La maledizione del dover morire dovrà diventare
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La maledizione del dover morire dovrà diventare
La maledizione del dover morire dovrà diventare una benedizione: che si possa ancora morire quando vivere è insopportabile. Elias Canetti, La provincia dell'uomo, 1973 1 INTRODUZIONE 2 Nella vita quotidiana, la morte rappresenta un argomento che si tende ad evitare, poiché viene visto e vissuto con dolore, angoscia e riempie la persona di domande che non sempre trovano una risposta. Nell’ambito sanitario, il personale medico ed infermieristico, si riscontra ogni giorno con esperienze di persone malate che sono separate da un filo sottile con la morte ed inevitabilmente porta al porsi domande sull’etica di questo vissuto, su cosa possa essere più giusto per evitare o alleviare la sofferenza del malato e delle persone che lo circondano, sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista della propria dignità. Quando il malato sa che non avrà cura per la propria malattia e, questa, porterà gradualmente al decesso, il senso di angoscia prevale e l’unico desiderio che resta è che il proprio calvario finisca presto. Per il personale sanitario questa resta una sconfitta, poiché la sua missione più importante sia proprio quella di alleviare il dolore umano e di dare quella forza e quella speranza che permettono tanto ad una persona di migliorare le proprie condizioni più velocemente e che, in questo caso, si trova impotente di fronte ad una situazione in cui non vi è via d’uscita e in cui sembra difficile e fuori luogo qualsiasi tentativo di consolazione. Il dibattito sulla bioetica resta acceso all’interno dell’ambiente sanitario, in cui va sempre a riscontrarsi con la legislazione del proprio Paese. Numerosi sono stati i casi in cui la persona malata non fosse libera di decidere per la propria vita e avesse esplicitamente lottato per porne fine, per il proprio diritto di decidere come morire e per avere un pizzico di dignità per la propria persona. Desideri che uno Stato come l’Italia non può garantire sulla libertà, in cui un individuo non può scegliere cosa sia il bene per se stesso. Casi recenti e di una certa fama, sono rappresentati da Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro. Ma oltre la richiesta del soggetto a voler volontariamente porre fine alla propria sofferenza, esiste un altro dilemma etico dello stesso valore, ma nella quale il soggetto non può, momentaneamente a causa della malattia, esprimere la propria volontà che magari sia stata espressa in passato. 3 Un prolungamento della vita per una condizione irreversibile, dipendente da un macchinario che ne permette l’alimentazione, l’idratazione e la respirazione, viene considerata vita? La dichiarazione anticipata di trattamento, può essere considerata una sorta di consenso informato “anticipato”, poiché provenga direttamente dalla volontà del soggetto coinvolto e che ha precedentemente dichiarato? Le domande sarebbero tante e tante ancora, senza risposta. Sono anni ormai che l’argomento viene affrontato con un certo attivismo sia da parte della Sanità che della popolazione. Il dibattito viene affrontato dalla politica, dal Comitato Nazionale di Bioetica e dai professionisti sanitari, ma nonostante ciò, la giurisprudenza attuale non garantisce ancora nessuna soluzione. Nell’attesa di una migliore e più attenta legislazione, si cerca di avere risposte sul miglioramento dell’assistenza, del supporto morale del malato e dei familiari, sul sostegno di cui il malato ha bisogno e sul “rapporto di fiducia” che si può instaurare tra il malato terminale e l’infermiere. 4 CAPITOLO 1 L’Eutanasia e il Testamento Biologico 5 1.1 Un po’ di storia sull’eutanasia Il problema dell’eutanasia non è però specifico della nostra epoca. Da sempre i medici hanno dovuto farvi fronte e da sempre hanno incontrato pazienti che chiedevano loro di essere aiutati ad anticipare la propria morte. Nella Grecia antica il suicidio riscuoteva un’alta considerazione: si supponeva che ognuno fosse libero di disporre come meglio credesse della propria vita. L’assistenza al suicidio nel mondo classico non fu proibita fino all’avvento al potere del cristianesimo. E agli inizi dell’era moderna il medico e filosofo inglese Francesco Bacone scriveva che era altamente desiderabile che i medici imparassero "l’arte di aiutare gli agonizzanti a uscire da questo mondo con più dolcezza e serenità". Infatti si trova scritto nel "giuramento d’Ippocrate": "Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio". Quello che è specifico però della nostra epoca e che spiega l’acutizzarsi del problema, è il profondo mutamento che le condizioni del morire hanno subìto a causa del progresso della medicina, e, più in generale, del miglioramento delle condizioni e delle aspettative di vita. Fino a non molti decenni fa, la morte avveniva prevalentemente a casa e, anche se non sempre era una morte "dolce e quieta", il processo del morire, il dolore e la sofferenza duravano comunque relativamente poco. Oggi si muore più tardi e non più per malattie acute, quanto invece per malattie croniche e degenerative legate alla vecchiaia, cosa che ha fatto coniare a Daniel Callaghan l’aforisma: "Vite più lunghe e salute peggiore; malattie più lunghe e morti più lente; vecchiaia più lunga e demenza crescente". Ancora, oggi la medicina è in grado di vicariare le funzioni dei più importanti organi vitali e quindi di tenere in vita un paziente indefinitamente e, comunque, ben oltre il punto in cui si può ragionevolmente dire che stiamo prolungando la vita e non, invece, procrastinando inutilmente la morte. Questo è un punto importante; l’etica medica tradizionale s’è formata in un’epoca in cui molto poco poteva essere fatto per salvare la vita del paziente e quel poco doveva essere fatto. L’imperativo del "vitalismo", che 6 imponeva di prolungare ad ogni costo la vita del paziente, era una reazione all’impotenza della medicina, di fronte al fatto drammatico di non poter riuscire a salvare una vita, spesso ancora carica di promesse. Oggi, invece, possiamo fare moltissimo non solo per salvare la vita, ma anche per prolungarla quando "non può promettere più nulla". Si pone allora il problema di sapere se vale sempre la pena di fare tutto quello che possiamo fare, fino alla totale espropriazione di quel che viene comunemente definito il "diritto di morire con dignità". Negli anni ’30, dunque, nacquero nel mondo anglosassone le prime associazioni, che nel dopoguerra si svilupparono fortemente. Oggi le associazioni di tutto il mondo sono riunite nella World Federation of Right to Die Societies (Federazione Mondiale delle Società per il Diritto di Morire). Nel 1974 alcuni umanisti, tra cui scienziati, filosofi e premi Nobel, lanciarono il manifesto A Plea for Beneficent Euthanasia, che riscosse molti consensi. La principale attività di queste associazioni consiste nel sensibilizzare l’opinione pubblica e, soprattutto, governi e parlamenti, sulla necessità di raggiungere stadi più progrediti nel riconoscimento dei diritti del malato terminale. Il «consenso informato» è oramai entrato a far parte del vocabolario medico: con esso è stata riconosciuto il diritto del paziente di dire la sua sulle cure che dovrà ricevere. Ora la battaglia delle associazioni si è sostanzialmente spostata, oltre che sulla richiesta della legalizzazione, sulla liceità e sul valore legale della sottoscrizione, da parte di chiunque, di «direttive anticipate»; qualora, in futuro, si venisse a trovare nell’impossibilità di opinare sulle cure ricevute. A tal fine sono stati quindi elaborati dei veri e propri «testamenti biologici». Obbiettivo ultimo è riuscire a far sancire il diritto di ogni individuo di disporre liberamente della propria esistenza. 7 1.2 Posizione della Chiesa in proposito La questione fondamentale che un’etica cristiana è chiamata ad affrontare riguarda la difficile conciliazione tra la protezione della vita e le esigenze della responsabilità individuale. Il mondo cattolico ha deciso, sin dagli anni '50 del secolo scorso, di affrontare un tema così delicato e soprattutto così eticamente sensibile come l’eutanasia. L'attenzione dei movimenti pro life e delle gerarchie vaticane si è particolarmente interessata alle ricerche relative allo stato vegetativo, accettando la definizione di morte cerebrale, così come delineata dalla comunità scientifica. Giovanni Paolo II, affermò che la “cessazione totale e irreversibile di ogni attività encefalica” come criterio per l'accertamento della morte “se applicato scrupolosamente non appare in contrasto con gli elementi essenziali di una corretta concezione antropologica”. Più complesso, invece, com'è naturale, il dibattito sull'eutanasia. La Chiesa cattolica, ha da sempre dichiarato l'immoralità radicale dell'eutanasia, in quanto violazione del comandamento “non uccidere”. L'unico intervento umano ammissibile è quello volto ad alleviare il dolore e ad evitare anche il cosiddetto accanimento terapeutico. Sono ammissibili le terapie antidolorifiche anche se potrebbero presentare il rischio, non voluto, di accelerare la morte di un malato terminale. Si sottolinea, inoltre, che ogni essere umano ha il diritto di morire serenamente e con dignità. Questa apertura ha consentito l'introduzione del concetto di un uso proporzionato dei mezzi terapeutici sostituendo la classica dicotomica contrapposizione tra mezzi terapeutici ordinari, sempre doverosi e straordinari, che possono essere sospesi. Quindi risulta certamente lecito sospendere, o astenersi da, un trattamento sproporzionato o sperimentale, mentre non è altrettanto lecito rifiutare arbitrariamente un trattamento proporzionato. 8 L'opposizione dei cattolici a una possibile legalizzazione per quanto riguarda dell'eutanasia si fonda, quindi, su principi non soltanto di carattere religioso, ma anche naturale e civile, attinenti al rispetto della vita e della dignità dell'uomo che lo Stato deve tutelare e non distruggere. In tal senso la sacralità della vita è una verità fondamentale, ma non perché derivante esclusivamente da un principio divino, ma da una visione che pone al centro l'uomo e i suoi diritti, aventi una portata non solo cattolica, ma universale. 1.3 Lo stato vegetativo permanente Il termine stato vegetativo persistente venne coniato nel 1972 dal neurochirurgo scozzese Bryan Jennett e dal neurologo americano Fred Plum per descrivere una nuova sindrome che sembrava comparire, grazie alle possibilità della medicina moderna e dell’avanzare della tecnologia, di mantenere in vita i corpi dei pazienti che si trovavano in stato comatoso. Si tratta di una “veglia incosciente” in condizione continuativa di almeno tre settimane, che può essere provocata da un insulto acuto dell'encefalo, di tipo traumatico oppure ipossico-ischemico o riferibile a emorragie, encefaliti e intossicazioni. Può derivare anche da alcune malformazioni (l'anencefalia o l'idrocefalo congenito) e malattie cronico-progressive (la più comune è la malattia di Alzheimer). L'insulto è seguito da un periodo più o meno prolungato di coma vero e proprio, dopo di che l'individuo comincia ad aprire gli occhi e mostra segni di vigilanza, ma non di consapevolezza. Va però distinta sul piano clinico, dalle condizioni definite come morte cerebrale o coma irreversibile. In questi casi è presente la completa e irreversibile perdita di attività dell’encefalo, confermata dalle registrazioni elettrofisiologiche, e delle funzioni vitali correlate, fra cui l’attività respiratoria. La morte cerebrale è, quindi, una condizione completamente diversa dallo stato vegetativo, che non viene riconosciuto come morte in nessun sistema legale. 