Marathon des sables - Università Popolare di Scienze della Salute

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Marathon des sables - Università Popolare di Scienze della Salute
Marathon des sables
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Guido A. Morina
Marathon des sables
Significati psicologici di un moderno rituale di iniziazione
Ebook Morina Editore
Università Popolare di Scienze della Salute Psicologiche e Sociali (UNIPSI)
Marathon des sables
Proprietà letteraria riservata.
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Prima edizione: maggio 2014
Università Popolare di Scienze della Salute Psicologiche e Sociali (UNIPSI)
Marathon des sables
Indice
Introduzione!
1
Capitolo 1°. Che cos’è la Marathon des sables!
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Capitolo 2°. La gara.!
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Capitolo 3°. Il vero protagonista della Marathon des sables: le
vesciche.!
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Capitolo 4°. Psicopatologia dell’ultrarunner!
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Capitolo 5°. Che cosa spinge persone intelligenti a compiere azioni così
stupide?!
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Conclusioni!
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Marathon des sables
Introduzione
La Marathon des sables è una competizione che si svolge da 29 anni
nel deserto meridionale del Marocco su un percorso di circa 243 km suddivisi
in sei tappe da percorrere a piedi, in quasi totale autosufficienza.
Nel corso degli anni essa è riuscita a superare e trascendere il
semplice significato di gara podistica estrema, per “trasfigurarsi” e assumere
il ruolo di manifestazione o evento di culto, riservato a persone straordinarie,
o che si ritengono tali, più o meno inconsciamente.
In realtà, una sana e robusta costituzione fisica, unita a una buona
capacità di adattamento e a una minima resistenza alla fatica, permettono
praticamente a chiunque di portare a termine questa gara, a condizione che
si sia forniti della sufficiente motivazione per camminare a passo
relativamente spedito per alcune ore (indicativamente da otto a trenta per
ciascuna tappa) e di sopportare qualche disagio.
Nell’ultima edizione, la 29ª, i partecipanti italiani erano soltanto 41.
Sottolineo “soltanto” non solo per mettere in evidenza l’enorme divario, dal
punto di vista della partecipazione, con paesi non particolarmente più
popolosi o più dediti alle competizioni estreme rispetto all’Italia (come la Gran
Bretagna, che vede una partecipazione di quasi quattrocento atleti ad ogni
edizione), ma perché questo numero è, a mio parere, oggettivamente troppo
ridotto.
Perché, mi sono chiesto, pochissime decine di italiani, tra le decine o
centinaia di migliaia che praticano abitualmente attività fisica e specialmente
la corsa, mostrano interesse per una competizione affascinante, famosa e di
richiamo come questa?
Perché migliaia di italiani partecipano tutti gli anni a maratone che si
limitano ad attraversare le strade asfaltate delle grandi metropoli del mondo,
ma non prendono neppure in considerazione di trasferirsi nel deserto per
correre in un ambiente naturale?
E ancora, per quale motivo poche decine di italiani (per limitare il nostro
studio a un campione ridotto ma rappresentativo, con il quale ho avuto
maggiori possibilità di confronto e di osservazione nel corso della
competizione) sono disposti a spendere complessivamente alcune migliaia di
euro e a sobbarcarsi il disagio di una settimana di pernottamenti in tenda, di
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lunghe ore di camminata o di corsa sotto il sole, di vera e propria sofferenza
dovuta alle vesciche che, fatalmente, rendono ogni passo una piccola tortura
per la maggior parte dei partecipanti?
Che cos’è, in definitiva, che spinge alcuni individui a vivere con
passione, entusiasmo e vera e propria gioia condizioni che, per la stragrande
maggioranza dei loro conspecifici, sarebbero da evitare come la peste e da
cancellare dalle esperienze che meritano di essere vissute?
Cercherò di rispondere a queste e ad altre domande senza la pretesa
di scrivere un vero e proprio trattato di psicologia applicata alle competizioni
di endurance, ma con l’intento di analizzare aspetti inusuali e anomali del
comportamento umano allo scopo di conoscerlo meglio e possibilmente
scoprire quali siano i significati più profondi che inconsciamente alcuni esseri
umani vanno a ricercare in esperienze forti e intense come questa.
