1.Da lucrezio a Lamarck

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1.Da lucrezio a Lamarck
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Novembre - Dicembre 2008
UNITRE
D A R W IN
… E NON SOLO
Mah, come si è ridotto Mr. Darwin?!
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Da Lucrezio a Lamarck.
Il ciclo di incontri dell’anno 2008 - 2009 vuole rappresentare un
doveroso omaggio a Charles Darwin, di cui nel 2009 cadranno sia il
bicentenario della nascita, avvenuta il 12 febbraio del 1809, sia il
cento cinquantenario della pubblicazione della sua opera fondamentale: “L’origine delle specie per mezzo della selezione naturale”, uscita
alla fine di novembre del 1859.
Abbiamo però voluto titolare i nostri incontri “Darwin e non solo”,
per sottolineare come il pensiero darwiniano non rappresenti
l’intuizione geniale di uno scienziato solitario al quale improvvisamente appare chiara la risoluzione di un problema - nel nostro caso
il “mistero dei misteri”, l’origine delle specie dei viventi - ma costituisca invece una tappa, fondamentale quanto si voglia, ma una tappa
del lungo cammino percorso e da percorrere sulla strada delle scienze naturali.
Le grandi rivoluzioni intellettuali, infatti, non sono quasi mai rappresentate da improvvisi eureka scaturiti come subitanee scintille
che incendiano rami freddi, ma costituiscono invece fiammate più
intense alimentate su un fuoco che comunque ardeva, o magari covava sotto la cenere, da tempi assai lunghi. Queste fiammate rappresentano, nelle avventure del pensiero, luci improvvise che sovente posano pietre miliari lungo il cammino del sapere e della conoscenza e illuminano ulteriori nuovi percorsi. Questo ha significato
Darwin, e la sua fiammata si è innescata su un fuoco che l’uomo aveva alimentato per secoli nella sua storia.
Cominciamo a seguirlo questo fuoco, e soffermiamoci allora su
una grandissima figura di intellettuale che viene di solito descritta
come un poeta, e poeta eccelso certamente lo fu, ma che fu anche
uomo, un uomo angosciato da quegli interrogativi ultimi che non ci
abbandonano mai: chi siamo, cos’è la vita, come è apparsa? Egli è
Tito Lucrezio Caro, gigante intellettuale in quella Roma che, ormai
impotente, assisteva cupamente all’agonia della Repubblica; è il seguace di quell’ “uomo di Grecia”, Epicuro, che per primo osò levare
gli occhi verso la religione e affrontarla.
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Con un salto, ahimè, di troppi secoli, poiché il tempo è tiranno,
giungeremo nella Francia del secolo dei lumi, della Rivoluzione,
dell’Encyclopédie, di Bonaparte e della Restaurazione, un paese nel
quale l’avventura del pensiero umano ha realizzato cose portentose.
Ci caleremo infine nella tranquilla atmosfera dell’ipocrita Inghilterra vittoriana dove menti illuminate hanno prodotto idee nuove, le
hanno difese anche in aperto contrasto con la sonnacchiosa e serena società di quella terra e hanno dato avvio a quella rivoluzione intellettuale che ha scardinato il vecchio modo di pensare a tal punto
che, pur tra sussulti agonici ricorrenti ancor oggi, esso non ha più
avuto modo di incidere sostanzialmente sul cammino delle scienze e
della conoscenza. Darwin rappresentò una, e la fondamentale, di
queste menti rivoluzionarie, e ciò paradossalmente costituì per lui,
ortodosso vittoriano sino al midollo, grande motivo di cruccio e sofferenza.
Discorrendo di Darwin e non solo, seguiremo spesso le grandi avventure intellettuali che hanno condotto l’uomo lungo i sentieri della
conoscenza e ci convinceremo che il pensiero e i suoi tragitti costituiscono un’unità, completa, preziosa e inscindibile, propria della
mente umana in quanto tale. Per questo la scienza non deve essere
contrapposta alle humanae litterae né identificata con la tecnologia,
ma ricompresa nell’unità della cultura e nella sua visione d’insieme.
La scienza, infatti, è cultura. Ricordiamo come nella prima antichità
non sussistesse affatto alcuna differenza fondamentale tra la poesia
e le scienze, tra la filosofia e il pensiero tecnologico. Empedocle e
Parmenide rendono in forma poetica l’argomento teoretico, e poi,
come non pensare a Esiodo e Lucrezio, al Virgilio delle Georgiche o al
Manilio degli Astronomica? Affrontare i grandi temi della vita, indagare sugli angosciosi interrogativi ultimi, confrontarsi con la natura
leopardiana, maestosa e imperturbabile, costituiscono argomenti cari e presenti al biologo, al fisico, al poeta, al matematico, al geologo,
allo scultore, al filosofo: all’uomo.
Quell’uomo che un giorno si trovò a compiere un grande balzo cognitivo, a divenire sapiente (sapiens e neandertalenis) e a osservare e
cercare di comprendere ciò che stava intorno a lui.
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Quell’uomo che prima si convinse erroneamente che tutto ciò che
lo circondava, vivente o non, finito o forse infinito, fosse stato creato
per lui, che giganteggiava al centro di quella che chiamò Natura.
Quell’uomo che poi, cominciando ad avvertire che quella Natura
non era affatto lì per lui, che gli era completamente estranea e indifferente e, talvolta, apparentemente ostile, concepì e costruì rifugi
trascendenti nei quali cercò disperatamente di ristabilire il sacro
patto che lo legava a Essa. Quell’uomo che, infine, si sentì solo, perduto ai margini di un Universo del quale non vedeva la fine, privo di
scopi e di certezze, inutile nella sua portentosa capacità intellettiva.
Quell’uomo che ebbe poi l’insolenza di indagare sulla natura delle
cose e concepire gli interrogativi ultimi e al quale all’improvviso tutto
fu chiaro. Contro quella Natura non c’era modo di combattere, non
esisteva alcuna possibilità di vittoria; ma esisteva un’onorevole via
d’uscita, una ritirata con l’onore delle armi: l’affermazione della propria identità nella conoscenza!
Allora l’ometto insolente comincia a penetrare nei segreti più reconditi della Natura, la studia, la seziona, la mette a nudo, pone
continuamente in discussione ciò che ha scoperto e che non considera mai definitivo, tutto rivedibile e falsificabile, e così va avanti e
trova finalmente nella comprensione della propria profonda ed estrema contingenza la ragion d’essere e la felicità. Ora conosce
l’inutilità di ogni sforzo teso a inserire in uno schema trascendente il
fine della sua esistenza e non si sente più zingaro abbandonato in
un Universo ostile. E in questa consapevolezza costruisce il suo riscatto e il suo scopo: di vivere, di creare, di amare, di soffrire, di ridere, di piangere, di conoscere, di morire. Nella sottomissione alla
Natura, nella comprensione della propria finitezza e nell’affermazione della propria meravigliosa creatività, emerge, come ebbe a dire
un grande biologo del novecento, dalle Tenebre della disperazione
nella luce e nel Regno della conoscenza.
