La maledizione del dover morire dovrà diventare

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La maledizione del dover morire dovrà diventare
La maledizione del dover morire
dovrà diventare una benedizione:
che si possa ancora morire
quando vivere è insopportabile.
Elias Canetti, La provincia dell'uomo, 1973
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INTRODUZIONE
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Nella vita quotidiana, la morte rappresenta un argomento che si tende ad evitare,
poiché viene visto e vissuto con dolore, angoscia e riempie la persona di domande che
non sempre trovano una risposta.
Nell’ambito sanitario, il personale medico ed infermieristico, si riscontra ogni giorno
con esperienze di persone malate che sono separate da un filo sottile con la morte ed
inevitabilmente porta al porsi domande sull’etica di questo vissuto, su cosa possa essere
più giusto per evitare o alleviare la sofferenza del malato e delle persone che lo
circondano, sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista della propria dignità.
Quando il malato sa che non avrà cura per la propria malattia e, questa, porterà
gradualmente al decesso, il senso di angoscia prevale e l’unico desiderio che resta è che
il proprio calvario finisca presto.
Per il personale sanitario questa resta una sconfitta, poiché la sua missione più
importante sia proprio quella di alleviare il dolore umano e di dare quella forza e quella
speranza che permettono tanto ad una persona di migliorare le proprie condizioni più
velocemente e che, in questo caso, si trova impotente di fronte ad una situazione in cui
non vi è via d’uscita e in cui sembra difficile e fuori luogo qualsiasi tentativo di
consolazione.
Il dibattito sulla bioetica resta acceso all’interno dell’ambiente sanitario, in cui va
sempre a riscontrarsi con la legislazione del proprio Paese.
Numerosi sono stati i casi in cui la persona malata non fosse libera di decidere per la
propria vita e avesse esplicitamente lottato per porne fine, per il proprio diritto di
decidere come morire e per avere un pizzico di dignità per la propria persona.
Desideri che uno Stato come l’Italia non può garantire sulla libertà, in cui un individuo
non può scegliere cosa sia il bene per se stesso.
Casi recenti e di una certa fama, sono rappresentati da Piergiorgio Welby ed Eluana
Englaro.
Ma oltre la richiesta del soggetto a voler volontariamente porre fine alla propria
sofferenza, esiste un altro dilemma etico dello stesso valore, ma nella quale il soggetto
non può, momentaneamente a causa della malattia, esprimere la propria volontà che
magari sia stata espressa in passato.
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Un prolungamento della vita per una condizione irreversibile, dipendente da un
macchinario che ne permette l’alimentazione, l’idratazione e la respirazione, viene
considerata vita?
La dichiarazione anticipata di trattamento, può essere considerata una sorta di consenso
informato “anticipato”, poiché provenga direttamente dalla volontà del soggetto
coinvolto e che ha precedentemente dichiarato?
Le domande sarebbero tante e tante ancora, senza risposta. Sono anni ormai che
l’argomento viene affrontato con un certo attivismo sia da parte della Sanità che della
popolazione.
Il dibattito viene affrontato dalla politica, dal Comitato Nazionale di Bioetica e dai
professionisti sanitari, ma nonostante ciò, la giurisprudenza attuale non garantisce
ancora nessuna soluzione.
Nell’attesa di una migliore e più attenta legislazione, si cerca di avere risposte sul
miglioramento dell’assistenza, del supporto morale del malato e dei familiari, sul
sostegno di cui il malato ha bisogno e sul “rapporto di fiducia” che si può instaurare tra
il malato terminale e l’infermiere.
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CAPITOLO 1
L’Eutanasia e il Testamento Biologico
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1.1 Un po’ di storia sull’eutanasia
Il problema dell’eutanasia non è però specifico della nostra epoca. Da sempre i
medici hanno dovuto farvi fronte e da sempre hanno incontrato pazienti che chiedevano
loro di essere aiutati ad anticipare la propria morte.
Nella Grecia antica il suicidio riscuoteva un’alta considerazione: si supponeva che
ognuno fosse libero di disporre come meglio credesse della propria vita. L’assistenza al
suicidio nel mondo classico non fu proibita fino all’avvento al potere del cristianesimo.
