Mozzio e Viceno
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Mozzio e Viceno
Mozzio e Viceno Alla luce di un’alba Sembianze un po’ sbiadite di un piccolo mondo antico, di due borghi inseriti dolcemente in un mosaico di pascoli, di verzure e di campi fecondi di messi rigogliose. In un fiabesco abituro ormai scomparso, a ridosso di un casolare fatiscente, oggi dimora riedificata dell’amico Benito, vivevano due vecchiette centenarie: la Lena e l’Anqelina B. Sbarcavano il lunario in un sudario di risorse arcaiche e di orgogliosi stenti. Quanta tenerezza!. Tur1un, vecchio sbilenco e dalla voce stentorea per il grande gozzo, Pepin il saccente, Giuvanun, omaccione probo, e altri ancora, non sfuggivono all’attenzione allorché bambini ci recavamo alla novene d’la Madoneta tantu brava e un pò miraculusa. Cosl la rimava il vate Torotela, strano mangiapreti e appassionato giocatore di boccè. I suoi versi dialettali, ben colorirono alcuni passi di quei tempi spiritosi (“ Torotella è lo strumento ad arco dei menestrelli, dei cantastorie. Torotela, con una sola ‘elle’ che significa? Uno stratagemma?. Così insinuavano, nei riguardi dello pseudonimo di G Leoni, i più eruditi, i buontemponi di allora. Un enigma mai risolto “). Le pareti interne del Santuario erano stipate di ex voto. Quadretti anonimi, novelli naif, riproducevono in forma semplice e fantasiosa un avvenimento, un ringraziamento. Facevano spicco due tele allucinanti dell’incendio di San Francisco. Testimonianza di alcuni oriundi, usciti indenni dall’immane sisma. A monte, la turrita parrocchiale era gremita, nelle festività, da una buona parte dei nativi. La sosta degli uomini, all’esterno, era d’obbligo. Il “ Gloria era annunciato dai primi fruscii di buon fustagno, verso le entrate. I gruppetti, di rincalzo, venivano assorbiti, all’interno, dal grosso dei presenti, lasciando alle spalle la cantilena dei cigolii.della porta principale. Il Presbiterio e il Coro, tra bizzarre folate d’incenso, abbracciavano un nutrito stuolo di giovani e di anziani. I canti, ora acuti ora sommessi, tentavano di dare un tocco mistico alle funzioni, sotto la censura di un’attenta cerchia di devote, poco discoste dalla balaustra. Memorabili alcune processioni la cui essenza ben simulava l’emulazione al culto della fede. La prima, nella ricorrenza del ‘Corpus Domini’. La lenta fila salmodiante, preceduta dai rossi sai della ‘confraternita’ e da spruzzi di petali di rosa, scorreva lungo la contrada, tra due fitte e leggiadre pareti di candida tela, di tovaglie e di lenzuola armoniosamente ricamate. Mani certosine, nelle lunghe tregue invernali, sapevano trasformare il fiocco in siffatta grazia. La seconda, da Mozzio al Santuario, 1’8 settembre. La sua rievocazione, oggi ridotta al lumicino e alla fredda immagine folkloristica, è stata tratteggiata, con naturalezza dalla penna arguta d’la Gina B. La sfilata dei fedeli era infatti vistosamente ornata da corbelle mu1tico1ori e da cavagnette ricolme di segale, in omaggio alla Madonna, transmigra da Bologna, nei primi del ‘600, per volere di un pugno di mozziesi colà approdati, in cerca di fortuna. Il nitido ritratto di cari personaggi alimentò le nostre menti proprio in quelle occasioni. Qualcuno ricorda Luisun e la sua figura ascetica, degna di una scultura. Dicevano i miei: “ ti addormentavi, bambinello, sulle sue ginocchia, tirandogli i lunghi baffi, tra valzer e mazurke nella locanda di Maurilio, quando Mozzio era una sola famiglia.” Maurilio Savoia, un pioniere senza confronti. Tracciò un solco denso di iniziative e di grande esempio ai numerosi abiatici. Quasi tutto il ~Cantun-Guenz- porta la sua firma. Ripetutamente emigrante in America, ai tempi della stiva e della diligenza, al ritorno, trasformava ogni peculio in un’opera muraria. Se