlia del corsaro nero", "Il figlio del corsaro rosso",
"La capitana dello Yucatan", "La città dell'oro", "Gli ultimi flibustieri", "I
corsari delle Bermude", "La crociera della Tuonante", "Straordinarie
avventure di Testa di Pietra", "I pirati della Malesia", "La tigre di
Mompracem", "Il re del mare", "I pescatori di trepang", "I misteri della
giungla nera", "Alla conquista di un impero", "Il bramino dell'Assam", "La
rivincita di Janez", "Capitan Tempesta". Tra i due cicli principali, quello dei
bucanieri (e dei conti di Ventimiglia) - cinque volumi - e quello della Malesia
- undici volumi, preferivo il primo: più misterioso, più romantico, ed anche
più comprensibile, dopo Gulliver. L'esotismo in fondo mi ha sempre lasciato
abbastanza freddo. Fu con Salgari che maturai un'abitudine che non mi
avrebbe più lasciato: quando mi è piaciuto un libro, vado a cercarne altri
dello stesso autore, finché non li leggo più o meno tutti.
Prima di trasferirmi dalla Bianca, mia madre aveva dovuto provvedere a
spiegarmi alcune cose. Perché non eravamo gente come gli altri, perché
eravamo braccati e perseguitati, perché in Svizzera ci avevano messo in
prigione, perché in Italia dai nonni loro non potevano venirmi a trovare,
perché anche in Francia era necessario stare ben attenti a quel che si faceva e
tenere per sé tutto quel che si sentiva dire, o meglio ancora, non ascoltare
mai le cose che non v'era bisogno di sapere. Il pericolo maggiore - proseguiva
la lezione - era infatti di dire senza accorgertene qualcosa che sarebbe potuto
arrivare al nemico e metterlo sulle nostre tracce: quello che invece non sai
non lo potrai mai riferire, neppure per sbaglio.
Se eravamo perseguitati e braccati, era perché eravamo comunisti,
perché volevamo fare come in Russia: far sì cioè che i campi appartenessero
ai contadini e le fabbriche agli operai. Se no succedeva che operai e contadini
lavoravano da mattina a sera, ma rimanevano sempre poveri, perché la
maggior parte del frutto del loro lavoro andava ai padroni. E ciò non era
giusto. Avendo poi i soldi, i padroni avevano anche il potere, e quindi Stato e
polizìa erano al loro servizio. In Italia, coi fascisti, i comunisti venivano
ammazzati e messi in prigione, in Francia ci si limitava ad ostacolarli in tutti
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i modi e ad espellerli quali stranieri indesiderabili ogni volta che si poteva,
fornendo inoltre alla polizìa italiana informazioni sul loro conto e sulla loro
attività. In tutti e due i casi sempre in mezzo al nemico ci trovavamo, e
dovevamo comportarci di conseguenza.
Qualche approfondimento sociologico però lo chiesi. E le zie, chi erano?
Non erano né operaie, né padrone che facessero lavorare gli altri. Mamma (le
spiegazioni toccavano sempre a lei) dovette spiegarmi che nonni e zie erano
piccoli commercianti, che comperavano ad un prezzo per rivendere ad un
prezzo maggiorato. Se vendevano agli operai, e volevano guadagnare di più,
finivano per togliere troppo agli operai, che già avevano poco. Se invece
vendevano ai ricchi, potevano guadagnare di più e stare anche bene, ma quel
che lucravano era sempre parte di qualcosa che era stato tolto agli operai, per
cui avevano interesse a che le cose non cambiassero. Quindi i commercianti
non avrebbero mai aiutato gli operai a togliere i campi e le fabbriche ai
padroni.
Il discorso, anche se un po' populista, era semplice, lineare e neppure
tanto sbagliato. Era semmai la ricetta per cambiare le cose che in futuro
avrebbe suscitato in me qualche dubbio. Ma nel 1929 il discorso mi convinse,
e mi ci misi d'impegno a fare la mia parte per aiutare i genitori "a fare la
rivoluzione", o perlomeno per non creare loro ostacoli nel loro lavoro.
Per tornare alla Bianca, seppi più tardi che il suo lavoro alla stirerìarecapito era finito male, non per il partito, ma per qualcuno dei coinvolti.
L'unico compagno che frequentava la stirerìa, oltre alla Silvia ed a mia
madre, era il "fenicottero" Duccio Guermandi, e lo faceva anche spesso, per
forza di cose. Bianca era sola, il marito era in carcere, gestire un recapito
clandestino ti mette sotto tensione continua, e nessuno con chi sfogarti.
Successe il fattaccio: Guermandi finì per "consolare" la Bianca. Il guaio è che
il marito, Edo, venuto a saperlo in carcere, la prese male: come, mentre io sto
in galera, debbono essere proprio i compagni a mettermi le corna? D'Onofrio
sarebbe stato in futuro assai più tollerante, ma per il momento era ancora
molto giovane. Non so se rivide la Bianca quando uscì dal carcere qualche
anno dopo, ma quel che è certo è che con lei non si rimise, nonostante il
figlio.
Conobbi più tardi Luigi, detto Duccio, Guermandi, uno dei migliori
"fenicotteri" che abbia mai avuto il partito (tra tutti i clandestini, i fenicotteri
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erano i più clandestini, e se ne capisce il perché). Più o meno dell'età dei miei
genitori (doveva essere del 1900 o del 1901), morto a Milano negli anni 70,
Guermandi era stato dirigente della FGCI, studente della scuola leninista a
Mosca ed era poi passato a fare il funzionario illegale del partito, trovandovi
la sua vocazione. Riuscì infatti a svolgere ben tredici missioni illegali in
Italia, andando e tornando dall'estero, senza mai farsi beccare! Credo che la
prima volta che capitò in carcere fu nel 1944 a Milano, quando a San Vittore,
sotto i tedeschi, divenne amico del padrone della SNIA Viscosa Franco
Marinotti, anche lui arrestato.
Forse
era
facilitato
nel
suo
compito
dall'aspetto
perfettamente
insignificante: nessuno si accorgeva né si ricordava di lui. Ottimo compagno,
non era un prodigio di intelligenza, e dei suoi limiti era ben conscio. Piccolo
di statura, bruttino, era tutt'altro che un Adone. Aveva però una parlantina
discretamente sciolta, avvolgente ed insinuante. Rimase scapolo, e quando
morì abitava da sua sorella. Mi disse una volta, con una punta di malinconìa,
di non aver mai voluto legami stabili non soltanto per la vita che conduceva,
ma anche perché sapeva quanto fosse facile indurre una donna in tentazione,
e quanto le donne avessero bisogno di essere tentate per sentirsi tali.