Capitolo 1°. Che cos’è la Marathon des sables
Una ultra maratona a tappe come quella che stiamo considerando
richiede, per essere portata a termine con buone probabilità di successo, una
preparazione fisica specifica che non si può improvvisare. I partecipanti
dedicano alla corsa gran parte, se non la totalità del loro tempo libero, dal
momento che la preparazione implica allenamenti di durata variabile, ma
comunque spesso superiori alle due o tre ore, specialmente in prossimità
della competizione.
Coloro che partecipano a competizioni di questo genere, tuttavia, si
dividono in due categorie anche dal punto di vista della sincerità con cui
dichiarano quale tipo di preparazione abbiano seguito per la gara. Da un lato,
infatti, ci sono coloro che non hanno problemi nel dichiarare di essersi
allenati, nei limiti del tempo e delle loro possibilità, con particolare dedizione
seguendo un programma di allenamento rigoroso e particolarmente
impegnativo, così come una competizione di questo tipo richiede. Così
facendo, tuttavia, la persona si espone a un grosso rischio: nel caso in cui si
ritiri o la sua prestazione risulti inferiore alle proprie o alle altrui aspettative,
essa si trova nella condizione poco invidiabile di chi abbia speso molto per
ricavare poco. Si spiega così il motivo per cui esiste un’altra categoria, la
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quale non riesce, pur con la più buona volontà, ad ammettere di essersi
preparata nella maniera migliore possibile, ma è costretta dal proprio
inconscio a minimizzare la propria preparazione atletica, attraverso strategie
di ogni tipo: per esempio, lamentando problemi di salute fisica, oppure
lavorativi o familiari, che le abbiano impedito di allenarsi a dovere; oppure, e
questi sono i casi più interessanti, coloro che tendono a ridimensionare
l’importanza della competizione a partire proprio dalla preparazione effettuata
(“non ho mai corso più di 15 km, e mai più di due o tre volte la settimana”) in
modo da porsi al riparo da ogni eventuale critica nel caso in cui dovessero
abbandonare la corsa o registrare un tempo poco apprezzabile.
Inoltre, si consideri che la corsa si svolge in autosufficienza, per cui
ogni partecipante deve essere fornito di un apposito zaino contenente, tra
l’altro, materassino e sacco a pelo, indumenti di ricambio e di protezione
dalle intemperie e, specialmente, razioni alimentari sufficienti per una
settimana, oltre a una infinità di piccoli strumenti e attrezzi utili per la
sopravvivenza.
Correre, ma anche camminare, con uno zaino di peso variabile tra i sei
e i 10-12 chili (considerando che si corre sempre con una provvista di
almeno 1 litro e mezzo d’acqua) non è agevole ed è reso molto più faticoso
dal terreno tutt’altro che regolare, spesso sassoso, pietroso o caratterizzato
dalla presenza di sabbia nella quale è inevitabile sprofondare. Non mancano
le salite, naturalmente. Si tratta spesso di dislivelli di poche centinaia di metri,
ma da affrontare sotto il sole cocente e, spesso, affondando ad ogni passo
nella sabbia che rende il procedere estremamente difficoltoso.
Durante le sei tappe della gara, nonostante per molti partecipanti esse
abbiano una durata di parecchie ore, non si mangia, o si limita
l’alimentazione a gel o barrette energetiche. In compenso si beve molto,
almeno sette-dieci litri per ogni tappa, e si assumono piccole pastiglie di sali
per reintegrare le perdite. In effetti, si consideri che, nonostante il caldo, si
suda pochissimo perché il sudore viene immediatamente asciugato dal vento
che, per la stragrande maggioranza del tempo, soffia lungo il percorso
asciugando immediatamente ogni goccia di sudore.
Ciò che accompagna i partecipanti a una gara nel deserto è,
naturalmente, la presenza di un sole costante e implacabile. Nel corso
dell’ultima edizione, per esempio, i tratti che si sono potuti percorrere
all’ombra sono stati un totale di non più di poche decine di metri sull’intero
percorso. Tutto ciò, per quanto riguarda la corsa vera e propria.
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Ma il fascino di questa competizione sta anche nelle ore che si vivono
all’interno del campo attrezzato per i partecipanti, circa un migliaio per ogni
edizione, provenienti da ogni parte del mondo, e collocati all’interno di tende
in cui alloggiano da sei a otto persone. Le tende non sono nient’altro che
grandi teli lunghi circa una decina di metri e larghe non più di quattro tenuti
sollevati da terra tramite semplicissimi bastoni. Per terra stuoie o tappeti che
poggiano, naturalmente, sul terreno pianeggiante, ma sassoso. All’interno
delle tende, cui si giunge al termine di ogni tappa, ciascuno nei tempi che le
proprie capacità gli consentono, i partecipanti dispongono di spazi
ridottissimi, poco più di quelli necessari per distendere il proprio materassino
e sacco a pelo.