E l’uomo è curioso, si interessa a tutto ciò che perviene alla sua
mente per mezzo dei suoi sensi e, all’interno dei suoi schemi mentali, costruisce la sua rappresentazione della realtà.
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Tra virgolette.
La curiosità.
E a proposito di curiosità, facciamo una divagazione per conoscere un grande fisico austriaco, Erwin Schrodinger, fondatore della meccanica ondulatoria e Premio
Nobel nel 1933 per la fisica. Egli tenne nel 1943 una serie di conferenze sull’origine
fisica della vita, in quel 1943 così infausto nella storia dell’Europa e del mondo. Ma
egli tenne queste conferenze in Irlanda, che era stata risparmiata dal vento barbarico che spazzava il vecchio continente e che tornava ad essere un’isola felice, un
luogo di studi e di cultura: era ancora possibile, a Dublino, meditare serenamente
sui problemi della scienza. Ci racconta Freeman Dyson, figura di primissimo piano
della fisica nella seconda metà del ‘900, di come Schrodinger dicesse, non senza
orgoglio, che al Trinity College erano venute ad ascoltarlo non meno di quattrocento persone e che tale numero, in quel mese di febbraio, non subì mai flessioni significative. Dai testi di queste conferenze fu tratto un volumetto di non più di un
centinaio di pagine, dal titolo “What is Life?” (Che cos’è la vita?) che fu pubblicato
a Cambridge l’anno seguente ed ebbe subito un’ampia diffusione, influenzando tra
l’altro il pensiero di quei giovani che nel decennio successivo avrebbero fondato la
nuova scienza della biologia molecolare.
Ma Schrodinger era un fisico, come è che si occupava di biologia? Ebbene,
l’uomo è curioso e perciò è bello leggere alcune frasi di apertura della prefazione di
quel libretto.
Ci dice Schrodinger: “Ciò che si suppone di un uomo di scienza è che egli possieda una conoscenza completa e approfondita, di prima mano, solo di alcuni argomenti; ci si aspetta quindi che egli non scriva su ciò in cui non è maestro. Se ne
fa una questione di noblesse oblige. Per lo scopo presente, io chiedo di rinunciare
all’eventuale nobiltà, per liberarmi dall’obbligo che ne deriva. La mia giustificazione
è la seguente. Noi abbiamo ereditato dai nostri antenati l’acuto desiderio di una
cultura unificata, che comprenda tutto lo scibile. Lo stesso nome (Università) dato
al più elevato ordine di scuole ci ricorda che fin dall’antichità, e per molti secoli,
l’aspetto di universalità è stato il solo a cui si è dato pieno credito. Ma il progredire,
sia in ampiezza che in profondità, dei molteplici rami della conoscenza, da un secolo a questa parte, ci ha posti di fronte uno strano dilemma. Noi percepiamo chiaramente che soltanto ora (nel 1943 !!!) incominciamo a raccogliere materiale attendibile per saldare insieme, in un unico complesso, la somma di tutte le nostre
conoscenze; ma, d’altro lato, è diventato quasi impossibile, per una sola mente,
dominare più di un piccolo settore specializzato del tutto. Io non so vedere altra via
d’uscita da questo dilemma (a meno di non rinunciare per sempre al nostro scopo)
all’infuori di quella che qualcuno di noi si avventuri a tentare una sintesi di fatti e
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teorie, pur con una conoscenza di seconda mano e incompleta di alcune di esse, e
a correre il rischio di farsi rider dietro”.
L’insopprimibile necessità dell’uomo di costruire sistemi teorici sintetici a partire
da “fatti e teorie” via via disponibili è stata ampiamente criticata da coloro che considerano che ci si debba occupare solo dei campi d’interesse nei quali si è esperti.
Il pensiero di Schrodinger ci dice invece, a parer mio, che la conoscenza, e quindi
la scienza, hanno il loro fondamento, nonostante tutto, nella curiosità; non
nell’interesse, perché il desiderio vero di conoscenza è di per sé disinteressato.
Purtroppo la curiosità porta a ficcare il naso dappertutto e a dare fastidio proprio a
chi non è curioso, ma semplicemente interessato.
E certamente curioso era Tito Lucrezio Caro.
Curioso, divorato dal fuoco delle idee, angosciato
dal desiderio della conoscenza, consapevole della
totale appartenenza dell’uomo alla Natura. Si oppone a coloro che accettano che gli dèi “abbiano
tutto stabilito” e pensano che le divinità abbiano
creato una natura perfettamente adatta ai ritmi
umani; ritiene che la ragione ci permette di scorgere un mondo di atomi dove regnano soltanto le legLucrezio
gi universali e non i capricci degli dèi, che la scienza mostra che non esiste una natura provvidenziale, che i fenomeni
che avvengono intorno a noi e in noi vanno spiegati, e non giustificati
con l’illusione che l’uomo sia il fine ultimo di una volontà divina. Non
esistono anime immortali suscettibili di premi o punizioni, e non c’è
un inferno. C’è solo una Natura altera e grandiosa, non necessariamente matrigna ma certamente indifferente quale la descrisse il Leopardi, una Natura rispetto alla quale l’uomo può rasserenarsi solo
nel piacere della conoscenza.
Leggiamolo allora Lucrezio in alcuni passi del suo “De rerum natura” (La natura delle cose).
“e ti spiegherò gli elementi primordiali delle cose,/ da cui la natura
crea tutti i corpi, li accresce e li nutre,/ e nei quali torna a dissolverli
una volta distrutti,/ (…) poiché appunto da essi ha origine tutto./
Mentre la vita umana giaceva sulla terra,/ turpe spettacolo, oppressa
dal grave peso della religione,/ che mostrava il suo capo dalle regioni
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celesti con orribile/ aspetto incombendo dall’alto sugli uomini,/ per
primo un uomo di Grecia ardì sollevare gli occhi/ mortali a sfidarla
(…) così che volle infrangere per primo le porte sbarrate
dell’universo./ (…) Perciò a sua volta abbattuta sotto i piedi la religione/ è calpestata, mentre la vittoria ci uguaglia al cielo./ (…) Tanto
male poté suggerire la religione.”
E ancora (…): “Qui, se alcuno vorrà chiamare Nettuno il mare,/ e
Cerere le messi, e preferirà usare il nome di Bacco/ piuttosto che il
vocabolo proprio dell’umore della vite,/ concediamogli anche di denominare la terra Madre degli dèi,/ purché tuttavia nella veridica realtà
eviti/ di contaminare il suo animo con la turpe superstizione religiosa./”
È bene precisare che per Lucrezio con religio si dovevano intendere
le umane superstizioni, ma quanta forza intellettuale, quanta angosciosa razionalità in questi versi; e così è nel proemio dedicato a Venere nutrice: un inno alla vita, alla forza vitale, non solo e molto più
che un’invocazione a una dea del pantheon tradizionale, alla madre
di Enea e progenitrice dei Romani! È la vita, il meraviglioso mostrarsi delle forme viventi, la straordinaria e misteriosa, ma indagabile,
forza e creatività della Natura che Lucrezio canta.