*
*
*
Il 29 dicembre 1929 in una clinica privata, poco lontano dalla prigione
della Santé ove sarei andato, dieci anni più tardi, a trovare mio padre
arrestato, nacque mio fratello. Ricordo la sala d'aspetto e l'orologio elettrico
al di sopra della porta: il fratellino nacque alle diciotto e dieci.
Prima di entrare in clinica mia madre aveva fatto in tempo, mentre ero
dalla Bianca, a traslocare da Le Raincy a Parigi, in boulevard Voltaire, nell'XI
arrondissement, tra la Nation e place de la République, vicino alla stazione
del métro Oberkampf. Pochi giorni dopo ci trasferimmo tutti quattro, neonato
compreso, nella casa nuova. Per i primi tempi ad occuparsi di mio fratello
dovette ovviamente essere mia madre. Ben presto però l'incarico sarebbe
passato a me.
Nel frattempo dovevo recuperare il tempo perso tra arrivo, traslochi,
libri italiani e parto, e darmi da fare per imparare al più presto il francese ed
andare a scuola. Si pensò bene di mettermi a tale scopo in una scuola privata,
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gestita dalle monache (ma tanto, dalle suore ero già stato in Italia), in cui
farmi impartire un corso intensivo di lingua e cultura francese. La scuola era
- caso strano - mista (forse perché scuola materna?), mentre la futura scuola
comunale di Montreuil sarebbe stata solo maschile. Si trovava poco lontano
da casa nostra, in un vecchio edificio ben tenuto, con un bel cortile per giochi
e ricreazioni. Mi misi di buzzo buono a fare le aste - in francese - ed a seguire
le lezioni. Il francese lo imparai, ricordo bene, in due mesi, ed il veicolo
fondamentale furono, secondo me, a parte il colloquio di giorno in giorno più
facile e più spinto coi compagni di scuola, i girotondi e le vecchie canzoni
francesi.
I girotondi (sempre su motivi di vecchie canzoni del 600 e del 700)
erano infatti parte integrante delle nostre ricreazioni. Arie e parole, con
qualche strappo, mi frullano ancor oggi in testa. "Savez-vous planter les
choux, à la mode, à la mode - Savez-vous planter les choux, à la mode de
chez nous?”. "Frère Jacques, frère Jacques, dormez-vous, dormez-vous? Sonnez les matines, sonnez les matines, din dan don, din dan don". "Dansons
la capucine, il n'y a pas de pain chez nous - Il y en a chez la voisine, mais il
n'est pas pour nous". "Il faut te marier, papillon couleur de neige - Il faut te
marier par devant le vieux mûrier". "Il était une bergère, et ron et ron, petit
patapon, il était une bergère qui gardait ses moutons". "Ainsi font, font, font
les petites marionettes - Ainsi font, font, font leur petit tour et puis s'en
vont". "Ah, mesdames, voilà du bon fromage - Voilà du bon fromage au lait,
il est du pays de celui qui l'a fait".
E poi le vecchie canzoni del 700 francese, divenute ormai canzoni
infantili che si cantavano in coro. "Sur le pont d'Avignon, on y danse, on y
danse - Sur le pont d'Avignon, on y danse tout en rond". "Au clair de la lune,
mon ami Pierrot - Prête moi ta plume pour écrire un mot". "J'ai du bon
tabac dans ma tabatière, j'ai du bon tabac, mais t'en auras pas". "Il pleut, il
pleut bergère - Rentre tes blancs moutons...". "Malbrough s'en va en guerre,
mironton, mironton, mirontaine - Malbrough s'en va en guerre, qui sait
quand reviendra". "En passant par la Lorraine, avec mes sabots - Avec mes
sabots, tontaine, avec mes sabots...". "C'est le bon roi Dagobert, qui a mis sa
culotte à l'envers...". "Il était un petit navire, qui n'avait ja, ja, jamais
navigué. Ohé, ohé, matelots...". "C'est la mère Michel qui a perdu son chat -
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Qui crie par la fenêtre qui est-ce que lui rendra". Sono testi nitidi, classici,
trasparenti, proprio quel che ci voleva per imparare una lingua genuina.
Altri ricordi della mia prima scuola francese: la preghiera prima delle
lezioni (con uno strano rito: le bambine dovevano giungere le mani, i maschi
incrociare le braccia, ripetendo la preghiera a mezza voce). Il giorno in cui mi
si chiese, poiché dovevamo esibirci, in non so quale occasione, davanti ad un
pubblico di genitori, di aprire sì la bocca durante il canto, assieme a tutti gli
altri, ma di non emettere suoni, perché troppo stonato... E poi le biglie,
durante le ore di ricreazione: biglie opache di ceramica, biglie di vetro lucide,
biglie di varie dimensioni, e quelle più belle, fantasmagoriche, con una specie
di spirale multicolore all'interno. Tutte da giocare e vincere, se ci riuscivi.
Infine i miei primi ragionamenti ateistici.
Era successo che prima di mandarmi in una scuola gestita da religiose,
e sapendo che in Italia ero già stato dalle suore, mia madre aveva creduto
bene chiedermi cosa pensassi di Dio. Tranquillamente, gli avevo replicato: "E
tu?". Sbalordita, ma anche sollevata, mi aveva detto che secondo lei Dio non
esisteva, in quanto non si spiegherebbe sennò come mai permettesse tante
ingiustizie, e che probabilmente la sua asserita esistenza era una scusa per
tener buona la gente, e far sì che non si mettesse a far giustizia da sé. Le
replicai che questo era pure il mio parere, in quanto avevo notato - dissi - che
si tirava sempre in ballo Dio od il tuo preteso "dovere" ogni volta che si
trattava di farti fare qualcosa di spiacevole; oppure, al contrario, di impedirti
di fare una cosa piacevole. Mia madre rimase perplessa, ma per quella volta
accettò la provocazione, chiedendomi solo, a scuola, di non sbandierare, se
non richiesto o provocato, il mio pensiero, per non offendere eventuali
sentimenti altrui.