9 Un soggetto in stato vegetativo permanente presenta delle condizioni fisiche e fisiologiche che possono lasciar pensare tutto, fuorché una persona in stato di incoscienza. Possono avere gli occhi aperti in cui, abitualmente, presentano una motilità oculare e delle palpebre, ma non seguono con lo sguardo uno stimolo visivo. Hanno presente il ciclo sonno-veglia oppure possono restare in stato di veglia cronico. Non hanno alcuna coscienza né di sé e né dell’ambiente circostante. Mostrano riflessi agli stimoli dolorosi, ma non volontari. Compiono movimenti spontanei non finalistici, con movimenti stereotipati della masticazione, deglutizione, smorfie del viso, sbadigli e la respirazione è autonoma. Possono mostrare alcuni comportamenti che possono essere il prodotto di un parziale stato di coscienza, come il digrignamento dei denti, ingoiare, singhiozzare, sorridere, lacrimare e piangere, fare moine, farfugliare, sbuffare, oppure urlare senza alcuno stimolo esterno apparente. Le possibilità di recupero dello stato di coscienza della persona in stato vegetativo permanente, dipende sia dall’entità e dall’estensione della lesione cerebrale, sia dall’età del paziente, in quanto i soggetti più giovani hanno una maggiore percentuale di recupero. Una persona in SVP per causa traumatica, avrà più possibilità di recupero rispetto ad una causa di patologia cronica o ictus cerebrale. Il problema principale è che sorgono dispute riguardanti dunque non tanto il fatto circa l’affidabilità della diagnosi di stato vegetativo permanente, in particolare quando questa diagnosi viene emessa da un numero limitato di neurologi. Uno studio del 1996 su 40 pazienti nel Regno Unito riteneva che il 43% di quelle diagnosi di stato di SVP fossero errate ed un altro 33% di questi pazienti riuscì a riprendersi mentre lo studio era in corso. 10 Cos’è il Testamento Biologico 1.4 La legge Italiana sancisce il diritto per ogni paziente di conoscere la verità sulla propria malattia e il diritto di acconsentire o meno alle cure proposte, attraverso il consenso informato. In condizioni molto gravi, tuttavia, il paziente non potrebbe essere in grado di esprimere la propria volontà. Il 18 dicembre 2003, il Comitato Nazionale di Bioetica (CNB), approva il documento sulla “dichiarazione anticipata di trattamento”. Questa dichiarazione non è altro ciò che viene più frequentemente chiamato “testamento biologico”, un documento in cui la persona che lo sottoscrive, dichiara in perfetta lucidità mentale, quali terapie accettare o non accettare nel caso si trovasse in condizioni di incapacità. La legge della Convenzione di Oviedo recita così: “I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione”. Le direttive che il paziente andrebbe a sottoscrivere nel documento come sue reali volontà precedenti a qualsiasi tipo di cura, non sono però vincolanti per il medico, ma solo richieste di desideri di cui, il medico, non è tenuto a dover rispettare e a dare spiegazioni sul perché non le abbia acconsentite. Quindi, senza un’adeguata legge all’interno dello Stato membro della Comunità, queste direttive non sono valide ai fini legali e, il rapporto medico- paziente risulta sbilanciato dalla parte del paziente, in cui il medico sembrerebbe l’unico esecutore della volontà altrui. Ovviamente, per una questione deontologica, il medico sarà comunque tenuto a fornire ai familiari le opportune spiegazioni del perché la richiesta del paziente sia stata accolta o non accolta. 11 Di tanto in tanto, alcuni casi di morte per termine o rifiuto del trattamento medico, come nel caso di Eluana Englaro, pongono all’attenzione della politica e dell’opinione pubblica sulla necessità di legiferare in maniera chiara sull’argomento. In attesa di una legge che regoli la materia, è in atto in molti comuni italiani, la raccolta anticipata del trattamento dei cittadini residenti nel territorio interessato, tramite oppositi registri depositati in Municipio. Questi atti non eludono le iniziative legislative, ma sono un’azione importante poiché, in caso di bisogno, non sia necessario di ricostruire la volontà dell’interessato, come nel caso della Englaro. 1.5 Quando si parla di “eutanasia”, di cosa stiamo parlando? Per eutanasia, che nel senso letterale del termine significa “buona morte”, si intende il procurare intenzionalmente e nel proprio interesse la morte dell’individuo in cui la propria vita è compromessa in maniera permanente da malattia, menomazione o condizione psichica. L’eutanasia, quindi, costituisce una forma di “suicidio assistito” praticabile consensualmente su persone che, pur desiderandolo, siano impossibilitate per la malattia, a porre fine alla propria vita da sole. È una morte senza sofferenza fisica che può essere applicata in modi differenti, in base alla legislazione del Paese in cui è concessa. A seconda della condizione clinica del paziente e della volontà del medico, essa può essere praticata in diverse forme: L’eutanasia è attiva diretta quando il decesso è provocato tramite la somministrazione di farmaci che inducono la morte (per esempio sostanze tossiche). L’eutanasia è attiva indiretta quando l'impiego di mezzi per alleviare la sofferenza (per esempio: l'uso di morfina) causa, come effetto secondario, la diminuzione di tempi di vita. 12 L’eutanasia è passiva quando provocata dall'interruzione o l'omissione di un trattamento medico necessario alla sopravvivenza dell’individuo. L’eutanasia è detta volontaria quando segue la richiesta esplicita del soggetto, espressa essendo in grado di intendere e di volere oppure mediante il cosiddetto testamento biologico. L’eutanasia è detta non-volontaria nei casi in cui non sia il soggetto stesso ad esprimere tale volontà ma un soggetto terzo designato (come nei casi di eutanasia infantile o nei casi di disabilità mentale). Il suicidio assistito è invece l'aiuto medico e amministrativo portato a un soggetto che ha deciso di morire tramite suicidio ma senza intervenire nella somministrazione delle sostanze. Resta, comunque, che l’applicazione dell’eutanasia rimane un argomento di dibattito persistente nella storia dell’umanità, dalle prime civiltà fino ad oggi. Tuttavia, quello che è specifico della nostra epoca, è il profondo cambiamento che le condizioni di morire hanno subito a causa del progresso della medicina, in quanto è in grado di controllare e mantenere attive le più importanti funzioni vitali per il malato da mantenerlo in vita per periodi anche molto lunghi. La sopravvivenza, che non rappresenta la vita, può spingersi fino al punto in cui si può constatare che non si sta più prolungando la vita della persona, ma si sta procrastinando inutilmente la sua morte. Tuttavia, questo stesso progresso medico-scientifico, che può dare anche la “dolce morte”, si contrappone allo scopo della medicina e della ricerca che è quello di voler sconfiggere numerose patologie. Di fronte al problema etico dell’eutanasia, troviamo una cultura scientifica che appare ricca di potenzialità e di speranze, dall’altra parte ancora troppo impotente nonostante tutto. È da questa contraddizione che nasce il dibattito etico sull’eutanasia. 13 1.6 Uno sguardo alla Bioetica La Bioetica è una disciplina moderna molto recente che applica la riflessione etica alla scienza ed alla biomedicina. Prevede dunque l'interazione dell'etica con le scienze, in una modalità più moderna rispetto a quella tradizionale e religiosa, con lo scopo di affrontare e valutare anche a livello morale alcuni processi medici, tra i quali anche l’eutanasia. Il termine Bioetica compare per la prima volta nel 1970 quando l'oncologo americano Van Rensselaer Potter compone il saggio “bioetica: un ponte verso il futuro”. In realtà le problematiche etiche relative a sperimentazioni scientifiche furono sollevate con rilievo già a partire dalla fine degli anni Quaranta, in particolare dal 1949 con il Processo di Norimberga, dove si condannarono i medici nazisti che nel campo di concentramento tedeschi praticarono senza scrupolo esperimenti su esseri umani senza il loro consenso, ed anche eutanasie forzate su persone ritenute non degne di vivere. Il tema della vita e della morte supera di gran lunga i confini della riflessione bioetica. Al tempo stesso, però, rappresenta un tema bioetico fondamentale. Essa promuove una teoria improntata sul concetto di qualità della vita, rispetto al quale si stabilisce il valore di un’esistenza. Il progresso biomedico e biotecnologico ha reso oggi possibile prolungare la vita attraverso la cura di molte malattie, un tempo mortali, e mediante macchinari in grado di mantenere le funzioni vitali in modo artificiale. Queste capacità scientifiche sono all’origine di nuove opzioni che però non è detto siano concepite da tutti come sistemi per migliorare la qualità della propria vita. È evidente che nel momento in cui a funzionare sia solo l’apparato organico dell’individuo e non quello cosciente sorge il problema se abbia maggiore importanza la vita biologica (vita dell’organismo) o la vita biografica. Una volta le decisioni sulle terapie da intraprendere erano prese del medico che, come un genitore fa con il figlio, sceglieva “in scienza e coscienza” ciò che riteneva bene per il paziente (paternalismo medico). Oggi invece il rapporto medico-paziente è molto 14 cambiato. Il paziente è sempre più coinvolto in tutti gli aspetti che riguardano la sua malattia e le possibili cure, in quanto unico ad avere il diritto di decidere in autonomia della qualità della sua vita. Il diritto di autoregolamentarsi significa anche avere il diritto di rifiutare le cure cosiddette “salva vita”, ovvero quelle cure senza le quali sopraggiunge la morte, in nome di un diritto alla vita e di un diritto alla salute che non vengano interpretati come obbligo a vivere e obbligo a curarsi. Il medico e gli infermieri si trovano a dover conciliare la propria “moralità interna”, espressione dei fini della medicina, con la “moralità esterna”, espressione del sistema giuridico e del contesto culturale, in cui le specifiche pratiche sanitarie si collocano. Il paradigma etico-clinico, che sta alla base di quello che `e il dilemma del medico può essere così sintetizzato: difendere la vita e promuovere la salute della persona, rispettando la sua dignità personale e gestendo efficacemente le risorse assegnate alla comunità. Il medico fa riferimento ai principi di beneficialità, di autonomia, di giustizia ed è supportato dalla sua esperienza clinica concreta. La garanzia suprema del diritto di ogni cittadino a realizzare la propria volontà sulla sua personale esistenza coincide con il diritto all’autodeterminazione o all’autonomia individuale, fondamento della prospettiva laica in bioetica. Il diritto all’autodeterminazione è un diritto di libertà e di responsabilità che ognuno ha verso se stesso e che supera la delega di tali importanti decisioni al medico o ad altri, come i propri familiari o il giudice. Nel marzo del 1990, viene istituito il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) che pone come questione fondamentale, se non il massimo problema della bioetica, l’insieme delle questioni della fine volontaria della vita umana. Il Comitato Nazionale di Bioetica nel documento del 2003 “Dichiarazione anticipata di trattamento”, afferma che: “Solo una precisa normativa, che precisi inequivocabilmente contenuti e limiti della posizione di garanzia nei confronti dei pazienti attribuita agli operatori sanitari può infatti restituire a questi ultimi serenità di giudizio e aiutarli soprattutto a sfuggire a dilemmi deontologici e professionali altrimenti insolubili, che in 15 alcuni casi li portano ad assumere comportamenti che essi ritengono doverosi e giustificati in coscienza [...]ma che in altri, nel maggior numero di casi, li inducono ad attenersi al principio della massima cautela non per ragioni etiche e deontologiche, ma solo per meglio garantirsi dal punto di vista delle eventuali conseguenze legali dei loro atti”. 