Impressiona l’attualità di Lucrezio quando adombra l’importanza
del caso nella costruzione dell’impalcatura delle cose: “certamente,
infatti, gli atomi non si sono disposti/ ciascuno nell’ordine proprio per
un loro disegno sagace,/ ( …) e provano ogni tipo di moto e ogni tipo di
unione,/. (…) Infatti di certo gli elementi germinali delle cose/ non si
disposero ognuno al suo posto per il criterio d’una mente sagace,/ (…)
da ciò deriva il fatto che disseminati per interminabili ere,/ sperimentando ogni genere di unione e di moti, infine/ (…)”.
È bene ricordare, attualizzando questi concetti, che ciò che nel
senso comune rinvia al caso, in matematica rinvia invece al calcolo
delle probabilità.
E per tornare al nostro tema (Darwin e l’origine delle specie) sentiamo che cosa Lucrezio afferma, in questo passo circa l’instabilità
angosciante di qualsiasi definizione certa: “ (…) così l’universo si rinnova senza posa,/ (…) certe specie si accrescono, altre a vicenda de8
clinano,/ in breve tempo mutano le stirpi animali,/ (…) che non per volere divino è stata per noi generata/ la natura del mondo (…) “. E ancora: “Se terrai questi concetti ben impressi nella mente, la natura/ ti
apparirà subito, libera e priva di superbi padroni,/ operare ogni cosa
per sua forza spontanea, senza gli dèi”.
Certo è azzardato considerare Lucrezio un precursore dell’evoluzionismo, ma nel suo poema si afferma con chiarezza un concetto che è
ancora argomento attualissimo di discussione nel campo scientifico:
l’illusione (“certe specie si accrescono, altre a vicenda declinano”) di
poter definire con certezza, quasi riferendosi a idee platoniche, le
specie dei viventi. Lo stesso Darwin intuirà benissimo quanto fosse
inaspettatamente difficile dare una definizione di specie, proprio lui,
la cui opera fondamentale è “L’origine delle specie”!
E allora, anche se non si può certo considerare Tito Lucrezio Caro
un evoluzionista, si può affermare sicuramente che egli dichiarò con
forza, e in versi sublimi, il primato della ragione a fronte della superstizione; dal che appare essere stato un errore quello di ritenere
che i saperi razionali sulla natura fossero nati durante la rivoluzione
scientifica del seicento e che prima non esistesse la scienza. Sembra
invece che la scienza antica già con Epicuro facesse leva sulla ragione per superare quelle superstizioni che Lucrezio incasellava sotto la
voce religio.
Fu Lucrezio filosofo della natura? Lasciamo la risposta a chi se ne
intende: per me fu filosofo della natura, e meraviglioso.
Ora, a volo d’uccello, lasciamoci trasportare
dalla macchina del tempo alla fine del 1600, allorché si ventilavano ipotesi creazioniste e Carlo
Linneo le affermava nel 1735 con la famosa frase: “Species tot numeramus quot a principio creavit infinitum Ens” (le specie che identifichiamo
sono quelle create da Dio sin dall’inizio”).
Allora si presentò sulla scena della filosofia e
Linneo
della scienza un gruppo di pensatori, scienziati
e filosofi francesi che lasciarono un segno profondo nella storia del
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pensiero scientifico.
Si trattava degli Enciclopedisti, fondatori e collaboratori dell’Encyclopédie, organo ideologico dei materialisti dell’epoca, e di altri intelletti del settecento
che reagirono cercando di organizzare le nuove nozioni di geologia e biologia e propugnando le prime
tesi evoluzionistiche. Quindi è proprio in questo secolo che compaiono al di là delle Alpi i primi precursori
della dottrina dell’evoluzione, così tanti che è difficile
ricordarli tutti. Sorvoliamo su Voltaire, il cui irriverente anticonformismo lo portò a ficcare il naso in ogni argomento e
disciplina, e su Diderot (l’Encyclopédie), che, descrivendo il flusso
perpetuo della natura, affermò che: "... ogni animale è più o meno
uomo; ogni pianta è più o meno animale; ogni minerale più o meno
pianta... ", e prima di affrontare il Buffon e il Lamarck, i grandissimi,
che ci portarono alle soglie di Darwin, ricordiamo per tutti il Maupertuis, che abbozza un quadro di trasformismo (come si diceva allora) di
una attualità sorprendente. Egli sviluppò il tema
dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti, ma ammise anche una variabilità ereditaria dipendente da
fattori casuali (il caso! Ci ricordiamo di Lucrezio?), ipotizzò che tutte le specie fossero derivate
Maupertuis
da una coppia primigenia e che tutti gli organismi avessero formato un tempo una singola serie lineare ininterrotta, di complessità crescente.
Dà importanza alle variazioni fortuite (quelle che oggi chiameremmo mutazioni), all’azione dell’ambiente, all’eredità dei caratteri acquisiti, invocando, inoltre, l’effetto della selezione. Che cosa gli è
mancato per essere il fondatore del trasformismo? Si preoccupa perfino di non escludere l'idea suprema di un Dio che, una volta fissate
le leggi generali del mondo, non deve più occuparsi ogni momento
dello sviluppo di nuove specie in natura (si cominciavano a scoprire
fossili di forme viventi ormai estinte), la quale procede liberamente
nel suo trasformismo mutazionista.
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Trasformismo, perché all’inizio non si parlava di evoluzionismo né
di evoluzione, bensì di trasformismo, intendendo in sostanza con ciò
un graduale spontaneo perfezionamento da forme semplici a forme
viventi sempre più complesse. Di trasformismo odora l’affermazione
di Diderot, trasformista è la concezione di Maupertuis, di ipotesi trasformiste sono disseminate moltissime opere di pensatori, allora attivi principalmente in Francia.
Ma in pieno Settecento viveva in Francia
Georges-Louis Leclerc Conte di Buffon, che in primavera ed estate se ne stava in Borgogna ad accudire alle sue
terre e alle sue fornaci, mentre in autunno e inverno era a Parigi quale Direttore del Jardin du Roi.
Egli divenne la figura centrale in una delle grandi
trasformazioni del pensiero umano: la scoperta della
storia come principio guida per organizzare i dati del
mondo naturale, compresi molti aspetti della diversità umana. Quando ci si rese conto di quanto fosse
Buffon
antica la terra - del suo “tempo profondo” - una tale
ricostruzione del sapere era nell’aria. Buffon divenne però, avendo
come agente primario la sua monumentale opera, l’Histoire naturelle,
il punto focale di questa trasformazione. Egli si diede a fare esperimenti sul raffreddamento di palle di ferro prodotte nelle sue fornaci e
poi, con calcoli su palle teoriche grandi quanto la Terra (era un matematico sopraffino) proseguì per anni in questa opera e riempì capitoli e capitoli dell’Histoire naturelle con i suoi risultati, giungendo alla
conclusione che l’età della Terra dovesse essere di almeno 75.000
anni, o anche molto di più.
