Vide e credette
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Vide e credette
Associazione “Amici della Facoltà Teologica” «Vide e credette» Conversazione biblica1 di don Claudio Doglio — 28 marzo 2012 — Maria di Magdala al sepolcro ______________________________________ 2 Pietro e l’altro discepolo arrivano al sepolcro _________________________ 3 Carisma e istituzione ____________________________________________ 4 La scena all’interno del sepolcro: Le tele “giacenti” ____________________ 4 Il sudario ______________________________________________________ 6 La pienezza della visione _________________________________________ 7 Maria: dopo il pianto la conversione ________________________________ 7 «Colui che ha visto rende testimonianza ed egli sa che la sua testimonianza è vera». Così il narratore del Quarto Vangelo interviene proprio nel momento culminante del racconto della croce, alla quinta scena. Quando il soldato apre il costato del crocifisso il testimone oculare ci tiene a sottolineare che – avendo visto – può rendere testimonianza, sa di dire il vero e lo fa perché anche voi crediate. Troviamo con insistenza in questo passaggio il verbo vedere e il verbo credere e la stessa cosa si ripete dopo l’esperienza dei discepoli al sepolcro vuoto di Gesù. L’episodio del capitolo 20 culmina infatti con l’affermazione della fede del discepolo: “vide e credette” (20,8). In questa riflessione proviamo a soffermarci proprio su tale espressione: vide e credette. Poco fa in libreria ho visto un libro dal titolo Credere per vedere. Chiaramente fa riferimento a questo testo, ma ne capovolge l’ordine. Non è tanto il vedere che porta alla fede, quanto è necessario credere per poter vedere, cioè riconoscere. Sono due aspetti importanti e complementari, uno porta all’altro; “vedere” significa sperimentare la realtà, percepire qualcosa e capirne il senso al punto da arrivare a una adesione di fede. È però altrettanto vero che è necessaria una disponibilità di apertura, di docilità credente, per vedere la realtà e interpretarla in modo corretto, altrimenti si percepisce solo l’apparenza, quella dimensione fisica e non si capisce il senso profondo. L’evangelista Giovanni racconta un caso fondamentale di questa dinamica dove il vedere porta alla fede ed è l’esperienza degli apostoli il mattino di Pasqua. Leggiamo il testo giovanneo al capitolo 20 cercando di coglierne gli elementi importanti da un punto di vista simbolico e teologico. È un approccio all’esperienza del Risorto, non 1 Riccardo Becchi ha trascritto con diligenza il testo dalla registrazione diciamo della risurrezione, perché nessun evangelista ha raccontato la risurrezione di Gesù, ma hanno narrato l’incontro con il Risorto e, prima, l’esperienza dei segni lasciati nel sepolcro dal Risorto. La risurrezione in sé è un evento che va al di là della percepibilità umana, nessuno ha visto risorgere il Cristo; lo hanno incontrato risorto dopo aver visto la tomba vuota. Questo itinerario – dai segni all’incontro con la persona – è quindi raccontato in modo egregio dal IV evangelista che vogliamo adesso prendere in considerazione. Maria di Magdala al sepolcro 20,1Il primo giorno della settimana Maria di Magdala va al mattino essendo ancora buio, al sepolcro e vede la pietra rimossa dal sepolcro. Traduco letteralmente dal greco cercando di essere fedele al testo originale anche se la resa letteraria non è buona. Avrei dovuto incominciare rendendo così: «L’uno dei sabati»; sarebbe proprio brutto in italiano, in greco non è una gran meraviglia, è una espressione molto giudaizzante per indicare il primo giorno della settimana che è chiaramente la domenica, il giorno dopo il sabato. Il primo personaggio che viene messo in scena è Maria, quella originaria di Magdala che «va al sepolcro». In mezzo, tra il verbo e la destinazione, il narratore mette due indicazioni particolari: «prwi.» (proì) significa “di buon mattino”, è un avverbio per indicare l’ora iniziale della giornata. Quando è mattino significa che è spuntata la luce, però l’evangelista aggiunge: “essendo ancora buio”; se è buio non è mattino e se è mattino non c’è più il buio. Perché insieme questi due particolari? Il primo è una indicazione di tempo: al mattino presto; il secondo è una