le pietre del primo Belvedere parlassero! Tito, il figlio, emulò il padre ma fu vittima, ancor giovane, di un tragico destino. Jacam, nel pratino a valle della casetta della Filomena P., lo si vedeva senza soste, in pastura di galin. Sensibile alla frecciate di noi ragazzi, ci ammoniva roteando il suo bastone. Menighin conciliava piccoli lavori dei campi con la bricolla. Allevò onestamente i suoi figlioli che, sulle impronte di Migio e Toio, usarono a lungo i loro piedi nudi, come scarpe quotidiane. Ricordo, nei paraggi l’Annetta e le sue storielle, in certe sere, sull’angolo del camino. il figlio Ernesto, reduce dal nuovo mondo, vestì a lungo la tenuta di cow-boy, sulla scia della gonnella scozzese di Pepin R, milite canadese nel 15/18 e pellegrino solitario, a 90 anni; dal Canadà alla sua natia Mozzio. La Stalenga: una stalla ciclopica sormontata da un fienile di antica foggia, annerito dai lunghi anni. Offriva uno spiazzo sulla sua fronte, una specie di arengario, di conciliabolo. Si avvicendarono, in quell’angolo ridente, intere generazioni di mozziesi. Era luogo d’incontro dei notabili, dei maggiorenti. Chi può scordare il vecchio Peverin, mio Padre, u’l sciur Marco, eminente magistrato, Serafin ~‘ sagace allevatore taurino?. Nei pressi esisteva una bottega oscura il cui profurmo~ di muffa, di sale e di tabacco, non poteva tradire al viandante, la sua presenza. Le monetine di rame venivano inghiottite da una feritoia del pancone allorchè Jorda o la Carolina offrivono a noi bambini, appiccicose caramelle,unica delizia di quei tempi “Parva domus magna quies”~ stava scritto poco oltre, sull’ingresso degli Alberti-Violetti. “per né a Dom mangia qui” era la nostra prosaica~traduzione. Remigio Sala, Diovol e Stevin, incutevano Il massimo rispetto allorché procedevano sul selciato, nelle vicinanze dul funtanun e dla stala dul Gigin. Ul Gnazi, vecchietto pieno di acciacchi e di tristezza, stava seduto, muto ed immobile sulla terrazza attigua. Più avanti, il saluto alla Rata, faceva parte del costume di noi tutti,. La vegeta donnetta, mai satura di anni, stava raccolta, lungo il giorno, sul portale di una delta più vetuste case mozziesi. Un casone In grosse pietre e custode, secondo la leggenda, di un tesoro mai trovato.Era fronteggiato da un passaggio aereo e incuniato tra i Triboli e uno strano palazzotto, antica sede comumale. Da quest’ultimo emigrarono nella nuova sede, sopra la latteria, gli ottoni della vecchia banda musicale. Nella cantina sottostante regnavano piglie d’bun sprèss e botti di vinello dalle quali Genio S. attingeva il bicchiere della staffa. Mentre a Vegno bisava a Mozzio pavellava; l’uva è stentata a colorire, diceva nella sua stramba dizione italiana. Poco discosto dalla cappella di S.Antonio, la prediletta dalla Togna, e del forno di Liunzin verso S. Ciuseppe, esisteva un artistico porticato effigiato da un vivace affresco. Di fianco, saliti tre gradini, vivevano u’l Palest e la Beta, parenti di famiglia e nonni del Volfi e dei Bernardini, La porta era sempre aperta e u’l caffè d’la luna, ognora caldo per tutti gli ospiti. In un buon decennio abbiamo barato in t’la stùa tèsa ad fum, più di una marianna ai danni d’la Rachèla, d’la Marietta, e d’Elvira, le decane del Cantun Berna. Nei paraggi si incontravano sovente Carlo L., sempre beffardo, la Centa e Pin detto Pinella, severo e patetico’messo comunale. Appariva oqni tanto Canetta, cicca In bocca, e scaltro artigiano, sempre Instabile tra Mozzio e il vicino Vallese. Possedeva Una collana di attrezzi invidiata da tutta le comunità. I suoi muri in ‘ pietra vista erano pizzi ricamati. Le sue cataste lignee, erano Frutto di un’ingegnosa segherie alimentata dal prodigioso Urì. il fiumicello, dalle sorgenti d’i funtan, varcava, con saltelli ripetuti, il