Ci si stava rendendo conto di quanto fosse antica la terra, di quanto inquietanti si presentassero gli abissi del tempo. Buffon sapeva
che il trionfo della storia della natura avrebbe richiesto modalità di
pensiero del tutto nuove e una metodologia apposita per ricostruire
la documentazione lunghissima e mal conservata della Terra e della
vita. Dice nelle Epoche della natura: “…nella storia naturale si deve
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rovistare negli archivi del mondo, si devono estrarre dalle viscere della terra i vecchi monumenti, raccogliere i loro resti …È questo il solo
mezzo per fissare qualche punto nell’immensità dello spazio e per porre qualche pietra numeraria sulla via eterna del tempo”.
Questo grande e singolare personaggio della Francia fine ancien
régime affrontò la questione della definizione di specie (abbiamo già
considerato l’argomento parlando di Lucrezio) ed ebbe il grandissimo
merito di fondarla sullo stato e sul comportamento dei gruppi in natura, ritenendo che la capacità di incrociarsi con altri membri della
specie e di produrre una prole sana e feconda dovesse essere il criterio primario per delimitare i confini specifici di gruppi naturali, mentre in precedenza la specie veniva definita in termini di caratteri
strutturali unici condivisi da tutti i membri e assenti in tutti gli organismi di altre specie, vecchia nozione platonica della ricerca di caratteri definitori essenziali per connettere ogni configurazione accidentale della materia reale (un vero organismo) al modello idealizzato, immutabile ed eterno della sua specie.
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Tra virgolette.
Il concetto di specie.
Questo concetto è sottoposto a una continua” evoluzione”. Si è iniziato con quello di Linneo, il quale ne è stato in un certo modo l’inventore, tanto che si usa ancor
oggi la denominazione linneiana con la quale ogni essere vivente è universalmente
indicato da un doppio nome scritto in corsivo; il primo, con l’iniziale maiuscola, indica il genere, il secondo, con l’iniziale minuscola, la specie: es. Felis catus, gatto.
Tale concetto, che si basava su caratteri distintivi unici, fu criticato e superato da
quello di Buffon, fondato su caratteristiche ecologiche e riproduttive e che raggruppava nella stessa specie organismi con caratteristiche simili in grado di accoppiarsi e dare prole feconda. Si è giunti poi ai concetti più attuali basati su metodi
biochimici che permettono di indagare le sequenze delle basi azotate nel DNA di
una specie, metodi indispensabili oltre tutto per determinare le specie di organismi
che non si riproducono per via sessuata.
…che specie sarà????
Secondo queste più recenti concetti gli
appartenenti a una medesima specie devono possedere un patrimonio genetico
che, pur contraddistinto da variabilità individuale, presenta un impianto sostanzialmente comune. Come si vede il concetto di specie, che costituisce l’unità fondamentale con la quale si classificano gli
esseri viventi, è paradossalmente quanto mai difficile da definire. Con ciò si può
spiegare l’assegnazione dello stesso organismo a specie differenti, sia da parte di
diversi autori, sia da parte dello stesso autore in tempi diversi.
Molti commentatori furono indotti a considerare erroneamente
questa definizione ecologica della specie (col rifiuto dei modelli platonici fissi e immutabili) e l’introduzione della storia nell’organizzazione del mondo naturale, una sorta di germoglio della teoria
dell’evoluzione, facendo così di Buffon il degno precursore di Darwin
su un percorso rettilineo verso la verità.
Ma Buffon non fu, e non avrebbe mai potuto essere, un evoluzionista in alcun senso. Il sistema di Buffon ammetteva solo mutamenti
limitati all’interno delle specie originali, specie chiaramente definite e
definibili in quanto caratterizzate dalla loro capacità di incrociarsi, e
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descrisse tali alterazioni minori come ”degenerazioni” indotte da mutamenti del clima (degénération non significava però “deterioramento”, visto che di solito tali mutamenti miglioravano l’adattamento di
una specie al suo ambiente). Razionalista illuministico, era per lui
impensabile la scomparsa dalla natura di un ordine generale, e una
teoria compiuta dell’evoluzione avrebbe distrutto proprio l’ordine razionale, anche se complesso, che egli si era impegnato a definire nel
suo stile inimitabile.
In compenso egli fondò la moderna scienza della biogeografia.
I naturalisti precedenti ritenevano in generale, sempre ammesso
che avessero affrontato il problema, che tutti gli animali si fossero
diffusi nel globo a partire da un unico centro di creazione (una teoria
in chiaro accordo con lo scenario del diluvio biblico, anche se non ne
era necessariamente inspirata). Buffon, invece, riconoscendo che
ogni specie sembrava possedere adattamenti unici per la propria regione, sostenne che le varie specie dovevano avere avuto origine in
regioni adatte in tutto il mondo, e avere avuto poi solo opportunità
limitate di emigrare altrove: un’idea più feconda grazie alla quale
nacque appunto la scienza della biogeografia.
Buffon pubblicò in vita i primi trentasei volumi della sua monumentale Histoire naturelle; altri otto volumi furono pubblicati postumi. Anche se nessun altro biologo del Settecento ebbe un numero
altrettanto grande di lettori o esercitò un’influenza altrettanto importante, oggi il suo nome è così assai poco noto al di fuori della
cerchia professionale, che la sua unica citazione entrata nell’uso - le
style c’est l’homme meme (lo stile è l’uomo) - proviene dal discorso
inaugurale da lui tenuto in occasione della sua elezione fra i “quaranta immortali” dell’Académie Francaise e non dalle sue pubblicazioni scientifiche. Ma Gould, un grande biologo da pochi anni scomparso, afferma giustamente che: “in certe circostanze ben definite tutte esemplificate nella vita e nella carriera di Buffon - la perdita del
riconoscimento personale nel corso del tempo misura in realtà la diffusione del suo impatto, poiché le innovazioni importanti finiscono col
diventare così ovvie e automatiche che noi perdiamo memoria delle
fonti e le assegniamo all’applicazione di una logica elementare esi14
stente da tempo immemorabile.”.
Uomo del suo tempo che conosceva l’arte di muoversi nella società
di allora, stabilì accordi tali per cui, quando nel 1771 il conte de la
Billarderie d’Angivillier, ministro del re, fu nominato alla successione di Buffon nella direzione del Jardin des Plantes, questi avrebbe
poi dovuto passare il comando a Buffonet - nomignolo non proprio
elogiativo con cui era noto il figlio del grande naturalista, un fannullone che soffriva della gloria del padre - che comunque non ricoprì
mai tale carica (a parte il fatto che de la Billarderie si guardò bene
dal rispettare gli accordi, il collo di Buffonet cadde sotto la ghigliottina durante il Terrore, cosa che poteva capitare a quei tempi in
Francia). Si narra a proposito di Buffonet che Lamarck, di cui parleremo abbondantemente e che entrò a far parte del Jardin des Plantes (allora Jardin du Roi) nel 1781, avesse ricevuto una “spinta” da
Buffon che voleva in tal modo accreditare Lamarck in quanto accompagnatore - tutore del figlio Buffonet in un viaggio di istruzione
in Europa. Ancora una quarantina d’anni dopo Lamarck raccontava
con le lacrime agli occhi le vessazioni patite durante quel viaggio e di
quel suo unico vestito da società rovinato dalla bottiglietta
d’inchiostro lanciatagli contro dal pupillo, desideroso di passare una
serata senza l’ingombrante tutore.