indicazione simbolica di situazione della protagonista: Maria di Magdala è ancora al buio. Nonostante sia già sorto il sole e ci sia la luce, lei è ancora al buio e Giovanni adopera l’immagine della luce e della tenebra proprio per significare la condizione dell’uomo che non capisce e dell’uomo che accoglie la rivelazione. La persona al buio è quella che non ha accettato la rivelazione. Quando Giuda uscì dal cenacolo “era buio”, era notte. Giuda esce nella notte ed egli in persona era la notte; diventa tenebra perché ha rifiutato la luce, ha posto ostacolo alla luce, si è contrapposto e l’ha rifiutata chiudendosi nella tenebra. Maria di Magdala è figura simbolica della umanità, è la figura femminile che si pone in dialogo con Gesù; è l’immagine ideale della sposa nei confronti dello sposo. Siamo a livello simbolico, non da prendere alla lettera come un romanzo di invenzioni coniugali. La donna che cerca l’amato del cuore si muove per andare alla tomba; si muove di mattino sebbene in lei ci sia ancora il buio. La meta è la tomba, va alla tomba. In greco “sepolcro, tomba” si dice «mnhmei/on» (mnemèion) e ha la radice di «mnh,mh» (mnéme) cioè la “memoria”. Mnemèion è il memoriale, la tomba è l’oggetto della memoria, è il luogo dove si ricorda quel che era e non è più, è il luogo dove si piange e si rimpiange il passato. Maria è ancora nella tenebra perché è semplicemente ancorata a una memoria del passato e non ha compreso la novità; non la cerca, non cerca il Signore, ma il sepolcro e vede la pietra. L’oggetto della prima visione è la pietra, una pietra «hvrme,non» (erménon) “tolta”, participio perfetto passivo del verbo «ai;rw» (àiro) “togliere”: «vide la pietra tolta». Il sepolcro era chiuso da una grande pietra circolare che ruotava in un binario scavato nella roccia e serviva per chiudere l’ingresso alla tomba; era però fatto in modo che si potesse facilmente aprire per poter utilizzare più volte la stessa tomba; aveva infatti più loculi, una specie di cappella di famiglia. Non che i visitatori tutte le volte che andavano 2 alla tomba facessero rotolare la pietra per aprire l’ingresso, ma il suo possibile spostamento era in previsione di future ulteriori sepolture. Questa pietra non è semplicemente ruotata nel binario per lasciare libero accesso all’interno, ma è proprio tolta, eliminata, buttata via dal sepolcro; potremmo dire scardinata, fuori da quel binario normale. Non è quindi una semplice apertura, ma è una rimozione del blocco, di ciò che chiude e ostruisce. Maria si ferma a questo, vede la pietra tolta: “vede”. In italiano abbiamo solo questo verbo per tradurre il concetto di vedere, mentre in greco Giovanni può permettersi una variazione terminologica e infatti in questo racconto adopera ben tre differenti verbi per indicare il vedere. Parte con il verbo «ble,pw» (blépo) che è il verbo della percezione fisica, la semplice percezione di un dato, di un fatto. Con gli occhi della carne Maria di Magdala percepisce la pietra che è stata tolta e … 2 Corre dunque e va da Simon Pietro e dall’altro discepolo che Gesù amava, e dice a loro: «Portarono via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove lo misero!». Lei da sola è andata al sepolcro, lei da sola corre a dire ai discepoli, però adopera il plurale: “non sappiamo”. Questo è un indizio che avvicina il racconto giovanneo al testo dei sinottici i quali presentano una molteplicità di donne al sepolcro. Il fatto che Maria di Magdala riferisca: “non sappiamo dove l’hanno messo” lascia intendere che non era sola; anche altre donne erano con lei e tutte si trovano nella situazione di non sapere. Giovanni però non ha nominato le altre perché ha voluto concretizzare l’esperienza in una persona che diventa figura tipica del cammino di fede. Maria ha visto la pietra tolta e adesso ai discepoli non dice “hanno tolto la pietra”, ma “hanno portato via il Signore dal sepolcro”. Non lo chiama Gesù, lo chiama “il Signore”, quindi c’è una sottolineatura di importanza, è un atto di fede nella sovranità divina di Gesù e tuttavia lo considera morto. Un soggetto imprecisato al plurale: “hanno portato via”; intende dire: il suo corpo è stato portato via e non sappiamo dove l’abbiano messo. L’ignoranza denunciata dalla Maddalena riguarda il luogo in