Capitolo II - Gino Longo Memorie
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Capitolo II - Gino Longo Memorie
capitolo II pag. 1 Capitolo II Si parte per Parigi - La madre falsa - Il viaggio in carrozzaletto - Le Raincy - La stirerìa di Bianca - Camilla Ravera "Ciondolino" e Salgari - La lezione di politica - La nascita di mio fratello - Boulevard Voltaire - A scuola dalle monache Girotondi e canzoni francesi - Le biglie - Il mio precoce ateismo Guignol e il "garde-champêtre" - La giostra - I caffè parigini "Croissants" e "canards" - Le severe regole della vita cospirativa - Saper ricordare e saper dimenticare - Le "leggende" da mandare a memoria - Due memorie: una per le cose altrui, l'altra per le cose proprie - Le "riunioni" - Ercoli (Togliatti) e la Marisa (Rita Montagnana) - La mia amicizia con Togliatti Stefano (alias Carlo Roncoli: Mario Montagnana) e la Stefania Nicoletti (Di Vittorio) e Garlandi (Ruggero Grieco) - La macchina da scrivere, la penna stilografica ed il fornellino Meta Verso la metà del 1929 giunse la notizia che i genitori mi rivolevano con sé, e che presto sarei partito per la Francia. Come poi seppi, mia madre era tornata da Mosca a Parigi nel febbraio del 1929. Rivisto mio padre, era rimasta subito incinta, ed a questo punto un bambino o due facevano lo stesso. La notizia mi eccitò, ma non certo per ragioni sentimentali. Dei miei genitori, anche se li avevo lasciati da meno di due anni, non ricordavo assolutamente nulla, neppure l'aspetto: coscienza e memoria si erano svegliate in me soltanto dopo che li avevo lasciati. Mi toccò quindi, quando li capitolo II pag. 2 rividi, riscoprirli: erano per me due perfetti estranei. Conoscevo ormai i nonni e le zie, ma loro no. Potei quindi osservarli, quando li ritrovai, con distacco ed occhio critico: la cosa mi aiutò. Non avevo nostalgìa per i nonni che dovevo lasciare: ormai li conoscevo, basta, rappresentavano una tappa superata. Viaggiare, cambiare, quello sì: cose nuove da scoprire! Parigi poi in quegli anni non soltanto rappresentava l'Europa, ma ne era il vero centro. Non che me ne rendessi conto, ma l'invidia degli adulti, quella sì, l'avvertivo. Non so prima dell'età cosciente, ma nei miei ricordi infantili, per quanto cerchi, non trovo traccia di nostalgìe affettive o di legami sentimentali. Feci l'esperienza di tali sensazioni soltanto assai più tardi, verso i tredici-quindici anni, e soltanto nei riguardi delle mie infatuazioni femminili, mai nei confronti di genitori o parenti. Questi ultimi mi sono sempre apparsi tutto sommato come degli scocciatori, cui volevo bene sì (e che, dovevo forse voler loro male?), ma dalla cui tutela era necessario affrancarsi al più presto. Il giorno tanto atteso arrivò, assieme ad una giovane signora elegantissima, snella, coi tacchi alti e cappello a veletta, dal profumo conturbante ed esotico. Era una compagna svizzera, che faceva servizio di corriere per il partito tra la Francia e l'Italia. Io avrei dovuto passare per suo figlio, ed il viaggio lo avremmo fatto in carrozza-letto. Erano gli anni beati in cui avevano, sì, già promosso i visti d'ingresso (totalmente sconosciuti prima del 1914: bastava un passaporto rilasciato dalle autorità del tuo paese e potevi girare il mondo intero), ma visti e passaporti non erano ancora una cosa molto seria, e poi riguardavano soltanto gli adulti, non i ragazzi e noi bambini. I ragazzi fino ai dodici anni passavano allora le frontiere come semplice bagaglio appresso: non venivano neppure registrati nel passaporto degli adulti. E' così che potei passare dalla Svizzera in Italia nel 1927, dall'Italia in Francia nel 1929, dalla Francia in Belgio, in Germania, in Polonia, in Russia negli anni successivi, senza mai aver avuto bisogno di un documento di riconoscimento. I viaggi, quindi, erano assai più facili che non oggi, anche per i "rivoluzionari di professione" con relative famiglie: documenti falsi per i genitori, e per noialtri nulla. capitolo II pag. 3 Erano gli anni in cui Carlos Contreras, ossìa Vittorio Vidali, arrivò dagli Stati Uniti a Mosca, ove si recava per la prima volta, attraversando tutta l'Europa, munito unicamente di un misterioso documento battuto a macchina in caratteri cirillici su carta intestata dell'"Amtorg" (ente sovietico per il commercio con le Americhe) di Nuova York, con un bel timbro rotondo del medesimo sotto un testo indecifrabile. Su tale documento si erano poi accumulati visti e nullaosta delle più varie autorità dei paesi di transito. Fu soltanto alla frontiera sovietica che Vidali scoprì, non senza raccapriccio, che il misterioso documento, col quale aveva girato mezzo mondo, era una scherzosa dichiarazione d'amore della dattilografa dell'"Amtorg", alla quale aveva ovviamente spiegato che voleva andare in Russia, ma evidentemente anche fatto una corte un po' spinta. Le carrozze-letto del 1929 poi! La "Compagnie Internationale des Wagons-Lits et des Grands Express européens", fondata nel 1876 per sfruttare in Europa quanto già collaudato negli Stati Uniti da George Pullman (1831-1897), che vi aveva fatto fortuna creando le prime carrozze-letto, carrozze-ristorante e carrozze-salone, era ancora al vertice della sua fama. Con sede sociale a Bruxelles, direzione generale e commerciale a Parigi, direzione tecnica ed officine a Losanna, possedeva, tra le due guerre, circa 800 carrozze-letto, 260 carrozze-ristorante e 30 carrozze-pullman (queste ultime circolavano soltanto su alcuni percorsi). I più famosi percorsi gestiti dalla compagnìa ai tempi d'oro erano stati, prima della grande guerra, il mitico "Orient Express" (Londra - Parigi - Milano - Venezia - Trieste Zagabria - Belgrado - Atene - Sofia - Istanbul), l'"Express du Nord" (ParigiColonia-Berlino-Varsavia-Pietroburgo, con carrozze dirette anche per Amsterdam, Londra, Bruxelles e Mosca), l'"Express du Sud" (Parigi-Madrid), quello del Danubio (Parigi-Vienna), il "Train Bleu" (Parigi-Nizza). Vi erano poi il "Madrid-Barcellona", il "Parigi-Roma", il "MilanoNapoli", nonché la Transiberiana, sulla quale il servizio era stato affidato alla filiale russa dell'onnipresente compagnìa. Nell'Europa della prima metà del secolo la "CIWL" era un'istituzione, ed al suo monopolio sfuggivano soltanto le linee inglesi, nonché, tra le due guerre, i percorsi dell'impero tedesco e dell'Europa centrale (con il Berlino-Vienna-Budapest-Bucarest), controllati da una società concorrente, la "Mitropa", fondata nel 1916, in piena prima capitolo II pag. 4 guerra mondiale, dalle ferrovìe di Stato tedesche, e sopravvissuta fino alla fine della seconda guerra mondiale. Vladimir Nabokov (1899-1977), nel suo libro di ricordi ("Altre sponde", 1954), descrive l'"Express du Nord", il Parigi-Pietroburgo, con carrozze per Smolensk e Mosca, di prima della guerra del 14-18, composto di sole carrozze-letto, con carrozze-salone e carrozze-ristorante, che circolava due volte alla settimana via Berlino. Arrivati alla frontiera tedesco-russa i viaggiatori trovavano, dato lo scartamento diverso dei binari sul territorio dell'Impero russo, un treno identico al loro, con la stessa numerazione dei posti e delle carrozze, che li attendeva dall'altra parte della banchina, mentre il personale della compagnìa si dava da fare per trasferire i bagagli. Dopo la prima guerra mondiale, l’"Express du Nord" scomparve (venne sostituito da un semplice Parigi-Berlino), ma apparve per contro un altro grande percorso, il Roma-Milano-Basilea-Amburgo-Copenaghen-Stoccolma, con vetture per Genova, Venezia e Brindisi. E invece della Transiberiana si ebbe per un certo periodo, negli anni venti, un servizio Shangai-Nanchino-Pechino gestito dalla compagnìa. Tornando ai miei ricordi, la carrozza-letto del Torino-Parigi mi piacque subito. Corridoio con passatoia, gabinetto ben pulito, una cabina tutta mogano e ottoni, con larghe cuccette sovrapposte che ti facevano sentire un navigatore, mentre il moto del treno