Buffon era quasi certamente un materialista nel suo intimo e almeno agnostico a livello di credenze personali. Un’osservazione sincera e privata fatta da lui in una conversazione con Hérault de Séchelles compendia sia il suo atteggiamento pubblico, sia la sua posizione personale: “Ho sempre nominato il Creatore; ma non c’è che da
togliere questa parola e sostituirla ovviamente con la potenza della
Natura”. Comunque, amante dell’ordine, fece sempre di tutto per
non andare contro le istituzioni ed ebbe la massima cura di rispettare formalmente la religione ufficiale, in quanto garante anch’essa
dell’ordine a cui teneva così tanto.
Egli scrisse trentasei volumi del massimo trattato di storia naturale che sia mai stato scritto, e come se tutto il suo lavoro non fosse
ancora stato sufficiente per invertire il corso della marea, scrisse in
una prosa che lo collocò, lui “studioso” della natura, tra i principali
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letterati di un’epoca fantastica in un paese irripetibile. Egli sapeva
certamente come prevalere poiché, dopo tutto, “lo stile è l’uomo”.
Ma dilatando la cronologia ortodossa della terra dai 6.000 anni biblici ad alcune decine di migliaia di anni, egli apriva una breccia
molto pericolosa nel sistema. È vero che prima di lui c’era stato chi
aveva parlato di un’antichità assai più grande dell’universo e delle
sue creature (ricordiamo le “interminabili ere” di Lucrezio), ma forse
erano affermazioni meno preoccupanti di quelle di Buffon, che riteneva di essere in grado di dimostrare per vera l’antichità del mondo.
Oltre tutto ci pensavano gli enciclopedisti a
colmare la misura e quando a Parigi fu portata
dalle Indie Orientali una singolare grossa scimmia (era un orang-outan), Diderot, scherzando
ma non troppo sull’appartenenza di quell’essere
al ceppo della razza umana, ci presenta il cardinale Melchior de Polignac che davanti alla gabbia
dello scimmione esclama: “Parla che ti battezzo”.
Denis Diderot
Ci si era spinti troppo in là e Buffon cautamente
iniziò a ritrattare, sempre con il suo stile inimitabile che alla fine lasciava intendere che tutto era come prima della ritrattazione. Anche se il tempo di Galilei era ormai lontano, la gerarchia poteva creare ancora seri imbarazzi a chi voleva navigare tranquillamente nel mare di una prestigiosa carriera accademica con tutti
i conseguenti onori, conservando nel contempo i lauti guadagni della
vendita delle pubblicazioni (Buffon fu un raro caso di scienziato arricchitosi con i proventi delle sue opere) e dell’attività privata di imprenditore.
Ma il solito Diderot non rinunciò a riproporne
le idee, rincarando la dose degli anni dell’età
dell’universo ed esercitando la sua caustica ironia su tutto il Genesi. Nello stesso tempo il
suo fedele collaboratore d’Holbach inneggiava
all’eternità della materia (“Si spengono e coprono di scorie i soli, periscono i pianeti e si dissolvono nelle distese dello spazio, altri soli si acNicolas de Condorcet
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cendono”.). E mentre Diderot, d’Holbach, Delisle, Helvétius continuarono a martellare le loro convinzioni, l’epigono degli enciclopedisti,
Condorcet, Presidente dell’assemblea legislativa, che si avvelenò sotto
il terrore per sfuggire alla ghigliottina, scrisse all’ombra del patibolo
la sua drammatica professione di fede sul progresso costante e senza
limiti dell’umanità (1795, postuma).
Alla fine, però, la pattuglia degli enciclopedisti si trovò isolata: Buffon, l’unico naturalista a loro vicino che fosse fornito della preparazione necessaria per dare concretezza al loro modo di vedere, non
era andato oltre il primo passo. Ma ciononostante riuscirono a vincere a metà la loro battaglia: la spuntarono contro l’interpretazione
letterale del Genesi mosaico, della quale, salvo tardi episodi isolati,
non si parlò più, ma non riuscirono a imporre la loro visione evoluzionistica.
Con la fine del XVIII secolo chiudono la loro attività e la loro vita
Buffon, Needham, Spallanzani e altri che, come Caspar Wolff e Haller, contribuiscono a creare la moderna biologia. Anche Lavoisier,
amico di Spallanzani, sparisce travolto dalla rivoluzione, ma nella
Francia travagliata nel suo grande dramma e nel fervore dei tremendi rivolgimenti comparirà il più straordinario manipolo di sommi naturalisti, e tra questi colui che sarà destinato a occupare per sempre
un posto sicuro in qualsiasi elenco degli immortali della scienza.
Egli è
Jean-Baptiste Lamarck.
Abbiamo visto che, sull’onda della Rivoluzione francese e nel generale rimescolamento delle idee avvenuto in
quel periodo tempestoso, l’evoluzionismo
era tornato a galla; ebbene, nel giugno 1793
la Convenzione, decidendo la riorganizzazione del Jardin du Roy (divenuto Jardin
des Plantes) nominava professori di zoologia
il ventiduenne Etienne Geoffroy Saint - Hilaire e Jean - Baptiste Lamarck, botanico
Lamarck
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quarantanovenne; per inciso, nominava generale il ventiquattrenne
Bonaparte. La Convenzione, nel reclutare generali e professori, poco
si curava dei curricoli e delle pratiche burocratiche ma badava alle
possibilità future e al talento che i prescelti promettevano, ed evidentemente faceva bene e se si leggono sulla facciata del Muséum
d’Histoire Naturelle scolpiti i nomi degli scienziati che in quello scorcio di secolo vi lavorarono, si rimane impressionati dalla fertilità della Francia in grandissimi naturalisti. Vi si legge anche il nome di
Georges Cuvier, che nel 1794 era stato chiamato in qualità di supplente dalla Normandia, dove faceva il precettore, e che allora aveva
venticinque anni (era del 1769) come Napoleone; la sua strada si incrocerà spesso con quella di Lamarck.