16 CAPITOLO 2 I più noti casi giudiziari oggetto di dibattito 17 2.1 Il disperato caso di Elena Moroni Quello di Elena Moroni fu il primo caso in Italia che fece senza dubbio scalpore, quello in cui il marito Ezio Forzatti si introdusse nel reparto di terapia intensiva dove era ricoverata la moglie con una pistola scarica, per tenere a distanza il personale di servizio mentre lui staccava la spina, armando d’amore e di disperazione per le condizioni della moglie, si fece arrestare solo dopo che era sicuro del decesso della moglie. Elena Moroni, un’insegnante di 46 anni, si trovava in coma irreversibile per un edema cerebrale dovuta alla mancanza di piastrine nel sangue dopo una cura con antinfiammatori di largo consumo. La sua vita dipendeva ormai ad un respiratore. Processato, Forzatti fu condannato nel giugno 2000 dalla corte d'Assise di Monza a sei anni e sei mesi di reclusione. La richiesta del pubblico ministero era di 9 anni di reclusione, ma la corte riconobbe a Forzatti l'attenuante della seminfermità mentale. Al termine del successivo processo d'appello nell’aprile 2002 tenutosi a Milano, Forzatti fu ritenuto completamente in grado di intendere e di volere, e assolto perché il fatto non sussisteva. Tra le motivazioni della sentenza, decisiva fu quella secondo la quale i giudici considerarono la donna clinicamente morta al momento del distacco del respiratore. La sentenza d'assoluzione fu salutata positivamente da molti e, di converso, suscitò prevedibili polemiche da parte degli oppositori dell'eutanasia. Oppositori che si riscontrarono sia nella società che nel mondo politico, smuovendo comunque un argomento che sarebbe stato discusso su larga scala, nel vicino futuro. 18 2.2 La contesa sulla fine della vita: Eluana Englaro Era il 9 febbraio 2009, che il dottor Amato del Monte, primario di rianimazione della clinica “La Quiete” di Udine, telefonò a Beppino Englaro, per comunicargli che un quarto d’ora prima, sua figlia Eluana era morta dopo 17 anni di coma vegetativo. Tre giorni prima, i medici aveva sospeso l’alimentazione e l’idratazione artificiale che tenevano in vita Eluana. Per ottenere questo risultato, la famiglia Englaro dovette affrontare undici anni di processi, quindici sentenze della magistratura italiana e una della Corte Europea, l’opposizione del governo in carica e le proteste, le manifestazioni e gli appelli di numerose associazione, in gran parte cattoliche. Eluana Englaro nacque a Lecco, in Lombardia, nel 1970. All’età di 21 anni e si era da poco iscritta alla facoltà di lingue di Milano, Eluana perse il controllo dell’auto mentre ritornava da una festa in paese vicino al suo paese, colpì un palo della luce e quindi un albero. L’incidente le causò gravissimi danni al cervello e una frattura alla colonna vertebrale. Quando venne raggiunta dai medici a bordo di ambulanza era già in coma spontaneo. Le lesioni che aveva subito avrebbero causato quasi certamente una paralisi totale e, nelle prime ore dopo l’incidente, i medici si occuparono principalmente di salvarle la vita. Quando Eluana venne dichiarata fuori pericolo, poche ore dopo l’incidente, i medici spiegarono ai genitori che l’unica cosa da fare era attendere 48 ore e osservare con più calma quali danni aveva subito il cervello. Eluana non uscì dal coma. Un anno dopo dall’incidente, venne dimessa dal reparto di rianimazione, ma rimase incosciente. I medici continuano a dire di aspettare, mentre il padre chiede consulto a numerosi specialisti, ma senza avere affermazioni discordanti. In realtà la speranza si riduce ben presto a zero. Infatti dopo dodici mesi è possibile fare una diagnosi definitiva e sicura di stato vegetativo permanente, ossia irreversibile. La corteccia del cervello, compromessa come nel caso di Eluana da un trauma oppure da 19 un'emorragia, va incontro a una degenerazione definitiva. E con essa tutte le funzioni di cui è responsabile: dall'intelletto agli affetti, e più in generale alla coscienza. Venne dichiarata in stato vegetativo permanente. Il limite dei dodici mesi è dato per assodato a livello internazionale. Tanto che, passato quel periodo, l’Associazione dei Medici Inglesi e l’Accademia Americana di Neurologia, sostengono la legittimità di sospendere nutrizione e idratazione artificiale. Ma non in Italia, dove la maggior parte dei medici non si azzarda ancora a dire chiaramente che tenere in vita più a lungo questi pazienti possa essere definito accanimento terapeutico. Gli occhi di Eluana si aprono e si chiudono seguendo il ritmo del giorno e della notte, ma non ti vedono. Le labbra sono scosse da un tremore continuo, gli arti tesi in uno spasimo e i piedi in posizione equina. Una cannula dal naso le porta il nutrimento allo stomaco. Ogni mattina gli infermieri le lavano il viso e il corpo con spugnature. Un clistere le libera l'intestino. Ogni due ore la girano nel letto. Una volta al giorno la mettono su una sedia con schienale ribaltabile, stando attenti che non cada in avanti. Poi di nuovo a letto. E così che vive Eluana per 17 lunghi anni in una condizione priva di dignità, anche se non soffra direttamente per il suo stato, poiché priva di coscienza. La sua condizione è penosa per coloro che la assistono e che hanno ormai perduto da tempo la speranza di un risveglio e per i suoi genitori, che hanno perso una figlia ma non possono elaborarne il lutto. Il calvario giuridico, per ottenere l’autorizzazione a interrompere l’alimentazione artificiale a Eluana, iniziò nel 1997 e durò undici anni, produsse sedici sentenze della magistratura italiana ed europea, rimanendo inizialmente lontana dall’opinione pubblica. Il primo passo, fu quando Beppino Englaro ottenne da un giudice l’autorizzazione a diventare tutore di Eluana. Poco più di un anno dopo, nel gennaio del 1999, Englaro 20 chiese per la prima volta al tribunale di Lecco di interrompere l’alimentazione artificiale della figlia, che considerava un accanimento terapeutico in contrasto con l’articolo 32 della Costituzione: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. La Cassazione si espresse definitivamente sulla questione dell’alimentazione artificiale, che venne definitivamente esclusa dalla definizione di accanimento terapeutico. La Corte, però, precisò anche un altro elemento che si rivelò fondamentale per il caso: l’alimentazione artificiale poteva in realtà essere interrotta, a patto che si verificassero due circostanze. La prima: lo stato vegetativo doveva essere giudicato dai medici completamente irreversibile. La seconda: si doveva poter dimostrare che il paziente avesse espresso la richiesta di non essere mantenuto in vita in maniera artificiale, una cosa che la famiglia Englaro era riuscita a fare portando diverse testimonianze di amici di Eluana. La Corte decise comunque di rimandare tutto alla Corte d’Appello di Milano, per l’ennesima volta, che nel luglio 2008 accolse il ricorso di Beppino Englaro e lo autorizzò ad interrompere l’alimentazione artificiale, in quanto vi era un vuoto normativo che regolasse l’interruzione o meno dell’alimentazione artificiale in un soggetto in coma vegetativo. Da diversi mesi, ormai, il caso era arrivato sui giornali e la sentenza della Cassazione fece aumentare l’attenzione di tutti i media italiani e di quelli esteri, suscitando pareri favorevoli e contrari. Pochi giorni dopo la sentenza, il parlamento composto da una larga maggioranza di centrodestra del governo Berlusconi in carica cercarono di bloccare l’esecuzione della sentenza in ogni modo, a tal punto che la Corte Costituzionale dichiarò che il parlamento poteva in qualunque momento legiferare per colmare il vuoto che la Corte di Cassazione era stata costretta a riempire con la sua sentenza. 21 Arrivarono così le iniziative legislative, in cui il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi emanò un “atto di indirizzo” con il quale veniva vietato di interrompere l’alimentazione artificiale a tutte le strutture del servizio sanitario nazionale o convenzionate con esso. Il 3 febbraio la famiglia Englaro decise di lasciare la regione Lombardia e di portare Eluana nella clinica “La Quiete” di Udine. Il servizio sanitario del Friuli, infatti, non faceva più parte del sistema sanitario nazionale dal 1996. Il governo tentò di bloccare la famiglia con un decreto legge, approvato all’unanimità dal Consiglio dei ministri. In quei giorni Beppino Englaro invitò il governo e la stampa a visitare Eluana, perché gli interessati potessero rendersi conto di persona delle sue condizioni. Circolava in parte dell’opinione pubblica l’idea che Eluana fosse, in un certo senso, semplicemente “addormentata” da 17 anni. Alcuni sottolineavano con insistenza che fosse ancora bella e che potesse svegliarsi in qualunque momento: in realtà l’autopsia rivelò le condizioni incredibilmente gravi nelle quali si trovava Eluana, come ad esempio la parziale ossificazione dei polmoni. La notizia della morte arrivò al Senato, suscitando sdegno e sgomento tra i Senatori, mentre era in corso la discussione del disegno di legge che avrebbe dovuto impedire l’interruzione dell’alimentazione forzata. 2.3 La dignità negata: il caso di Piergiorgio Welby Piergiorgio Welby era affetto da un gravissimo stato morboso degenerativo, clinicamente diagnosticato quale “distrofia muscolare”. La sua sopravvivenza era assicurata esclusivamente per mezzo del respiratore automatico al quale era stato collegato già dal 1997. I trattamenti sanitari praticati sulla sua persona non erano in grado di arrestare in alcun modo il decorso della malattia, avendo quindi quale unico scopo, quello di semplicemente prolungare la sopravvivenza biologica ed il gravissimo stato patologico in cui Welby versava. 