centro dei paese, sotto una volta poco discosta d’la cà d’ul Toio. Limpido come un cristallo, contribuiva, tra due lastre inclinate di puro granito,levigare panni e indumenti e a sciacquar bucati a’d buna scéndra. Il lavatoio era esclusivo punto d’incontro a’d tuti I femin e pungente fucina delle più condite novità locali. Nella vecchie casa paterna, nelle vicinanze di Celestin R.., viveva con la Filomena il buon Kin primo cugino di mio padre e nonno di Pino F., troppo presto scomparso. Pin Leoni,altra tipica figura di vecchietto arzillo dai riccioli tutti bianchi, accudiva il, suo mulino fumante di farina. Ci raccontava, tra i battiti del frantoio e delle grande ruota a pale, la storiella della capra di Bezzecca scambiata, con una fucilata, per un avversario delle ‘giubbe rosse’ dei suoi tempi. I cavalli e i calessi dei Pisi, dei Racli, dei Jorda, completavano, con le piante di amarene, le scarse attrazioni di tutti i ragazzi del paese. Cosi, nell’arco di molti anni. Per gustare la rara bellezza dì un ramo della vecchia Mozzio adagiato, con arte, sul ciglione a notte del poggio dominato dalle mura della Chiesa seicentesca da cui digrada uno stupendo castagneto, bastava percorrere, come eravamo abituati, la ‘véia nova’in un anfiteatro tutto verde, costellato a nord, dalla caralascia e dalla sua cappelletta solitaria, scorreva un Urì pieno dl mulinelli e dì spume venate d’argento. Sullo sfondo, nell’azzurro intenso, si stagliava scomparendo, il corno Cistella, a mano a mano che il nostro sguardo si avvicinava, zizzagando, ai filari dì gradoni solcati da piccoli campi di verzure e di ortaggi ben allineati. I coltivi si speqnevono, al riparo della tramontana, nell’ansa del lavatoio e del mulino d’l Burgunun. In ogni orto, coltivati con amorosa cura, ochieggiavano, tra i gigli e l’erba_rosa, fiori a tinte molto vivacì .Erano fiori d’ul mazèt, graziosa composizione atta a onorare le feste paesane e gli avvenimenti di ogni parentado. Un paesaggio ricco di colture si ripeteva, inoltrandoci da Co’ d’la,Vila e da Càval sui sentierini, verso Viceno. Tra un ripiano e l’altro, i fazzoletti di segala, di granone e di frumento ondegqiavano lievemente in una policromia di giallo, dall’ocra al paglierino~.Si Saldavano, più a monte, con campi e gli orti arabescati dei vìcenesi. Il Pian d’Ecc, tra le sue propaggini, ostentava una scacchiera Incomparabile. i viottoli, nel cuore dell’estate, erano sommersi da folti filari di steli dorati,prossimi alla mietitura. Il raccolto era seguito, poco dopo, dalla battitura della apiqhe, pingui dì chicchi maturì. Sulla soglia dei fienili, una dolce eco di battiti cadenzati si confondeva con i cicalecci delle comari e di matan che offrivano, via via al vento, lo spoqlio del nettare della madia e della mensa. Piogge dì granellini tersi si adagiavano, a rivoli, sul fondo del Val,--ampia e aggraziate conchiglia fittamente intrecciata da steli di giunco. Lasciata la ridente cappelletta, sul ciglio dell’Amnù, alla confluenza del Pian Dècc ci addentravamo, su un sentiero molto battuto, in un ombroso ~faggeto che sfociava nei tappeti erbosi,punteggiati da- noci secolari, sotto Viceno. Poco prima, lungo la carrareccia tra Il piccolo Campo Santo e l’Aurera, passeggiava immancabilmente il vecchio prevosto, immerso nel breviario nel soliloquio. Doppiata la piccola cappella di S. Lucia, ormai ignorata, si proseguiva, superati i maceri e i canneti dì cotone dell’Alfenza,alla volta di Cravegna e di Baceno. Talvolta strada facendo.s’incontrava Rovaletti. A tracolla, da buon lattoniere, l’inseparabile cofano di lamiera con tutti gli arnesi del mestiere. Viceno era sempre accarezzata da un profumo di fieno e di pane settembrino. Lungo la giornata, difficilmente s’incontrava anima viva. La sparuta comunità si