creava anche il rollìo. Caldi i colori: marrone scuro la carrozza (non blu notte come più tardi), rossicci i mogani, crema la passatoia, gialli gli ottoni. E poi i letti morbidi, le coperte soffici, le tendine ovunque, le luci smorzate, il vaso da notte, la pesante lampada da tavolo in ottone, con l'abat-jour di perline di vetro, la "veilleuse" blu, il lavandino con acqua calda e fredda! Nel 1929 le carrozze-letto della CIWL di Bruxelles erano ancora sostanzialmente quelle della "Belle époque" e dell'"Orient Express", non quelle che sarebbero successe loro dopo. Da allora ho sempre mantenuto un debole per le carrozze-letto, mezzo di trasporto individualista, confortevole (anzi, lussuoso) e peccaminoso, superato in ciò soltanto dalle cabine dei transatlantici. Ideali per viaggi in coppia, ma anche da solo. In opposizione all'aereo, mezzo di trasporto di massa, in cui si viaggia in 50, se non in 350 persone, fondamentalmente scomodo, costretto come sei a rimanere rannicchiato nella tua poltrona, e che per di più ti trasporta da un aeroporto tutto cemento, alluminio e vetro, ad un capitolo II pag. 5 altro perfettamente uguale al primo. Solo che la carrozza-letto dei buon tempi antichi è praticamente scomparsa, e le poche rimaste decadono di giorno in giorno. Comunque, per riprendere un'altra volta la carrozza-letto avrei dovuto aspettare il 1942, e sarebbe stato... in Georgia. Il Torino-Parigi arrivava alla "Gare de Lyon", stazione capolinea della "Paris-Lyon-Mediterranée" (PLM), allora compagnìa privata. La rete ferroviaria francese apparteneva ancora a diverse compagnìe, che si erano spartite in concessione l'intero territorio nazionale: è soltanto nel 1937 che vennero nazionalizzate, dando così origine alla "Société Nationale des Chemins de Fer" (SNCF). Alla “Gare de Lyon” facevano capo alcuni dei treni allora più famosi, tra i quali l'"Orient Express" ed il “Train Bleu". La stazione era molto "Belle époque" come architettura, fregi e decorazione. Qualcosa ne rimane e lo si può ancora scorgere, per esempio al ristorante. Era fine estate: agosto o settembre. Venni rilevato da due sconosciuti, i miei genitori, e dovetti salutare con un certo rimpianto la mia madre falsa: elegante e misteriosa, aveva vellicato in me qualcosa di inconscio, ma già ben presente. (Più tardi fu un fantasma che occupò un posto importante nelle mie fantasìe masturbatorie). Mi fecero fare un primo giro e mi portarono a mangiare al ristorante, ove mi stupì di non trovare il risotto: è che dovevamo riprendere il treno. Non stavano a Parigi, ma a Le Raincy, un paesino di qualche migliaia di abitanti, a tredici chilometri da Parigi sulla linea di Meaux. I treni per Le Raincy partivano dalla "Gare de l'Est" ed erano i treni parigini tipici della "Petite Ceinture": piccole locomotive antiquate ma molto simpatiche trasportavano carrozze scure piuttosto lercie, a due piani, in lastre di ferro chiodate, con scalette interne alle due estremità. Naturalmente volli salire al secondo piano, che appariva un po' basso e schiacciato ai lati, dalla parte dei finestrini, per via della curvatura del soffitto: quindi più misterioso. Il quartierino di due stanze era al piano rialzato di una villetta, e dava su un giardino molto ombreggiato, con piante di lampone e ribes ed una cagnetta bianca a pelo folto che apparteneva alla padrona di casa. Ricordo che per il mio arrivo ci fu offerto il tè, con delle cialde stampate di foggia varia, ripiene di marmellata solida, una specie di cotognata. Cagnetta e cialde, così come le carrozze a due piani, le ricordo benissimo: ma i genitori capitolo II pag. 6 no, la loro immagine è ancora sfocata, la metterò a fuoco soltanto qualche mese più tardi, a Montreuil. Avvicinandosi per mia madre il momento del parto, venni trasferito per qualche settimana ad abitare presso la Bianca, la moglie di Edo (Edoardo D'Onofrio), che gestiva una stirerìa poco lontano da dove stavamo noi. D'Onofrio, già responsabile del Centro interno, era stato arrestato in Italia l'anno prima, e la Bianca, lasciato il figlio dalla nonna, era arrivata a Parigi. Il partito le aveva dato l'incarico di mettere su, con i soldi del partito, una tintorìa-lavanderìa che avrebbe dovuto fungere da recapito clandestino per il lavoro con l'Italia. Tale recapito era conosciuto da pochissime persone: in pratica soltanto da Camilla Ravera, nuova responsabile del Centro interno, che da lì a poco sarebbe partita anche lei per l'Italia, dal "fenicottero" Duccio Guermandi, che assicurava i collegamenti, e da mia madre, ex stiratrice, che avrebbe dovuto insegnare alla Bianca - digiuna - a stirare in modo professionale. Perché col lavoro della stirerìa la Bianca doveva anche mantenersi, ed inoltre il recapito non doveva destare sospetti, quindi essere un laboratorio in piena regola. Fu dalla Bianca che conobbi la Camilla Ravera, e questo incontro ebbe una certa importanza per la mia formazione. Camilla Ravera (allora per me come per tutti la Silvia), nata nel 1889 (visse poi a lungo, che sarebbe morta nel 1988 a novantanove anni), già iscritta al PSI dal 1918, a Livorno era passata al PCI, e ne era stata eletta a far parte del Comitato centrale al Congresso di Lione del 1926. Dopo le leggi eccezionali e l'arresto dei maggiori dirigenti del partito, aveva nel 1926-27 diretto il Centro interno. Emigrata nel 1927, era stata rappresentante del PCI presso l'Internazionale nel 1928, e destinata poi nuovamente alla guida del Centro interno nel 1929. Sarebbe tornata in Italia all'inizio del 1930 e vi sarebbe stata quasi subito arrestata, su denuncia di un agente provocatore, nel luglio del 1930. A succederle sarebbe stato mandato, all'inizio del 1931, Pietro Secchia, che sarebbe stato anche lui arrestato nell'aprile dello stesso anno. Entrambi sarebbero rimasti in carcere e poi al confino fino al 1943. Preparandosi al prossimo rientro in Italia è chiaro che nel punto di collegamento col paese (da dove partivano le istruzioni e la stampa clandestina, e dove arrivavano le informazioni) la Silvia era per così dire di casa. Ciò che succedeva dietro le quinte non lo sapevo ma la Silvia la vedevo spesso. Severa, con i capelli già ingrigiti, portava gli occhiali ed allora mi capitolo II pag. 7 sembrava alta. Era stata maestra, non si era mai sposata, e non le si conoscevano relazioni maschili. Aveva allora quarant’anni, contro i ventinove dei miei genitori, e mi intimidiva. Ma credo mettesse soggezione un po' a tutti, salvo forse a Togliatti. Della maestra di scuola che era stata qualcosa le rimase per tutta la vita. Si occupò quindi anche di me: andando a scuola in Francia avrei facilmente dimenticato l'italiano. Bisognava sfruttare il fatto che sapessi già leggere, e farmi leggere in italiano, subito, ed il più possibile. Per prima cosa mi regalò un altro libro tutto per me, "Ciondolino", che rilessi spesso e conservai poi per lunghi anni, e consigliò ai miei genitori di ricorrere, affinché la lettura non mi venisse a noia, a Salgari, visto che le avventure mi piacevano. Rammentatevi che non avevo ancora sei anni! "Ciondolino" (1895), di Luigi Vamba (Luigi Bertelli, 1859-1920), era un libro delizioso. Dopo i "Viaggi di Gulliver", per mari e paesi, ecco ora un viaggio nella natura, tra le formiche e gli altri abitanti del sottobosco. L'autore, buon giornalista e scrittore per l'infanzia abbastanza noto, aveva chiaramente preso ispirazione dalla "Vita degli insetti" di Jean-Henri Fabre (1823-1916), famoso naturalista ed entomologo, ma anche buon scrittore, i cui libri di divulgazione ebbero a loro tempo un meritato successo. Oggi in Italia "Ciondolino" non è neppure più in catalogo, ma a me appassionò anche più di Salgari. Il lato positivo di Salgari era che non finiva mai: terminata un'avventura, ne era pronta un'altra. L'attenzione poteva essere così tenuta desta senza difficoltà, ed infatti continuavo a reclamare un volume dopo l'altro, mettendo a dura