cui sarebbe stata posta la salma di Gesù trafugata dalla tomba. Non c’è un minimo accenno alla nuova condizione del Risorto. Qui finisce l’attenzione riservata al personaggio di Maria di Magdala, perché con il versetto 3 il narratore segue gli altri due personaggi nominati prima. Pietro e l’altro discepolo arrivano al sepolcro L’evangelista Giovanni a questo punto mette in scena Simon Pietro e l’altro discepolo, quello che Gesù amava. Questo altro discepolo non è nominato, non è identificato precisamente con Giovanni, anche se tutta la tradizione è unanime in questa identificazione. È però corretto da parte nostra, come lettori del IV vangelo, rispettare il linguaggio del narratore e – visto che non nomina il discepolo – è meglio che anche noi conserviamo questa dicitura e non parliamo semplicemente di Pietro e Giovanni, ma di Pietro e l’altro discepolo. L’altro discepolo, quello che Gesù amava, è infatti figura tipologica importante, è il tipo ideale del discepolo; non quello che ama il Signore, ma quello che il Signore ama. Soggetto dell’amore è il Signore e in questo caso, solo in questo caso, non c’è “agapào”, ma “philèo”, il verbo dell’amicizia. In questo caso Gesù non è presente, nelle altre ricorrenze è invece presente quando il discepolo viene nominato; in questo caso si fa riferimento a qualche cosa che avveniva in passato: il discepolo che Gesù amava, di cui era amico. Il discepolo “amico” non è un elemento minore in riferimento all’amicizia; per Giovanni l’amicizia è un fatto molto grande. L’essere amico di Gesù è elemento decisivo e 3 questo rapporto di amicizia implica un legame di affetto importantissimo ed è Gesù che si è legato affettivamente al discepolo. Detto con un linguaggio più spirituale, narrativamente questa formula non serve per glorificare san Giovanni, ma per aiutare il lettore a identificarsi con questo personaggio. Il discepolo che Gesù amava sei tu; è il lettore stesso che viene invitato a mettersi nei panni di quel discepolo. Uno è nominato con il suo nome e soprannome, in modo storico preciso, l’altro è lasciato a un riferimento generico per offrire a te la possibilità di riconoscerti in lui. 3 Dunque uscì Pietro e l’altro discepolo e andavano verso il sepolcro. 4Correvano i due insieme, e l’altro discepolo precorse più velocemente di Pietro ed entrò per primo nel sepolcro. 5Ed essendosi accucciato, vede giacenti le tele, tuttavia non entrò. Due fatti importanti vengono raccontati. Nella corsa verso il sepolcro l’altro discepolo è più veloce, arriva prima di Pietro e vede quello che c’è dentro. Non vede solo l’esterno, cioè la pietra arrotolata come aveva visto la Maddalena. Egli tuttavia non entra e la sua è una percezione ancora soltanto fisica. Anche in questo caso ricorre infatti il verbo «ble,pw» (blépo), anche per l’altro discepolo si adopera il verbo della percezione fisica semplice. Carisma e istituzione La sottolineatura del discepolo che corre più velocemente di Pietro e arriva per primo è stata letta in diversi modi. Ritengo che una buona lettura di Giovanni non debba fermarsi a una semplice constatazione di fatto, come dire: era più giovane, correva più veloce ed è arrivato prima… è logico; Giovanni infatti non racconta semplicemente le cose logiche, quelle che sono successe. Soprattutto in un fatto ci sono infiniti particolari e un narratore non li può evocare tutti, ne sceglie alcuni e, quando racconta un particolare rispetto a migliaia di altri che vengono omessi, significa che vuol dare importanza a quel particolare e non ad altri. Pertanto, spiegare semplicemente questo dettaglio dell’ episodio come un dato di fatto è poca cosa, aiuta invece di più porsi la domanda: “Perché lo dice, perché sottolinea questo?”