E agli inizi dell’era moderna il medico e filosofo inglese Francesco Bacone scriveva che
era altamente desiderabile che i medici imparassero "l’arte di aiutare gli agonizzanti a
uscire da questo mondo con più dolcezza e serenità". Infatti si trova scritto nel
"giuramento d’Ippocrate": "Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un
farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio".
Quello che è specifico però della nostra epoca e che spiega l’acutizzarsi del problema, è
il profondo mutamento che le condizioni del morire hanno subìto a causa del progresso
della medicina, e, più in generale, del miglioramento delle condizioni e delle aspettative
di vita. Fino a non molti decenni fa, la morte avveniva prevalentemente a casa e, anche
se non sempre era una morte "dolce e quieta", il processo del morire, il dolore e la
sofferenza duravano comunque relativamente poco.
Oggi si muore più tardi e non più per malattie acute, quanto invece per malattie croniche
e degenerative legate alla vecchiaia, cosa che ha fatto coniare a Daniel Callaghan
l’aforisma: "Vite più lunghe e salute peggiore; malattie più lunghe e morti più lente;
vecchiaia più lunga e demenza crescente".
Ancora, oggi la medicina è in grado di vicariare le funzioni dei più importanti organi
vitali e quindi di tenere in vita un paziente indefinitamente e, comunque, ben oltre il
punto in cui si può ragionevolmente dire che stiamo prolungando la vita e non, invece,
procrastinando inutilmente la morte. Questo è un punto importante; l’etica medica
tradizionale s’è formata in un’epoca in cui molto poco poteva essere fatto per salvare la
vita del paziente e quel poco doveva essere fatto. L’imperativo del "vitalismo", che
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imponeva di prolungare ad ogni costo la vita del paziente, era una reazione
all’impotenza della medicina, di fronte al fatto drammatico di non poter riuscire a
salvare una vita, spesso ancora carica di promesse. Oggi, invece, possiamo fare
moltissimo non solo per salvare la vita, ma anche per prolungarla quando "non può
promettere più nulla". Si pone allora il problema di sapere se vale sempre la pena di fare
tutto quello che possiamo fare, fino alla totale espropriazione di quel che viene
comunemente definito il "diritto di morire con dignità".
Negli anni ’30, dunque, nacquero nel mondo anglosassone le prime associazioni, che
nel dopoguerra si svilupparono fortemente. Oggi le associazioni di tutto il mondo sono
riunite nella World Federation of Right to Die Societies (Federazione Mondiale delle
Società per il Diritto di Morire). Nel 1974 alcuni umanisti, tra cui scienziati, filosofi e
premi Nobel, lanciarono il manifesto A Plea for Beneficent Euthanasia, che riscosse
molti consensi.
La principale attività di queste associazioni consiste nel sensibilizzare l’opinione
pubblica e, soprattutto, governi e parlamenti, sulla necessità di raggiungere stadi più
progrediti nel riconoscimento dei diritti del malato terminale.
Il «consenso informato» è oramai entrato a far parte del vocabolario medico: con esso è
stata riconosciuto il diritto del paziente di dire la sua sulle cure che dovrà ricevere.
Ora la battaglia delle associazioni si è sostanzialmente spostata, oltre che sulla richiesta
della legalizzazione, sulla liceità e sul valore legale della sottoscrizione, da parte di
chiunque, di «direttive anticipate»; qualora, in futuro, si venisse a trovare
nell’impossibilità di opinare sulle cure ricevute. A tal fine sono stati quindi elaborati dei
veri e propri «testamenti biologici».
Obbiettivo ultimo è riuscire a far sancire il diritto di ogni individuo di disporre
liberamente della propria esistenza.
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1.2 Posizione della Chiesa in proposito
La questione fondamentale che un’etica cristiana è chiamata ad affrontare riguarda
la difficile conciliazione tra la protezione della vita e le esigenze della responsabilità
individuale.
Il mondo cattolico ha deciso, sin dagli anni '50 del secolo scorso, di affrontare un tema
così delicato e soprattutto così eticamente sensibile come l’eutanasia.
L'attenzione dei movimenti pro life e delle gerarchie vaticane si è particolarmente
interessata alle ricerche relative allo stato vegetativo, accettando la definizione di morte
cerebrale, così come delineata dalla comunità scientifica. Giovanni Paolo II, affermò
che la “cessazione totale e irreversibile di ogni attività encefalica” come criterio per
l'accertamento della morte “se applicato scrupolosamente non appare in contrasto con
gli elementi essenziali di una corretta concezione antropologica”.