Jean Baptiste de Monet de Lamarque nacque il primo agosto 1744
in un piccolo borgo della Piccardia, cadetto in una famiglia della piccola nobiltà della campagna francese. La grafia “Lamarck” fu adottata probabilmente dal fratello maggiore, al fine di vantare una prossimità almeno onomastica con la grande famiglia aristocratica dei La
Marck. Ebbe una vita piuttosto movimentata e il padre, non potendo
permettersi di avviarlo alla dispendiosa carriera militare, lo aveva
destinato alla vita ecclesiastica. Ma, morto il padre, l’abatino appena
diciassettenne si arruolò in seguito nel reggimento Beaujolais, combatté nella guerra dei sette anni comportandosi valorosamente, si
congedò, fece diversi mestieri, iniziò a riordinare le collezioni (allora
di moda nel gran mondo) di piante e conchiglie dei dilettanti e degli
amatori finché, a trentacinque anni, scrisse una guida botanica (Flore Françoise) e divenne membro dell’Accademia delle Scienze; giunse
infine all’incarico affidatogli dalla Convenzione nel 1793 al Jardin
des Plantes. E qui, mentre giungevano da varie parti della terra raccolte naturalistiche e collezioni di Musei che gli studiosi aggregati ai
corpi di spedizione napoleonici inviavano in patria, si cominciò a
configurare di fronte a Lamarck un mondo nuovo e sino ad allora
sconosciuto composto da forme animali e vegetali simili provenienti
da località differenti e remote, da specie che sfumavano l’una
nell’altra, da forti differenze nella composizione della varie faune;
una problematica del tutto nuova. Lamarck aveva portato con sé, in
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campo scientifico, l’irrequietezza che aveva contraddistinto la sua vita privata: si era occupato di meteorologia, di chimica, di geologia, di
fisica, di paleontologia. Un po’ come tutti i naturalisti del tempo, non
era uno specialista e proprio perciò si occupava di queste varie discipline (era tra l’altro fortemente attratto, in particolare, dalla fisica
e dalla chimica); in verità però egli strafaceva affrontando argomenti
non suoi ed esponendosi a violente critiche. Ma ciò gli procurò una
visione unitaria dei fenomeni biologici e dei fenomeni fisici che hanno luogo sulla superficie terrestre quale nessuno dei naturalisti che
l’avevano preceduto aveva avuta, e così lui, zoologo di Museo, fu il
creatore della biologia e introdusse per primo questo termine tra le
discipline scientifiche.
Lamarck pubblicò numerosissime opere, tra le quali citiamo soltanto la fondamentale Philosophie zoologique e la monumentale Histoire Naturelle des Animaux sans vertèbres, nelle quali espose, anche frammentariamente in prefazioni e note, le sue teorie trasformistiche (come abbiamo visto non si usava ancora il termine di evoluzione: si parlava di trasformismo o di trasmutazione delle specie). In
queste opere, a proposito dell’età ella terra e dei viventi, tratta degli
abissi del tempo e critica il concetto linneano di specie; rifiuta di
ammettere un ordine immutabile in natura; propone una visione relativistica dei fenomeni biologici e infine, nella Philosophie zoologique
compie il decisivo passo logico: la variabilità delle specie diviene
l’elemento fondamentale perché queste rimangano in equilibrio
con l’ambiente.
Ma Napoleone, prima come console a vita e poi come imperatore,
aveva cominciato ad accarezzare la vanità degli
uomini di studio per accattivarsene le simpatie,
aveva fondato strumenti quali la Legion d’Onore e
l’Institut National de France e aveva designato
Georges Cuvier, rivale di Lamarck, devoto
all’empirismo e grandissimo studioso di anatomia
- comparata, fissista convinto (non ammetteva la
possibilità di variazioni delle specie), ortodosso e
devoto luterano, al grande compito di ampliare in
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Francia e all’estero la vasta impresa di riorganizzazione scolastica e
rinnovamento culturale. Cuvier nutriva un grande amore per le cose
precise, metodiche e chiare e per questo mal tollerava l’intemperante
Lamarck, il quale faceva dieci cose alla volta e scriveva di chimica e
di fisica da cattivo dilettante.
E mentre Cuvier otteneva una terza cattedra alla Sorbona il nostro
Lamarck, al quale non stavano affatto declinando né il vigore intellettuale né quella vaga e indefinibile virtù di farsi comunque dei nemici,
ne rifiutava una seconda e, se pur di casato aristocratico, si ostinava
a rimanere il cittadino Lamarck e con poca prudenza insisteva
nell’adoperare i mesi del calendario repubblicano nell’anno quinto
dell’impero; in questo stesso anno, il 1809, offendeva i benpensanti
con la pubblicazione della Philosophie zoologique. La cosa non gli andò liscia: se Napoleone aveva cura di lusingare chi gli era ossequiente, aveva la mano assai pesante con chi lo contrariava. Se ne accorse
il Nostro in un’adunanza dell’Institut National de France: mentre
porgeva una copia della Philophie zoologique all’imperatore che ispezionava l’accademia ne ricevette in cambio una brutale strapazzata, e
l’ormai anziano naturalista ebbe la debolezza di scoppiare in lacrime
di fronte allo stuolo degli accademici pomposamente bardati con uniformi stracariche di alamari d’oro e feluche impennacchiate.
E Cuvier non pose tempo in mezzo per combattere il nuovo corso
della biologia che offendeva profondamente la sua ortodossia di luterano, la sua devozione all’empirismo e il suo culto dei dati di fatto.
Era egli infatti un pugnace antievoluzionista, in possesso di una
grande cultura zoologica e di una grandissima autorità scientifica; l’impulso da lui
dato alle conoscenze biologiche fu di tale
entità da farlo annoverare tra i più grandi
biologi esistiti a cavallo tra il settecento e
l’ottocento. Suo malgrado, la sua attività fu
positiva anche nei confronti dell’idea evoluzionistica, poiché egli fu il fondatore
Cuvier
dell’anatomia comparata e della paleontologia, discipline fondamentali sulle quali,
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insieme alla geologia, alla biogeografia e altre, si baserà appunto
questa dottrina, alla quale quindi, spianerà involontariamente la
strada. Il fatto difficilmente spiegabile è che, anche se dalla notevole
quantità di elementi in suo possesso Cuvier avrebbe dovuto pervenire, più di ogni altro, alla concezione di una lenta evoluzione delle
specie, addivenne, invece, a considerazioni del tutto opposte. Avanzò
l’ipotesi, completamente priva di fondamento, del succedersi - nelle
varie epoche - di rivoluzioni climatiche e di cataclismi geologici con
conseguente distruzione delle specie viventi (di cui testimoniavano i
resti fossili degli animali estinti da lui studiati con tanta cura) e con
successivo ripopolamento da parte di specie provenienti da altre
parti del globo o introdotte sulla terra, nuove e perfezionate, a opera
del Creatore. Il Diluvio Universale, cui fa cenno la Bibbia, sarebbe
stata l’ultima di tali catastrofi.
E così la sua ostinazione a voler difendere a ogni costo l’ortodossia
religiosa, lo portò a elaborare tesi insostenibili e a profondere energie,
degne di miglior causa, in argomenti destinati da lì a pochi anni al
totale fallimento. Egli rimane comunque tra i grandi delle scienze naturali in quanto acutissimo osservatore della natura e, come visto,
fondatore illuminato della anatomia comparata.
Non così fu per Etienne Geoffroy Saint - Hilaire,
che abbiamo visto essere nominato professore di
zoologia a ventidue anni, insieme a Lamarck, e la
cui posizione di biologo evoluzionista appare assai
chiara. Egli infatti, sin dalle prime lezioni al Musèum, asserì di dubitare decisamente della costanza delle specie e nella Memoria sul grado
d’influenza del mondo ambiente per modificare le
Etienne Geoffroy
specie animali scriveva: “Non vi è dubbio che gli aSaint - Hilaire
nimali oggi viventi provengono, per una serie di generazioni e senza interruzioni, da animali perduti nel mondo antidiluviano”. Non è il caso qui di approfondire l’opinione del Saint - Hilaire
sui fattori dell’evoluzione; basti dire che, sebbene non la critichi apertamente, non segue la teoria di Lamarck che però, forse, egli aveva poco studiato e compreso, come d’altra parte altri biologi
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dell’epoca.