disperdeva affacendata,nel lavoro dei campi e degli alpeggi sovrastanti. Solamente nell’autunno si percepiva, tutt’attorno, l’armonico tintinnio delle mandrie al pascolo, sciabolato, a tratti, da richiami pastorali. La parentesi di S. Rocco dava particolare lustro al mistico tripudio della natura La sola tavolozza di un Aston avrebbe potuto fondere il fascino del paesaggio con il folklore culminante della sagra, sulla distesa di prati, fuori la Chiesa. Viceno, nel suo piccolo e sulle orme di un passato illustre, aveva di fatto, i suoi patriarchi, i suoi bambini, le sue ombre muliebri fedelissime ai costumi dell’epoca. S’incontravano in uno scenario quasi irreale, con la gerla o chaula sormontava da una culla, sui sentierini verso Abi e verso Rondola. Le vecchie famiglie dei Bernardini, dei Bionda, dei Biancossi, dei Prinsecchi, dei Passelli e poche altre, spiccavano attraverso personaggi fedeli alle tradizioni e alla saggezza contadina. I loro rari e pacati discorsi farciti da piccole ondate di tabacco da naso, erano seguiti con rispettosa attenzione. Azzeccavano con minimo scarto l’andamento del tempo, dei raccolti, delle malattie. Per noi ragazzi erano maghi, grandi profeti. La loro traccia comunitaria lasciò alcune impronte, tuttora alla luce del sole Fino agli anni 20, le candele e i lucignoli a olio, illuminavano le dolci veglie e le ultime faccende dei discreti casolari di Mozzio e di Viceno. Avanti i tocchi dell’Ave e il crepuscolo delle notti, ancora fonde di oscurita’, i lanternini, come lucciole, e in sintonia con i primi canti del gallo, annunciavano un nuovo giorno. Iniziava così il governo del bestiame, raccolto con dovizia, ai margini delle mangiatoie lambite da fresche cascate di foraggio. Il primo rito, tra i tanti riti; di una vita irradiata costantemente dall’amore alla natura e alla libera volontà. Un minuscolo mondo senza ritorno? Quanta tristezza! Oggi, spogli da remore,di sorta ne godiamo con avidità gli ultimi frammenti? Una sola generazione ha assistito ad una precipitosa evoluzione del tempo. Progresso? Fatalità? Esasperazione di una caotica metamorfosi? Difficile, ogni commento. Ruit hora. L’ora scorre. Certamente il sacrificio delle genti di un’alba, decisamente al tramonto, fù eccelso’ e sovraumano, commovente. D’altra parte non possiamo rinnegare il messaggio culturale ed educativo di un’etica i cui valori sono misurati dal senso di smarrimento che ci circonda. Verità bruciante, piena di meditazione. Dicevano gli antichi: Amicus Plato magis amica veritas’E’ grande Platone ma la verità é più grande di Platone. Luigi Jussi Mozzio, giugno 1979 COM’ERA BELLA LA MIA VALLE Dove siete o ridenti radure diradanti da Mozzio e Viceno? Dove siete o verdi pascoli macchiati di selve e abetaie. che nessuna tavolozza è mai riuscita a eguagliare? Siete ancora ma una patina di tristezza vi avvolge tutt’attorno e la vostra perenne giovinezza, è oggi avvizzita. senza pietà. Sentieri tersi, mulattiere incastonate di ciottoli e gradini corrosi dal tempo, si snodavano si inerpicavano, si intrecciavano come linfe rigogliose sfiorando boschi preziosi e lembi prativi. Rii, ruscelletti, fontane ricche di acque sorgive, cantavano sommessi le loro lodi alla Vita! Cappellette raccolte in religioso silenzio e adorne di modesti affreschi e fiori silvestri. baite e casere dai nomi suggestivi e ubicate nei luoghi più discreti. sposavano l’ambiente con il grigio sfumato del loro granito e l’amaranto del loro lance. Tetti solenni come aquilotti in agguato, ostentavano ferrigna sfida alle intemperie a guisa di grandi cuspidi cesellate e lastricate da mani esperte e pazienti. Muretti, piramidi di pietre muschiate, qualche volta ciclopiche, testimoniano ovunque e tuttora, come monumenti, le ultime vestigia dei nostri Padri che