Nelle ore pomeridiane e nelle primissime mattutine che seguono e
precedono ogni tappa, il tempo è dedicato quasi esclusivamente alla cura
delle proprie vesciche e all’alimentazione, anche perché non si può fare
praticamente nient’altro, compreso il lavarsi. Il tutto, essendo costretti in una
tenda che non permette praticamente mai di stare in posizione eretta, e
costringe quindi a stare in ginocchio, accovacciati e seduti per terra
sbrigando le molteplici attività quotidiane. In realtà, la mia personale
esperienza è stata quella di una ricerca continua di oggetti all’interno dello
zaino, relativamente piccolo (capienza totale di 24 litri, tra zaino vero e
proprio e marsupio anteriore) ma carico all’inverosimile di attrezzi, oggetti e
prodotti di ogni tipo: buste di cibi disidratati, barrette energetiche, sacchetti
contenenti alimenti di vario tipo (parmigiano, zucchero, te, ecc.), calze e
indumenti di ricambio, cerotti, coltelli, fornellini e pastiglie di combustibile,
forbici, fazzolettini disinfettanti, carta igienica, posate, eccetera.
I bisogni fisiologici sono espletati all’aperto, a una distanza che ognuno
ritiene sufficientemente rispettosa nei confronti degli atleti che riposano sotto
le loro tende, o negli appositi gabinetti, e cioè tende delle dimensioni di una
cabina telefonica che ospitano un rudimentale water di plastica sul quale far
aderire un apposito sacchetto che raccoglierà le nostre deiezioni e che
ognuno depositerà, ben richiuso, all’interno di un apposito bidone. Quanto
all’igiene, specialmente quella intima, essa è scarsamente salvaguardata non
soltanto per la scarsità d’acqua a disposizione e per la mancanza di intimità,
ma anche per il fatto che è difficile lavarsi con una mano sola essendo
l’altra occupata dalla bottiglia d’acqua.
Ogni azione che, nella comodità della propria abitazione, seduti su una
sedia a un tavolo, è assolutamente banale, qui diventa di estrema
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complicazione e richiede tempi lunghissimi. La notte porta con sé l’aria fresca
e ventilata del deserto, per cui il sonno è relativamente confortevole e
riposante per la maggior parte dei partecipanti.
Capitolo 2°. La gara.
Ogni tappa è una gara che inizia verso le 8.30 del mattino e si
conclude poche ore dopo, per i migliori, o nel tardo pomeriggio per gli ultimi
in classifica. La partenza vede un migliaio di persone, tutte protette da
indumenti leggeri, traspiranti e il più possibile confortevoli che vengono
lanciati a camminare o correre per alcune decine di chilometri
dall’organizzatore della corsa che, armato di microfono e di un sistema di
altoparlanti che diffonde musica rock, ricorda ogni mattina, con molto buon
senso e diligentemente, tutte le precauzioni che devono essere adottate per
affrontare la competizione. In essa, almeno alla partenza, si ritrovano fianco
a fianco giovani marocchini (da sempre vincitori della competizione) insieme
ad anziani, uomini e donne talvolta in sovrappeso, atleti che affrontano
questa gara come un allenamento per competizioni ancora più dure e difficili,
altri che la corrono per l’ennesima volta e altri ancora che la vivono come
esperienza unica e irripetibile. Si cammina o si corre, finché si può, sempre
incolonnati o affiancati da altri atleti, ognuno dei quali identificabile per nome
di battesimo e per nazionalità dal pettorale. Ognuno ha il suo ritmo, le sue
aspettative, la sua storia dietro le spalle. Ognuno corre per sé stesso, ma
talvolta anche per altri, come dimostrano i casi di coloro che per una
settimana portano sullo zaino foto di figli, di parenti o di persone alle quali
dedicano la loro fatica.
Di per sé, almeno per chi è abituato a correre quasi tutti i giorni per
almeno 15-20 km, ogni tappa, per quanto dura, non è certo massacrante. Si
giunge all’arrivo zoppicando solo ed esclusivamente per le vesciche e non
certo per dolori muscolari o articolari. Questo è il dato forse più sorprendente
che ho potuto rilevare in questa competizione. Nonostante essa sia
fondamentalmente costituita da una maratona al giorno per una settimana,
essa risulta sopportabile, sul piano fisico, con una certa disinvoltura.