22 Welby, in considerazione del suo grave e sofferto stato di malattia, in fase irreversibilmente terminale, dopo essere stato debitamente informato dai propri medici circa l’evoluzione della sua patologia, chiedeva al medico dal quale era professionalmente assistito, di non essere ulteriormente sottoposto alle terapie di sostentamento che erano in atto e di ricevere assistenza solamente per lenire le sofferenze fisiche. In particolare, Welby chiedeva che si procedesse al distacco dell'apparecchio di ventilazione, sotto sedazione. Tuttavia, il medico opponeva un rifiuto alla richiesta di Welby, assumendo di non poter dar seguito alla volontà espressa dal paziente, in considerazione degli obblighi ai quali si riteneva astretto. Piergiorgio Welby inizia così, attaccato ad un respiratore, alla sua battaglia politica, poiché come nel caso Englaro, anche qui gli fu risposto che il sistema giuridico italiano era privo di una normativa specifica atta a regolamentare le decisioni di fine vita in un contesto clinico, pur avendo una normativa riguardante il divieto di accanimento terapeutico, poiché non erano definite le modalità attuative se vi fosse stata una richiesta. Nel frattempo Welby, più che certo dell'esistenza del suo diritto all'autodeterminazione, e data l'impossibilità di staccare il respiratore con l'assenso del giudice, decideva di proseguire nel suo intento, avendo trovato un medico anestesista disponibile a venir incontro alle sue esigenze. E difatti, il dottor Mario Riccio si recò presso l'abitazione di Welby nel dicembre 2006 per accertare l'evoluzione della patologia e per raccogliere la volontà del paziente che confermava, ancora una volta, di voler essere sedato e staccato dal respiratore artificiale. Due giorni dopo il medico chiedeva a Welby per l'ennesima ed ultima volta la conferma della sua volontà, quindi, ottenuta la conferma, procedeva prima alla sedazione del paziente e, subito dopo, al distacco del ventilatore automatico. La morte, come afferma il referto medico-legale, sopraggiungeva nell'arco di mezz'ora, per arresto cardiocircolatorio dovuto ad una irreversibile insufficienza respiratoria, da attribuire unicamente alla impossibilità di Welby di ventilare meccanicamente in 23 maniera spontanea, a causa della gravissima distrofia muscolare da cui lo stesso era affetto. E' proprio dopo la morte di Welby che si apre la fase cruciale relativa al riconoscimento del diritto in questione. Attesa la legislazione esaminata e il parere contrario alla magistratura, tutto faceva ritenere che il dottor Riccio sarebbe stato condannato. Tuttavia, il primo procedimento che si apre sulla condotta del medico è quello dell'Ordine dei medici di Cremona, a cui dottor Riccio appartiene. Gli elementi presi in considerazione sono due: da un lato la volontà "chiara, decisa e non equivocabile" del paziente "perfettamente in grado di intendere e volere e di esprimersi" e "pienamente consapevole della conseguenza del sopraggiungere della morte"; dall'altro il fatto che l'anestesista "non ha somministrato farmaci o altre sostanze atte a determinare la morte" e che la sedazione terminale è risultata "per posologia di farmaci, modalità e tempi di somministrazione, in linea con i normali protocolli". Per questi motivi la Commissione disciplinare dell'ordine dei medici di Cremona dispone l'archiviazione del caso. Nel secondo procedimento, in sede penale, la Procura della Repubblica di Roma giunge ad un esito molto simile a quello dell'ordine dei medici, con richiesta di archiviazione del caso. La conclusione si basa sull'esito della consulenza medicolegale, che esclude qualsiasi nesso tra la sedazione ed il decesso del paziente, indicando quale unica causa di morte l'insufficienza respiratoria relativa alla malattia. Il medico anestesista verrà, in seguito, assolto, poiché la volontà dell’individuo a non volersi sottoporre a trattamenti sanitari, sono sanciti sia dalla nostra Costituzione, sia dalla Convenzione di Oviedo. 2.3.1 Lettera di Piergiorgio Welby al Presidente Napolitano Caro Presidente, Scrivo a Lei, e attraverso Lei mi rivolgo anche a quei cittadini che avranno la possibilità di ascoltare queste mie parole, questo mio grido, che non è di disperazione, ma carico di 24 speranza umana e civile per questo nostro Paese. Fino a due mesi e mezzo fa la mia vita era sì segnata da difficoltà non indifferenti, ma almeno per qualche ora del giorno potevo, con l’ausilio del mio computer, scrivere, leggere, fare delle ricerche, incontrare gli amici su internet. Ora sono come sprofondato in un baratro da dove non trovo uscita. La giornata inizia con l’allarme del ventilatore polmonare […]. Guardo la tv, aspettando che arrivi l’ora della compressa del Tavor per addormentarmi e non sentire più nulla e nella speranza di non svegliarmi la mattina. Io amo la vita, Presidente. Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso – morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio ... è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti […]. Starà pensando, Presidente, che sto invocando per me una “morte dignitosa”. No, non si tratta di questo. E non parlo solo della mia, di morte. La morte non può essere “dignitosa” […]. La morte è altro. Definire la morte per eutanasia “dignitosa” è un modo di negare la tragicità del morire. È un continuare a muoversi nel solco dell’occultamento o del travisamento della morte che, scacciata dalle case, nascosta da un paravento negli ospedali, negletta nella solitudine dei gerontocomi, appare essere ciò che non è. Cos’è la morte? La morte è una condizione indispensabile per la vita […] In Italia, l’eutanasia è reato, ma ciò non vuol dire che non “esista”: vi sono richieste di eutanasia che non vengono accolte per il timore dei medici di essere sottoposti a giudizio penale e viceversa, possono venir praticati atti eutanasici senza il consenso informato di pazienti coscienti […] Una legge sull’eutanasia non è più la richiesta incomprensibile di pochi eccentrici. Anche in Italia, i disegni di legge depositati nella scorsa legislatura erano già quattro o cinque. L’associazione degli anestesisti, pur con molta cautela, ha chiesto una legge più chiara; il recente pronunciamento dello scaduto (e non ancora rinnovato) Comitato Nazionale per la bioetica sulle Direttive Anticipate di 25 Trattamento ha messo in luce l’impossibilità di escludere ogni eventualità eutanasica nel caso in cui il medico si attenga alle disposizioni anticipate redatte dai pazienti. Anche nella diga opposta dalla Chiesa si stanno aprendo alcune falle che, pur restando nell’alveo della tradizione, permettono di intervenire pesantemente con le cure palliative e di non intervenire con terapie sproporzionate che non portino benefici concreti al paziente. L’opinione pubblica è sempre più cosciente dei rischi insiti nel lasciare al medico ogni decisione sulle terapie da praticare. Molti hanno assistito un famigliare, un amico o un congiunto durante una malattia incurabile e altamente invalidante ed hanno maturato la decisione di, se fosse capitato a loro, non percorrere fino in fondo la stessa strada. Altri hanno assistito alla tragedia di una persona in stato vegetativo persistente. Quando affrontiamo le tematiche legate al termine della vita, non ci si trova in presenza di uno scontro tra chi è a favore della vita e chi è a favore della morte: tutti i malati vogliono guarire, non morire […]. Tra desideri e speranze, il tempo scorre inesorabile e, con il passare del tempo, le speranze si affievoliscono e il desiderio di guarigione diventa desiderio di abbreviare un percorso di disperazione, prima che arrivi a quel termine naturale che le tecniche di rianimazione e i macchinari che supportano o simulano le funzioni vitali riescono a spostare sempre più in avanti nel tempo. Per il modo in cui le nostre possibilità tecniche ci mantengono in vita, verrà un giorno che dai centri di rianimazione usciranno schiere di morti-viventi che finiranno a vegetare per anni […]. Sua Santità, Benedetto XVI, ha detto che “di fronte alla pretesa, che spesso affiora, di eliminare la sofferenza, ricorrendo perfino all’eutanasia, occorre ribadire la dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo termine naturale”. Ma che cosa c’è di “naturale” in una sala di rianimazione? Che cosa c’è di naturale in un buco nella pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine? Che cosa c’è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia l’aria nei polmoni? Che cosa c’è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l’ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morte-artificialmente-rimandata? Io credo che si possa, per ragioni di fede o 26 di potere, giocare con le parole, ma non credo che per le stesse ragioni si possa “giocare” con la vita e il dolore altrui […]. Sono consapevole, Signor Presidente, di averle parlato anche, attraverso il mio corpo malato, di politica, e di obiettivi necessariamente affidati al libero dibattito parlamentare e non certo a un Suo intervento o pronunciamento nel merito. Quello che però mi permetto di raccomandarle è la difesa del diritto di ciascuno e di tutti i cittadini di conoscere le proposte, le ragioni, le storie, le volontà e le vite che, come la mia, sono investite da questo confronto […]. Il mio sogno, […] che voglio porre in ogni sede, a partire da quelle politiche e giudiziarie è oggi nella mia mente più chiaro e preciso che mai: poter ottenere l’eutanasia. Vorrei che anche ai cittadini italiani sia data la stessa opportunità che è concessa ai cittadini svizzeri, belgi, olandesi. 27 CAPITOLO 3 La giurisdizione sulla Dichiarazione Anticipata di Trattamento 28 3.1 Generalità sul Comitato Nazionale per la Bioetica Sul finire degli anni '80, i progressi della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica in campo medico hanno potenziato enormemente la possibilità di intervento dell’uomo sull’uomo stesso (oltre che sulla vita non umana) ed hanno suscitato una vivace discussione in ambito antropologico, filosofico, etico e giuridico. In questo contesto, il Governo italiano, ha colto l’importanza di istituire un organismo permanente, a carattere consultivo, nel tentativo di dare risposte concrete in una prospettiva interdisciplinare e pluralistica a quesiti riguardanti la vita umana e non umana. Iniziò, pertanto, a profilarsi l’idea di istituire un comitato incaricato di esaminare i temi di bioetica a livello nazionale, costituito da personalità competenti, esterno al Parlamento, allo scopo di promuovere un confronto, anche internazionale, sullo stato della ricerca biomedica e dell'ingegneria genetica nella prospettiva del rispetto della libertà e dignità umana, con attenzione anche alla tutela dell’ambiente. Tale esigenza ha trovato concreta realizzazione con l’istituzione del Comitato Nazionale per la Bioetica, che è un organo consultivo che svolge sia funzioni di consulenza presso il Governo, il Parlamento e le altre istituzioni, sia funzioni di informazione nei confronti dell’opinione pubblica sui problemi etici emergenti. Al Comitato è affidata la funzione di supportare l’orientamento degli operatori normativi sia che agiscono in veste di legislatori, sia che siano investiti di tali problematiche in qualità di amministratori. Il Comitato, dunque, con il proprio operato contribuisce a definire i criteri da utilizzare nella pratica medica e biologica per tutelare i diritti umani ed evitare eventuali abusi e discriminazioni che possano, anche involontariamente, discendere dalla rapida implementazione dei risultati delle tecnoscienze. 