prova lo spirito di risparmio di mia madre. Perché, trattandosi di libri italiani, non si potevano prendere in prestito in biblioteca, bisognava andarli a comperare in una librerìa specializzata parigina e pagarli. Unica possibilità, passarli poi ad altri figli di compagni nelle mie stesse condizioni. Emilio Salgari (1862-1911), giornalista, a suo tempo aveva scritto più di cento romanzi (ottantasette titoli, più una ventina di apocrifi, pubblicati tra il 1893 ed il 1919), che occupano quarantasette volumi nell'unica edizione più o meno completa che io conosca (quella già del Viglongo). Non ricordo quale fosse l'edizione in cui lo lessi allora: ero pur sempre un ragazzino e non avevo ancora imparato a badare alle indicazioni capitolo II pag. 8 bibliografiche. Si trattava comunque di fascicoli in brossura abbastanza sottili, illustrati, e con la copertina di carta a più colori. Credo di averne letto in quegli anni (cioè tra il 1929 ed il 1931) almeno una quarantina. Rammento, tra i titoli, "Il corsaro nero", "La regina dei Caraibi", "Jolanda, la figlia del corsaro nero", "Il figlio del corsaro rosso", "La capitana dello Yucatan", "La città dell'oro", "Gli ultimi flibustieri", "I corsari delle Bermude", "La crociera della Tuonante", "Straordinarie avventure di Testa di Pietra", "I pirati della Malesia", "La tigre di Mompracem", "Il re del mare", "I pescatori di trepang", "I misteri della giungla nera", "Alla conquista di un impero", "Il bramino dell'Assam", "La rivincita di Janez", "Capitan Tempesta". Tra i due cicli principali, quello dei bucanieri (e dei conti di Ventimiglia) - cinque volumi - e quello della Malesia - undici volumi, preferivo il primo: più misterioso, più romantico, ed anche più comprensibile, dopo Gulliver. L'esotismo in fondo mi ha sempre lasciato abbastanza freddo. Fu con Salgari che maturai un'abitudine che non mi avrebbe più lasciato: quando mi è piaciuto un libro, vado a cercarne altri dello stesso autore, finché non li leggo più o meno tutti. Prima di trasferirmi dalla Bianca, mia madre aveva dovuto provvedere a spiegarmi alcune cose. Perché non eravamo gente come gli altri, perché eravamo braccati e perseguitati, perché in Svizzera ci avevano messo in prigione, perché in Italia dai nonni loro non potevano venirmi a trovare, perché anche in Francia era necessario stare ben attenti a quel che si faceva e tenere per sé tutto quel che si sentiva dire, o meglio ancora, non ascoltare mai le cose che non v'era bisogno di sapere. Il pericolo maggiore - proseguiva la lezione - era infatti di dire senza accorgertene qualcosa che sarebbe potuto arrivare al nemico e metterlo sulle nostre tracce: quello che invece non sai non lo potrai mai riferire, neppure per sbaglio. Se eravamo perseguitati e braccati, era perché eravamo comunisti, perché volevamo fare come in Russia: far sì cioè che i campi appartenessero ai contadini e le fabbriche agli operai. Se no succedeva che operai e contadini lavoravano da mattina a sera, ma rimanevano sempre poveri, perché la maggior parte del frutto del loro lavoro andava ai padroni. E ciò non era giusto. Avendo poi i soldi, i padroni avevano anche il potere, e quindi Stato e polizìa erano al loro servizio. In Italia, coi fascisti, i comunisti venivano ammazzati e messi in prigione, in Francia ci si limitava ad ostacolarli in tutti capitolo II pag. 9 i modi e ad espellerli quali stranieri indesiderabili ogni volta che si poteva, fornendo inoltre alla polizìa italiana informazioni sul loro conto e sulla loro attività. In tutti e due i casi sempre in mezzo al nemico ci trovavamo, e dovevamo comportarci di conseguenza. Qualche approfondimento sociologico però lo chiesi. E le zie, chi erano? Non erano né operaie, né padrone che facessero lavorare gli altri. Mamma (le spiegazioni toccavano sempre a lei) dovette spiegarmi che nonni e zie erano piccoli commercianti, che comperavano ad un prezzo per rivendere ad un prezzo maggiorato. Se vendevano agli operai, e volevano guadagnare di più, finivano per togliere troppo agli operai, che già avevano poco. Se invece vendevano ai ricchi, potevano guadagnare di più e stare anche bene, ma quel che lucravano era sempre parte di qualcosa che era stato tolto agli operai, per cui avevano interesse a che le cose non cambiassero. Quindi i commercianti non avrebbero mai aiutato gli operai a togliere i campi e le fabbriche ai padroni. Il discorso, anche se un po' populista, era semplice, lineare e neppure tanto sbagliato. Era semmai la ricetta per cambiare le cose che in futuro avrebbe suscitato in me qualche dubbio. Ma nel 1929 il discorso mi convinse, e mi ci misi d'impegno a fare la mia parte per aiutare i genitori "a fare la rivoluzione", o perlomeno per non creare loro ostacoli nel loro lavoro. Per tornare alla Bianca, seppi più tardi che il suo lavoro alla stirerìarecapito era finito male, non per il partito, ma per qualcuno dei coinvolti. L'unico compagno che frequentava la stirerìa, oltre alla Silvia ed a mia madre, era il "fenicottero" Duccio Guermandi, e lo faceva anche spesso, per forza di cose. Bianca era sola, il marito era in carcere, gestire un recapito clandestino ti mette sotto tensione continua, e nessuno con chi sfogarti. Successe il fattaccio: Guermandi finì per "consolare" la Bianca. Il guaio è che il marito, Edo, venuto a saperlo in carcere, la prese male: come, mentre io sto in galera, debbono essere proprio i compagni a mettermi le corna? D'Onofrio sarebbe stato in futuro assai più tollerante, ma per il momento era ancora molto giovane. Non so se rivide la Bianca quando uscì dal carcere qualche anno dopo, ma quel che è certo è che con lei non si rimise, nonostante il figlio. Conobbi più tardi Luigi, detto Duccio, Guermandi, uno dei migliori "fenicotteri" che abbia mai avuto il partito (tra tutti i clandestini, i fenicotteri capitolo II pag. 10 erano i più clandestini, e se ne capisce il perché). Più o meno dell'età dei miei genitori (doveva essere del 1900 o del 1901), morto a Milano negli anni 70, Guermandi era stato dirigente della FGCI, studente della scuola leninista a Mosca ed era poi passato a fare il funzionario illegale del partito, trovandovi la sua vocazione. Riuscì infatti a svolgere ben tredici missioni illegali in Italia, andando e tornando dall'estero, senza mai farsi beccare! Credo che la prima volta che capitò in carcere fu nel 1944 a Milano, quando a San Vittore, sotto i tedeschi, divenne amico del padrone della SNIA Viscosa Franco Marinotti, anche lui arrestato. Forse era facilitato nel suo compito dall'aspetto perfettamente insignificante: nessuno si accorgeva né si ricordava di lui. Ottimo compagno, non era un prodigio di intelligenza, e dei suoi limiti era ben conscio. Piccolo di statura, bruttino, era tutt'altro che un Adone. Aveva però una parlantina discretamente sciolta, avvolgente ed insinuante. Rimase scapolo, e quando morì abitava da sua sorella. Mi disse una volta, con una punta di malinconìa, di non aver mai voluto legami stabili non soltanto per la vita che conduceva, ma anche perché sapeva quanto fosse facile indurre una donna in tentazione, e quanto le donne avessero bisogno di essere tentate per sentirsi tali. * * * Il 29 dicembre 1929 in una clinica privata, poco lontano dalla prigione della Santé ove sarei andato, dieci anni più tardi, a trovare mio padre arrestato, nacque mio fratello. Ricordo la sala d'aspetto e l'orologio elettrico al di sopra della porta: il fratellino nacque alle diciotto e dieci. Prima di entrare in clinica mia madre aveva fatto in tempo, mentre ero dalla Bianca, a traslocare da Le Raincy a Parigi, in boulevard Voltaire, nell'XI arrondissement, tra la Nation e place de la République, vicino alla stazione del métro Oberkampf. Pochi giorni dopo ci trasferimmo tutti quattro, neonato compreso, nella casa nuova. Per i primi tempi ad occuparsi di mio fratello dovette ovviamente essere mia madre. Ben presto però l'incarico sarebbe