Solo che un bel giorno, tra ragazzini, giocando, si venne a parlare
dell'argomento. Finché si trattava di tacere, era facile (durante la preghiera,
con le braccia incrociate, mi limitavo a tenere la bocca chiusa), ma qua avrei
dovuto dire il falso. Replicai quindi che, per me, Dio non esisteva. Sgomento.
"E se c'è, dov'è?" "Ma in cielo". "E quando piove che fa? Si bagna il culo?".
Non riferirono niente a nessuno, la solidarietà tra compagni di scuola contro
il mondo degli adulti non essendo in Francia parola vana, ma mi guardarono
straniti. Poco dopo ci trasferimmo a Montreuil, e lasciai la scuola privata per
quella comunale.
capitolo II pag. 13
Erano questi i mesi in cui mia madre, tra allattamento e pannolini, era
piuttosto impegnata con mio fratello, e toccava quindi a mio padre portarmi a
spasso. Ricordo di quel periodo il teatrino di "Guignol" ai giardini del
Lussemburgo, con l'immancabile "garde-champêtre" ed i lazzi di prammatica:
un altro modo per impossessarmi della lingua. Mio padre sopportava, e
stavamo lì delle ore, finché non era esaurito il programma del giorno. Dopo
un po', conoscendo a memoria la trama, potevo anche anticipare le repliche.
Vi era poi la mia passione per così dire sportiva: la giostra coi cavalli di
legno. I "chevaux de bois" a Parigi sono una tradizione: è una giostra con due
file di cavalli, che girando si alzano e si abbassano alternativamente lungo un
palo. Sul diametro esterno della giostra è fissato ad un certo punto un
aggeggio che reca, infilati l'uno dopo l'altro in una scanalatura e sospinti da
una molla, una serie di anelli metallici di circa tre centimetri di diametro, di
cui il primo sporge. Quando sali in "groppa" al tuo destriero ti consegnano
uno "spadino", un'asta metallica lunga una trentina di centimetri, con
un'impugnatura di legno.
Si tratta, quando la giostra sarà in moto, sporgendoti il più possibile e
aggrappandoti all'asse verticale del cavallo per non cadere, di tentare, ad ogni
passaggio, di infilzare l'anello sporgente, subito sostituito da quello che
segue. Chi ne raccoglie un certo numero ha diritto, al termine della corsa, ad
un "sucre d'orge", bastoncino di zucchero candito, od a un "nougat", il
torrone morbido di Provenza. Debbo dire che ero abbastanza bravo, e mi
lasciavo andare, sul mio cavallo di legno, ad esercizi di torsione abbastanza
spericolati pur di infilzare il maggior numero di anelli. Quando riuscivo a non
perdere un colpo, ed a sganciare un anello ad ogni giro, ero piuttosto fiero.
Durante quelle passeggiate avevo fatto conoscenza con gli autobus
parigini. Erano molto caratteristici. Anzitutto, l'autista, come già il cocchiere
di una volta, era collocato all'esterno del salone, sotto una tettoia sì, ma
all'aria aperta, su un sedile a spalliera collocato al di sopra del cofano del
motore, con un vetro di protezione davanti come riparo dal vento e dalla
pioggia. Gli autisti per proteggersi dalle intemperie portavano un grosso
giaccone di cuoio nero. Il cofano aveva anch'esso l'aria buffa: sulle vetture
più antiche era ancora quello classico delle "Renault" di una volta, senza
radiatore visibile, su quelle allora più diffuse aveva invece un radiatore, ma
capitolo II pag. 14
rotondo, e diviso in tre segmenti. I cerchioni delle ruote erano spesso ancora
rivestiti di gomma piena massiccia, senza camere d'aria.
All'interno il salone, non tanto grande, era diviso in tre sezioni: subito
dopo il vetro che lo separava dall'autista veniva la prima classe, coi sedili
imbottiti di similpelle, poi la parte centrale vuota, destinata ai passeggeri in
piedi, e la seconda classe, con panchine di legno.
Dietro il salone, in fondo all'autobus, stava la parte più interessante, la
piattaforma dalla quale si accedeva al salone, con i posti in piedi all'aperto.
La piattaforma, con un tetto ma aperta sui tre lati, a mo' di balcone, e con
l'ingresso chiuso da una catenella, era il dominio incontrastato del fattorino.
Egli vendeva i biglietti, e li convalidava con una apposita macchinetta
rettangolare metallica fissata alla cintura, inserendo il numero dei tagliandini
necessari (ne occorrevano da due a cinque, secondo il percorso) in una
apposita fessura, e girando poi un'apposita manovella dal caratteristico
rumore di raganella per convalidarli. I tagliandini era lunghi circa tre
centimetri, e larghi mezzo. Si potevano acquistare sia sciolti (il fattorino ne
portava una striscia arrotolata in un aggeggio a molla fissato sulla cinghia del
borsone), che in "carnets" di venti, ove la striscia, più corta, era ripiegata a
fisarmonica.
Il fattorino, anzi il "receveur", toglieva e rimetteva inoltre la catenella
che chiudeva l'accesso alla piattaforma, e dava all'autista il segnale della
partenza, tirando con forza il pomello della catenella di segnalazione che
pendeva a sinistra dell'ingresso, in tutto e per tutto simile a quella degli
sciacquoni. Dava inoltre una mano, sganciando con l'altra la catenella di
chiusura, per aiutare a salire eventuali ritardatari che tentassero di
acchiappare al volo l'autobus già messosi in moto. Se salone e piattaforma
erano pieni, spettava al fattorino far ruotare una tabellina con la scritta
"complet", posta al di sopra dell'ingresso.
La piattaforma era piuttosto bassa, distava dal suolo non più di una
trentina di centimetri, e l'accesso era facilitato da uno scalino che pendeva
sotto l'ingresso. Su di essa ti trovavi, se non v'era troppa gente, in una
situazione ideale: scarrozzato attraverso la città, ma al tempo stesso immerso
dentro essa, soprattutto nelle vie più strette, tra passanti e pedoni, in mezzo
ai carri ed ai cavalli che ti passavano accanto , alle biciclette che sfrecciavano
ai lati, agli "agents de police" che regolavano il traffico, ai venditori
capitolo II pag. 15
ambulanti che strillavano la loro mercanzia, una meraviglia. Ogni quartiere,
ogni strada era un mondo a sé, diversa dalle altre, con le sue caratteristiche.