. Avrebbe potuto dire quanto tempo ci voleva, quanta distanza c’era, che cosa hanno visto lungo la strada. Si potevano dire tante cose e se lo scrivete voi potreste dire quello che vi interessa, ma dato che ha scritto lui – e il nostro compito è quello di fare esegesi di quello che è scritto, non di quello che avremmo voluto fosse scritto – dobbiamo analizzare quello che c’è e domandarci sempre: perché racconta questo e non altro, perché lo racconta così? Non è detto che abbiamo subito la risposta, è però importante farci la domanda. A una domanda ben fatta lentamente si può trovare risposta. Perché l’evangelista insiste sull’altro discepolo più veloce di Pietro e che arriva prima e tuttavia aspetta che sia Pietro a entrare? Una spiegazione che può essere accettata come valida e buona vede nel discepolo che Gesù amava una figura di chiesa carismatica, mentre in Simon Pietro è piuttosto adombrata la figura di una chiesa istituzionale. Il discepolo che Gesù amava è la figura dinamica dell’amore, dell’affetto, del legame e l’amore corre più veloce. La figura carismatica arriva prima, ma non è in competizione con la figura istituzionale, non la scavalca e non le si oppone. L’altro discepolo si accuccia, forse non è una bella espressione italiana, ma cerca di indicare un gesto di chi in qualche modo mette la testa dentro senza entrare, fa degli strani movimenti di lato, in su, in giù per guardare quel che c’è dentro in una posizione non facilmente visibile senza entrare. La scena all’interno del sepolcro: Le tele “giacenti” Questo discepolo «ble,pei» (blépei) “percepisce” fisicamente «kei,mena ta. ovqo,nia» (kèimena tà othónia) “le tele giacenti”; tà othónia sono le tele: articolo più sostantivo neutro plurale; kèimena è invece un participio del verbo giacere, participio concordato con tà othónia e quindi indica il predicato: vide le tele che erano kèimena, cioè giacenti. 4 La vecchia traduzione aveva reso othónia con “bende” e purtroppo l’immaginario si è formato sul termine benda che in italiano indica una striscia di stoffa stretta e lunga per cui l’immaginario corre subito alle mummie egiziane. Uno quindi si immagina la composizione funebre di Gesù fatta con una benda girata intorno al corpo. Per di più quel participio kèimena era stato tradotto con “per terra”, dimenticando che era un participio e sostituendolo con una indicazione di luogo. Se io chiedevo: “Che cosa significa: vide le bende per terra? Come ti immagini la scena”? Tutti rispondevano che l’immagine vista era una serie di bende in disordine sul pavimento. Non è questo però che vide Giovanni. Tanto per cominciare dobbiamo dire che othónia non indica le bende, ma è un termine generico per indicare le tele o i teli. Non indica la forma o la dimensione; il latino correttamente ha tradotto con “linteamina, cioè “i lini”, le tele di lino e noi dobbiamo fare riferimento al modo con cui seppellivano i Giudei. Lo dice l’evangelista stesso alla fine del capitolo 19 là dove descrive la sepoltura di Gesù: 19,40Essi presero allora il corpo di Gesù, e lo avvolsero con teli [othónia] insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura Come usano fare i Giudei? Il lenzuolo funebre è il corrispondente di quello che per noi è la bara, la cassa da morto. Non esisteva infatti un contenitore di legno o di metallo in cui mettere i corpi dei defunti, ma questi erano avvolti in un lenzuolo che non ha nulla a che fare con il lenzuolo che si adopera nel letto. Pochissimi infatti adoperavano le lenzuola nel letto, i più dormivano vestiti oppure su altre situazioni di materassi fasciati o grandi cuscini. Il concetto di lenzuolo che abbiamo noi per i nostri letti non corrisponde a quello dell’antichità. Il lenzuolo funebre – chiamato sindone – in greco «sindw,n» (sindón), è un telo alto un metro e lungo circa quattro, cioè due altezze del corpo umano. Il lenzuolo viene messo sul tavolo, il corpo vi è adagiato sopra, quindi facendo ripiegare il lenzuolo dietro la testa esso scende fino ai piedi e copre tutta la persona, un unico grande pezzo di stoffa. Prima di essere messo dentro il lenzuolo il corpo viene lavato e poi unto, unto in modo molto abbondante con gli aromi, cioè con oli ed essenze profumate molto intense. Quindi il corpo è intriso di questi unguenti e il lenzuolo aderisce al corpo, quasi viene incollato sul corpo attraverso questi unguenti. Il lenzuolo viene poi fermato con dei legacci in tre punti: all’altezza del collo, della vita e delle caviglie. Tre strisce di stoffa chiudono quindi come un pacco il corpo avvolto dal lenzuolo che così viene bloccato all’altezza del collo, le mani vengono tenute ferme in vita e le caviglie sono fermate e unite. Lazzaro infatti, quando uscì dal sepolcro, uscì con mani e piedi legati e si portò fuori dalla tomba tutti i teli funebri. Nel