Più complesso, invece, com'è naturale, il dibattito sull'eutanasia. La Chiesa cattolica, ha
da sempre dichiarato l'immoralità radicale dell'eutanasia, in quanto violazione del
comandamento “non uccidere”.
L'unico intervento umano ammissibile è quello volto ad alleviare il dolore e ad evitare
anche il cosiddetto accanimento terapeutico.
Sono ammissibili le terapie antidolorifiche anche se potrebbero presentare il rischio,
non voluto, di accelerare la morte di un malato terminale. Si sottolinea, inoltre, che ogni
essere umano ha il diritto di morire serenamente e con dignità. Questa apertura ha
consentito l'introduzione del concetto di un uso proporzionato dei mezzi terapeutici
sostituendo la classica dicotomica contrapposizione tra mezzi terapeutici ordinari,
sempre doverosi e straordinari, che possono essere sospesi. Quindi risulta certamente
lecito sospendere, o astenersi da, un trattamento sproporzionato o sperimentale, mentre
non è altrettanto lecito rifiutare arbitrariamente un trattamento proporzionato.
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L'opposizione dei cattolici a una possibile legalizzazione per quanto riguarda
dell'eutanasia si fonda, quindi, su principi non soltanto di carattere religioso, ma anche
naturale e civile, attinenti al rispetto della vita e della dignità dell'uomo che lo Stato
deve tutelare e non distruggere. In tal senso la sacralità della vita è una verità
fondamentale, ma non perché derivante esclusivamente da un principio divino, ma da
una visione che pone al centro l'uomo e i suoi diritti, aventi una portata non solo
cattolica, ma universale.
1.3 Lo stato vegetativo permanente
Il termine stato vegetativo persistente venne coniato nel 1972 dal neurochirurgo
scozzese Bryan Jennett e dal neurologo americano Fred Plum per descrivere una nuova
sindrome che sembrava comparire, grazie alle possibilità della medicina moderna e
dell’avanzare della tecnologia, di mantenere in vita i corpi dei pazienti che si trovavano
in stato comatoso.
Si tratta di una “veglia incosciente” in condizione continuativa di almeno tre settimane,
che può essere provocata da un insulto acuto dell'encefalo, di tipo traumatico oppure
ipossico-ischemico o riferibile a emorragie, encefaliti e intossicazioni. Può derivare
anche da alcune malformazioni (l'anencefalia o l'idrocefalo congenito) e malattie
cronico-progressive (la più comune è la malattia di Alzheimer). L'insulto è seguito da
un periodo più o meno prolungato di coma vero e proprio, dopo di che l'individuo
comincia ad aprire gli occhi e mostra segni di vigilanza, ma non di consapevolezza.
Va però distinta sul piano clinico, dalle condizioni definite come morte cerebrale o
coma irreversibile. In questi casi è presente la completa e irreversibile perdita di attività
dell’encefalo, confermata dalle registrazioni elettrofisiologiche, e delle funzioni vitali
correlate, fra cui l’attività respiratoria. La morte cerebrale è, quindi, una condizione
completamente diversa dallo stato vegetativo, che non viene riconosciuto come morte in
nessun sistema legale.
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Un soggetto in stato vegetativo permanente presenta delle condizioni fisiche e
fisiologiche che possono lasciar pensare tutto, fuorché una persona in stato di
incoscienza.
Possono avere gli occhi aperti in cui, abitualmente, presentano una motilità oculare e
delle palpebre, ma non seguono con lo sguardo uno stimolo visivo. Hanno presente il
ciclo sonno-veglia oppure possono restare in stato di veglia cronico. Non hanno alcuna
coscienza né di sé e né dell’ambiente circostante. Mostrano riflessi agli stimoli dolorosi,
ma non volontari. Compiono movimenti spontanei non finalistici, con movimenti
stereotipati della masticazione, deglutizione, smorfie del viso, sbadigli e la respirazione
è autonoma. Possono mostrare alcuni comportamenti che possono essere il prodotto di
un parziale stato di coscienza, come il digrignamento dei denti, ingoiare, singhiozzare,
sorridere, lacrimare e piangere, fare moine, farfugliare, sbuffare, oppure urlare senza
alcuno stimolo esterno apparente.