Era un po' come viaggiare in carrozzella, ma meglio, perché stavi più giù, più
vicino alla gente ed alle tante cose curiose. E' uno dei ricordi migliori di
Simenon, ma è anche mio. Naturalmente, quegli autobus non vi sono più.
Oltre agli autobus, vi erano i tram e soprattutto il "métro", la
metropolitana parigina. Ma i tram collegavano soprattutto Parigi con la
banlieue. Al centro erano stati tolti quasi dovunque, mentre la metropolitana
in quel periodo mi capitò di prenderla poco. Ne feci una conoscenza
approfondita in seguito, per cui ne riparleremo più tardi. Ricordo però "le
métro qui sort de son tunnel", e cioè il passaggio del treno della
metropolitana, su alcune linee, dal sottosuolo a sezioni sopraelevate, specie
di vìadotti in grosse travi di ferro chiodate, sul tipo di quelle della torre
Eiffel: dall'alto di essi potevo, dal finestrino, guardarmi dall'alto la città, i
viali alberati ed il traffico che scorreva sotto di me.
Traffico di altri tempi, ovvio, con poche automobili, parecchie biciclette
ed ancora molti carri a cavallo, in mezzo agli ippocastani. All'epoca infatti
molti dei tipici negozi parigini a succursali multiple, "Nicolas" per i vini,
"Félix Potin" per gli alimentari, le latterìe e le birrerìe usavano ancora carri a
cavallo per i rifornimenti quotidiani. Quindi anche "crottins" (sterco) e le
frotte
di
"moineaux"
(passeri)
pigolanti
nel
bel
mezzo
della
strada.
Sopravvivevano anche i "fiacres", i vetturini, ma erano già pochi, sostituiti
dai loro diretti eredi, quei caratteristici tassì parigini degli anni 20, col telone
ripiegato all'indietro, che in caso di pioggia si tirava su, coi passeggeri
impettiti sul sedile posteriore.
La domenica infine, dopo aver preso il tram, si poteva uscire tutti
assieme, poppante compreso, per andare a "mangiar fuori": in una di quelle
caratteristiche trattorìe sparse un po' ovunque lungo la Senna, la Marna,
l'Oise, i loro affluenti e gli innumerevoli canali navigabili. Là, all'aria aperta,
"au bord de l'eau", ti servivano sotto un pergolato deliziose "fritures" di
pesciolini piccoli piccoli, ma saporitissimi, "pommes frites", insalata ed un
vinello bianco acidulo più o meno locale, il tutto con modestissima spesa,
mentre davanti passavano, in mezzo al verde, pigre e lente, le "péniches"
(chiatte) bianche e nere dei "mariniers". Altro ricordo delle trattorìe o
ristoranti alla buona di Parigi e "banlieue" sono i "mendiants" (mendicanti).
capitolo II pag. 16
Si trattava di involtini, più spesso scatolette di cartone triangolari e la
finestrella di cellofan, con dentro un po' di frutta secca: nocciole, mandorle,
spagnolette, un rametto d'uva passa, a volte un fico secco: noci no, ch'erano
care. Insomma il "dessert" più a buon mercato che esistesse: ma a noi
bambini piaceva, che v'era da lavorarvi.
*
*
*
E' in quell'anno, nel 1930, che comincio gradualmente a conoscere i
"compagni" del Centro estero. Le occasioni d'incontro sono due: gli
appuntamenti nei caffè parigini (un bambino semmai distoglie l'attenzione),
oppure le "riunioni". Queste non si tengono mai in casa (gli indirizzi privati
dei singoli compagni rimangono rigorosamente ignoti ai più), ma nelle salette
interne di caffè tenuti da compagni francesi, od in uffici vari, più o meno
legali, che cambiano sede di frequente.
Dei caffè parigini conservo il ricordo dei "croissants" al burro,
croccanti ma non dolci, anzi salati, di pasta sfoglia, da mangiare col "café
crème" o la cioccolata; delle "grenadines" e delle "panachées" (birra mista a
gassosa) che dissetano d'estate; dei "canards", cubetti di zucchero bagnati nel
caffè nero - qualche volta addirittura nell'acquavite di frutta! - e dati da
succhiare quale anticipo su future delizie adulte; delle immancabili uova sode
sempre pronte sul banco. Vino o aperitivo, no: li potrò gustare soltanto più
tardi, nel 1938, ora chiaramente non me ne danno, e non ho i mezzi per
procurarmene di nascosto.
Gradualmente mi impadronisco anche delle severe regole della vita
cospirativa, che per tutti noi dovevano divenire, per essere veramente
efficaci, una seconda natura. La prima di queste regole era di essere
altrettanto bene in grado di ricordare le cose quanto di dimenticarle.
Vediamo di fare un esempio. Dal settembre del 1929 all'inizio del 1931
stetti prima a Le Raincy, poi dalla Bianca, poi a Boulevard Voltaire, da dove
saremmo passati nella primavera del 1930 a Montreuil, e all'inizio del 1931,
con mio fratello, da Mamy a Bougival. Una media quindi di cinque
trasferimenti in un anno e mezzo, di cui alcuni anche in rapida successione.
Frequenti traslochi e trasferimenti erano la regola: si raccomandava di non
passare mai più di un trimestre (il "terme" d'affitto), al massimo due, al
capitolo II pag. 17
medesimo indirizzo, per far perdere meglio le tracce. Per la stessa ragione si
affittavano di solito appartamentini o camere mobiliate.
Ma assieme alla casa non si cambiava soltanto indirizzo, si cambiava
tutta la biografìa: cognome dei genitori, professione del padre (doveva essere
tale da giustificare una breve permanenza e possibili viaggi), la posizione
della madre, la propria storia (da dove venivi, che scuola avevi fatto, ecc.),
spesso anche la nazionalità. Bisognava quindi, a partire da un certo giorno,
mandar bene a memoria la nuova "leggenda" e dimenticare totalmente quella
precedente, stando attento a non confonderti: né con la portinaia, né col
panettiere, il lattaio od i bottegai del nuovo quartiere!
I compagni del Centro estero, a differenza degli altri emigrati
antifascisti, praticamente vivevano tutti quanti con documenti più o meno
falsificati, che di solito venivano forniti loro dai compagni francesi, oppure
erano pure veri, ma rilasciati sulla base di altri documenti, che essi invece
erano falsi. Evidentemente, non si poteva dirigere il lavoro illegale in Italia e
vivere in Francia con il proprio nome: l'asilo politico prevede sempre
l'astensione da ogni forma di attività politica, ed i compagni del Centro estero
erano invece in Francia proprio per "far politica"! Se individuati, o anche
solo
sospettati,
essi
potevano
essere
espulsi,
o
“refoulés"
quali
"indesiderabili".