caso di Gesù, invece, è avvenuto qualche cosa di diverso e l’evangelista Giovanni sottolinea con enfasi che le tele non solo sono rimaste lì, ma sono presentate come kèimena, il latino traduce “posita”, “vidit linteamena posita”; le tele sono appoggiate, giacenti. Noi potremmo dire sgonfiate, afflosciate, nel senso che il corpo non c’era più, ma la struttura esterna delle tele era la stessa, intatta come era stata preparata, perché l’olio profumato non veniva messo solo sul corpo, ma ne veniva aggiunto ancora abbondantemente sopra la composizione in modo tale che quell’unguento già denso essiccasse creando una specie di crosta. Questo lenzuolo che avvolgeva il corpo inzuppato di unguento diventava una protezione, uno scafandro che isolava il corpo e svolgeva la funzione della bara. Questo trattamento serviva concretamente per attenuare il cattivo odore della decomposizione, tenendo conto che quella stanza dove era deposto il corpo sarebbe stata utilizzata altre volte per deporre altri cadaveri. Entrando dentro quell’ambiente l’unguento stesso doveva infatti coprire il cattivo odore della decomposizione. Quindi il lenzuolo, inzuppato di olio, tre giorni dopo è secco, è rigido; è un lenzuolo di lino, di quelli di una volta, spesso, e – inzuppato di olio – è diventato rigido, ha assunto la 5 forma del corpo, ma il corpo non c’è più, si è come sgonfiato e tà othónia sono diventate kèimena: giacenti. L’altro discepolo vede questa situazione, ma non entra. 6 Giunge dunque anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e vede «ta. ovqo,nia kei,mena» (tà othónia kèimena) le tele giacenti. “Vede” questa volta l’evangelista cambia verbo, non c’è più «ble,pei» (blépei), ma adopera il verbo «qewre,w» (theoréo), è il verbo che indica il “vedere con intelligenza”, è il verbo della riflessione che percepisce il fatto e ci ragiona. L’intenzione del narratore è di mostrare un gradino ulteriore nella esperienza del vedere: non semplicemente la pietra, non semplicemente le tele, ma il senso che ha quella situazione. Ripete letteralmente la stessa formula già adoperata prima, con un piccolo cambiamento di posizione del participio che da prima passa a dopo senza che cambi il senso. Il sudario L’evangelista poi aggiunge: vede anche… e il sudario – quello che era stato sulla sua testa – non «kei,menon» (kèimenon) “giacente” insieme alle tele, ma diversamente «evntetuligme,non eivj e[na to,pon» (entetyligménon èis héna tópon) “arrotolato in un luogo”. 7 C’è una particolare insistenza, due volte presenta le tele giacenti e poi con enfasi spiega il sudario; una tale insistenza deve essere motivata da importanza particolare. Cerchiamo allora di capire. Che cos’è il sudario? In genere si immagina il sudario come un fazzoletto che viene messo sulla faccia, largo, sul viso. Di per sé il sudario è il fazzoletto, è un termine che indica un fazzoletto, un grosso fazzoletto. Sudario è legato a sudore, la radice è «u[dwr» (hýdor) (acqua); è il fazzoletto che serve per asciugare l’acqua, il sudore. A un morto, però, come si mette il fazzoletto? Nel racconto di Lazzaro si dice chiaramente che il volto era circondato dal sudario, allora l’immaginario più semplice – secondo l’uso di seppellire dei giudei e nella prassi normale – è quello di prendere un grande fazzoletto quadrato, piegarlo a forma triangolare, arrotolarlo e avvolgerlo sotto il mento fino ad annodarlo sul capo per tenere chiusa la bocca per la composizione del volto del defunto. Il sudario è un grosso fazzoletto che, arrotolato, produce un notevole spessore; entetyligménon è un participio perfetto passivo del verbo che significa solo “arrotolare”, quindi non si può tradurre con “piegare”; è una stoffa arrotolata ed era rimasta arrotolata, non però come le tele. C’è quindi una voluta sottolineatura di differenza; la condizione del sudario non è come quella delle tele, non è giacente, ma com’è? Arrotolata. «cwri.j» (chorìs) è un avverbio che indica una separazione, una distinzione diversamente dalle tele. Era arrotolato “èis héna tópon” cioè “in unum locum” dice correttamente il latino. Il numerale “uno” non si adopera come articolo indeterminativo, non si adopera né in greco né in latino. “In unun locum” sembra una frase sciocca, perché qualunque cosa