Saint – Hilaire lavorò per diverso tempo con il Cuvier e di questo
sodalizio ci rimane anche una gustosa caricatura, con l’uomo scimmia Saint – Hilaire
(l’evoluzionista) osservato curiosamente e a
doverosa distanza dall’impeccabile creazionista Cuvier.
Ma torniamo a Lamarck. Nella sua concezione trasformistica le condizioni ambientali
agiscono sulla forma generale, sulle singole
Saint - Hilaire e Cuvier
parti e anche sul complesso dell’organizzazione, ma non in modo diretto, bensì tramite la reazione dell’organismo stesso. Egli affermava che: “grandi mutamenti ambientali causano agli animali grandi mutamenti nei bisogni e il mutare dei bisogni
produce necessariamente mutamenti nel modo di agire. Orbene, se i
nuovi bisogni diventano costanti o molto durevoli gli animali acquisiscono nuove abitudini che durano tanto quanto i bisogni che le hanno
generate.”. Secondo il Lamarck, la variabilità non nasce come adeguamento passivo alle condizioni ambientali, ma come adeguamento
attivo, come intervento attivo dell’organismo, necessario per spiegare
sia il potenziamento e la trasformazione di organi già esistenti, sia la
comparsa di funzioni e di organi di cui l’organismo era primitivamente sprovvisto.
Il suo sistema originario prevedeva una divisione delle cause in
due insiemi indipendenti, responsabili rispettivamente del progresso
e della diversità:
da un lato c’è una forza, che “tende incessantemente a complicare
l’organizzazione”, che conduce l’evoluzione a procedere inesorabilmente verso l’alto, a partire dalla generazione spontanea su base
chimica di esseri unicellulari, per progredire poi sempre più avanti
verso il culmine dell’intelligenza umana. È questa la sequenza principale, lineare e ascendente, perfettamente regolare e progressiva,
che va dagli infusori alle meduse, ai vermi, agli insetti, ai molluschi,
ai vertebrati;
dall’altro esistono speciali adattamenti di particolari linee genealo22
giche quali deviazioni laterali della sequenza principale, adattamenti
speciali originati dal secondo insieme di cause, etichettato come “influenza delle circostanze”, del tutto sussidiario a quello principale
del progresso verso l’alto.
Ma prendendo spunto dai vermi, Lamarck si imbarcò a Parigi in
una avventura intellettuale che lo portò a stravolgere completamente
il suo sistema iniziale.
Ripercorriamola per sommi capi.
Il grande viaggio intellettuale di Lamarck ebbe inizio con un discorso inaugurale sull’evoluzione tenuto l’undici maggio del 1800, il
21 del mese di Floréal dell’anno VIII del calendario della Rivoluzione
francese. Nel discours d’ouverture al suo corso annuale di zoologia al
Muséum d’Histoire Naturelle di Parigi egli presentò infatti la prima
spiegazione pubblica della sua teoria dell’evoluzione. Il viaggio proseguì poi lungo un cammino faticoso che via via porterà il nostro cittadino a rivedere le sue posizioni fino a far crollare completamente il
suo sistema iniziale e a costruire l’inizio di un sistema nuovo. A proposito di sistema, dobbiamo osservare che l’esprit de système, lo stile di scienza che prediligeva la costruzione di grandi teorie fondate
su principi generali, di spiegazioni complete e totali, attrasse profondamente Lamarck, che non rivelò alcuna propensione a riconoscere eccezioni o a modificare i suoi precetti guida: ed è per questo
che la sua avventura intellettuale è tanto più grande. Quando i suoi
dati sull’anatomia degli invertebrati non poterono più sostenere la
sua concezione originaria egli, ingiustamente considerato rigido e
dogmatico, mantenne una giusta flessibilità dinanzi alla ricchezza
della natura e modificò radicalmente le premesse centrali della sua
teoria della forza principale tendente verso l’alto e dell’insieme secondario di cause denominato “influenza delle circostanze”.
Ed allora incamminiamoci lungo questo viaggio.
Il Lamarck riciclò l’ouverture del 1800 prima ricordata inserendola
nella prima parte del suo Système des animaux sans vertebre. Di tale opera si fece stampare nel 1802 una copia interfogliata (con
l’inserimento di fogli bianchi alternati alle pagine stampate) per eventuali aggiunte e correzioni da apporre a una seconda edizione,
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per altro mai pubblicata. Ebbene, in uno degli interfogli del suo
Système il Lamarck, stimolato da una memoria sull’anatomia dei
vermi esterni letta da Cuvier (erano ancora in buoni rapporti)
all’Institut de France l’11 nevoso dell’anno X, iniziò a comporre uno
schema che comportava una sia pur modesta revisione, la prima,
della sua concezione evoluzionistica lineare nella progressione, con
rami a essa perpendicolari dovuti all’influenza delle circostanze: grazie ai vermi e alla loro anatomia il futuro albero della vita aveva
messo una prima misera radichetta.
Poi nel 1809 appare in due volumi il magnus opus, la Philosophie
zoologique, ed è qui, precisamente subito prima della pubblicazione
del secondo volume, in una appendice (additions) e nell’anno in cui
nasceva Darwin (potenza del caso, delle coincidenze o delle circostanze?) che l’albero che raffigura il modello della storia della vita
comincia timidamente a ramificare, disgregando il sistema lineare a
lui tanto caro. E il lungo cammino continua con la monumentale Histoire naturelle des animaux sans vertèbres nella cui lunga sezione
di apertura del 1815 c’è la formulazione delle nuove concezioni evoluzionistiche di Lamarck, rappresentate da uno strano albero a due
tronchi dove, pur in presenza di una ormai estesa ramificazione, è
comunque sempre primario il potere della forza lineare rispetto alle
eccezioni anomale e di disturbo prodotte da cause ambientali laterali
(le famose “influences des circostances”). Ma questa concezione del
1815, dai più ritenuta a torto conclusiva, sarà definitivamente modificata nel fondamentale anche se poco considerato Système analitique de connaissances positives de l’homme. Qui Lamarck abbandona
definitivamente e dolorosamente il suo sistema lineare con la forza
di progresso ascendente. Tale forza non c’è più: è soggetta alle circostanze e agisce lungo i rami e non lungo un tronco lineare. E anche
il tronco ormai è unico: partendo da un singolo progenitore comune
a Parigi nacque l’albero della vita!