La differenza era questa: il decreto di espulsione era di competenza del
Ministero degli interni francese, doveva essere motivato, e contro di esso era
ammesso ricorso. Di solito veniva emesso per accertata violazione delle leggi
sul soggiorno degli stranieri in Francia. Il "refoulement" invece era misura
puramente
amministrativa,
applicabile
a
qualsiasi
straniero
il
cui
comportamento non fosse di gradimento delle autorità di polizìa francesi,
non richiedeva motivazioni e contro di esso non era ammesso ricorso. Quando
capitava, i compagni venivano accompagnati dalla polizìa alla frontiera (si
lasciava però loro la scelta di quest'ultima) e sbattuti dall'altra parte del
confine. Da dove naturalmente dopo un po' sarebbero tornati, con una nuova
identità.
Quanto detto non significava che i nostri compagni dovessero per forza
cambiare documenti ad ogni trasloco. Anche i documenti falsi costano fatica e
lavoro, e poi allora i documenti non avevano l'importanza che avrebbero
assunto in seguito: nessuno ti chiedeva i documenti ad ogni pie' sospinto.
capitolo II pag. 18
Credo che per i francesi non fosse neppure obbligatorio il possesso di
documenti di identità. Si aveva l'obbligo (per i residenti: ciò non valeva
evidentemente per gli stranieri di passaggio) di giustificare la propria
identità unicamente in due casi: se capitavi in una retata della polizìa o se
venivi fermato dalla medesima. Ed anche in questo caso non era obbligatorio
esibire un documento: bastava produrre due testimoni che testimoniassero
che tu eri il tal dei tali. Ovviamente, a quelle due possibilità si cercava di
sfuggire in ogni modo, per evitare che durante i controlli venisse fuori che i
tuoi documenti avevano qualche pecca.
Ma in tutti gli altri casi: per affittare una casa, per partorire, per
dichiarare un figlio allo Stato Civile, per iscrivere il bimbo a scuola o metterlo
in pensione, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di chiederti un
documento. Si poteva vivere per anni e anni senza avere l'occasione di esibire
i propri documenti, veri o falsi che fossero. Quindi tutto il problema stava nel
non far sorgere sospetti sulla storia e l'identità spacciate per buone. La tua
sicurezza dipendeva in primo luogo dalla tua prudenza e dalla tua memoria:
la vita cospirativa non tollera distrazioni.
Un'altra regola concerneva l'uso di pseudonimi. I nomi veri erano
assolutamente fuori corso nell'illegalità, ed il segreto era assai ben custodito.
Io per anni frequentai buona parte dei compagni del gruppo dirigente, ma
conoscendoli sempre e solo sotto il loro nome di battaglia, mai con quello
vero. Di parecchi di essi (Dozza, Berti, Novella, Maggioni, Vidali, Regent) il
nome vero lo seppi soltanto dopo la liberazione. Per Togliatti e quelli di
Mosca, Grieco, Cerreti, Amadesi, Marchi, un po' prima, nel 1943, dopo il 25
luglio. Le cose cominciarono a cambiare soltanto a partire dal 1937-38,
quando, col fronte popolare, si cominciò a fare qualche strappo alla regola,
soprattutto per i compagni usciti di prigione, come Sereni, Amendola o
Bibolotti. Gli stessi membri del Centro estero, se non avevano conosciuto già
prima i compagni coi quali lavoravano, ne ignoravano il nome vero. Gli
pseudonimi potevano anche essere più di uno, se si svolgevano attività
diverse: Allard (Giulio Cerreti) ad un certo momento ne ebbe addirittura
cinque.
Questi pseudonimi erano validi unicamente per l'uso di partito: essi
non avevano nulla a che fare coi nomi indicati nei documenti falsi. Anche
perché erano nella maggior parte dei casi noti alla polizìa fascista, che
capitolo II pag. 19
sorvegliava
da
vicino
l'attività
del
PCI
all'interno
ed
all'estero.
Gli
pseudonimi di partito venivano quindi usati soltanto nelle riunioni di partito,
o per firmare lettere, e negli articoli a stampa. Soltanto nell'URSS lo
pseudonimo di partito diveniva improvvisamente il tuo nome legale: i
documenti sovietici erano sempre intestati al tuo pseudonimo di partito! Un
compagno dell'apparato di partito veniva così ad avere almeno tre nomi: il
nome vero, ignoto ai più, quello di battaglia, e quello indicato nei documenti
falsi di turno.
Il mio addestramento al saper ricordare ed al saper dimenticare doveva
produrre in me un fenomeno curioso, lo sdoppiamento della mia memoria in
memoria per sé e memoria per gli altri. Venivo cioè ad avere due
memorie: una per le cose esterne, da ricordare con esattezza e precisione, ma
soltanto finché fosse necessario, per poi dimenticarle di colpo non appena
non servissero più (dimenticavo di dire che qualunque appunto scritto era
tassativamente vietato, sempre); l'altra per le cose che ti stanno a cuore e che
ti hanno colpito, che sono cose tue e che ti porterai dietro. Non ricordo nulla
delle mie false identità, ma ricordo benissimo me. La netta e precoce
separazione tra le due è probabilmente anche all'origine del fatto che la mia
memoria interiore sia piuttosto buona: non fu mai intasata da cose inutili o
superflue, che venivano automaticamente passate nella memoria esterna, e
da lì scaricate non appena possibile nel dimenticatoio.
Come già dissi, l'occasione maggiore degli incontri che ebbi coi
compagni in quel periodo era data dalle "riunioni", di cui sospetto che molte
fossero riunioni di redazione di "Stato operaio", e che proprio nel corso di
esse venisse in quegli anni elaborata la politica del partito.