è in un posto; perché allora dirlo, perché usare “unum” numerale? Perché corrisponde a una forma semitica per indicare l’identità del luogo. In aramaico soprattutto si adopera il numerale “uno” per indicare quello che noi diciamo come “stesso, medesimo”. In un luogo, in un unico luogo, cioè nello stesso luogo, al suo posto. Dov’è il sudario? Al suo posto, è rimasto lì, allo stesso posto dove era stato messo. Quale è stata allora l’impressione visiva? Sembrava che sotto le tele ci fosse la testa, perché questo fazzoletto spesso e arrotolato, rimasto fermo intorno alla testa, dava un rilievo notevole. Mentre le altre parti della tela erano afflosciate fino a toccare la base della tomba, la parte della testa con il sudario era in rilievo, faceva impressione, sembrava che ci fosse la testa. È un particolare di esperienza visiva fisica che ha colpito l’altro discepolo, colui che ha visto e ne rende testimonianza. 6 La pienezza della visione 8 Allora dunque entrò anche l’altro discepolo, quello che era arrivato primo al sepolcro, e vide e credette. Ecco il vertice. Questa volta il verbo vedere è «o`ra,w» (horáo), «ei=den kai. evpi,steusen» (èiden kài epísteusen) “vide e credette”. C’è un passaggio dalla percezione fisica al ragionamento per giungere alla fede, alla adesione di fede. Il vedere finale del discepolo che Gesù amava è la comprensione del senso; si è illuminata la mente, ha capito che nessun agente umano avrebbe potuto portare via il corpo lasciando le tele in quel modo. Ha capito che non si trattò di un furto di cadavere, ha capito che era avvenuto qualche cosa di incomprensibile e di inspiegabile; noi potremmo dire “il corpo è sparito”, ma tutto è rimasto intatto. Mentre Lazzaro uscì portandosi dietro i teli funebri, con le mani e i piedi legati, con i sudario che gli circondava la faccia, Gesù lasciò tutto nel sepolcro. Non “se ne andò”, non “uscì a piedi”, ma sparì. L’evangelista non dice che cosa è avvenuto, come se ne è andato; dice che il discepolo ha capito che è avvenuto qualche cosa di assolutamente nuovo e straordinario. Così aggiunge Giovanni: 9 Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, Il discepolo che Gesù amava “vide e credette” perché fino ad allora non aveva ancora capito; nessuno dei discepoli aveva ancora capito la Scrittura… che bisogna che lui dai morti risorga. Molti anni dopo l’evangelista che scrive il racconto ha capito, in base alle Scritture, che la risurrezione di Gesù rientrava nel progetto di Dio e si è realizzata pienamente. È stata quella esperienza visiva di fatti concreti – i segni della scomparsa del corpo in modo prodigioso e successivamente le apparizioni del Risorto – a far maturare in lui la conoscenza delle Scritture e farlo giungere alla fede piena. Maria: dopo il pianto la conversione 10 I discepoli ritornarono di nuovo dai loro. 11Maria invece stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro 12e vide Solo Maria quindi rimase presso il sepolcro, lì a piangere davanti alla tomba. Anche lei adesso vede: di nuovo il verbo «qewre,w» (theoréo) … due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. 13Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?». Lei ripete il ritornello… Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno messo». Questa volta al singolare, è rimasta lei da sola. È importante perché la figura di Maria fa da inclusione, apre e chiude la scena. I due discepoli che vanno al sepolcro e vedono le tele sono al centro, sono il quadro; l’esperienza di Maria è la cornice. 14 Detto questo, si voltò all’indietro e vede «qewrei/» (theorèi) Gesù che sta in piedi; ma non sapeva che è Gesù. 15Le dice Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». É molto importante la domanda “Chi cerchi?” detta da Gesù; notiamo che all’improvviso compare Gesù. Questo è il primo racconto di apparizione pasquale, però notiamo che al v. 14 si dice che Maria di Magdala si voltò all’indietro e vide Gesù “stante in piedi, ma non sapeva che è Gesù”. Non si dice che Gesù è arrivato, che è venuto, che si è fatto vedere; il testo dice semplicemente che lei lo vede, ma non sa che è lui e la parola che per la prima 7 volta il narratore mette in bocca a Gesù è una domanda: “Donna, chi cerchi?”