sapevano mietere tenacemente il foraggio per gli armenti, fin sulle ultime falde della Colmine e del Cistella. Rudimentali e improvvisati cancelletti, le “porteie”, localizzati tra il prato e il bosco e l’ovile. convogliavano e alloggiavano il bruno e opulento bestiame che proprio nella fantasmagoria di luci e colori autunnali, echeggiava con i suoi bronzi. concerti armoniosi, dall’Ave all’Angelus vespertino. Tutto era incanto! L’aria era greve di aneliti profumati di grande libertà. Persino il boscaiolo. come un rito. sacrificava la pianta matura, l’adagiava, la spogliava e l’inoltrava a valle, cori cadenze vocali composte, attraverso scoscese e rugose vallette. La stessa accetta. simbolo di distruzione. sapeva mascherare la propria ansia funesta. Oggi si taglia, si distrugge in modo non sempre discriminato, all’unisono di echi laceranti e sotto il giogo dell’affanno e dell’affarismo. A dispetto dell’ecologia. la flora. un tempo esuberante, spegne il suo fascino. La fauna spopola. i migratori spaziano verso soste più ospitali. A bassa e media quota scompaiono noci, castagni. faggi vigorosi. E le ferite, così facendo. divengono insanabili. Anche la pietra. schiava del più dissennato progresso, paga il suo tributo di desolazione Emigra il più bel serizzo lasciando il posto alla calce e al mattone. Crollano le stalle e nascono squallide alcove per il neo destriero d’acciaio vantato simbolo del consumismo. Malghe e sentieri, sempre più fatiscenti e lontani dai plenilunii screziati dalle note di una fisarmonica. cedono spazio all’asfalto e allo scricchiolio di lucenti lamiere. In contrasto ai pochi rustici eretti o riattati, a rispetto del retaggio contadino, in alpeggi e su alcuni poggi, quasi a tramontana sono sorte qua e là. a grappoli o fredde dimore. Cottage per lo più pretenziosi generalmente spogli di richiami al colore e allo stile locale. Sgraziati accostamenti e disparati accessori sono venuti, a poco a poco a completare il quadro. E mentre da una parte, specie a ponente. l’erba gramegna l’ortica e il sottobosco, divorano lentamente un lembo di paradiso terrestre, dall’altra, macchine diaboliche hanno scavato e sradicato dal grembo ubertoso, rocce. muschi e micelli contaminando. a largo raggio, il verde secolare dei nostri pascoli, già dissacrato dalle tracce inconfondibili della invadenza forestiera e godereccia . Ognuno ha tracciato la propria strada, più o meno sinuosa, più o meno abbruttita da ibridi manufatti, come quella maestra le cui origini sono state, a mano a mano forviate. Ciascuno si è chiuso e si chiude tuttora nei propri steccati. Alcuni boschi, incomparabili parchi di maestose conifere, sono stati infittiti da solchi e piste sconnesse non sempre rispondenti alla comune bisogna. Vetuste siepi pietrose, opera dei nativi, hanno subito squarci stridenti. il motocoltivatore e gli ultimi armenti non sono mai stati onorati da tanta dovizia! E’l’uomo avvinto da nuovi idoli, da nuovi feticci, assiste impotente e con malcelati ottimismi a tanto scempio. E impreca allorché Madre natura, introversa e saggia, come dice Moravia, si ribella agli improvvisati squilibri, con le sue avversità torrenziali e deleteree, giù giù, fino a valle. Nessuno si sente fremere da larvati rimorsi, verso i nostri Padri? Ammoniva Virgilio, già ai tempi di Roma: O fortunatos nimium, sua si bona norint, Agricolas! O troppo fortunati Agricoltori, se conoscessero la loro felicità! Replicava Orazio: Beatus ille qui procul negotiis, ut prisca... Beato colui che, lontano dagli affari, come facevano gli antichi mortali, coltiva i campi paterni con i propri buoi, libero da ogni debito. Il pane nasce dalla terra E’ legge naturale che non conosce tramonti. Siamo ben sicuri che la trasformazione delle nostre colture non conosca altra alternativa