Le possibilità di recupero dello stato di coscienza della persona in stato vegetativo
permanente, dipende sia dall’entità e dall’estensione della lesione cerebrale, sia dall’età
del paziente, in quanto i soggetti più giovani hanno una maggiore percentuale di
recupero. Una persona in SVP per causa traumatica, avrà più possibilità di recupero
rispetto ad una causa di patologia cronica o ictus cerebrale.
Il problema principale è che sorgono dispute riguardanti dunque non tanto il fatto circa
l’affidabilità della diagnosi di stato vegetativo permanente, in particolare quando questa
diagnosi viene emessa da un numero limitato di neurologi. Uno studio del 1996 su 40
pazienti nel Regno Unito riteneva che il 43% di quelle diagnosi di stato di SVP fossero
errate ed un altro 33% di questi pazienti riuscì a riprendersi mentre lo studio era in
corso.
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Cos’è il Testamento Biologico
1.4
La legge Italiana sancisce il diritto per ogni paziente di conoscere la verità sulla
propria malattia e il diritto di acconsentire o meno alle cure proposte, attraverso il
consenso informato. In condizioni molto gravi, tuttavia, il paziente non potrebbe essere
in grado di esprimere la propria volontà.
Il 18 dicembre 2003, il Comitato Nazionale di Bioetica (CNB), approva il documento
sulla “dichiarazione anticipata di trattamento”.
Questa dichiarazione non è altro ciò che viene più frequentemente chiamato “testamento
biologico”, un documento in cui la persona che lo sottoscrive, dichiara in perfetta
lucidità mentale, quali terapie accettare o non accettare nel caso si trovasse in condizioni
di incapacità.
La legge della Convenzione di Oviedo recita così: “I desideri precedentemente espressi
a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento
dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in
considerazione”.
Le direttive che il paziente andrebbe a sottoscrivere nel documento come sue reali
volontà precedenti a qualsiasi tipo di cura, non sono però vincolanti per il medico, ma
solo richieste di desideri di cui, il medico, non è tenuto a dover rispettare e a dare
spiegazioni sul perché non le abbia acconsentite.
Quindi, senza un’adeguata legge all’interno dello Stato membro della Comunità, queste
direttive non sono valide ai fini legali e, il rapporto medico- paziente risulta sbilanciato
dalla parte del paziente, in cui il medico sembrerebbe l’unico esecutore della volontà
altrui.
Ovviamente, per una questione deontologica, il medico sarà comunque tenuto a fornire
ai familiari le opportune spiegazioni del perché la richiesta del paziente sia stata accolta
o non accolta.
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Di tanto in tanto, alcuni casi di morte per termine o rifiuto del trattamento medico, come
nel caso di Eluana Englaro, pongono all’attenzione della politica e dell’opinione
pubblica sulla necessità di legiferare in maniera chiara sull’argomento.
In attesa di una legge che regoli la materia, è in atto in molti comuni italiani, la raccolta
anticipata del trattamento dei cittadini residenti nel territorio interessato, tramite
oppositi registri depositati in Municipio. Questi atti non eludono le iniziative legislative,
ma sono un’azione importante poiché, in caso di bisogno, non sia necessario di
ricostruire la volontà dell’interessato, come nel caso della Englaro.
1.5 Quando si parla di “eutanasia”, di cosa stiamo parlando?
Per eutanasia, che nel senso letterale del termine significa “buona morte”, si intende
il procurare intenzionalmente e nel proprio interesse la morte dell’individuo in cui la
propria vita è compromessa in maniera permanente da malattia, menomazione o
condizione psichica. L’eutanasia, quindi, costituisce una forma di “suicidio assistito”
praticabile consensualmente su persone che, pur desiderandolo, siano impossibilitate per
la malattia, a porre fine alla propria vita da sole.
È una morte senza sofferenza fisica che può essere applicata in modi differenti, in base
alla legislazione del Paese in cui è concessa.
A seconda della condizione clinica del paziente e della volontà del medico, essa può
essere praticata in diverse forme:

L’eutanasia è attiva diretta quando il decesso è provocato tramite la
somministrazione di farmaci che inducono la morte (per esempio sostanze
tossiche).

L’eutanasia è attiva indiretta quando l'impiego di mezzi per alleviare la
sofferenza (per esempio: l'uso di morfina) causa, come effetto secondario, la
diminuzione di tempi di vita.