passato a me. Nel frattempo dovevo recuperare il tempo perso tra arrivo, traslochi, libri italiani e parto, e darmi da fare per imparare al più presto il francese ed andare a scuola. Si pensò bene di mettermi a tale scopo in una scuola privata, capitolo II pag. 11 gestita dalle monache (ma tanto, dalle suore ero già stato in Italia), in cui farmi impartire un corso intensivo di lingua e cultura francese. La scuola era - caso strano - mista (forse perché scuola materna?), mentre la futura scuola comunale di Montreuil sarebbe stata solo maschile. Si trovava poco lontano da casa nostra, in un vecchio edificio ben tenuto, con un bel cortile per giochi e ricreazioni. Mi misi di buzzo buono a fare le aste - in francese - ed a seguire le lezioni. Il francese lo imparai, ricordo bene, in due mesi, ed il veicolo fondamentale furono, secondo me, a parte il colloquio di giorno in giorno più facile e più spinto coi compagni di scuola, i girotondi e le vecchie canzoni francesi. I girotondi (sempre su motivi di vecchie canzoni del 600 e del 700) erano infatti parte integrante delle nostre ricreazioni. Arie e parole, con qualche strappo, mi frullano ancor oggi in testa. "Savez-vous planter les choux, à la mode, à la mode - Savez-vous planter les choux, à la mode de chez nous?”. "Frère Jacques, frère Jacques, dormez-vous, dormez-vous? Sonnez les matines, sonnez les matines, din dan don, din dan don". "Dansons la capucine, il n'y a pas de pain chez nous - Il y en a chez la voisine, mais il n'est pas pour nous". "Il faut te marier, papillon couleur de neige - Il faut te marier par devant le vieux mûrier". "Il était une bergère, et ron et ron, petit patapon, il était une bergère qui gardait ses moutons". "Ainsi font, font, font les petites marionettes - Ainsi font, font, font leur petit tour et puis s'en vont". "Ah, mesdames, voilà du bon fromage - Voilà du bon fromage au lait, il est du pays de celui qui l'a fait". E poi le vecchie canzoni del 700 francese, divenute ormai canzoni infantili che si cantavano in coro. "Sur le pont d'Avignon, on y danse, on y danse - Sur le pont d'Avignon, on y danse tout en rond". "Au clair de la lune, mon ami Pierrot - Prête moi ta plume pour écrire un mot". "J'ai du bon tabac dans ma tabatière, j'ai du bon tabac, mais t'en auras pas". "Il pleut, il pleut bergère - Rentre tes blancs moutons...". "Malbrough s'en va en guerre, mironton, mironton, mirontaine - Malbrough s'en va en guerre, qui sait quand reviendra". "En passant par la Lorraine, avec mes sabots - Avec mes sabots, tontaine, avec mes sabots...". "C'est le bon roi Dagobert, qui a mis sa culotte à l'envers...". "Il était un petit navire, qui n'avait ja, ja, jamais navigué. Ohé, ohé, matelots...". "C'est la mère Michel qui a perdu son chat - capitolo II pag. 12 Qui crie par la fenêtre qui est-ce que lui rendra". Sono testi nitidi, classici, trasparenti, proprio quel che ci voleva per imparare una lingua genuina. Altri ricordi della mia prima scuola francese: la preghiera prima delle lezioni (con uno strano rito: le bambine dovevano giungere le mani, i maschi incrociare le braccia, ripetendo la preghiera a mezza voce). Il giorno in cui mi si chiese, poiché dovevamo esibirci, in non so quale occasione, davanti ad un pubblico di genitori, di aprire sì la bocca durante il canto, assieme a tutti gli altri, ma di non emettere suoni, perché troppo stonato... E poi le biglie, durante le ore di ricreazione: biglie opache di ceramica, biglie di vetro lucide, biglie di varie dimensioni, e quelle più belle, fantasmagoriche, con una specie di spirale multicolore all'interno. Tutte da giocare e vincere, se ci riuscivi. Infine i miei primi ragionamenti ateistici. Era successo che prima di mandarmi in una scuola gestita da religiose, e sapendo che in Italia ero già stato dalle suore, mia madre aveva creduto bene chiedermi cosa pensassi di Dio. Tranquillamente, gli avevo replicato: "E tu?". Sbalordita, ma anche sollevata, mi aveva detto che secondo lei Dio non esisteva, in quanto non si spiegherebbe sennò come mai permettesse tante ingiustizie, e che probabilmente la sua asserita esistenza era una scusa per tener buona la gente, e far sì che non si mettesse a far giustizia da sé. Le replicai che questo era pure il mio parere, in quanto avevo notato - dissi - che si tirava sempre in ballo Dio od il tuo preteso "dovere" ogni volta che si trattava di farti fare qualcosa di spiacevole; oppure, al contrario, di impedirti di fare una cosa piacevole. Mia madre rimase perplessa, ma per quella volta accettò la provocazione, chiedendomi solo, a scuola, di non sbandierare, se non richiesto o provocato, il mio pensiero, per non offendere eventuali sentimenti altrui. Solo che un bel giorno, tra ragazzini, giocando, si venne a parlare dell'argomento. Finché si trattava di tacere, era facile (durante la preghiera, con le braccia incrociate, mi limitavo a tenere la bocca chiusa), ma qua avrei dovuto dire il falso. Replicai quindi che, per me, Dio non esisteva. Sgomento. "E se c'è, dov'è?" "Ma in cielo". "E quando piove che fa? Si bagna il culo?". Non riferirono niente a nessuno, la solidarietà tra compagni di scuola contro il mondo degli adulti non essendo in Francia parola vana, ma mi guardarono straniti. Poco dopo ci trasferimmo a Montreuil, e lasciai la scuola privata per quella comunale. capitolo II pag. 13 Erano questi i mesi in cui mia madre, tra allattamento e pannolini, era piuttosto impegnata con mio fratello, e toccava quindi a mio padre portarmi a spasso. Ricordo di quel periodo il teatrino di "Guignol" ai giardini del Lussemburgo, con l'immancabile "garde-champêtre" ed i lazzi di prammatica: un altro modo per impossessarmi della lingua. Mio padre sopportava, e stavamo lì delle ore, finché non era esaurito il programma del giorno. Dopo un po', conoscendo a memoria la trama, potevo anche anticipare le repliche. Vi era poi la mia passione per così dire sportiva: la giostra coi cavalli di legno. I "chevaux de bois" a Parigi sono una tradizione: è una giostra con due file di cavalli, che girando si alzano e si abbassano alternativamente lungo un palo. Sul diametro esterno della giostra è fissato ad un certo punto un aggeggio che reca, infilati l'uno dopo l'altro in una scanalatura e sospinti da una molla, una serie di anelli metallici di circa tre centimetri di diametro, di cui il primo sporge. Quando sali in "groppa" al tuo destriero ti consegnano uno "spadino", un'asta metallica lunga una trentina di centimetri, con un'impugnatura di legno. Si tratta, quando la giostra sarà in moto, sporgendoti il più possibile e aggrappandoti all'asse verticale del cavallo per non cadere, di tentare, ad ogni passaggio, di infilzare l'anello sporgente, subito sostituito da quello che segue. Chi ne raccoglie un certo numero ha diritto, al termine della corsa, ad un "sucre d'orge", bastoncino di zucchero candito, od a un "nougat", il torrone morbido di Provenza. Debbo dire che ero abbastanza bravo, e mi lasciavo andare, sul mio cavallo di legno, ad esercizi di torsione abbastanza spericolati pur di infilzare il maggior numero di anelli. Quando riuscivo a non perdere un colpo, ed a sganciare un anello ad ogni giro, ero piuttosto fiero. Durante quelle passeggiate avevo fatto conoscenza con gli autobus parigini. Erano molto caratteristici. Anzitutto, l'autista, come già il cocchiere di una volta, era collocato all'esterno del salone, sotto una tettoia sì, ma all'aria aperta, su un sedile a spalliera collocato al di sopra del cofano del motore, con un vetro di protezione davanti come riparo dal vento e dalla pioggia. Gli autisti per proteggersi dalle intemperie portavano un grosso giaccone di cuoio nero. Il cofano aveva anch'esso l'aria buffa: sulle vetture più antiche era ancora quello classico delle "Renault" di una volta, senza radiatore visibile, su quelle allora più diffuse aveva invece un radiatore, ma capitolo II pag. 14 rotondo, e diviso in tre