"Stato operaio", rivista ideologica del partito, era stata fondata nel
1923 ed aveva ripreso le pubblicazioni a Parigi a partire dal 1927. Vi uscì
regolarmente fino allo scoppio della guerra, nel 1939. La dirigeva Ercoli
(Togliatti), che ne rimase direttore fino al 1934, quando dovette passare al
lavoro dell'Internazionale. La rivista era mensile, veniva pubblicata in
Francia legalmente ed aveva quindi una sede più o meno legale, nella quale
però gli stessi articolisti non dovevano farsi troppo vedere, limitandosi a farvi
giungere i propri scritti. Una parte della tiratura veniva stampata su carta
sottilissima, ed era destinata ad essere spedita in Italia nei doppi fondi delle
valigie truccate in dotazione a fenicotteri o consegnate a parenti, amici,
capitolo II pag. 20
conoscenti vari che si recavano in patria. Le riunioni di redazione non si
tenevano mai nella sede della rivista, ma sempre altrove, ed il luogo ogni
volta cambiava.
Oltre a "Stato operaio", stampato legalmente in tipografìa, era stata
attivata, su scala abbastanza ampia, anche l'edizione clandestina di una serie
di pubblicazioni roneotipate, che entravano in Italia, sotto forma di matrici,
clichés o copie già pronte, nei medesimi doppi fondi delle speciali valigie dei
corrieri, preparati da bravissimi artigiani nostri compagni. Dove si svolgesse
la preparazione di matrici e clichés, e avvenisse la tiratura, ovviamente non lo
so, ma a casa nostra qualche copia pronta arrivava. Ricordo alcuni titoli:
"L'avanguardia" (giovanile), “Battaglie sindacali”, “La risaia", "Il galletto
rosso" (satirico). Quest'ultimo, periodico giovanile ed antimilitarista, era una
creatura di mio padre: credo che il suo nome di battaglia, Gallo, venisse
proprio da lì. Era anche illustrato. Continuava inoltre ad uscire, con lo stesso
sistema,
un'edizione
clandestina
dell'"Unità".
Le
pubblicazioni
troppo
"adulte" le scorgevo soltanto, ma "L'avanguardia" ed “Il galletto rosso"
ricordo che li leggevo, perlomeno nel 30-32.
Di tanto in tanto mio padre, ed a volte mia madre, mi portavano con sé
a qualche "riunione". La convocazione avveniva sempre a voce, tramite
appuntamenti a catena. Il telefono non veniva mai usato, né allora né più
tardi, nel 1938, quando si era quasi legali. A quelle riunioni partecipava un
gruppo abbastanza ristretto di persone, che mi divenne ben presto familiare.
Spesso non ero il solo bambino, ma eravamo in due o tre, di solito a giocare
in qualche corridoio od in cortile, mentre i grandi discutevano. Dovevano
esservi Franco, il figlio di Montagnana, ed Aldo Togliatti, entrambi un po' più
piccoli
di
me,
ma
sinceramente
non
li
ricordo:
i
bambini
non
mi
interessavano, anche se vi giocavo. Se ero solo leggevo, rincantucciato in
qualche angolino. Fu in quelle occasioni che conobbi Ercoli, la Marisa,
Stefano, Garlandi, Nicoletti. A casa non ci si incontrava mai, avrebbe fatto
saltare le varie coperture.
Ercoli (Palmiro Togliatti, 1893-1964) aveva allora trentasette anni.
Piccoletto, con la testa un po' infossata, abbastanza malvestito, aveva un
ciuffo di capelli ribelli e picccoli occhi vivacissimi dietro occhiali allora di filo
metallico, di quelli ricoperti da celluloide nera, con stanghette che si
agganciavano dietro le orecchie. Capo riconosciuto del partito dal 1926,
capitolo II pag. 21
quando erano stati arrestati Gramsci, Terracini e Scoccimarro, diresse il
Centro estero dal 1926 al 1934. Dal 1924 era anche membro dell'esecutivo
dell'Internazionale e dal 1928 della presidenza dell'esecutivo. Nel 1934
sarebbe passato al lavoro per l'Internazionale, e nel 1935, al VII congresso di
questa, sarebbe divenuto uno dei sette membri della segreterìa, assieme a
Gottwald, Manuilskij, Dimitrov, Pieck ed altri, sempre sotto il nome di Ercoli.
Il suo vero nome venne reso noto per la prima volta soltanto alla fine del
1943, dopo il 25 luglio e l'8 settembre.
Ercoli era sempre allegro, ed aveva sempre sul viso il suo tipico
sghignazzo. Caustico, ma non velenoso, rideva spesso e volentieri, e le sue
risate erano contagiose. Non ricordo di averlo mai visto serio e tanto meno
imbronciato. Tra tutti i compagni era il solo al quale i bambini non dessero
fastidio, e che non disdegnava di parlare e giocare con noi. Per di più aveva
sempre nel taschino del panciotto un franco o due da regalarci (si portava
ancora il panciotto, a quei tempi). A noi piaceva molto: ne ammiravamo
istintivamente la superiorità intellettuale e ne apprezzavamo la familiarità.
Sua moglie era la Marisa (Rita Montagnana, 1895-1978). Anche lei
sempre
allegra,
ma
un
po'
sempliciotta,
mentre
Ercoli
era
semmai
mefistofelico. Sartina torinese, era entrata nel PSI nel 1915, nel PCI dalla
fondazione ed aveva sposato Togliatti nel 1924. Esuberante, era un po'
rompiscatole.
Stefano (alias Carlo Roncoli) era in realtà Mario Montagnana (18971960), operaio metallurgico torinese, fratello minore di Rita. Era entrato nel
PSI nel 1913, nel PCI dal 1921. Espatriato nel 1926, era membro del Centro
estero e redattore di "Stato operaio". Più tardi sostituì mio padre quale
rappresentante del PCI presso l'Internazionale nel 1934-35, e al VII congresso
venne eletto membro dell'esecutivo dell'I.C.. Arrestato a Parigi nel 1939
assieme a mio padre, riuscì a partire dalla zona libera per il Messico all'inizio
del 1941, e tornò in Italia soltanto dopo la liberazione. Nel 1930 aveva
trentatre anni, portava anche lui gli occhiali, ma di quelli grossi, di falsa
tartaruga, alla Harold Lloyd, al quale d'altronde somigliava un po'. Più alto di
Togliatti, era quel che si dice un bel uomo. Parlava molto: era di quelli a cui
piace sentirsi parlare, sicuri come sono che parlando ci si chiarisca le idee.
(Ercoli
invece
parlava
poco,
ma
ascoltava
con
molta
attenzione.
Se
interveniva, era soprattutto per porre questioni o trarre conclusioni). Moglie
capitolo II pag. 22
di Stefano era la Stefania (Anna Maria Montagnana), elegante, profumata e
piuttosto manierata. Usava, ricordo, l'"Houbigant", un profumo allora assai
di moda.