Personalmente, muscoli e articolazioni mi hanno sempre fatto più male a
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seguito dei miei allenamenti nel parco cittadino, piuttosto che a seguito di 40
km corsi sotto il sole, nel deserto. L’ambiente nel quale si svolge la
competizione è il deserto, naturalmente. Ambiente piuttosto inquietante
quando ci si trova a dover attraversare pianori o altopiani lunghi decine di
chilometri e spesso totalmente piatti. Tuttavia, la varietà del percorso è
straordinaria e in esso si accavallano attraversamenti di fiumi e torrenti
essiccati dal sole, colline dal terreno compatto, sassoso o pietroso, valichi di
basse montagne rocciose o chilometri e chilometri di dune altissime e
affascinanti. A intervalli di circa 10 -15 km al massimo, si giunge a un punto
di ristoro, per usare un eufemismo, in quanto tutto ciò che viene fornito, oltre
a due tende, nelle quali riposarsi all’ombra (a parte l’onnipresente tenda del
pronto soccorso medico) sono le bottiglie d’acqua ( calda, naturalmente), da
1 litro e mezzo, una o due tra un punto di rifornimento e l’altro.
Capitolo 3°. Il vero protagonista della Marathon des sables: le
vesciche.
Circa un decimo dei partecipanti si ritira nel corso della competizione.
In alcuni casi si tratta di persone che non si erano rese conto dell’impegno
fisico che la prova comportava; in altri
si tratta di atleti vittime di
disidratazione, disturbi gastrointestinali o muscolari. Nella maggior parte dei
casi, però, l’elemento che caratterizza, in termini negativi, questa
competizione e che è responsabile della qualità della prestazione della
maggior parte degli atleti, nonché di molti ritiri, sono le vesciche ai piedi.
Decine di medici e di infermieri sono infatti adibiti alla cura delle
vesciche all’interno di tende da campo nelle quali quotidianamente, dal
termine della propria prova fino al mattino, centinaia di persone attendono in
coda, sotto il sole o sdraiati per terra sotto altre tende, il loro turno per poter
accedere allo sgabello sul quale appoggeranno il loro piede per essere
medicati. Spesso cura e disinfezione delle ferite, come è intuibile, non
costituiscono un’operazione totalmente indolore e, anzi, le smorfie o le urla
smorzate di sofferenza degli atleti rappresentano la colonna sonora dei
pomeriggi durante la competizione.
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A partire dal secondo, terzo giorno, il campo sembra affollarsi sempre
più di persone sdraiate sui loro materassini, nelle tende, con vistose
fasciature ai piedi, o atletici zombie che camminano appoggiando i piedi
come se camminassero sulle uova, con una lentezza piuttosto inquietante.
Tuttavia, il mattino successivo la maggior parte degli atleti dimentica le
proprie vesciche e accetta l’idea di camminare o correre per decine di
chilometri per parecchie ore sopportando le fitte di dolore che li attanagliano
ad ogni passo, e sapendo perfettamente che le condizioni dei loro piedi
saranno ancora peggiori il giorno dopo. Personalmente, la tappa più lunga
della competizione, di 81 km e mezzo, è stata sicuramente l’esperienza più
intensa della mia vita dal punto di vista della sofferenza: una sofferenza
accettata, in qualche modo ricercata, intenzionale e consapevole, perché si
trattava nell’unico modo di portare a termine la competizione senza subire
l’onta e il disonore del ritiro.
Finché le vesciche riguardano le dita dei piedi, il dolore e la prestazione
fisica sono accettabili. Ma le vesciche che si formano molto spesso sulla
pianta del piede costituiscono una tortura che si rinnova ad ogni passo e i
passi, in una competizione come questa, sono decine di migliaia al giorno.
Camminare per ore, di giorno e poi di notte, essendo continuamente superati
da atleti che, sia detto a loro merito, mostravano una migliore preparazione
fisica o forse una migliore sopportazione al dolore, è stata sicuramente
un’esperienza durissima per il fatto di aver messo a dura prova motivazione
e volontà. Ma che cos’è, in definitiva, che spinge quindi così tante persone a
ricercare intenzionalmente e consapevolmente non soltanto la fatica, ma
spesso anche il dolore? Possibile che l’incentivo sia dato soltanto dal fatto di
poter ostentare nei confronti del prossimo il superamento di una prova fisica
particolarmente impegnativa?