segmenti. I cerchioni delle ruote erano spesso ancora rivestiti di gomma piena massiccia, senza camere d'aria. All'interno il salone, non tanto grande, era diviso in tre sezioni: subito dopo il vetro che lo separava dall'autista veniva la prima classe, coi sedili imbottiti di similpelle, poi la parte centrale vuota, destinata ai passeggeri in piedi, e la seconda classe, con panchine di legno. Dietro il salone, in fondo all'autobus, stava la parte più interessante, la piattaforma dalla quale si accedeva al salone, con i posti in piedi all'aperto. La piattaforma, con un tetto ma aperta sui tre lati, a mo' di balcone, e con l'ingresso chiuso da una catenella, era il dominio incontrastato del fattorino. Egli vendeva i biglietti, e li convalidava con una apposita macchinetta rettangolare metallica fissata alla cintura, inserendo il numero dei tagliandini necessari (ne occorrevano da due a cinque, secondo il percorso) in una apposita fessura, e girando poi un'apposita manovella dal caratteristico rumore di raganella per convalidarli. I tagliandini era lunghi circa tre centimetri, e larghi mezzo. Si potevano acquistare sia sciolti (il fattorino ne portava una striscia arrotolata in un aggeggio a molla fissato sulla cinghia del borsone), che in "carnets" di venti, ove la striscia, più corta, era ripiegata a fisarmonica. Il fattorino, anzi il "receveur", toglieva e rimetteva inoltre la catenella che chiudeva l'accesso alla piattaforma, e dava all'autista il segnale della partenza, tirando con forza il pomello della catenella di segnalazione che pendeva a sinistra dell'ingresso, in tutto e per tutto simile a quella degli sciacquoni. Dava inoltre una mano, sganciando con l'altra la catenella di chiusura, per aiutare a salire eventuali ritardatari che tentassero di acchiappare al volo l'autobus già messosi in moto. Se salone e piattaforma erano pieni, spettava al fattorino far ruotare una tabellina con la scritta "complet", posta al di sopra dell'ingresso. La piattaforma era piuttosto bassa, distava dal suolo non più di una trentina di centimetri, e l'accesso era facilitato da uno scalino che pendeva sotto l'ingresso. Su di essa ti trovavi, se non v'era troppa gente, in una situazione ideale: scarrozzato attraverso la città, ma al tempo stesso immerso dentro essa, soprattutto nelle vie più strette, tra passanti e pedoni, in mezzo ai carri ed ai cavalli che ti passavano accanto , alle biciclette che sfrecciavano ai lati, agli "agents de police" che regolavano il traffico, ai venditori capitolo II pag. 15 ambulanti che strillavano la loro mercanzia, una meraviglia. Ogni quartiere, ogni strada era un mondo a sé, diversa dalle altre, con le sue caratteristiche. Era un po' come viaggiare in carrozzella, ma meglio, perché stavi più giù, più vicino alla gente ed alle tante cose curiose. E' uno dei ricordi migliori di Simenon, ma è anche mio. Naturalmente, quegli autobus non vi sono più. Oltre agli autobus, vi erano i tram e soprattutto il "métro", la metropolitana parigina. Ma i tram collegavano soprattutto Parigi con la banlieue. Al centro erano stati tolti quasi dovunque, mentre la metropolitana in quel periodo mi capitò di prenderla poco. Ne feci una conoscenza approfondita in seguito, per cui ne riparleremo più tardi. Ricordo però "le métro qui sort de son tunnel", e cioè il passaggio del treno della metropolitana, su alcune linee, dal sottosuolo a sezioni sopraelevate, specie di vìadotti in grosse travi di ferro chiodate, sul tipo di quelle della torre Eiffel: dall'alto di essi potevo, dal finestrino, guardarmi dall'alto la città, i viali alberati ed il traffico che scorreva sotto di me. Traffico di altri tempi, ovvio, con poche automobili, parecchie biciclette ed ancora molti carri a cavallo, in mezzo agli ippocastani. All'epoca infatti molti dei tipici negozi parigini a succursali multiple, "Nicolas" per i vini, "Félix Potin" per gli alimentari, le latterìe e le birrerìe usavano ancora carri a cavallo per i rifornimenti quotidiani. Quindi anche "crottins" (sterco) e le frotte di "moineaux" (passeri) pigolanti nel bel mezzo della strada. Sopravvivevano anche i "fiacres", i vetturini, ma erano già pochi, sostituiti dai loro diretti eredi, quei caratteristici tassì parigini degli anni 20, col telone ripiegato all'indietro, che in caso di pioggia si tirava su, coi passeggeri impettiti sul sedile posteriore. La domenica infine, dopo aver preso il tram, si poteva uscire tutti assieme, poppante compreso, per andare a "mangiar fuori": in una di quelle caratteristiche trattorìe sparse un po' ovunque lungo la Senna, la Marna, l'Oise, i loro affluenti e gli innumerevoli canali navigabili. Là, all'aria aperta, "au bord de l'eau", ti servivano sotto un pergolato deliziose "fritures" di pesciolini piccoli piccoli, ma saporitissimi, "pommes frites", insalata ed un vinello bianco acidulo più o meno locale, il tutto con modestissima spesa, mentre davanti passavano, in mezzo al verde, pigre e lente, le "péniches" (chiatte) bianche e nere dei "mariniers". Altro ricordo delle trattorìe o ristoranti alla buona di Parigi e "banlieue" sono i "mendiants" (mendicanti). capitolo II pag. 16 Si trattava di involtini, più spesso scatolette di cartone triangolari e la finestrella di cellofan, con dentro un po' di frutta secca: nocciole, mandorle, spagnolette, un rametto d'uva passa, a volte un fico secco: noci no, ch'erano care. Insomma il "dessert" più a buon mercato che esistesse: ma a noi bambini piaceva, che v'era da lavorarvi. * * * E' in quell'anno, nel 1930, che comincio gradualmente a conoscere i "compagni" del Centro estero. Le occasioni d'incontro sono due: gli appuntamenti nei caffè parigini (un bambino semmai distoglie l'attenzione), oppure le "riunioni". Queste non si tengono mai in casa (gli indirizzi privati dei singoli compagni rimangono rigorosamente ignoti ai più), ma nelle salette interne di caffè tenuti da compagni francesi, od in uffici vari, più o meno legali, che cambiano sede di frequente. Dei caffè parigini conservo il ricordo dei "croissants" al burro, croccanti ma non dolci, anzi salati, di pasta sfoglia, da mangiare col "café crème" o la cioccolata; delle "grenadines" e delle "panachées" (birra mista a gassosa) che dissetano d'estate; dei "canards", cubetti di zucchero bagnati nel caffè nero - qualche volta addirittura nell'acquavite di frutta! - e dati da succhiare quale anticipo su future delizie adulte; delle immancabili uova sode sempre pronte sul banco. Vino o aperitivo, no: li potrò gustare soltanto più tardi, nel 1938, ora chiaramente non me ne danno, e non ho i mezzi per procurarmene di nascosto. Gradualmente mi impadronisco anche delle severe regole della vita cospirativa, che per tutti noi dovevano divenire, per essere veramente efficaci, una seconda natura. La prima di queste regole era di essere altrettanto bene in grado di ricordare le cose quanto di dimenticarle. Vediamo di fare un esempio. Dal settembre del 1929 all'inizio del 1931 stetti prima a Le Raincy, poi dalla Bianca, poi a Boulevard Voltaire, da dove saremmo passati nella primavera del 1930 a Montreuil, e all'inizio del 1931, con mio fratello, da Mamy a Bougival. Una media quindi di cinque trasferimenti in un anno e mezzo, di cui alcuni anche in rapida successione. Frequenti traslochi e trasferimenti erano la regola: si raccomandava di non passare mai più di un trimestre (il "terme" d'affitto), al massimo due, al capitolo II pag. 17 medesimo indirizzo, per far perdere meglio le tracce. Per la stessa ragione si affittavano di solito appartamentini o camere mobiliate. Ma assieme alla casa non si cambiava soltanto indirizzo, si cambiava tutta la biografìa: cognome dei genitori, professione del padre (doveva essere tale da giustificare una breve permanenza e possibili viaggi), la posizione della madre, la propria storia (da dove venivi, che scuola avevi fatto, ecc.), spesso anche la nazionalità. Bisognava quindi, a partire da