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
L’eutanasia è passiva quando provocata dall'interruzione o l'omissione di un
trattamento medico necessario alla sopravvivenza dell’individuo.

L’eutanasia è detta volontaria quando segue la richiesta esplicita del soggetto,
espressa essendo in grado di intendere e di volere oppure mediante il cosiddetto
testamento biologico. L’eutanasia è detta non-volontaria nei casi in cui non sia il
soggetto stesso ad esprimere tale volontà ma un soggetto terzo designato (come
nei casi di eutanasia infantile o nei casi di disabilità mentale).

Il suicidio assistito è invece l'aiuto medico e amministrativo portato a un
soggetto che ha deciso di morire tramite suicidio ma senza intervenire nella
somministrazione delle sostanze.
Resta, comunque, che l’applicazione dell’eutanasia rimane un argomento di dibattito
persistente nella storia dell’umanità, dalle prime civiltà fino ad oggi. Tuttavia, quello
che è specifico della nostra epoca, è il profondo cambiamento che le condizioni di
morire hanno subito a causa del progresso della medicina, in quanto è in grado di
controllare e mantenere attive le più importanti funzioni vitali per il malato da
mantenerlo in vita per periodi anche molto lunghi.
La sopravvivenza, che non rappresenta la vita, può spingersi fino al punto in cui si può
constatare che non si sta più prolungando la vita della persona, ma si sta procrastinando
inutilmente la sua morte.
Tuttavia, questo stesso progresso medico-scientifico, che può dare anche la “dolce
morte”, si contrappone allo scopo della medicina e della ricerca che è quello di voler
sconfiggere numerose patologie.
Di fronte al problema etico dell’eutanasia, troviamo una cultura scientifica che appare
ricca di potenzialità e di speranze, dall’altra parte ancora troppo impotente nonostante
tutto. È da questa contraddizione che nasce il dibattito etico sull’eutanasia.
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1.6
Uno sguardo alla Bioetica
La Bioetica è una disciplina moderna molto recente che applica la riflessione etica
alla scienza ed alla biomedicina. Prevede dunque l'interazione dell'etica con le scienze,
in una modalità più moderna rispetto a quella tradizionale e religiosa, con lo scopo di
affrontare e valutare anche a livello morale alcuni processi medici, tra i quali anche
l’eutanasia.
Il termine Bioetica compare per la prima volta nel 1970 quando l'oncologo americano
Van Rensselaer Potter compone il saggio “bioetica: un ponte verso il futuro”.
In realtà le problematiche etiche relative a sperimentazioni scientifiche furono sollevate
con rilievo già a partire dalla fine degli anni Quaranta, in particolare dal 1949 con il
Processo di Norimberga, dove si condannarono i medici nazisti che nel campo di
concentramento tedeschi praticarono senza scrupolo esperimenti su esseri umani senza
il loro consenso, ed anche eutanasie forzate su persone ritenute non degne di vivere.
Il tema della vita e della morte supera di gran lunga i confini della riflessione bioetica.
Al tempo stesso, però, rappresenta un tema bioetico fondamentale. Essa promuove una
teoria improntata sul concetto di qualità della vita, rispetto al quale si stabilisce il valore
di un’esistenza.
Il progresso biomedico e biotecnologico ha reso oggi possibile prolungare la vita
attraverso la cura di molte malattie, un tempo mortali, e mediante macchinari in grado di
mantenere le funzioni vitali in modo artificiale. Queste capacità scientifiche sono
all’origine di nuove opzioni che però non è detto siano concepite da tutti come sistemi
per migliorare la qualità della propria vita.
È evidente che nel momento in cui a funzionare sia solo l’apparato organico
dell’individuo e non quello cosciente sorge il problema se abbia maggiore importanza la
vita biologica (vita dell’organismo) o la vita biografica.
Una volta le decisioni sulle terapie da intraprendere erano prese del medico che, come
un genitore fa con il figlio, sceglieva “in scienza e coscienza” ciò che riteneva bene per
il paziente (paternalismo medico). Oggi invece il rapporto medico-paziente è molto
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cambiato. Il paziente è sempre più coinvolto in tutti gli aspetti che riguardano la sua
malattia e le possibili cure, in quanto unico ad avere il diritto di decidere in autonomia
della qualità della sua vita. Il diritto di autoregolamentarsi significa anche avere il diritto
di rifiutare le cure cosiddette “salva vita”, ovvero quelle cure senza le quali
sopraggiunge la morte, in nome di un diritto alla vita e di un diritto alla salute che non
vengano interpretati come obbligo a vivere e obbligo a curarsi.