Capitolo 4°. Psicopatologia dell’ultrarunner
Premesso che l’espressione “psicopatologia” vuole essere un modo
molto scherzoso e affettuoso per descrivere le caratteristiche di personalità
dei partecipanti a questo tipo di competizioni,
la mia personalissima
impressione è che essi, sotto il profilo culturale e sociale, siano in buona
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parte persone di ceto e cultura medio-alta. Imprenditori e liberi professionisti
sono numerosi (a parte, naturalmente, i giovani atleti professionisti o
semiprofessionisti) e ciò si spiega anche con il fatto che la partecipazione a
una competizione di questo genere, tra trasporti, iscrizione vera e propria,
spese varie per attrezzatura, visite mediche eccetera, oscilla tra i quattro e
cinque mila euro.
Il partecipante alle cosiddette ultra maratone è una persona, di solito di
sesso maschile e in un’età compresa mediamente tra i trenta e i
sessant’anni, la quale non riesce ad accontentarsi di correre per semplice
diletto o per tenersi in forma, ma sente il bisogno insopprimibile di portare
sempre al limite la propria prestazione fisica e mentale.
In effetti, occorre una certa attitudine mentale alle gare che implicano
resistenza alla fatica, apparentemente fine a se stessa. In altre parole,
occorre possedere una fortissima motivazione a mettersi in gioco in prima
persona, senza l’ausilio di nient’altro, fondamentalmente, che la propria
efficienza e armonia fisica e mentale. Come vedremo tra breve, la mente
gioca un ruolo fondamentale, pari a quello del corpo, ai fini del superamento
di prove di questo genere. Ma andiamo per ordine.
Gli atleti si presentano a queste gare con un abbigliamento tecnico e
sportivo che ha, nella maggior parte dei casi, uno specifico scopo: quello di
esibire agli altri la propria meritoria esperienza in ambito competitivo. Non c’è
nessun motivo per cui il partecipante a un’ultra maratona debba indossare la
maglietta di finisher che attesta il riconoscimento ufficiale del suo
completamento di una gara precedente. Raro che questa gara sia una
semplice corsa o camminata non competitiva di pochi chilometri tra i vigneti
dell’astigiano o sulle colline umbre: il vero ultra maratoneta deve rendere
noto a tutti di aver partecipato a una competizione altrettanto dura e difficile
di quella che si appresta ad affrontare.
Lo scopo, evidentemente inconscio, è quello di infondersi sicurezza e di
non apparire agli altri come degli sprovveduti. La sindrome degli esami non
vale, naturalmente, soltanto per le competizioni sportive: chiunque abbia
affrontato esami o concorsi particolarmente selettivi avrà provato, almeno
per un attimo, la sensazione che tutti i suoi concorrenti siano più preparati di
lui. Indossando una maglietta che testimonia il superamento di una prova
difficile ci si mette al riparo dal rischio di apparire novellini o persone non
temprate dall’esperienza di dure fatiche in competizioni possibilmente
internazionali.
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Un altro aspetto che definiamo in maniera molto scherzosa
psicopatologico della personalità dell’ultra runner è il suo egocentrismo e
narcisismo. Le conversazioni sono fondamentalmente una semplice scusa
per poter far sapere agli altri di aver partecipato a una gara particolarmente
difficile, in luoghi esotici e lontani, o dalle caratteristiche di percorso e
ambientali che possono destare stupore e ammirazione. Lo zoccolo duro dei
partecipanti a questo tipo di competizioni è infatti composto di persone che
fanno parte dello stesso giro, pur provenendo da ogni parte d’Italia, e che
condividono la loro comune partecipazione ad altre competizioni, delle quali
non si stancano mai di ricordare aneddoti, classifiche, caratteristiche. Si tratta
di una simpatica fiera delle vanità, in quanto la maggior parte di questi
personaggi si dedica all’elenco dei propri meriti sportivi, disinteressandosi
totalmente delle esperienze altrui, se non per poter avere informazioni circa
una gara che non conoscono e che vorrebbero affrontare in futuro.