29 3.2 Posizione del CNB su alimentazione e idratazione in persone in stato vegetativo permanente Il 18 Dicembre del 2003 il Comitato Nazionale di Bioetica ha approvato il documento sulle “dichiarazioni anticipate di trattamento” in cui afferma che “le varie forme di dichiarazioni anticipate si iscrivono in un positivo processo di adeguamento della nostra concezione dell’atto medico ai principi di autonomia decisionale del paziente”, cioè l'espressione della volontà da parte di una persona (testatore), fornita in condizioni di lucidità mentale, in merito alle terapie che intende o non intende accettare nell'eventualità in cui dovesse trovarsi nella condizione di incapacità di esprimere il proprio diritto di acconsentire o non acconsentire alle cure proposte per malattie o lesioni traumatiche cerebrali irreversibili o invalidanti, malattie che costringano a trattamenti permanenti con macchine o sistemi artificiali che impediscano una normale vita di relazione. Il Comitato Nazionale di Bioetica ci tiene a sottolineare come, attraverso le dichiarazioni, non si vuole sostenere un diritto alla eutanasia, né un diritto soggettivo a morire, ma il diritto di richiedere ai medici la sospensione o la non attivazione di pratiche terapeutiche anche nei casi più estremi di sostegno vitale. Quindi il Comitato Nazionale di Bioetica, nel documento sulla “dichiarazione anticipata di trattamento” inserisce una serie di indicazioni, tra cui anche la volontà della sospensione all’alimentazione e idratazione nel caso di stato vegetativo permanente o coma irreversibile: “[...] Se dunque una persona, nella piena consapevolezza della sua condizione e delle conseguenze del suo eventuale rifiuto, è libera di decidere su qualunque intervento gli venga proposto, ivi compresa la nutrizione artificiale [...] non è possibile sottrarre alla medesima persona la libertà di dare disposizioni anticipate di analoga estensione, e quindi anche circa l’attivazione o non attivazione dell’idratazione e alimentazione artificiali, nel caso in cui si venisse a trovare nella condizione che, in base alle conoscenze mediche e ai protocolli disponibili, fosse diagnosticata come stato vegetativo[...]”. Riguardo quest’ultimo argomento, sono presenti dei pareri contrastanti all’interno dello stesso Comitato. Alcuni membri sostengono il riconoscimento della facoltà di dare 30 disposizioni anticipate circa la volontà di accettare o rifiutare qualsiasi trattamento, purché la redazione del DAT avvenga nell’ambito della relazione medico-paziente. Altri membri sostengono che non è possibile scegliere su trattamenti di sostegno vitale di carattere non straordinario, né su alimentazione e idratazione, eticamente e deontologicamente doverose, se proporzionate alle condizioni cliniche. 3.3 Interruzione dell’alimentazione e idratazione come omissione La questione sta nel determinare la natura commissiva o omissiva della sospensione dei trattamenti di sostegno vitale, cui consegue la morte della persona. Nel caso di PiergiorgioWelby l’azione dell’anestesista di staccare il respiratore è stata riconosciuta di natura commissiva, sulla base del nesso causale tra tale condotta e il successivo evento morte. La non punibilità dell’azione è stata riconosciuta sulla base di un adempimento ad un dovere discendente dall’articolo 32, poiché fu la volontà del paziente in piena coscienza a imporre all’anestesista il distacco del respiratore che lo manteneva in vita. Non è quindi configurabile un reato omissivo qualora il medico decida di non intraprendere o sospendere trattamenti di sostegno vitale, seguendo l’esplicita volontà della persona assistita. Far valere una simile argomentazione anche nel caso di una persona incosciente che non abbia precedentemente espresso alcuna volontà contraria, appare assai più problematico. Nelle ipotesi in cui il medico si limiti a sospendere un trattamento precedentemente iniziato, la sua condotta dal punto di vista giuridico e penale risulta come omissiva, cioè la mancata prosecuzione dello stesso trattamento. Il quadro normativo di riferimento è quello dell’articolo 40 del codice penale, che equipara il mancato impedimento del decesso della persona alla sua causazione, a condizione che il medico avesse l’obbligo giuridico di impedire che si verificasse l’evento stesso. 31 Da quanto emerso nella Sentenza della Cassazione sul caso di Eluana Englaro, si esclude che esista un dovere di salvaguardare ad ogni costo la vita di una persona in caso di irreversibilità. La prosecuzione di un trattamento di sostegno vitale nel caso di un paziente in stato vegetativo permanente che non risponde più a nessun apprezzabile cambiamento da parte del paziente stesso, va considerata come futile. Un paziente in quelle condizioni è incapace di trarre benefici dal trattamento, essendo privo di qualsiasi capacità cognitiva e sensoriale, né sarà in grado di trarre in futuro alcun beneficio dal suo mantenimento in vita, vista l’irreversibilità della sua condizione patologica. Ciò basta ad escludere la doverosità del trattamento. Ogni decisione concernente la salute della persona incapace, dovrà essere conforme al suo mondo ideale, alla sua personalità, alla sua visione del mondo. Dovrà essere una decisione assunta necessariamente da una persona diversa e vicina all’incapace, solitamente il tutore, la quale dovrà calarsi idealmente nei panni di costui, per decidere come lui stesso avrebbe deciso se ne avesse avuto la possibilità. Qualora risultasse dubbia la possibilità di ricostruire la volontà presunta, il trattamento deve proseguire. Il Comitato Nazionale di Bioetica ha ritenuto opportuno effettuare una distinzione tra il “lasciar morire e il provocare la morte”, concetto che può essere espresso anche in termini di condotta omissiva e condotta commissiva. Il risultato a cui si giunge risulta essere sempre quello del decesso della persona. Ma la necessità, sociale, giuridica e etica, di mantenere distinte le due situazioni, è data da un differente valore che assumono le due situazioni, in quanto l’omissione è percepita con una minore carica offensiva rispetto all’agire eutanasico e, quindi, al provocare la morte. La condizione omissiva del “lasciar morire”, seppure giuridicamente accettabile in condizioni di autonomia, risulta eticamente problematico pensando al dovere morale del medico di curare. 32 3.4 Dichiarazione anticipata di trattamento: aspetti giuridici e limiti di cura I trattamenti sanitari risultano essere qualcosa di diverso dal sostegno vitale, ma è necessario stabilire contenuti e confini di una dichiarazione anticipata di trattamento. L’articolo 32 della Costituzione al comma 2, parla esclusivamente di trattamenti sanitari, ma non di forme di sostegno vitale. Tra le cure di fine vita, l’aspetto più controverso del dibattito riguarda la nutrizione e l’idratazione artificiali. Il problema di natura etica, antropologica, clinica e sociale tocca vari punti, quali il tempo di somministrazione, la modalità di somministrazione, la valutazione circa l’efficacia del trattamento e gli effetti, ossia come non farlo diventare un accanimento terapeutico, né un abbandono che ne provocherebbe il decesso. Il primo punto, quali il tempo di somministrazione, coinvolge direttamente la persona che decide di includere o meno, nella propria dichiarazione, anche qualcosa che si riferisca alla nutrizione e idratazione artificiali. Gli altri punti riguardano il medico come persona competente in grado di valutare sia le modalità di somministrazione sia se questa produce effetti positivi o meno. Da un lato c’`e chi sostiene che la persona, in nome del principio di autodeterminazione, può chiedere ciò che vuole. Dall’altro c’è chi sostiene che alcune richieste possono risultare una forma di suicidio assistito o di eutanasia passiva, azioni poi punite dall’attuale codice penale. Quindi la nutrizione artificiale andrebbe somministrata fino a quando il malato può assimilarla, mentre il medico deve valutare quanto può ancora vivere la persona, fino a che questo può essere considerato come un intervento proporzionato e non confuso con l’accanimento terapeutico. Secondo il Comitato Nazionale per la Bioetica, riguardo il rifiuto di cure salvavita e di alimentazione e idratazione artificiali, alcuni membri sostengono che al paziente va riconosciuta la facoltà di dare disposizioni anticipate circa la sua volontà di accettare o meno qualsiasi tipo di trattamento e di indicare le situazioni nelle quali la sua volontà deve trovare attuazione, sottolineando che la redazione di tali disposizioni avvenga nel 33 contesto del rapporto medico paziente, in modo che il paziente abbia piena consapevolezza delle conseguenze che derivano dalla attuazione delle sue volontà. Altri membri ritengono che il potere dispositivo del paziente vada limitato esclusivamente a quei trattamenti che integrino, in varia misura, forme di accanimento terapeutico, perché sproporzionate o addirittura futili. La nostra Costituzione esclude qualunque intervento effettuato sul corpo di un soggetto non cosciente, se non nei casi previsti dalla legge, che salvaguarda la salute, non solo del singolo soggetto ma della collettività. Le norme del codice penale applicabili al rifiuto delle cure salvavita e dei trattamenti di sostegno vitale sono entrate in vigore ancora prima della Costituzione e dovrebbero essere reinterpretate in conformità con il dettato costituzionale. I casi di Welby e di Englaro, dimostrano come si difficile per i giudici rendere attuali norme costituzionali sulla libertà di ciascuno di scegliere se sottoporsi o meno alle cure ritenute idonee da parte dei medici. 3.5 Articolo 32, diritto alla cura e non cura L’articolo 32 della nostra Costituzione, riguardo all’assistenza sanitaria è i suoi limiti, recita nel comma 1:“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Nel comma 2: “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. L’articolo esprime, attraverso i due comma, la necessità di sottoporsi volontariamente, ma non la possibilità di una rinuncia da parte del costituente, rispetto alla permanenza del principio della indisponibilità del bene, anche da parte del soggetto che ne è titolare. 