Il medico e gli infermieri si trovano a dover conciliare la propria “moralità interna”,
espressione dei fini della medicina, con la “moralità esterna”, espressione del sistema
giuridico e del contesto culturale, in cui le specifiche pratiche sanitarie si collocano.
Il paradigma etico-clinico, che sta alla base di quello che `e il dilemma del medico può
essere così sintetizzato: difendere la vita e promuovere la salute della persona,
rispettando la sua dignità personale e gestendo efficacemente le risorse assegnate alla
comunità. Il medico fa riferimento ai principi di beneficialità, di autonomia, di giustizia
ed è supportato dalla sua esperienza clinica concreta.
La garanzia suprema del diritto di ogni cittadino a realizzare la propria volontà sulla
sua personale esistenza coincide con il diritto all’autodeterminazione o all’autonomia
individuale, fondamento della prospettiva laica in bioetica.
Il diritto all’autodeterminazione è un diritto di libertà e di responsabilità che ognuno ha
verso se stesso e che supera la delega di tali importanti decisioni al medico o ad altri,
come i propri familiari o il giudice.
Nel marzo del 1990, viene istituito il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) che
pone come questione fondamentale, se non il massimo problema della bioetica,
l’insieme delle questioni della fine volontaria della vita umana.
Il Comitato Nazionale di Bioetica nel documento del 2003 “Dichiarazione anticipata di
trattamento”, afferma che: “Solo una precisa normativa, che precisi inequivocabilmente
contenuti e limiti della posizione di garanzia nei confronti dei pazienti attribuita agli
operatori sanitari può infatti restituire a questi ultimi serenità di giudizio e aiutarli
soprattutto a sfuggire a dilemmi deontologici e professionali altrimenti insolubili, che in
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alcuni casi li portano ad assumere comportamenti che essi ritengono doverosi e
giustificati in coscienza [...]ma che in altri, nel maggior numero di casi, li inducono ad
attenersi al principio della massima cautela non per ragioni etiche e deontologiche, ma
solo per meglio garantirsi dal punto di vista delle eventuali conseguenze legali dei loro
atti”.
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CAPITOLO 2
I più noti casi giudiziari oggetto di dibattito
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2.1 Il disperato caso di Elena Moroni
Quello di Elena Moroni fu il primo caso in Italia che fece senza dubbio scalpore,
quello in cui il marito Ezio Forzatti si introdusse nel reparto di terapia intensiva dove
era ricoverata la moglie con una pistola scarica, per tenere a distanza il personale di
servizio mentre lui staccava la spina, armando d’amore e di disperazione per le
condizioni della moglie, si fece arrestare solo dopo che era sicuro del decesso della
moglie.
Elena Moroni, un’insegnante di 46 anni, si trovava in coma irreversibile per un edema
cerebrale dovuta alla mancanza di piastrine nel sangue dopo una cura con
antinfiammatori di largo consumo. La sua vita dipendeva ormai ad un respiratore.
Processato, Forzatti fu condannato nel giugno 2000 dalla corte d'Assise di Monza a sei
anni e sei mesi di reclusione. La richiesta del pubblico ministero era di 9 anni di
reclusione, ma la corte riconobbe a Forzatti l'attenuante della seminfermità mentale. Al
termine del successivo processo d'appello nell’aprile 2002 tenutosi a Milano, Forzatti fu
ritenuto completamente in grado di intendere e di volere, e assolto perché il fatto non
sussisteva.
Tra le motivazioni della sentenza, decisiva fu quella secondo la quale i giudici
considerarono la donna clinicamente morta al momento del distacco del respiratore.
La sentenza d'assoluzione fu salutata positivamente da molti e, di converso, suscitò
prevedibili polemiche da parte degli oppositori dell'eutanasia. Oppositori che si
riscontrarono sia nella società che nel mondo politico, smuovendo comunque un
argomento che sarebbe stato discusso su larga scala, nel vicino futuro.
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2.2 La contesa sulla fine della vita: Eluana Englaro
Era il 9 febbraio 2009, che il dottor Amato del Monte, primario di rianimazione
della clinica “La Quiete” di Udine, telefonò a Beppino Englaro, per comunicargli che un
quarto d’ora prima, sua figlia Eluana era morta dopo 17 anni di coma vegetativo.