È difficile per chi sia al di fuori del giro comprendere esattamente quali
siano le motivazioni che spingono queste persone a dedicarsi in maniera
intensiva, se non ossessiva, a queste competizioni, spesso in numero di
parecchie decine in un solo anno. L’impressione che si ricava ascoltando i
racconti di questi atleti è quella di esperienze che non vengono vissute come
tali, ma solo come sfide che ci si è lasciati alle spalle, quasi con sollievo,
come se ogni competizione fosse portata al limite per verificare la propria
capacità di sopravvivenza e per compensare in qualche modo la mancanza
di stima, di affetto, di comprensione, di apprezzamento anche sociale e
professionale di cui ognuno è, in misura diversa, carente. Non che la sfida
non sia connaturata alla personalità degli esseri umani, ma qui essa è
ricercata compulsivamente e portata sempre all’estremo, come a richiedere
una attenzione per se stessi che non arriva mai o che non sembra mai
sufficiente a colmare il proprio bisogno di affetto.
Capitolo 5°. Che cosa spinge persone intelligenti a compiere azioni
così stupide?
Dal punto di vista razionale, ma superficiale, una prova come questa
ha tutte le caratteristiche per poter essere qualificata come una assurdità o
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un’esperienza priva di senso e di utilità. Già camminare o correre nel deserto
per molte ore, sotto il sole, potrebbe essere qualificata, sulla base del
semplice buon senso, come un’azione che si dovrebbe compiere soltanto se
spinti dalla necessità e non certo per diletto. Farlo in sei tappe quotidiane, di
cui una di più di 80 km, essendo quindi costretti a correre o camminare prima
sotto il sole e poi nel buio, con l’ausilio di una torcia frontale e con parecchie
ore di fatica alle spalle, è un motivo in più per qualificare come assurda
un’esperienza del genere. Affrontare questa prova arricchita di continui
saliscendi e persino di salite molto ripide, con uno zaino sulle spalle che
contiene ciò che può soddisfare i bisogni fondamentali che emergono in
situazioni come queste (il sonno, la protezione dal freddo, l’alimentazione,
l’idratazione) sembra apparentemente una strategia appositamente studiata
per farsi del male inutilmente.
Ma, naturalmente, le cose non stanno semplicemente così. Chi affronta
questa prova è, nella quasi totalità dei casi, una persona con forti tratti di
egocentrismo, di narcisismo, di megalomania, ma è anche una persona
straordinaria nel senso di dotata di qualità fisiche e mentali al di fuori della
norma. Ognuno, in rapporto alla propria prestazione, sente più o meno
inconsciamente di affrontare una prova epica, che lo
pone in una
condizione di superiorità rispetto alla massa di persone sedentarie o
comunque non in grado di affrontare l’esperienza. Esperienza che si
caratterizza, come si diceva, più che altro per la fatica.
Perché mai, allora, una persona nel pieno possesso delle sue facoltà
mentali dovrebbe sobbarcarsi una fatica al limite della sopportazione, senza
averne un tornaconto apparente e, anzi, spendendo parecchie migliaia di
euro per raggiungere un obiettivo fondamentalmente inutile? Per fornire una
spiegazione plausibile occorre prendere in considerazione un principio
fondamentale dell’evoluzione della vita: ogni organismo vivente non fa mai
nulla contro il proprio interesse alla sopravvivenza e al soddisfacimento dei
propri bisogni. Quindi, sopportare fatica e sofferenza deve avere
necessariamente un corrispettivo che ripaghi ampiamente. Questo
corrispettivo è da ricercare in un bisogno, superiore alla media, di attenzione,
di comprensione, di affetto. Chiunque organizzi intenzionalmente la propria
vita attraverso allenamenti quotidiani e massacranti, per affrontare prove
fatte fondamentalmente di fatica e sofferenza, fa tutto questo per ottenere un
tornaconto e cioè per attirare l’attenzione del prossimo.
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L’organizzazione di pensiero infantile, sepolta nel nostro inconscio ma
pronta ad emergere sopraffacendo la componente razionale della mente,
esprime attraverso la messa in atto di tali comportamenti un’esigenza che
può essere riassunta con queste parole: “Guardate che cosa sto facendo,
che cosa sto sopportando, a quale fatica e sofferenza mi sto sottoponendo
solo per ottenere la vostra attenzione, di cui ho disperato bisogno!”. E poiché
l’affetto di cui abbiamo bisogno non è mai sufficiente, ognuno lo ricerca
seguendo le strade che gli sono più congeniali: chi inseguendo una carriera
professionale, chi ricercando continuamente nuove amicizie e nuove
avventure sentimentali o sessuali, chi dedicandosi con impegno a
passatempi o occupazioni di ogni tipo. L’ultra runner va alla ricerca di
questa attenzione sottoponendosi a prove che, nel suo inconscio,
dovrebbero attirare l’attenzione su di sé per la meritoria capacità di affrontare
fatica e sofferenza, valori che, sul piano sociale, sono unanimemente
condivisi.