34 In pratica, giuridicamente nessuno è obbligato a curarsi ma esiste il dovere morale di farlo. Il rifiuto o la rinuncia a un trattamento sanitario non può essere considerato un bene né per l’interessato né per la società. Il rifiuto a un trattamento sanitario può essere considerato ammissibile non perché è possibile disporre liberamente sulla vita o sulla morte, sulla salute o sulla malattia, ma perché ogni persona deve avere la possibilità di considerare dei trattamenti non adeguati al proprio corpo e al proprio limite di sopportazione, quindi scegliere di conseguenza. Per quanto riguarda l’eutanasia, essa non è assolutamente normata dai codici del nostro Paese: ragion per cui essa è assimilabile all’omicidio volontario (articolo 575 del codice penale). Nel caso si riesca a dimostrare il consenso del malato, le pene sono previste dall’articolo 579 (omicidio del consenziente) e vanno comunque dai sei ai quindici anni. Anche il suicidio assistito è considerato un reato, ai sensi dell’articolo 580. Nel caso di eutanasia passiva, pur essendo anch’essa proibita, la difficoltà nel dimostrare la colpevolezza la rende più sfuggente a eventuali denunce. 3.6 Articoli 2, 3, 13 della Costituzione italiana Ulteriori articoli costituzionali che necessitano di essere menzionati, per quanto riguarda il diritto alle cure e la libertà del cittadino di scegliere, sono l’articolo 2, 3 e 13 della Costituzione italiana. L’articolo 2 recita: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Tale articolo assegna il primato all’individuo, rispetto allo Stato. Nell’articolo viene, quindi, riconosciuto e affermato il valore del singolo individuo, la possibilità che possa sviluppare pienamente la propria personalità, che possa fare le proprie scelte, facendo 35 valere i propri diritti e adempiendo ai propri doveri, assegnando a ognuno la responsabilità della proprie scelte. L’articolo 3 recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. L’articolo è sicuramente uno dei principi più significativi della Costituzione Repubblicana. Esso è il portatore dei valori che discendono dalla rivoluzione francese e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. La proclamazione del principio di uguaglianza segna una rottura decisa nei confronti del passato. Tutti sono titolari dei medesimi diritti e doveri, in quanto tutti sono uguali davanti alla legge. Essa va oltre, assegnando allo Stato il compito di creare azioni positive per rimuovere quelle barriere di ordine naturale, sociale ed economico che non consentirebbero a ciascuno di noi di realizzare pienamente la propria personalità. Infine, l’articolo 13, che fa parte dei diritti civili sulla libertà, dice: “La libertà personale e inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, n’è qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva”. Quest’ultimo, stabilisce che la libertà personale è inviolabile e che nessuna legge e nessuna persona li può violare. Viene sancito cosa vuol dire la libertà personale cioè il 36 diritto di non essere portato in carcere, di non essere controllato se non si ha un mandato del giudice e solo se c’è una legge che lo autorizza. Viene sancito che in casi di necessità, indicati dalla legge, l’autorità può adottare provvedimenti provvisori che vengono comunicati all’autorità giudiziaria e se questa non li convalida entro il termine previsto, i provvedimenti vengono revocati. Viene punita qualsiasi violenza fisica o morale sulle persone private della libertà personale. Viene sancito che la legge stabilisce il limite massimo di quanto un uomo deve rimanere privato della sua libertà personale in attesa di giudizio. 3.7 Uno sguardo internazionale Considerando la situazione legislativa da un punto di vista internazionale, si può dire che molti degli altri Paesi europei ed extraeuropei si trovano di gran lunga avanti rispetto alla legislazione italiana, in cui spesso per questi argomenti, la tutela del diritto di libertà sulla scelta della propria vita e della propria salute, appare ancora pieno di dubbi, lacune e contrasti etici e ideologici. Gli Stati Uniti sono, a livello mondiale il paese precursore del via libera al testamento biologico, il cosiddetto “living will” già a partire dal 1975, ma nel 1998 si è riaperta la discussione sul testamento biologico, in merito al caso di Terry Schiavo, perché in Florida non era previsto che in assenza di testamento biologico si potesse dare attuazione all’interruzione del trattamento, scelta dopo numerose battaglie legali dai genitori di Schiavo. Alcune inchieste rilevano come due terzi degli americani riportino di aver dovuto prendere decisioni sul fine vita di loro cari. In Francia, nell’aprile 2005 è stata approvata la legge sui diritti del malato e sul fine vita. L’articolo prescrive che “se una persona, in fase avanzata di una malattia grave e incurabile, decide di limitare o interrompere ogni trattamento, il medico è tenuto a rispettarne le volontà. Il medico deve informare sulle conseguenze della scelta al fine di salvaguardare la dignità dell’assistito e assicurargli la qualità della vita con il ricorso a terapie palliative”. 37 In Germania, vi è una legge approvata nel 2009 riguardo il testamento biologico. Tale legge, basata sul principio del diritto all'autodeterminazione, prevede l'assistenza di un fiduciario e del medico curante. In base alla legge, un maggiorenne può predisporre per iscritto il consenso o rifiuto a sottoporsi ad esami, cure o interventi medici "per il caso in cui si trovasse nell'incapacità di prestare consenso"; tale dichiarazione è sempre revocabile "senza vincoli di forma". Il fiduciario ha il compito di valutare se la scelta espressa a suo tempo si attagli alle condizioni di vita e salute del paziente; in tal caso egli è "tenuto ad esternare e a far valere la volontà dell'amministrato", e decidere assieme al medico curante sul trattamento o sulla "desistenza", in base alle volontà a suo tempo espresse. Dove manchi una disposizione espressa, o questa non si adatti alle condizioni del paziente, il fiduciario si occuperà di "accertare le cure mediche desiderate o la volontà presunta" del paziente, prendendo decisioni di cura assieme al medico curante. Tale volontà presunta si accerta tramite "le precedenti dichiarazioni sia orali sia scritte, le convinzioni etiche e religiose, e gli altri principi di valore personali" del paziente. La legislazione spagnola risulta molto simile a quella tedesca. La legge n.41 del 14 Novembre 2002 si basa su due principi fondamentali: l’autonomia della persona e i diritti e gli obblighi in materia di informazione clinica. Per quanto riguarda il fine vita questa legge che il paziente possa accettare o rifiutare di sottoporsi a specifici trattamenti dopo una adeguata e completa informazione clinica da parte del medico. Se l’assistito si trova in uno stato di incapacità, l’informazione è rivolta a un rappresentante legale del paziente. E, infine, merita particolare attenzione la Svizzera, a cui molti malati terminali italiani si recano per esercitare la propria volontà di fine vita. Vista la diffusione di questa pratica, molto elevata rispetto ad altri paesi europei, il parlamento vuole imporre regolamentazioni legali. Uno studio statistico afferma che vi siano almeno 3 italiani al mese che decidono di andare in Svizzera per morire e, degli stessi svizzeri, sono 7 malati terminali su 10 che ne fanno ricorso. La Svizzera figura in prima posizione anche per quanto concerne l’eutanasia passiva (interruzione delle terapie destinate a prolungare la vita), mentre rientra invece nella media per quanto riguarda i casi di 38 eutanasia attiva. In proporzione al totale dei decessi, in Svizzera la percentuale di decisioni mediche che implicavano una forma di eutanasia si è attestata al 52 per cento. Si tratta del dato più alto fra i Paesi che hanno preso parte allo studio. 39 CAPITOLO 4 Il ruolo dell’infermiere tra valori etici e bioetici 40 4.1 Il codice deontologico dell’infermiere Nel 2009 è stata pubblicata una nuova versione del Codice deontologico dell’infermiere. Questo documento è stato rinnovato a partire dalla volontà degli infermieri italiani che hanno dibattuto e si sono confrontati con esperti sulle varie problematiche di tipo etico, bioetico, giuridico e tecnico professionale. Per quanto riguarda l’eutanasia, il Codice Deontologico degli infermieri dice “no”, porta rispetto per le differenza culturali ed etniche dei pazienti, si promuove il dialogo serrato con il paziente, ma anche possibile obiezione di coscienza sui temi etici, la tutela della privacy e del consenso informato, il dissenso all’accanimento terapeutico e promozione dell’assistenza ai familiari e alle persone vicine alle persone malate. Tra gli elementi più innovativi del nuovo codice, come spiega la stessa presidente Ipasvi, ci sono gli articoli che si occupano di ridisegnare il ruolo dell’infermiere nell’assistere (articoli 4, 7, 11 e 27) il paziente: "L’infermiere orienterà la sua azione al bene dell’assistito sostenendolo nel raggiungimento della maggiore autonomia possibile anche quando in via di disabilità, svantaggio e fragilità" (articolo 4). Ma importanti sono anche i vari e molteplici accenni relativi al comportamento del personale sanitario infermieristico sui temi eticamente sensibili. In questo senso, nel Codice deontologico dell’infermiere si dice chiaramente no all’eutanasia nell’articolo 40: "l’infermiere non partecipa a interventi finalizzati a provocare la morte, anche se la richiesta proviene dall’assistito". Ma arriva anche uno stop all’accanimento terapeutico citato nell’articolo 37: "L’infermiere tutela la volontà dell’assistito di porre dei limiti agli interventi che non siano proporzionati alla sua condizione clinica e coerenti con la concezione da lui espressa della qualità della vita" e un accenno alla necessità delle cure palliative (Art. 36). Per quanto concerne l’obiezione di coscienza in temi etici per l’infermiere, si intende “la non accettazione deliberata e pubblica di una norma al fine di essere coerenti con i propri principi morali” e “l’agire secondo la propria coscienza, cioè secondo ciò che la propria coscienza indica come giusto, necessario, doveroso in una data circostanza”. 41 L’articolo 8 del Codice Deontologico dell’infermiere parla infatti di “clausola di coscienza”, che esprime il diritto di appellarsi alla propria coscienza morale, anche al di fuori di disposizioni normative riferite all’oggetto dell’obiezione. L’obiezione di coscienza fa riferimento alla propria autonomia personale e professionale, con lo scopo di dare la possibilità di esercitare la propria libertà di coscienza quando l’azione o i precetti di una certa legge risultano in conflitto con i propri valori morali. Spesso gli infermieri si trovano spesso di fronte al dovere di attuare delle decisioni cliniche che sono state prese da un’altra figura professionale, come il medico, ma percepite come una forzatura della propria coscienza morale e professionale. La clausola di coscienza si estende a tutte le professioni sanitarie, applicandosi quando la libertà della coscienza morale personale può essere messa a rischio da situazioni clinico assistenziali complesse ed eticamente rilevanti. 