Il Lamarck compì con grande coraggio e dignità una revisione del
suo pensiero che lo portò, lui Lamarck, a non essere più lamarckiano, e pertanto la sua odissea intellettuale va vista, nel quadro della
sua sofferenza, in una luce eminentemente positiva e non già come
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una terribile sconfitta culturale. Il progressivo riconoscimento di un
errore logico, per lui che non era un empirico o uno sperimentatore,
ma naturalista di museo e persona devota all’esprit de système, nonché la sua disponibilità a costruire una spiegazione del tutto nuova e
contraria, costituisce un ammirevole atto eroico che ne fa uno degli
intellettuali più eccellenti nella storia della biologia. Che cosa può esserci di più salutare nella storia della scienza della flessibilità che
permette a una persona di cambiare opinione, e di farlo non su un
punto marginale sotto la pressione di dati inconfutabili, ma per ripensare e rovesciare il concetto più fondamentale che è alla base di
una filosofia generale della natura? Lamarck si era fatto attrarre molto di più che non i suoi colleghi dall’esprit de systèm, dal pericoloso
stile di teorizzazione teso a costruire sistemi astrattamente belli, logicamente impeccabili e semplificati in modo da rendere comprensibili
le complessità della realtà esterna. La sua caduta fu di conseguenza
più rovinosa in quanto egli possedeva anche l’onestà e la forza intellettuale di scandagliare i propri errori. Ma la relazione sull’anatomia
dei vermi del Cuvier innescò una cascata di scoperte e di revisioni,
non le devastazioni di un’amara sconfitta.
Il suo lavoro non diventò mai popolare durante il corso della sua
vita.
Mentre Cuvier rispettò l’opera di Lamarck sugli invertebrati, non
apprezzò la sua teoria evoluzionistica ed usò la propria influenza per
screditarla. Fiero oppositore dell’evoluzione, sfruttando il suo ruolo
consolidato di autore di éloges di colleghi defunti, determinò il giudizio ufficiale sul Lamarck componendo un crudele capolavoro nel necrologio (del tipo “condanna con falsi elogi”) che rappresentò una
chiara esagerazione in negativo e mise in ridicolo un collega al quale
era ormai negato il diritto di replica. Cuvier approfittò, per fissarne e
distruggerne la reputazione, anche dei frequenti rifiuti del Lamarck
di riconoscere, o anche solo considerare, opinioni alternative alla
sua e che godevano di un forte sostegno empirico. Brutto tiro giocato
proprio da quell’esprit de système, da quella tendenza a costruire sistemi, spiegazioni complete e totali fondate su principi generali e
senza eccezione, che si può applicare a qualche angolo della realtà,
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ma che è inadeguato nel campo estremamente complesso della storia naturale. E Cuvier definiva con sarcasmo “facitori di sistemi” i filosofi della natura, coloro che dalla teorizzazione di ipotesi complesse e perfettamente logiche traevano la loro autorevolezza scientifica e
ripeteva che nulla lo rendeva più felice dello scoprire un piccolo fatto
capace di far crollare un intero sistema geologico. Attaccando Lamarck definiva le sue idee buone soltanto per solleticare l’immaginazione di un poeta e quella di un metafisico, ma “incapaci di reggere neppure per un istante all’esame di chiunque abbia sezionato una
mano, un viscere o solamente una piuma”. Ironia della sorte, l’elogio
funebre fu letto e pubblicato solo nel 1832, pochi mesi dopo la morte dello stesso Cuvier. Lamarck era morto nel 1829.
Rimane comunque una delle grandi ingiustizie della nostra storia
convenzionale il fatto che lo sfavore che colpì Lamarck sia persistito
fino al nostro tempo e che ancor oggi la maggior parte delle persone
lo conosca solo come colui che fa risaltare al confronto la grandezza
di Darwin: lo si ricorda, più esattamente, come l’inventore di una
stupida teoria sull’allungamento del collo della giraffa, un carattere
nato dallo sforzo di brucare le foglie sui rami più alti degli alberi e
poi trasmesso alla prole attraverso la cosiddetta “eredità dei caratteri acquisiti” (per altro comunemente accettata dai naturalisti di allora e ancora in seguito per lungo tempo e anche dallo stesso Darwin),
altrimenti nota come ipotesi dell’”uso e del disuso”, di contro alla
corretta teoria darwiniana della selezione naturale e della sopravvivenza dei più adatti.
sforzati, mia cara, vedrai che il collo ti
si allungherà!
La maggior parte della vita di Lamarck fu una lotta costante contro la povertà; intorno al 1818 cominciò a perdere la vista e trascorse i suoi ultimi anni di vita completamente cieco, accudito dalle sue
figlie. Nel 1820 fu costretto a interrompere le lezioni, affidate al col26
laboratore Pierre - André Latreille. Morì il 18 dicembre 1829
nell’appartamento che occupava al Muséum dal 1793, ricevette un
funerale da uomo povero e venne sepolto in una tomba affittata. La
sua biblioteca fu venduta poco dopo. Alla figlia Rosalie, che lo aveva
curato sino all’ultimo, fu permesso di rimanere nell’appartamento di
servizio e di lavorare al museo come aiuto presso gli erbari.
Era stato un naturalista e un filosofo, un pensatore sistematico
per eccellenza convinto di poter spiegare in termini rigorosamente fisici tutti i fenomeni osservabili sulla superficie della terra, dalle
combinazioni chimiche alla formazione dei continenti, dall’apparire
della vita alla costituzione delle società umane, dei sistemi filosofici
e delle superstizioni religiose.
Dopo cinque anni dalla morte il suo corpo fu rimosso e ora nessuno sa dove se ne trovino i resti.
Tra virgolette.
Trasformismo ed evoluzione.
Abbiamo più volte ripetuto come si parlasse di trasformazione delle specie e non
di evoluzione. Bisognò arrivare al 1845, con Gérard, (Lamarck era già scomparso
da 16 anni e Darwin stava già elaborando la sua teoria) per sentir parlare in modo
esplicito di “évolution organique”, ed è con lui che il termine evoluzione entra nel
linguaggio biologico di ogni paese, ma, guarda un po’, esclusa la Francia .
Gérard aveva ripreso i temi fondamentali di Lecoq che nel 1839 affermava: “Allorquando i fenomeni geologici avevano intensità sufficiente per far variare più o
meno in fretta le condizioni di vita degli organismi, questi cambiavano d’aspetto e
di struttura per conformarsi alle condizioni ambientali, e ciò tanto più spesso,
quanto queste stesse condizioni cambiavano prontamente”.
Quindi l’evoluzionismo si costituisce intorno a questa proposizione assiomatica
(!): gli organismi viventi sono in equilibrio col loro ambiente, siccome l’ambiente
cambia, debbono cambiare anch’essi, altrimenti sono condannati a scomparire.
Giova ricordare che c’era poi anche chi considerava, e considererà in seguito, e
considera tutt’ora, l’evoluzionismo come un continuo, predeterminato e obbligato
progresso e perfezionamento verso forme di vita sempre più elevate fino a giungere all’uomo, e così progresso ed evoluzione diventavano nozioni strettamente intrecciate che derivavano entrambe da una visione storica delle vicende della società umana e dell’insieme degli esseri viventi, che traevano entrambe incentivo dalla
fede nella perfettibilità.
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