se non il progressivo smembramento del nostro patrimonio coltivo e pastorizio in cambio di un effimero peculio, già divorato in partenza? Siamo ben sicuri, abbagliati dall’immediatezza e dal mito di oziose strutture, di non cedere troppo terreno alla banalità e alle brutture? Ecco il duro dilemma. Cosa facciamo? Salviamo il salvabile con acuto discernimento. Troviamo un modus vivendi atto a conciliare le soluzioni migliori* Timidi approcci già sono stati tentati. La validità di alcune opere frammentarie. improntate da buone intenzioni, ne sono la prova. Tutti hanno il diritto di vivere e di garantirsi il domani. Nessuno può essere impunemente accusato. La critica è facile e ovvia, I giovani disertano, a ragion veduta, verso lidi migliori. La montagna diviene sempre più gretta. Anche i nostri Vecchi sono stati talvolta costretti, loro malgrado, all’evasione. Le donzelle sognano il nido pulito e moderno, detestano il lezzo dell’immondo letame. Chi non ha diritto ad un minimo conforto? I nostri pascoli, ancora oggi, non sono certamente fecondi di beni sociali! Chi, ancora, predilige il lavoro festivo? Chi assiste efficacemente la dura vecchiaia? E chi riesce ad abolire la nevrosi del mezzo veloce, atto ad affrettarci alla vicina mescita, a pochi passi da casa, nel minor tempo possibile? Sono oramai lontani i tempi in cui si deambulava a Crodo, bruciando le scorciatoie, per imbucare una cartolina o per acquistare un chilo di pane fragrante! Sono bensì trascorsi sinfonie stonate e all’insegna dell’esibizionismo. Soltanto il Vecchio, paga, sempre. Guardiamoci attorno e scrutiamo il mondo agreste, sotto tutte le latitudini. Solleviamo il nostro occhio oltre * più vicini confini, oltre lo spartiacque. Approfondiamo la nostra miopia verso le radici di quella che fu l’autentica cultura dei nostri Avi. Non degeneriamo in false utopie o in stolte demagogie, ma uniamoci una buona volta; non è mai troppo tardi. L’unione fa la forza e il buon senso costruisce il resto. Non tutti gli appelli saranno vani. Rammentiamo, sull’esempio di sporadiche e lodevoli iniziative dei tempi nostri, la salutare rotabile Viceno-Cravegna, nata in epoca di ristrettezze e non lontana, per volere di tutti i locali e con il contributo, per ben due terzi, di giornate lavorative gratuite. Oggi non è più il caso di ricorrere a tanto ma la solidarietà rimane pur sempre un seme prezioso. Piangiamo talvolta sui nostri misfatti, ma tutti, in maggiore o minore misura, siamo complici. Ridiamo sopra anacronistici e passati costumi ma sentiamo nel nostro intimo, un vuoto incolmabile. Non per nulla le vecchie e penultime generazioni, rimpiangono la semplicità, la fratellanza, il rispetto, il senso della Vita! E il candore e la sensibilità delle ultimissime? Leggiamo alcuni brani, analizziamo alcune riflessioni, dei più piccini, verso i nostri luoghi. E allora? Rammentiamo allorché Giuvanun, da Smeglio, scrutava le radure sovrastanti e i più elevati alpeggi, con un potente binocolo, per scovare la selvaggina e le abitudini di un lesto camoscio? Ricordate il baffuto Luisun, mazziere e cerimoniere della processione, dalla Parrocchia al Santuario, allorché disciplinava la bianca schiera più ondeggiante, con l’ingenua e lapidaria reprimenda: “stei in fila puttan ad verginell”? E Pin Leoni, longevo ex garibaldino, allorché si recava quotidiana_mente dall’Annetta per il consueto quartin, prodigarsi in dotte disquisizioni verso chi incontrava? Ricordate l’austera tutela campestre del buon Pinella? E la saggezza di alcuni Maestri, nati dal seno della nostra terra e larghi di disinteressati consigli, usi a fare della professione un apostolato alla parsimonia e alla onestà? Rammentate la rettitudine dei nostri Amministratori, dei Patriarchi delle nostre Casate; l’ambizione