un certo giorno, mandar bene a memoria la nuova "leggenda" e dimenticare totalmente quella precedente, stando attento a non confonderti: né con la portinaia, né col panettiere, il lattaio od i bottegai del nuovo quartiere! I compagni del Centro estero, a differenza degli altri emigrati antifascisti, praticamente vivevano tutti quanti con documenti più o meno falsificati, che di solito venivano forniti loro dai compagni francesi, oppure erano pure veri, ma rilasciati sulla base di altri documenti, che essi invece erano falsi. Evidentemente, non si poteva dirigere il lavoro illegale in Italia e vivere in Francia con il proprio nome: l'asilo politico prevede sempre l'astensione da ogni forma di attività politica, ed i compagni del Centro estero erano invece in Francia proprio per "far politica"! Se individuati, o anche solo sospettati, essi potevano essere espulsi, o “refoulés" quali "indesiderabili". La differenza era questa: il decreto di espulsione era di competenza del Ministero degli interni francese, doveva essere motivato, e contro di esso era ammesso ricorso. Di solito veniva emesso per accertata violazione delle leggi sul soggiorno degli stranieri in Francia. Il "refoulement" invece era misura puramente amministrativa, applicabile a qualsiasi straniero il cui comportamento non fosse di gradimento delle autorità di polizìa francesi, non richiedeva motivazioni e contro di esso non era ammesso ricorso. Quando capitava, i compagni venivano accompagnati dalla polizìa alla frontiera (si lasciava però loro la scelta di quest'ultima) e sbattuti dall'altra parte del confine. Da dove naturalmente dopo un po' sarebbero tornati, con una nuova identità. Quanto detto non significava che i nostri compagni dovessero per forza cambiare documenti ad ogni trasloco. Anche i documenti falsi costano fatica e lavoro, e poi allora i documenti non avevano l'importanza che avrebbero assunto in seguito: nessuno ti chiedeva i documenti ad ogni pie' sospinto. capitolo II pag. 18 Credo che per i francesi non fosse neppure obbligatorio il possesso di documenti di identità. Si aveva l'obbligo (per i residenti: ciò non valeva evidentemente per gli stranieri di passaggio) di giustificare la propria identità unicamente in due casi: se capitavi in una retata della polizìa o se venivi fermato dalla medesima. Ed anche in questo caso non era obbligatorio esibire un documento: bastava produrre due testimoni che testimoniassero che tu eri il tal dei tali. Ovviamente, a quelle due possibilità si cercava di sfuggire in ogni modo, per evitare che durante i controlli venisse fuori che i tuoi documenti avevano qualche pecca. Ma in tutti gli altri casi: per affittare una casa, per partorire, per dichiarare un figlio allo Stato Civile, per iscrivere il bimbo a scuola o metterlo in pensione, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di chiederti un documento. Si poteva vivere per anni e anni senza avere l'occasione di esibire i propri documenti, veri o falsi che fossero. Quindi tutto il problema stava nel non far sorgere sospetti sulla storia e l'identità spacciate per buone. La tua sicurezza dipendeva in primo luogo dalla tua prudenza e dalla tua memoria: la vita cospirativa non tollera distrazioni. Un'altra regola concerneva l'uso di pseudonimi. I nomi veri erano assolutamente fuori corso nell'illegalità, ed il segreto era assai ben custodito. Io per anni frequentai buona parte dei compagni del gruppo dirigente, ma conoscendoli sempre e solo sotto il loro nome di battaglia, mai con quello vero. Di parecchi di essi (Dozza, Berti, Novella, Maggioni, Vidali, Regent) il nome vero lo seppi soltanto dopo la liberazione. Per Togliatti e quelli di Mosca, Grieco, Cerreti, Amadesi, Marchi, un po' prima, nel 1943, dopo il 25 luglio. Le cose cominciarono a cambiare soltanto a partire dal 1937-38, quando, col fronte popolare, si cominciò a fare qualche strappo alla regola, soprattutto per i compagni usciti di prigione, come Sereni, Amendola o Bibolotti. Gli stessi membri del Centro estero, se non avevano conosciuto già prima i compagni coi quali lavoravano, ne ignoravano il nome vero. Gli pseudonimi potevano anche essere più di uno, se si svolgevano attività diverse: Allard (Giulio Cerreti) ad un certo momento ne ebbe addirittura cinque. Questi pseudonimi erano validi unicamente per l'uso di partito: essi non avevano nulla a che fare coi nomi indicati nei documenti falsi. Anche perché erano nella maggior parte dei casi noti alla polizìa fascista, che capitolo II pag. 19 sorvegliava da vicino l'attività del PCI all'interno ed all'estero. Gli pseudonimi di partito venivano quindi usati soltanto nelle riunioni di partito, o per firmare lettere, e negli articoli a stampa. Soltanto nell'URSS lo pseudonimo di partito diveniva improvvisamente il tuo nome legale: i documenti sovietici erano sempre intestati al tuo pseudonimo di partito! Un compagno dell'apparato di partito veniva così ad avere almeno tre nomi: il nome vero, ignoto ai più, quello di battaglia, e quello indicato nei documenti falsi di turno. Il mio addestramento al saper ricordare ed al saper dimenticare doveva produrre in me un fenomeno curioso, lo sdoppiamento della mia memoria in memoria per sé e memoria per gli altri. Venivo cioè ad avere due memorie: una per le cose esterne, da ricordare con esattezza e precisione, ma soltanto finché fosse necessario, per poi dimenticarle di colpo non appena non servissero più (dimenticavo di dire che qualunque appunto scritto era tassativamente vietato, sempre); l'altra per le cose che ti stanno a cuore e che ti hanno colpito, che sono cose tue e che ti porterai dietro. Non ricordo nulla delle mie false identità, ma ricordo benissimo me. La netta e precoce separazione tra le due è probabilmente anche all'origine del fatto che la mia memoria interiore sia piuttosto buona: non fu mai intasata da cose inutili o superflue, che venivano automaticamente passate nella memoria esterna, e da lì scaricate non appena possibile nel dimenticatoio. Come già dissi, l'occasione maggiore degli incontri che ebbi coi compagni in quel periodo era data dalle "riunioni", di cui sospetto che molte fossero riunioni di redazione di "Stato operaio", e che proprio nel corso di esse venisse in quegli anni elaborata la politica del partito. "Stato operaio", rivista ideologica del partito, era stata fondata nel 1923 ed aveva ripreso le pubblicazioni a Parigi a partire dal 1927. Vi uscì regolarmente fino allo scoppio della guerra, nel 1939. La dirigeva Ercoli (Togliatti), che ne rimase direttore fino al 1934, quando dovette passare al lavoro dell'Internazionale. La rivista era mensile, veniva pubblicata in Francia legalmente ed aveva quindi una sede più o meno legale, nella quale però gli stessi articolisti non dovevano farsi troppo vedere, limitandosi a farvi giungere i propri scritti. Una parte della tiratura veniva stampata su carta sottilissima, ed era destinata ad essere spedita in Italia nei doppi fondi delle valigie truccate in dotazione a fenicotteri o consegnate a parenti, amici, capitolo II pag. 20 conoscenti vari che si recavano in patria. Le riunioni di redazione non si tenevano mai nella sede della rivista, ma sempre altrove, ed il luogo ogni volta cambiava. Oltre a "Stato operaio", stampato legalmente in tipografìa, era stata attivata, su scala abbastanza ampia, anche l'edizione clandestina di una serie di pubblicazioni roneotipate, che entravano in Italia, sotto forma di matrici, clichés o copie già pronte, nei medesimi doppi fondi delle speciali valigie dei corrieri, preparati da bravissimi artigiani nostri compagni. Dove si svolgesse la preparazione di matrici e clichés, e avvenisse la tiratura, ovviamente non lo so, ma a casa nostra qualche copia pronta arrivava. Ricordo alcuni titoli: "L'avanguardia" (giovanile), “Battaglie sindacali”, “La risaia", "Il galletto rosso" (satirico). Quest'ultimo, periodico giovanile ed antimilitarista, era