Garlandi (Ruggero Grieco, 1893-1955) aveva anche lui trentasette anni.
Era alto, magro, dinoccolato, con le spalle incurvate, gli occhi molto miopi,
una bella testa da intellettuale, con la fronte molto ampia, i capelli neri
arruffati all'insù, occhiali neri di tartaruga. Scherzava anche più di Togliatti,
ed aveva la battuta feroce, che spesso gli faceva nemici. Coi bambini non
sapeva come comportarsi; ne era intimidito, e tentava quindi di cavarsela
facendo il sostenuto. Quando ebbi occasione di conoscerlo meglio, più tardi,
scoprii che era una delle persone più buone e generose che mi fosse capitato
di incontrare: timido, sentimentale, indifeso, quindi scontroso. E coltissimo.
In politica molto acuto, ma anche lì, a differenza di Ercoli, indeciso, e spesso
insicuro.
Pubblicista meridionale, diplomato in agronomìa, nel 1919 era stato
eletto membro della segreterìa del PSI. Passato al PCI a Livorno vi venne
eletto membro del C.C. e della segreterìa. Nel 1924 venne eletto deputato alla
Camera. Condannato in contumacia nel 1927 a diciassette anni di prigione, fu
membro del Centro estero dal 1927 al 1939. Membro dell'ufficio politico tanto
nel 1926 che nel 1931, dal 1934 al 1938 sostituì Ercoli quale segretario del
partito, quando questi passò al lavoro dell'Internazionale. Nel 1940 Ercoli lo
portò con sé a Mosca, ove fino al 1945 diresse le trasmissioni in italiano di
Radio Mosca, uno dei pochi mezzi rimasti per fare giungere in Italia direttive
e parole d'ordine del partito.
Nicoletti era invece Giuseppe Di Vittorio (1892-1957). Bracciante
pugliese di Cerignola, aveva fondato a sedici anni il Circolo socialista di
Cerignola, ed a vent’anni, nel 1912, era già uno dei dirigenti della locale
Camera del lavoro. Sindacalista rivoluzionario nel 1912-15, interventista nel
1915, dirigente della Confederazione Generale del lavoro e deputato alla
Camera nel 1921, entra nel PCI nel 1924, ove sarà membro della sezione
sindacale e di quella agraria. Espatriato nel 1926, è condannato in
contumacia
a
Nell'emigrazione,
dodici
in
anni
di
Svizzera,
prigione
dal
Francia
e
Tribunale
Belgio,
si
speciale.
occupa
contemporaneamente del lavoro tra gli emigrati italiani e di quello della
capitolo II pag. 23
ricostituita CGL clandestina. Nel 1931 diviene membro dell'ufficio politico del
partito.
Nel 1936-37 Nicoletti è in Spagna, ove diviene commissario politico
della XI Brigata internazionale. Sarà arrestato e internato in Francia allo
scoppio della guerra, nel 1939, e consegnato nel 1941 dal governo di Vichy
alle autorità italiane, che lo mandano a Ventotene. Liberato dopo il 25 luglio,
nel 1944 fonderà, assieme a Bruno Buozzi ed Achille Grandi, la nuova CGIL
unificata. Di Nicoletti in quegli anni ho un ricordo vago, forse perché lo vidi
poco (viaggiava parecchio).
In quegli anni dovrei aver conosciuto anche Botte (Pietro Secchia,
1903-1973), ma anche qua ne conservo un ricordo assai vago seppur presente.
Membro dell'ufficio politico nel 1928, in rappresentanza della FGCI, e uno dei
protagonisti della discussa "svolta", venne infatti incaricato quasi subito,
dopo la caduta della Silvia, di riorganizzare il Centro interno. Rientrato a tale
scopo in Italia vi fu arrestato dalla polizìa fascista all'inizio del 1931. Dovevo
rivederlo soltanto nel 1945.
*
*
*
Molti dei miei ricordi di quell'epoca sono legati al "lavoro d'ufficio",
per così dire, dei miei genitori e degli altri compagni del Centro estero.
Circolari, lettere, direttive, manifestini, pubblicazioni clandestine, articoli,
ecc. andavano infatti elaborati, redatti, compilati, battuti a macchina,
riprodotti. Uno dei miei primi ricordi di Parigi è quindi la macchina da
scrivere.
Era una vecchia "Remington" portatile, sgangherata ma efficiente,
gestita sopratutto da mia madre (mio padre batteva soltanto in casi di
estrema emergenza, e con due dita). Solo che poneva dei problemi: una
persona normale a quell'epoca non aveva bisogno di scrivere a macchina in
casa, lo faceva semmai in ufficio. Chi tenesse una macchina da scrivere in
casa era quindi o uno scrittore, o una persona che dava adito a sospetti. Da
qua la necessità di non dare troppo nell'occhio, e di non disturbare i vicini.
Anche il portarla a pulire poteva essere un problema. A parte il fatto
che sarebbe costato, ed i soldi erano sempre scarsi. Ma la macchina diveniva
man mano sempre più sporca... Finché un giorno mia madre sbottò con mio
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padre: ma che razza di ingegnere sei, se non sei neppure capace di pulire una
macchina da scrivere?
Mio padre si decise: smontò la macchina, la pulì e la rimontò. Solo che
si trovò con tre pezzi in più. Mia madre stupefatta controllò: la macchina
funzionava. Scrollò le spalle: vuol dire che l'hai razionalizzata. Mio padre si
portò poi dietro per anni e anni i tre pezzi famosi, nell'attesa di scoprire come
rimontarli. Li aveva portati con sé a Mosca nel 1932, e li aveva ancora con sé
in Francia, se non erro, nel 1938. (I pezzi erano poi semplicemente quelli che
comandano la suonerìa di fine corsa del carrello: mia madre, come anch'io
più tardi, non se ne serviva. Lo indovinai presto, ma stetti zitto, per non
mortificare l'"ingegnere"). La macchina sopravvisse fino all'arresto di mio
padre nel 1939 e di mia madre nel 1940.