Purtroppo, non c’è mai una competizione che, portata a termine con
successo, attribuisca definitivamente alla persona quel riconoscimento che si
aspetta, e quindi essa andrà alla ricerca di qualche cosa di più difficile, di più
estremo, di più faticoso, sperando che qualcuno risponda alla domanda che
la sua organizzazione di pensiero di tipo infantile continua a martellare nel
suo inconscio: “Non vedete che cosa sto facendo per meritare il vostro
affetto? Possibile che debba faticare soffrire così tanto per meritarmelo?
Non c’è nessuno che si occupa di me?”.
Perché, nonostante si corra insieme a un migliaio di persone e non ci
sia praticamente nessun momento, durante le ore della corsa, in cui si è
veramente soli, senza nessuno in vista davanti o dietro, chi corre sa che la
corsa è un’attività che si compie da soli, con se stessi e contro se stessi. Chi
corre a questi livelli è probabilmente spesso una persona fondamentalmente
sola, che fa fatica a porsi in relazione con gli altri ma che vorrebbe con tutto
se stesso averne stima e approvazione. Chi corre non ha il conforto dei
compagni, come avviene negli sport di squadra, né quello di alcun attrezzo,
come avviene in sport altrettanto faticosi come lo sci di fondo o il ciclismo.
Certo, l’imperativo psicobiologico alla competizione gioca il suo ruolo,
rendendo eccitante il fatto di potersi confrontare con altri e affermare per
quanto possibile la propria superiorità, se non su tutti, almeno su qualcuno.
Certamente il fascino del deserto può costituire uno dei motivi che spingono
le persone a prendere in considerazione un’esperienza di questo genere.
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Ma quello che caratterizza una vera e propria prova di iniziazione come
questa è anche il complesso rituale di tutta la manifestazione: il richiamo di
persone provenienti da ogni parte del mondo, unite da un comune obiettivo;
l’attribuzione a ciascuno di segni esteriori (il pettorale, la medaglia e la
maglietta di finischer all’arrivo) che sottolineano l’eccezionalità dell’individuo
rispetto alla massa e la sua appartenenza a una élite; l’uniforme, e cioè il
segno esteriore di appartenenza a questa élite, costituita da cappellino,
ghette, zaini e abbigliamento molto tecnico, che differenziano i partecipanti a
questo tipo di gare dai semplici corridori della domenica; il luogo nel quale si
svolge la competizione, identificabile in due situazioni diverse: da un lato,
l’immensità del deserto, dall’altra il cerchio protettivo costituito
dall’accampamento riservato solo a coloro che affrontano coraggiosamente
questa prova; l’incitazione alla battaglia, rappresentata dal discorso tenuto
ogni mattina dall’organizzatore, che crea spirito di unità all’interno del gruppo
dei partecipanti e al tempo stesso enfatizza il fatto che chi si trova alla
partenza di ogni tappa significa che ha superato, a differenza di altri,
un’ulteriore prova.
Si consideri, inoltre, che una esperienza come questa implica l’ingresso
e lo stazionamento per un’intera settimana all’interno di una dimensione nella
quale il mondo dal quale si proviene, con le sue abitudini confortevoli e le
sue certezze, scompare per far posto
a una quotidianità nella quale
l’esistenza di ognuno si concentra quasi esclusivamente sul soddisfacimento
del bisogno di sopravvivenza: l’alimentazione, l’espletamento dei bisogni
fisiologici, la medicazione delle ferite, l’allestimento del riparo notturno e il
sonno ristoratore, la preparazione, ogni mattina, del proprio zaino, vero e
proprio tesoro contenente tutto ciò che è necessario per la sopravvivenza.