una creatura di mio padre: credo che il suo nome di battaglia, Gallo, venisse proprio da lì. Era anche illustrato. Continuava inoltre ad uscire, con lo stesso sistema, un'edizione clandestina dell'"Unità". Le pubblicazioni troppo "adulte" le scorgevo soltanto, ma "L'avanguardia" ed “Il galletto rosso" ricordo che li leggevo, perlomeno nel 30-32. Di tanto in tanto mio padre, ed a volte mia madre, mi portavano con sé a qualche "riunione". La convocazione avveniva sempre a voce, tramite appuntamenti a catena. Il telefono non veniva mai usato, né allora né più tardi, nel 1938, quando si era quasi legali. A quelle riunioni partecipava un gruppo abbastanza ristretto di persone, che mi divenne ben presto familiare. Spesso non ero il solo bambino, ma eravamo in due o tre, di solito a giocare in qualche corridoio od in cortile, mentre i grandi discutevano. Dovevano esservi Franco, il figlio di Montagnana, ed Aldo Togliatti, entrambi un po' più piccoli di me, ma sinceramente non li ricordo: i bambini non mi interessavano, anche se vi giocavo. Se ero solo leggevo, rincantucciato in qualche angolino. Fu in quelle occasioni che conobbi Ercoli, la Marisa, Stefano, Garlandi, Nicoletti. A casa non ci si incontrava mai, avrebbe fatto saltare le varie coperture. Ercoli (Palmiro Togliatti, 1893-1964) aveva allora trentasette anni. Piccoletto, con la testa un po' infossata, abbastanza malvestito, aveva un ciuffo di capelli ribelli e picccoli occhi vivacissimi dietro occhiali allora di filo metallico, di quelli ricoperti da celluloide nera, con stanghette che si agganciavano dietro le orecchie. Capo riconosciuto del partito dal 1926, capitolo II pag. 21 quando erano stati arrestati Gramsci, Terracini e Scoccimarro, diresse il Centro estero dal 1926 al 1934. Dal 1924 era anche membro dell'esecutivo dell'Internazionale e dal 1928 della presidenza dell'esecutivo. Nel 1934 sarebbe passato al lavoro per l'Internazionale, e nel 1935, al VII congresso di questa, sarebbe divenuto uno dei sette membri della segreterìa, assieme a Gottwald, Manuilskij, Dimitrov, Pieck ed altri, sempre sotto il nome di Ercoli. Il suo vero nome venne reso noto per la prima volta soltanto alla fine del 1943, dopo il 25 luglio e l'8 settembre. Ercoli era sempre allegro, ed aveva sempre sul viso il suo tipico sghignazzo. Caustico, ma non velenoso, rideva spesso e volentieri, e le sue risate erano contagiose. Non ricordo di averlo mai visto serio e tanto meno imbronciato. Tra tutti i compagni era il solo al quale i bambini non dessero fastidio, e che non disdegnava di parlare e giocare con noi. Per di più aveva sempre nel taschino del panciotto un franco o due da regalarci (si portava ancora il panciotto, a quei tempi). A noi piaceva molto: ne ammiravamo istintivamente la superiorità intellettuale e ne apprezzavamo la familiarità. Sua moglie era la Marisa (Rita Montagnana, 1895-1978). Anche lei sempre allegra, ma un po' sempliciotta, mentre Ercoli era semmai mefistofelico. Sartina torinese, era entrata nel PSI nel 1915, nel PCI dalla fondazione ed aveva sposato Togliatti nel 1924. Esuberante, era un po' rompiscatole. Stefano (alias Carlo Roncoli) era in realtà Mario Montagnana (18971960), operaio metallurgico torinese, fratello minore di Rita. Era entrato nel PSI nel 1913, nel PCI dal 1921. Espatriato nel 1926, era membro del Centro estero e redattore di "Stato operaio". Più tardi sostituì mio padre quale rappresentante del PCI presso l'Internazionale nel 1934-35, e al VII congresso venne eletto membro dell'esecutivo dell'I.C.. Arrestato a Parigi nel 1939 assieme a mio padre, riuscì a partire dalla zona libera per il Messico all'inizio del 1941, e tornò in Italia soltanto dopo la liberazione. Nel 1930 aveva trentatre anni, portava anche lui gli occhiali, ma di quelli grossi, di falsa tartaruga, alla Harold Lloyd, al quale d'altronde somigliava un po'. Più alto di Togliatti, era quel che si dice un bel uomo. Parlava molto: era di quelli a cui piace sentirsi parlare, sicuri come sono che parlando ci si chiarisca le idee. (Ercoli invece parlava poco, ma ascoltava con molta attenzione. Se interveniva, era soprattutto per porre questioni o trarre conclusioni). Moglie capitolo II pag. 22 di Stefano era la Stefania (Anna Maria Montagnana), elegante, profumata e piuttosto manierata. Usava, ricordo, l'"Houbigant", un profumo allora assai di moda. Garlandi (Ruggero Grieco, 1893-1955) aveva anche lui trentasette anni. Era alto, magro, dinoccolato, con le spalle incurvate, gli occhi molto miopi, una bella testa da intellettuale, con la fronte molto ampia, i capelli neri arruffati all'insù, occhiali neri di tartaruga. Scherzava anche più di Togliatti, ed aveva la battuta feroce, che spesso gli faceva nemici. Coi bambini non sapeva come comportarsi; ne era intimidito, e tentava quindi di cavarsela facendo il sostenuto. Quando ebbi occasione di conoscerlo meglio, più tardi, scoprii che era una delle persone più buone e generose che mi fosse capitato di incontrare: timido, sentimentale, indifeso, quindi scontroso. E coltissimo. In politica molto acuto, ma anche lì, a differenza di Ercoli, indeciso, e spesso insicuro. Pubblicista meridionale, diplomato in agronomìa, nel 1919 era stato eletto membro della segreterìa del PSI. Passato al PCI a Livorno vi venne eletto membro del C.C. e della segreterìa. Nel 1924 venne eletto deputato alla Camera. Condannato in contumacia nel 1927 a diciassette anni di prigione, fu membro del Centro estero dal 1927 al 1939. Membro dell'ufficio politico tanto nel 1926 che nel 1931, dal 1934 al 1938 sostituì Ercoli quale segretario del partito, quando questi passò al lavoro dell'Internazionale. Nel 1940 Ercoli lo portò con sé a Mosca, ove fino al 1945 diresse le trasmissioni in italiano di Radio Mosca, uno dei pochi mezzi rimasti per fare giungere in Italia direttive e parole d'ordine del partito. Nicoletti era invece Giuseppe Di Vittorio (1892-1957). Bracciante pugliese di Cerignola, aveva fondato a sedici anni il Circolo socialista di Cerignola, ed a vent’anni, nel 1912, era già uno dei dirigenti della locale Camera del lavoro. Sindacalista rivoluzionario nel 1912-15, interventista nel 1915, dirigente della Confederazione Generale del lavoro e deputato alla Camera nel 1921, entra nel PCI nel 1924, ove sarà membro della sezione sindacale e di quella agraria. Espatriato nel 1926, è condannato in contumacia a Nell'emigrazione, dodici in anni di Svizzera, prigione dal Francia e Tribunale Belgio, si speciale. occupa contemporaneamente del lavoro tra gli emigrati italiani e di quello della capitolo II pag. 23 ricostituita CGL clandestina. Nel 1931 diviene membro dell'ufficio politico del partito. Nel 1936-37 Nicoletti è in Spagna, ove diviene commissario politico della XI Brigata internazionale. Sarà arrestato e internato in Francia allo scoppio della guerra, nel 1939, e consegnato nel 1941 dal governo di Vichy alle autorità italiane, che lo mandano a Ventotene. Liberato dopo il 25 luglio, nel 1944 fonderà, assieme a Bruno Buozzi ed Achille Grandi, la nuova CGIL unificata. Di Nicoletti in quegli anni ho un ricordo vago, forse perché lo vidi poco (viaggiava parecchio). In quegli anni dovrei aver conosciuto anche Botte (Pietro Secchia, 1903-1973), ma anche qua ne conservo un ricordo assai vago seppur presente. Membro dell'ufficio politico nel 1928, in rappresentanza della FGCI, e uno dei protagonisti della discussa "svolta", venne infatti incaricato quasi subito, dopo la caduta della Silvia, di riorganizzare il Centro interno. Rientrato a tale scopo in Italia vi fu arrestato dalla polizìa fascista all'inizio del 1931. Dovevo rivederlo soltanto nel 1945. * * * Molti dei miei ricordi di quell'epoca sono legati al "lavoro d'ufficio", per così dire, dei miei genitori e degli altri compagni del Centro estero. Circolari, lettere, direttive, manifestini, pubblicazioni clandestine, articoli, ecc. andavano infatti elaborati, redatti, compilati, battuti