Poi la penna stilografica di mio padre. Mi affascinava in modo
particolare, anche perché mi era severissimamente vietato toccarla, per
ragioni che intuirete tra poco. Era una "JIF Waterman" color rosso mattone,
con pennino d'oro. Girando l'estremità opposta al pennino, il pennino
rientrava nel corpo della penna, ed alla penna, col pennino così rientrato, si
avvitava allora il cappuccio. L'inchiostro vi si immetteva, a pennino rientrato,
goccia a goccia, tenendo la penna rigorosamente verticale, con un apposito
contagocce fissato sul tappo del flacone esagonale d'inchiostro "Idéal
Waterman", che si poteva inclinare sul fianco, qualora l'inchiostro stesse per
finire. Salvo il contagocce inserito nel tappo, la forma del flacone fu poi
ripresa, con lievi modifiche, anche dalla "Pelikan" e dalla "Parker".
Il brevetto di tale penna, rilevato dalla francese "Idéal", era ancora
quello originale americano di L.E.Waterman del 1884. Non è detto fosse il
sistema peggiore: era robusta, e non si scassava facilmente, non comportando
parti metalliche o di caucciù. Più tardi apparvero anche "Waterman" con la
pompetta interna di gomma, manovrabile tramite levetta laterale, e poi quelle
a pompetta con pulsante posteriore. Il risultato pratico era però peggiore:
trasferendo la pompetta dal contagocce alla penna, essa diveniva assai meno
controllabile: l'inchiostro poteva schizzare, la gomma rinsecchirsi, ecc. Il
modello originale, quello col pennino rientrante, richiedeva soltanto una
certa attenzione nello svitare ed avvitare il cappuccio, e nel riempirla
d'inchiostro. Per il resto era eterna. Soltanto la penna stilografica a stantuffo,
apparsa più tardi, poteva competere con il modello del 1884 in quanto a
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semplicità e sicurezza. Ma la "Waterman" non ne fece mai, era un brevetto
tedesco.
Vennero poi, nel secondo dopoguerra, le penne a sfera, poi quelle a
feltro, ma questo è altro discorso: non sono penne stilografiche, servono
soltanto per prendere appunti. Non hanno il pennino molleggiato, che traccia
una linea più fine o più spessa secondo la pressione della mano. Gramsci era
ancor più pignolo: non soltanto non ammetteva che si scrivesse un testo
direttamente a macchina, né che si dettasse alla dattilografa, ma per scrivere
ripudiava anche la penna stilografica: soltanto il dover intingere, a intervalli
regolari, il pennino nel calamaio poteva - secondo Gramsci - permettere di
riflettere, scrivendo. Togliatti invece usava la stilografica, ma non scriveva
mai prima di aver formulato attentamente nella mente le proposizioni da
stendere: i suoi testi autografi, scritti con una grafìa molto ordinata, recano
infatti pochissime correzioni, di solito qualche aggettivo sostituito. Io invece
scrivo di getto, apportando poi correzioni su correzioni, ricopio più volte,
sempre a mano, e apporto sempre nuove correzioni: ho bisogno di vedere il
testo per valutarlo. Ma la macchina da scrivere, comunque e sempre, deve
servire unicamente per copiare un testo già scritto o corretto a mano: essa
infatti impedisce di pensare. Idem per quello aggeggio infernale che è oggi
il computer.
Per terminare il discorso sulle penne stilografiche, sto scrivendo queste
pagine con una "Waterman" che esternamente è forse la copia esatta di quella
di mio padre: stesso disegno anni 20, stesso pennino d'oro morbido e
flessibile, stesso color mattone. All'interno, oihmé, vi è una cartuccia di
polietilene con l'inchiostro: comodissima da sostituire, ma che degradazione!
Un altro strumento di lavoro che ricordo bene era il "Calendario
Atlante De Agostini". So che Ercoli ne consigliava la frequente consultazione:
per documentarsi, controllare dati, ecc. Per conto mio lo lessi e studiai sin da
allora con interesse: la geografìa mi piaceva, ed era ricchissimo di dati,
soprattutto economici. Leggevo, ricordo, anche il "Petit Larousse illustré",
altro testo base di consultazione che contribuì non poco alla formazione della
mia futura cultura enciclopedica. Lo usai anche per cercare ragguagli sugli
autori dei libri che andavo via via leggendo, il che mi permise di "situarli"
meglio nel tempo e nello spazio, o se preferite, nell'epoca e nell'ambiente. Sin
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dai primi anni ebbi sempre un senso molto acuto tanto della geografìa che
della storia: forse lo devo proprio... a Salgari.
Altre cose che ricordo: la carta da macchina sottile per le copie, la carta
carbone, le grosse matite colorate doppie, rosse e blu, le gomme da
cancellare, i fermagli, le puntine da disegno (le "punaises"), la colla bianca di
cocco, in scatola cilindrica di alluminio con coperchio e pennello all'interno,
dall'odore caratteristico.
Un ulteriore ed ultimo "strumento" di lavoro dei "rivoluzionari di
professione" era rappresentato dal "café-filtre". Si trattava di un cilindro di
ottone cromato, con bordo sporgente sotto, che si poneva su una tazza o su un
bicchiere. Il fondo ne era bucherellato, mentre all'interno scorreva, a mo' di
stantuffo, un'altra piastrina bucherellata, coi bordi ricurvi, dello stesso
diametro interno del cilindro. Schiacciando nella giusta quantità caffè tostato
e macinato giusto tra le due piastrine orizzontali, sollevando poi un po' la
piastrina mobile, lasciando così spazio perché il caffè potesse gonfiare, e
versandovi sopra acqua bollente, si poteva ottenere un caffè discreto, assai
migliore di quello servito nei caffè parigini di allora, ed a parer mio assai più
profumato di quello ottenibile con la nostra napoletana.
Per il caso di spostamenti e viaggi mio padre possedeva poi un
fornellino "Meta": si trattava di un piccolissimo pentolino di alluminio
(giusto una tazza), da collocare sopra un fornellino, sempre di alluminio,
alimentato con dei bastoncini bianchi di apposito combustibile solido, il
"Meta" per l'appunto, brevetto svizzero. Sono tuttora perplesso di fronte
all'immagine di mio padre che, in treno, tirasse fuori il suo fornellino, lo
collocasse sul tavolino ribaltabile assieme al "café-filtre", lo accendesse con
un fiammifero e si facesse il suo caffè: v'è qualcosa che non quadra, in
quell'immagine, ed infatti non ricordo che di quel fornello si facesse
frequente uso. Ma v'era, e questo lo tranquillizzava: avrebbe potuto farlo.