In altre parole, per una settimana ogni partecipante alla competizione,
rappresentante dell’Occidente evoluto, tecnologicamente, economicamente,
culturalmente e socialmente avanzato, perfino sofisticato nelle sue abitudini,
regredisce ad una condizione primitiva nella quale tutto ciò che conta e che
esiste è il cibo, la cura del proprio corpo, la forza di volontà, la resistenza al
dolore e alla fatica, la determinazione a raggiungere un obiettivo. Finalmente
in situazioni come questa l’essere umano ritrova la sua esperienza
primordiale dalla quale non si è mai staccato e che resta coperta solo dal
velo artificiale della civiltà, e l’emozione indescrivibile di confrontarsi con
problemi di sopravvivenza universali e antichissimi è talmente intensa da
risvegliare energie, memorie collettive e universali,
sensazioni e stati
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d’animo profondissimi, intensi e non esperibili nella quotidianità della propria
vita “civile”.
In queste situazioni si dà per scontato essere sporchi e non potersi
lavare, essere affamati e non poter mangiare ciò che si vuole e quando si
vuole, essere costantemente assetati e poter bere soltanto acqua
fondamentalmente calda, dormire all’aperto, coperti solo da un telo di lana e
da un sacco a pelo, praticamente direttamente sul terreno, e poi camminare
o correre con l’imbragatura dello zaino che ferisce le spalle e la schiena e
che rende ogni passo molto più pesante e faticoso del normale. Tutto ciò
sotto un sole implacabile, per raggiungere un obiettivo - il campo allestito ad
ogni tappa - assolutamente effimero e che scomparirà nel giro di poche ore
per far posto a un obiettivo identico, altrettanto privo di utilità e di significato,
almeno apparentemente.
Conclusioni
In conclusione, alcune persone, più bisognose di affetto, di stima, di
appartenenza di altre per motivi legati alle loro esperienze di vita, sentono il
bisogno di vivere esperienze forti e intense per un duplice ordine di motivi: da
un lato, per attirare l’attenzione del prossimo su di sé ed essere finalmente
amati e considerati per compensare quell’amore e quella considerazione che
non si è avuta a sufficienza nella propria infanzia; dall’altro lato, per vivere
l’essenza, “il midollo” della vita che solo il contatto fisico e ineludibile con i
propri bisogni fisiologici primari, legati alla sopravvivenza, può dare.
L’esperienza di vivere quanto di più simile esista attualmente con quella
che era la vita quotidiana dei nostri antenati, libera dai condizionamenti della
cultura, della scienza, e anche del linguaggio, della comunicazione, della
riflessione e della razionalità, è un’esperienza talmente forte e intensa da
richiedere, una volta superata, la sua ripetizione, perché nulla dà
soddisfazione a un essere umano come la constatazione (confortata dal
premio e dal riconoscimento del prossimo) di aver superato una prova che
altri non osano affrontare. Questo atteggiamento appartiene alla natura
umana e oggi, almeno nella società odierna postindustriale, esso si
manifesta attraverso la creatività, l’innovazione, non solo tecnologica, la
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competizione economica e sociale, la ricerca continua di conoscenza ai fini
dell’appropriazione delle risorse che l’ambiente è in grado di offrirci. Ma al di
sotto di questa che è la sua manifestazione “civilizzata” ed esteriore, cova da
sempre il prorompente impulso ad affermare il proprio istinto di
sopravvivenza e di vita contro tutto e contro tutti.
E così, dopo ogni competizione sempre tesa a mettere alla prova se
stessi, ogni atleta tornerà a casa portando con sé un ricordo intenso e
struggente, di una tale forza vitale da costringerlo a ripensare spesso
all’esperienza vissuta e a desiderare di ripeterla, per poter vivere ancora una
volta l’ebbrezza di essere sopravvissuti e di aver quindi goduto fino in fondo,
seppur per un breve periodo, del significato più profondo della vita: la vita
stessa.
Guido A. Morina svolge l’attività di psicologo e counselor come libero professionista, a
Torino. È laureato in Giurisprudenza, in scienze e tecniche neuropsicologiche, in
Psicobiologia del comportamento umano e in Sociologia. È cofondatore e Presidente della
associazione culturale di ricerca scientifica: “Università popolare di scienze della salute
psicologiche e sociali” ed è autore di oltre un centinaio di manuali, di testi e di ricerche in
materia di psicobiologia del comportamento umano.
Sposato da 27 anni,
sorprendentemente sempre con la stessa persona, che ama profondamente, è padre di due
figli piuttosto bizzarri e dalla personalità complessa, sicuramente migliori di lui.
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