4.2 La deontologia dell’infermiere rispetto alla legge sul Testamento Biologico In Italia il testamento biologico non ha valore giuridico come espressione di volontà, ed è preso in considerazione solo attraverso un passaggio che è anche deontologico. Si tratta di rispettare il diritto di ogni cittadino a decidere in autonomia e libertà il proprio futuro, soprattutto nel caso si realizzasse la sfortunata condizione di impossibilità e incapacità di esprimere la propria volontà. Il valore etico delle Dichiarazioni Anticipate è già stato assorbito dai Codici Deontologici Medico ed Infermieristico ed i tempi sono maturi perché si passi ad un piano giuridico. Nel Dicembre 2009, il presidente della Federazione Nazionale del Collegio Ipasvi, Annalisa Silvestro, rende pubblica la posizione degli infermieri italiani in merito alla 42 legge sulle dichiarazioni anticipate e sul “fine vita”, attraverso un Pronunciamento, inteso come posizione pubblica degli infermieri, “la persona nel fine vita”, attraverso cui l’Ipasvi, anche per il coinvolgimento professionale degli infermieri su tale tematica, ha ritenuto di dover esprimere la propria posizione. Nel corso degli ultimi anni, il disegno di legge sul fine vita ha rappresentato un argomento la cui portata etica, e non meramente legislativa, è stata più volte al centro di opinioni e riflessioni che si sono articolate in un ampio dibattito in tutto il Paese. Secondo l’Ipasvi il ddl Calabrò: non assume come fondante la centralità della persona e delle sue volontà, assegna una forte discrezionalità decisoria al medico, non riconosce il lavoro in team e quindi il ruolo dell’intera équipe assistenziale nell’accompagnamento dell’assistito al fine vita. La figura dell’infermiere, in tale ddl, appare trascurata e priva di importanza, in quanto le decisioni sul trattamento e sulle cure della persona, spettano discretamente al medico e non viene tenuto in considerazione quanto l’infermiere svolga un ruolo importante di relazione, di educazione e di assistenza e informazione, che sembrano non essere adeguatamente considerati dall’attuale disegno di legge o non rilevanti ai fini di una adeguata formulazione e attuazione delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Intanto, nel Pronunciamento viene fatto un richiamo sistematico al Codice Deontologico, evidenziando e valorizzando questi ruoli. Gli articoli del Codice deontologico che possono essere presi come riferimento riguardo la “relazione” con la persona assistita sono: L’articolo 3: “La responsabilità dell’infermiere consiste nell’assistere, nel curare e nel prendersi cura della persona nel rispetto della vita, della salute, della libertà e della dignità dell’individuo”. L’articolo 35: “L’infermiere presta assistenza qualunque sia la condizione clinica e fino al termine della vita dell’assistito, riconoscendo l’importanza della palliazione e del conforto ambientale, fisico, psicologico, relazionale, spirituale”. 43 L’articolo 36: “L’infermiere tutela la volontà dell’assistito di porre dei limiti agli interventi che non siano proporzionati alla sua condizione clinica e coerenti con la concezione da lui espressa di qualità della vita”. L’articolo 38: “L’infermiere non attua e non partecipa a interventi finalizzati a provocare la morte, anche se la richiesta proviene dall’assistito”. Ciò che riguarda l’informazione è espresso nei seguenti articoli: L’articolo 20: “L’infermiere ascolta, informa, coinvolge l’assistito e valuta con lui i bisogni assistenziali, anche al fine di esplicitare il livello di assistenza garantito e facilitarlo nell’esprimere le proprie scelte. L’articolo 24: “L’infermiere aiuta e sostiene l’assistito nelle scelte, fornendo informazioni di natura assistenziale in relazione ai progetti diagnostico-terapeutici e adeguando la comunicazione alla sua capacità di comprendere”. L’articolo 37: “L’infermiere quando l’assistito non `e in grado di manifestare la propria volontà, tiene conto di quanto da lui chiaramente espresso in precedenza e documentato”. Per quanto riguarda le modalità di assistenza, il Codice recita: L’articolo 14: “L’infermiere riconosce che l’interazione tra professionisti e l’integrazione interprofessionale sono modalità fondamentali per far fronte ai bisogni dell’assistito. L’articolo 27: “L’infermiere garantisce la continuità assistenziale anche contribuendo alla realizzazione di una rete di rapporti interprofessionali e di una efficace gestione degli strumenti informativi”. L’articolo 39: “L’infermiere sostiene i familiari e le persone di riferimento dell’assistito, in particolare nelle evoluzione terminale della malattia e nel momento della perdita e della elaborazione del lutto”. 44 4.3 La figura dell’infermiere di fronte al rifiuto delle cure Il rifiuto della persona di sottoporsi ad un trattamento, soprattutto quando questo sia indispensabile alla sopravvivenza, pone notevoli problemi e questioni di natura etica e giuridica. Se `e possibile per una persona capace di intendere e di volere manifestare il proprio diritto di non sottoporsi ad un trattamento, allora tale diritto deve essere fatto vale anche per la persona incapace di esprimere le proprie volontà in modo attuale, attraverso lo strumento delle dichiarazioni anticipate, ossia del Testamento Biologico. Il rifiuto alle cure, anche quando questo conduce alla morte, non può essere scambiato per una ipotesi di eutanasia, ma esprime un atteggiamento di scelta, una possibilità di autodeterminazione per il malato, che la malattia segua il suo corso naturale. Come si è già potuto analizzare la situazione è più complessa nel caso di quei malati in stato vegetativo permanente che non abbiamo precedentemente manifestato in modo chiaro e documentato le proprie volontà. Il bisogno e l’importanza di scrivere la propria dichiarazione anticipata di trattamento potrebbe derivare dalla situazione di abbandono e solitudine del malato, abbandono talvolta affettivo ma anche terapeutico e assistenziale. Un’altra motivazione potrebbe essere la paura di un accanimento terapeutico, oltre all’esaurimento di ogni energia per sostenere ulteriormente la malattia. Altra paura potrebbe essere, soprattutto nei soggetti giovani, quella di soffrire che risulta essere una delle maggiori ansie di un uomo che chiede aiuto, rivolgendosi a medici e infermieri. E proprio della professione infermieristica lo stare vicino e accompagnare il malato nella evoluzione terminale della malattia e le persone a lui vicino nel momento della perdita e delle elaborazione del lutto, la relazione, atteggiamenti e gesti che vogliono accogliere, ascoltare, assistere, comunicare, lenire, attraverso questo rapporto empatico che non è tipico delle altre figure professionali sanitarie presenti. 45 4.4 Il rischio del burn-out degli infermieri nei casi di fine vita La nascita e la morte, eventi paragonabili, riservati esclusivamente a pochi intimi, caratterizzati entrambe da estrema solitudine. La società moderna, a differenza di quella del passato, partecipa al lutto in maniera più intima e meno solidale soprattutto da parte dell’intera comunità. Si delega la morte all’interno di stanze di ospedale, Case di Cura e hospice in modo da non assistere a ciò che è comune ad ogni essere umano. Ma c’è una figura che da sempre accompagna la sofferenza dell’uomo nell’evoluzione finale della propria esistenza, sostiene i familiari e li accompagna ad una piena elaborazione della perdita e del lutto che è l’infermiere. Lo sviluppo tecnologico e scientifico che ha visto nuovi metodi anche per l’accertamento di morte stessa, forse non rappresenta sempre un beneficio per la persona. Oggi si parla, ad esempio, di “morte cerebrale”, evento di cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo per le quali è concesso sospendere le cure di sostegno vitale senza intercorrere nell’eutanasia. Molte sono le domande e i dubbi che percorrono la mente degli infermieri, soprattutto quelli di alcuni reparti, come oncologia e terapia intensiva, che hanno a che fare con questi temi tutti i giorni, che tutti i giorni devono rapportarsi con il dolore e la sofferenza di un fine vita non sempre dignitoso e rispettoso delle volontà dell’assistito e dei suoi familiari. Ogni evento luttuoso viene vissuto dagli operatori sanitari, sia medici che infermieri, come un “fallimento terapeutico”, e non come la naturale evoluzione della patologia. Aspettative risolutive quindi al di sopra della norma, che rendono l’operatore demotivato, impotente, stressato, ansioso e spesso depresso, in quanto gli infermieri sono coinvolti e sono chiamati ad esprimere una propria opinione riguardo alle scelte di “fine della vita”, non solo da un punto di vista diagnostico-terapeutiche, ma soprattutto assistenziale. La maggioranza degli infermieri si sentono “tecnicamente” preparati all’evento della morte di un loro paziente, ma siano completamente non protetti da un punto di vista 46 psicologico ed emotivo, tanto da trascinarsi il lavoro a casa con conseguenze sui rapporti familiari e di relazione. In tal proposito, credono che l’intervento di figure di sostegno come counselor e psicologo siano fondamentali soprattutto nei casi più difficili e coinvolgenti e che la formazione permanente e continua sui temi di fine vita possa in qualche modo “strutturare” la propria professione. Ma l’aspetto più ingiusto nella professione infermieristica è senza dubbio il fatto che il gruppo infermieristico non ha assolutamente nessuna voce in capitolo riguardo a scelte diagnostico-terapeutiche e assistenziali nella finitezza della vita inasprendo così il rapporto con l’equipe medica che resta unica “voce decisionale”, relegando l’infermiere dentro una “gabbia emozionale” ingiusta per la professione e per la dignità di esseri umani. Nessun protocollo o standard di comportamento può guidare l’Infermiere in situazioni difficili da superare, come la sofferenza e la morte, ma la vera forza e la vera essenza degli infermieri è da sempre la capacità di conforto e di ascolto, forza non misurabile in termini “aziendalistici” ma sicuramente di grosso peso qualitativo. 