. È una domanda importante che l’evangelista Giovanni ha già fatto fare a Gesù due volte. All’inizio del racconto è la prima parola che Gesù rivolge ai discepoli che lo seguono, ai discepoli del Battista «ti, zhtei/te» (tí zetèite) “Che cosa cercate?” (1,38). È anche la prima parola che Gesù pronuncia nel racconto della passione ai soldati che sono venuti nel Getsemani per arrestarlo. Si fece avanti e chiese: «ti,na zhtei/te» (tína zetèite) “Chi cercate?” (18,4): qui il riferimento, che può essere maschile o femminile, è comunque a una persona. Adesso la prima parola che il Risorto pronuncia è «ti,na zhtei/j» (tína zetèis) “Chi cerchi?” (20,15) e qui il riferimento è chiaramente al corpo di Gesù. Attenzione, l’evangelista Giovanni mette in bocca a Gesù questa domanda tre volte: all’inizio della missione pubblica, della passione e della esperienza del Risorto; è la domanda iniziale, rivolta a te personalmente: “Chi cerchi?”. Il fatto che la chiami “donna” – elemento importante nel linguaggio del IV evangelista – dà a Maria di Magdala il ruolo tipologico della donna come popolo, come comunità, come la figura femminile della sposa che personifica la comunità in relazione con lo sposo Messia. Chi stai cercando? Lei crede che sia il «khpouro,j» (kepourós); «kh/poj» (képos) è il giardino e dove era stato crocifisso Gesù c’era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo. Questo è un incontro di un uomo e di una donna al mattino del primo giorno in un giardino. È facile il riferimento simbolico, è una nuova coppia nella novità del mondo. Lei crede che lui sia il kepourós, l’uomo del giardino, il giardiniere. È vero o non è vero? In senso fisico non è vero, Gesù non è il giardiniere, ma se lo leggiamo in senso simbolico è vero: Gesù è l’uomo del giardino, è il custode del giardino, è colui che garantisce l’accesso al giardino, al giardino inteso come il luogo della amicizia con Dio, della buona relazione con il Signore. Gesù è il giardiniere che permette l’accesso a questo giardino dell’amicizia di Dio. Lei ripete la sua idea fissa, ha una idea e continua a ribadirla. Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo». Giustamente soffre e continua a piangere perché il suo Signore è morto, per di più hanno rubato il corpo. Lei spiega a Gesù che hanno portato via il suo corpo; lei è disposta ad andarlo a prendere. Gesù le risponde semplicemente chiamandola per nome con un tono che potrebbe essere di questo tipo: Mariaaaa. Come dire: ma è possibile? Svegliati, guarda e capisci, riconosci. Il tono non è trascrivibile; un nome di persona può essere pronunciato in tanti modi diversi. Provate a immaginare in una lezione di teatro in quanti modi potete pronunciare il nome di una persona. Gesù la chiama per nome ed ella «strafei/sa» (straphèisa) “voltatasi” gli dice: «Rabbunì!» Notiamo che al versetto 14 si dice che Maria «evstra,fh» (estráphe) “si voltò”: al versetto 16 «strafei/sa» (straphèisa) “voltatasi”. Si volge due volte. Perché ripetere due volte lo stesso verbo? Se si è voltata una volta verso Gesù e poi si volta di nuovo allora la seconda volta gli dà le spalle. No, perché la prima volta è un movimento fisico, la seconda volta è un movimento spirituale. Era ancora buio, adesso è venuta la luce, è sorta la luce. Chiamata per nome, non “donna”, ma “Maria”, la luce si è fatta largo nella sua coscienza e lei si volta “conversa Maria dixit”. Convertitasi, rivoltatasi, interiormente rinnovata, può aderire a lui; lo ha visto, ma non sa che è Gesù finché non si lascia coinvolgere da questa relazione personale “donna-Maria”. C’è un coinvolgimento sempre più intenso finché la voce, la cara voce 8 conosciuta che la chiama per nome, rompe la sordità, la cecità: apre gli occhi, la luce le permette di credere. Come il discepolo, anche Maria di Magdala vide e credette. È la nostra esperienza di credenti che vedono il Signore attraverso le Scritture; colui che vide fisicamente ha reso testimonianza per iscritto perché noi che non c’eravamo, che non abbiamo visto, attraverso la sua Scrittura possiamo vedere il Signore e credere in lui. È una esperienza che si ripete continuamente e a Pasqua, liturgicamente, raggiunge il suo vertice. Vi auguro che in questa Pasqua ci sia davvero un incontro di chi vede e crede nel Signore. Buona Pasqua. 9