a macchina, riprodotti. Uno dei miei primi ricordi di Parigi è quindi la macchina da scrivere. Era una vecchia "Remington" portatile, sgangherata ma efficiente, gestita sopratutto da mia madre (mio padre batteva soltanto in casi di estrema emergenza, e con due dita). Solo che poneva dei problemi: una persona normale a quell'epoca non aveva bisogno di scrivere a macchina in casa, lo faceva semmai in ufficio. Chi tenesse una macchina da scrivere in casa era quindi o uno scrittore, o una persona che dava adito a sospetti. Da qua la necessità di non dare troppo nell'occhio, e di non disturbare i vicini. Anche il portarla a pulire poteva essere un problema. A parte il fatto che sarebbe costato, ed i soldi erano sempre scarsi. Ma la macchina diveniva man mano sempre più sporca... Finché un giorno mia madre sbottò con mio capitolo II pag. 24 padre: ma che razza di ingegnere sei, se non sei neppure capace di pulire una macchina da scrivere? Mio padre si decise: smontò la macchina, la pulì e la rimontò. Solo che si trovò con tre pezzi in più. Mia madre stupefatta controllò: la macchina funzionava. Scrollò le spalle: vuol dire che l'hai razionalizzata. Mio padre si portò poi dietro per anni e anni i tre pezzi famosi, nell'attesa di scoprire come rimontarli. Li aveva portati con sé a Mosca nel 1932, e li aveva ancora con sé in Francia, se non erro, nel 1938. (I pezzi erano poi semplicemente quelli che comandano la suonerìa di fine corsa del carrello: mia madre, come anch'io più tardi, non se ne serviva. Lo indovinai presto, ma stetti zitto, per non mortificare l'"ingegnere"). La macchina sopravvisse fino all'arresto di mio padre nel 1939 e di mia madre nel 1940. Poi la penna stilografica di mio padre. Mi affascinava in modo particolare, anche perché mi era severissimamente vietato toccarla, per ragioni che intuirete tra poco. Era una "JIF Waterman" color rosso mattone, con pennino d'oro. Girando l'estremità opposta al pennino, il pennino rientrava nel corpo della penna, ed alla penna, col pennino così rientrato, si avvitava allora il cappuccio. L'inchiostro vi si immetteva, a pennino rientrato, goccia a goccia, tenendo la penna rigorosamente verticale, con un apposito contagocce fissato sul tappo del flacone esagonale d'inchiostro "Idéal Waterman", che si poteva inclinare sul fianco, qualora l'inchiostro stesse per finire. Salvo il contagocce inserito nel tappo, la forma del flacone fu poi ripresa, con lievi modifiche, anche dalla "Pelikan" e dalla "Parker". Il brevetto di tale penna, rilevato dalla francese "Idéal", era ancora quello originale americano di L.E.Waterman del 1884. Non è detto fosse il sistema peggiore: era robusta, e non si scassava facilmente, non comportando parti metalliche o di caucciù. Più tardi apparvero anche "Waterman" con la pompetta interna di gomma, manovrabile tramite levetta laterale, e poi quelle a pompetta con pulsante posteriore. Il risultato pratico era però peggiore: trasferendo la pompetta dal contagocce alla penna, essa diveniva assai meno controllabile: l'inchiostro poteva schizzare, la gomma rinsecchirsi, ecc. Il modello originale, quello col pennino rientrante, richiedeva soltanto una certa attenzione nello svitare ed avvitare il cappuccio, e nel riempirla d'inchiostro. Per il resto era eterna. Soltanto la penna stilografica a stantuffo, apparsa più tardi, poteva competere con il modello del 1884 in quanto a capitolo II pag. 25 semplicità e sicurezza. Ma la "Waterman" non ne fece mai, era un brevetto tedesco. Vennero poi, nel secondo dopoguerra, le penne a sfera, poi quelle a feltro, ma questo è altro discorso: non sono penne stilografiche, servono soltanto per prendere appunti. Non hanno il pennino molleggiato, che traccia una linea più fine o più spessa secondo la pressione della mano. Gramsci era ancor più pignolo: non soltanto non ammetteva che si scrivesse un testo direttamente a macchina, né che si dettasse alla dattilografa, ma per scrivere ripudiava anche la penna stilografica: soltanto il dover intingere, a intervalli regolari, il pennino nel calamaio poteva - secondo Gramsci - permettere di riflettere, scrivendo. Togliatti invece usava la stilografica, ma non scriveva mai prima di aver formulato attentamente nella mente le proposizioni da stendere: i suoi testi autografi, scritti con una grafìa molto ordinata, recano infatti pochissime correzioni, di solito qualche aggettivo sostituito. Io invece scrivo di getto, apportando poi correzioni su correzioni, ricopio più volte, sempre a mano, e apporto sempre nuove correzioni: ho bisogno di vedere il testo per valutarlo. Ma la macchina da scrivere, comunque e sempre, deve servire unicamente per copiare un testo già scritto o corretto a mano: essa infatti impedisce di pensare. Idem per quello aggeggio infernale che è oggi il computer. Per terminare il discorso sulle penne stilografiche, sto scrivendo queste pagine con una "Waterman" che esternamente è forse la copia esatta di quella di mio padre: stesso disegno anni 20, stesso pennino d'oro morbido e flessibile, stesso color mattone. All'interno, oihmé, vi è una cartuccia di polietilene con l'inchiostro: comodissima da sostituire, ma che degradazione! Un altro strumento di lavoro che ricordo bene era il "Calendario Atlante De Agostini". So che Ercoli ne consigliava la frequente consultazione: per documentarsi, controllare dati, ecc. Per conto mio lo lessi e studiai sin da allora con interesse: la geografìa mi piaceva, ed era ricchissimo di dati, soprattutto economici. Leggevo, ricordo, anche il "Petit Larousse illustré", altro testo base di consultazione che contribuì non poco alla formazione della mia futura cultura enciclopedica. Lo usai anche per cercare ragguagli sugli autori dei libri che andavo via via leggendo, il che mi permise di "situarli" meglio nel tempo e nello spazio, o se preferite, nell'epoca e nell'ambiente. Sin capitolo II pag. 26 dai primi anni ebbi sempre un senso molto acuto tanto della geografìa che della storia: forse lo devo proprio... a Salgari. Altre cose che ricordo: la carta da macchina sottile per le copie, la carta carbone, le grosse matite colorate doppie, rosse e blu, le gomme da cancellare, i fermagli, le puntine da disegno (le "punaises"), la colla bianca di cocco, in scatola cilindrica di alluminio con coperchio e pennello all'interno, dall'odore caratteristico. Un ulteriore ed ultimo "strumento" di lavoro dei "rivoluzionari di professione" era rappresentato dal "café-filtre". Si trattava di un cilindro di ottone cromato, con bordo sporgente sotto, che si poneva su una tazza o su un bicchiere. Il fondo ne era bucherellato, mentre all'interno scorreva, a mo' di stantuffo, un'altra piastrina bucherellata, coi bordi ricurvi, dello stesso diametro interno del cilindro. Schiacciando nella giusta quantità caffè tostato e macinato giusto tra le due piastrine orizzontali, sollevando poi un po' la piastrina mobile, lasciando così spazio perché il caffè potesse gonfiare, e versandovi sopra acqua bollente, si poteva ottenere un caffè discreto, assai migliore di quello servito nei caffè parigini di allora, ed a parer mio assai più profumato di quello ottenibile con la nostra napoletana. Per il caso di spostamenti e viaggi mio padre possedeva poi un fornellino "Meta": si trattava di un piccolissimo pentolino di alluminio (giusto una tazza), da collocare sopra un fornellino, sempre di alluminio, alimentato con dei bastoncini bianchi di apposito combustibile solido, il "Meta" per l'appunto, brevetto svizzero. Sono tuttora perplesso di fronte all'immagine di mio padre che, in treno, tirasse fuori il suo fornellino, lo collocasse sul tavolino ribaltabile assieme al "café-filtre", lo accendesse con un fiammifero e si facesse il suo caffè: v'è qualcosa che non quadra, in quell'immagine, ed infatti non ricordo che di quel fornello si facesse frequente uso. Ma v'era, e questo lo tranquillizzava: avrebbe potuto farlo.