4.5 Etica dell’infermiere che “accompagna” il malato terminale L’infermiere rappresenta l’anello delle cure, essendo l’infermieristica una disciplina olistica, capace di accogliere la persona anche nel suo bisogno di autodeterminazione, favorendo la salute, il benessere e la dignità del malato. L’infermiere, deve impegnarsi a garantire al malato le migliori cure possibili fino al termine della sua vita, rispondendo al rispetto del diritto di qualità del malato, evitando di correre il rischio di abbandono e di accanimento terapeutico, rischi ugualmente temibili sia dal punto di vista clinico sia etico. L’infermiere si “prende cura” del malato, attraverso una condotta o a un atteggiamento che comportano il rispetto per il carattere e la sensibilità o la struttura propria dell’altro e la disposizione a compartecipare con esso. 47 Ascoltare la situazione, prestare attenzione alle richieste che provengono dal malato e rispondere considerando la persona non come malato, ma come soggetto di una vita, soggetto di un dolore. Ascolto, attenzione e risposta richiedono sia la competenza tecnica che la considerazione attenta della sofferenza. Talvolta si può instaurare una relazione tra medico, infermiere e persona malata o suoi familiari, che diventa, se presente il requisito di fiducia, una vera e propria alleanza terapeutica, in cui risulta possibile ragionare e prendere decisioni cercando le migliori soluzioni sia sul piano soggettivo sia sul piano oggettivo. Gli elementi costitutivi di un’etica dell’accompagnamento riguardano il riconoscimento dei limiti della medicina decidendo di non proporre o di interrompere trattamenti sproporzionati. La vicinanza al malato, stare con lui in modo empatico, dandogli l’opportunità, se le condizioni cliniche lo consentono, di esprimere i propri sentimenti. Spostare l’obiettivo dello sforzo terapeutico dal guarire al prendersi cura orientando i trattamenti verso la cura dei sintomi e il sollievo dal dolore. Aiutare a vivere fino all’ultimo istante: criterio fondamentale che nasce dal presupposto antropologico per cui il morente è persona fino all’ultimo, con le sue caratteristiche e la sua dignità, con il valore delle sue relazioni. 4.6 Prendersi cura della persona in fin di vita L’infermiere coopera con il medico e altri professionisti alla guarigione della persona malata, interviene cercando di alleviare i sintomi che accompagnano la malattia e si prende cura della persona in tutti i suoi bisogni umani fondamentali. Prendersi cura della persona fino agli ultimi istanti rispettando i suoi bisogni fondamentali, sia quelli di natura corporea, sia quelli di natura psicologica, relazionale e spirituale, è un obiettivo classico della pratica infermieristica. 48 Spesso si corre il rischio di ritenere che non si può più fare nulla per il malato, esclusivamente dal punto di vista clinico, quando non c’`e una reale prospettiva di guarigione. Non si potrà mai parlare di rispetto della persona malata se non si è raggiunta una comprensione vera, piena, convinta della dignità della persona umana, della singola persona umana, anche quella malata, gravemente malata o morente. Stesso il Codice Deontologico dell’infermiere fa riferimento, per quanto concerne l’assistenza infermieristica, nell’articolo 34, che parla di una attività infermieristica volta a contrastare il dolore e alleviare la sofferenza e l’articolo 35 sottolinea come l’assistenza continua in qualsiasi condizione clinica e fino al termine della vita. Quindi, oltre alla pratica “tecnica” infermieristica, una certa responsabilità si riconosce anche sul versante relazionale. La professione stessa si realizza laddove c’è una persona che chiede aiuto. Ed `e proprio in una relazione reciproca, tra paziente e infermiere, che si realizza l’etica della cura, intesa come “prendersi cura”, che si esplica tanto nell’azione di cura, quanto nella relazione con il paziente, soprattutto quando la persona si trova nella fase avanzata della malattia in cui la relazione con la figura dell’infermiere diventa indispensabile per un conforto e sostegno morale che rappresenta, in questo caso, la priorità per un paziente inguaribile. L’infermiere di oggi, grazie a una maggiore preparazione medico-scientifica, ma soprattutto grazie alla quotidiana esperienza di prendersi cura dell’ammalato nei momenti più critici della sua esistenza, si confronta con problematiche etiche, non riducendole a dilemmi filosofici solo teorici, ma valorizzando il carattere peculiare di ogni singola situazione. Nella pratica clinica, prima ancora di valutare se sospendere o meno i trattamenti salvavita, ci si domanda il perché l’assistito avanza una tale richiesta: se per evitare la sofferenza fisica, per la paura della solitudine e dell’abbandono o se per altre ragioni. La scelta di sospensione di un trattamento salvavita, sia se fatta da persona capace di intendere e di volere sia se fatta in una dichiarazione anticipata o se avanzata da un tutore nel rispetto della volontà della persona assistita che si trova in uno stato di 49 incapacità, risulta essere una situazione particolarmente complessa dal punto di vista decisionale. L’infermiere può rappresentare un anello di congiunzione importante tra un lato il malato, cercando di comprenderlo nei suoi bisogni e nelle sue scelte, dall’altro ha un ruolo importante all’interno dell’equipe e collabora nei percorsi decisionali che vanno a costruire l’assistenza. La domanda più frequente che nasce dalle nuove possibilità di cura e dai progressi medico scientifici, riguarda quanto sia legittimo e eticamente condivisibile attuare interventi che finiscono non per prolungare la vita, ma il processo del morire, rimandando la morte, anche in casi gravi di stato vegetativo permanente, per anni. Ci si domanda se una tale morte può considerarsi dignitosa, soprattutto se contrastante con le volontà precedentemente espresse dalla persona assistita. Una morte serena, dignitosa fino all’ultimo, per quanto possibile senza dolore, può realizzarsi con il ricorso alle cure palliative, che comprendono non soltanto il trattamento farmacologica, ma anche e soprattutto i bisogni psicologici, spirituali e relazionali del morente, ruolo tipico dell’infermiere. 50 CONCLUSIONI 51 Nel corso della presente trattazione sono stati affrontati i diversi aspetti della tematica inerente alle scelte di fine vita, dall’analisi delle categorie elaborate dalla dottrina alla luce dei principi costituzionali, passando per le soluzioni giurisprudenziali relative ai più recenti casi giudiziari italiani. Il quadro giuridico emergente attualmente in Italia, anche dalla comparazione con gli altri ordinamenti, è di un approccio legislativo particolarmente restrittivo nei confronti dell’autodeterminazione individuale, se considerato nella prospettiva tracciata dalle ultime prese di posizione della politica, a cui si contrappone invece una notevole apertura da parte della giurisprudenza, più vicina, per sua stessa funzione, alla disamina delle particolarità dei casi concreti. La tutela del diritto sulla libertà di morire, se garantito nei confronti dei soggetti capaci, tanto più se invasivi, dovrebbe poi immancabilmente essere disposta nei confronti dei soggetti più deboli, quali quelli incapaci, per i quali, sulla base del principio del consenso, e per il principio di uguaglianza, è stata elaborata la soluzione del recupero o della ricostruzione delle volontà pregresse, attraverso l’istituto delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Lo spazio per un’autodeterminazione in materia di fine vita è a tutt’oggi piuttosto limitato e lo sarà ancora per i prossimi anni. Già i riferimenti normativi della Carta Costituzionale a cui si suole generalmente guardare quando si affronta la tematica, non appaiono adatti e risultano limitati con vari vuoti legislativi e necessitano di una “rilettura” che ne dia un senso più vicino e più rappresentabile alla tematica da affrontare. Ma il medesimo raffronto con la Costituzione non può che guidare l’approccio alla tematica e le scelte che il legislatore è chiamato a compiere in relazione alle istanze emergenti dalla società. La fase terminale della vita oggi subisce quasi un allontanamento dal resto della vita, attraverso l’ospedalizzazione, ovvero la modalità in cui si assicurano al malato tutte le cure, ma che può anche trasformarsi in una sorta di limbo in cui diviene difficile conservare i diritti che sono garantiti agli altri soggetti. Proprio in questi casi così delicati per le condizioni fisiche del soggetto, oltreché per l’attinenza alla sfera morale 52 delle relative decisioni, appare fondamentale garantire il diritto di gestire ancora la propria esistenza. Una vita soggetta al volere altrui, difficilmente può dirsi adeguatamente tutelata dal diritto. Pertanto laddove si sia conservata la vita biografica in modo attuale, o attraverso una scelta anticipata, essa andrà tutelata dal diritto. Una legge che regolamenti le dichiarazioni anticipate di trattamento risulta necessaria per poter far valere il pieno rispetto della volontà e della libertà della persona malata. Una buona legge può prevenire il rischio di una richiesta di interventi di eutanasia, valorizzando il ricorso a terapie palliative ma, allo stesso tempo, tale rischio può essere prevenuto riconoscendo l’importanza di una vera alleanza terapeutica in una fase drammatica dell’esistenza del malato. L’infermiere, come ogni altra figura sanitaria, rispetta la libera scelta del paziente e, nel caso una scelta anticipata non sia stata espressa in alcun modo, si serve del principio del pluralismo, principio indispensabile per consentire alle diverse concezioni personali, di coscienza e di pensiero, di coesistere, derivanti dalle riflessioni originate dal dibattito etico nella propria professione. Pur rispettando la volontà del paziente sulla propria libertà di scelta di eventuali trattamenti sanitari, l’infermiere risulta essere un detentore del principio al diritto alla vita e, come tale, può opporsi coscientemente ad effettuare un trattamento che implicherebbe l’andare contro alla propria dottrina morale ed etica, poiché il primo scopo della professione infermieristica è l’assistenza e la cura del malato e non la sua morte. Curare il malato e prendersi cura, significa anche aiutarlo a fare delle scelte consapevoli e responsabili, come previsto dall’articolo 20 del Codice deontologico dell’infermiere. Resta comunque che anche quando viene fatta una scelta di estrema tragicità da parte del paziente, come quella di porre fine alla propria vita attraverso la rinuncia ad un trattamento di sostegno vitale, gli infermieri continuano a stare con il malato e ad assisterlo. 53 Il Codice Deontologico dell’Infermiere conferma una posizione per cui l’infermiere continua a curare o, meglio, a “prendersi cura” della persona malata fino agli ultimi istanti anche quando non si può più fare niente ai fini di una guarigione. Prendersi cura della persona rispettando i suoi bisogni fondamentali, sia quelli di natura corporea sia quelli di natura psicologica, relazionale e spirituale, risulta essere un obiettivo certo della pratica infermieristica. Tanto maggiore è la debolezza della persona, tanto maggiore risulta essere il dovere etico e giuridico di prendersi cura di lui. 54 BIBLIOGRAFIA 55 1. Comitato Nazionale di Bioetica “Dichiarazioni anticipate di trattamento”, 2009 2. Documento elaborato dal Consorzio Direttivo e dalla Commissione di Bioetica della Società Italiana di Nutrizione parenterale ed enterale “Precisazioni in merito alle implicazioni bioetiche della nutrizione artificiale”, 2007 3. Rivista “l’Infermiere”, 2010 “la persona nel fine vita” 4. Codice deontologico dell’infermiere, 2009 5. A. Silvestro “commentario del Codice deontologico”, 2009 Ed. McGraw-Hill 6. C. Faralli “bioetica e biodiritto. Problemi, casi e materiali”, 2010 Ed. 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