degli allevatori delle nostre mandrie superbe, degli artefici della zootecnia locale, gelosi custodi della razza bruno-alpina? Chi non ricorda vagamente il vecchio Peverin, ieratico, barba folta, seduto sopra un scranno nei pressi di casa, in meditazione sulle cantiche di Dante? E Turlun, Jacam, ul Gnazi, la Ratta, Palest, Stevin, Canetta, Maurilio, Tito, Diovol, Gustin, Branchetta, Serafin, Cinto, Migio, Sartoretti, la Setta, l’Elvira, la Rachela, la Ninun, la Toia, la Clementa, i Recli, i Pisi, i Locatelli, Jorda e altri, altri ancora, tra cui molti vicenesi, mai dimenticati? E senza andare molto addietro nel tempo,ti ricordi Maurilio allorchè ancora bambino ti gettavi dall’alto muro della Stalenca per la modica ricompensa di un soldo ? E i guardinghi approcci ai prugni, ai meli, ai ciliegi, pingui di frutti maturi? Oggi, crollano da sè, il loro raccolto costa sudore. E le scappatelle ad Abi, ai margini dell’abituro del Gobbo? Ricordi Toio, la distesa delle tue campane in sintonia con le fatiche, la siesta, il raccoglimento di tutta la comunità? Ricordi caro Mario, allorché al tocco del bronzo solitario, ti affrettavi a bottega per comporre i legni, ancora profumati di resina e destinati allo Scomparso, quale olocausto all’ultima dimora? Persino il trapasso, riusciva, allora. a dissimulare l’angoscia misteriosa dell’Eterno! Ricordate, inoltre. l’onnipresenza del buon Saverio di Viceno, segaligno e tutto pepe, uso ad infarcire i convenevoli con le parabole latine e i passi della Bibbia? E Prinsec, Biagin, il loquace Domizio, mugnaio a tempo perso? E Marcello balurd, scaltro cacciatore di frodo? E ‘I Bocia, mago estroso del ferro battuto?’ Chi può scordare infine, le piglie dei pani casarecci e di formaggi tondi tondi, schierati come fusi offerenti, sull’altare in pietra, in mezzo al verde, fuori S. Rocco poco discosto dai bumbunatt e dalle cavagnette? Personaggi, fermenti, fatti e cose di una popolazione integra, anche se leggermente sfocata agli occhi dei giorni nostri. Nessuno può dimenticare! Ancora nell’immediato dopo-guerra, attorno agli anni ‘60, tutte le strutture, tutte le usanze. erano quasi immobili. Ad un certo momento, sotto l’incalzare di nuovi eventi, lo stesso mondo contadino, la nostra piaga patriarcale, subiscono il loro trauma, la loro metamorfosi, una specie di diaspora. Si ribellano, a giusta ragione, alle catene secolari delle loro astinenze, dei loro stenti, delle loro impari fatiche. Ma aprono incautamente le fragili barriere, all’improvviso e aggressivo progresso, nel modo non certamente migliore. I riflessi negativi, alimentati da un infido vento di scirocco, non si sono fatti attendere, non hanno risparmiato il nostro nordico saliente. Svanisce l’atavico attaccamento alla terra: sbiadiscono, giorno dopo giorno, i versi del nostro Torototela, il nostro idioma, il nostro éthos. le nostre tradizioni. e suona oggi, più di ieri, con inconfondibile tristezza, il messaggio leopardiano... passero solitario, alla campagna cantando vai finché non more il giorno ed erra l’armonia per questa valle... Incoraggiamo e aiutiamo i nostri sparuti montanari, le nostre genti genuine, testè sulle orme dei pionieri, affinché le loro preziose esperienze, la loro sagacia, trovino novelli proseliti; razionalizziamo le nostre risorse montane nel modo più onesto, affinché la nostra terra sia meno avara di messi redditizie verso tutta la collettività. Adoperiamoci per il ritorno di una autentica festa dei campi, di una sentita solennità paesana. Rifuggiamo i falsi riti lucrosi, spogliamoci dagli egoismi, scuotiamoci quindi, se vogliamo che anche all’ultimo passero sia negata ospitalità, sotto la eco intramontabile del suo mesto commiato: addio monti sorgenti... dai pascoli ingialliti per sempre. Luigi Jussi Dicembre 1977