Tre giorni prima, i medici aveva sospeso l’alimentazione e l’idratazione artificiale che
tenevano in vita Eluana. Per ottenere questo risultato, la famiglia Englaro dovette
affrontare undici anni di processi, quindici sentenze della magistratura italiana e una
della Corte Europea, l’opposizione del governo in carica e le proteste, le manifestazioni
e gli appelli di numerose associazione, in gran parte cattoliche.
Eluana Englaro nacque a Lecco, in Lombardia, nel 1970. All’età di 21 anni e si era da
poco iscritta alla facoltà di lingue di Milano, Eluana perse il controllo dell’auto mentre
ritornava da una festa in paese vicino al suo paese, colpì un palo della luce e quindi un
albero. L’incidente le causò gravissimi danni al cervello e una frattura alla colonna
vertebrale.
Quando venne raggiunta dai medici a bordo di ambulanza era già in coma spontaneo.
Le lesioni che aveva subito avrebbero causato quasi certamente una paralisi totale e,
nelle prime ore dopo l’incidente, i medici si occuparono principalmente di salvarle la
vita. Quando Eluana venne dichiarata fuori pericolo, poche ore dopo l’incidente, i
medici spiegarono ai genitori che l’unica cosa da fare era attendere 48 ore e osservare
con più calma quali danni aveva subito il cervello. Eluana non uscì dal coma.
Un anno dopo dall’incidente, venne dimessa dal reparto di rianimazione, ma rimase
incosciente. I medici continuano a dire di aspettare, mentre il padre chiede consulto a
numerosi specialisti, ma senza avere affermazioni discordanti.
In realtà la speranza si riduce ben presto a zero. Infatti dopo dodici mesi è possibile fare
una diagnosi definitiva e sicura di stato vegetativo permanente, ossia irreversibile. La
corteccia del cervello, compromessa come nel caso di Eluana da un trauma oppure da
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un'emorragia, va incontro a una degenerazione definitiva. E con essa tutte le funzioni di
cui è responsabile: dall'intelletto agli affetti, e più in generale alla coscienza. Venne
dichiarata in stato vegetativo permanente.
Il limite dei dodici mesi è dato per assodato a livello internazionale. Tanto che, passato
quel periodo, l’Associazione dei Medici Inglesi e l’Accademia Americana di
Neurologia, sostengono la legittimità di sospendere nutrizione e idratazione artificiale.
Ma non in Italia, dove la maggior parte dei medici non si azzarda ancora a dire
chiaramente che tenere in vita più a lungo questi pazienti possa essere definito
accanimento terapeutico.
Gli occhi di Eluana si aprono e si chiudono seguendo il ritmo del giorno e della notte,
ma non ti vedono. Le labbra sono scosse da un tremore continuo, gli arti tesi in uno
spasimo e i piedi in posizione equina. Una cannula dal naso le porta il nutrimento allo
stomaco.
Ogni mattina gli infermieri le lavano il viso e il corpo con spugnature. Un clistere le
libera l'intestino. Ogni due ore la girano nel letto. Una volta al giorno la mettono su una
sedia con schienale ribaltabile, stando attenti che non cada in avanti. Poi di nuovo a
letto.
E così che vive Eluana per 17 lunghi anni in una condizione priva di dignità, anche se
non soffra direttamente per il suo stato, poiché priva di coscienza. La sua condizione è
penosa per coloro che la assistono e che hanno ormai perduto da tempo la speranza di
un risveglio e per i suoi genitori, che hanno perso una figlia ma non possono elaborarne
il lutto.
Il calvario giuridico, per ottenere l’autorizzazione a interrompere l’alimentazione
artificiale a Eluana, iniziò nel 1997 e durò undici anni, produsse sedici sentenze della
magistratura italiana ed europea, rimanendo inizialmente lontana dall’opinione
pubblica.
Il primo passo, fu quando Beppino Englaro ottenne da un giudice l’autorizzazione a
diventare tutore di Eluana. Poco più di un anno dopo, nel gennaio del 1999, Englaro
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chiese per la prima volta al tribunale di Lecco di interrompere l’alimentazione artificiale
della figlia, che considerava un accanimento terapeutico in contrasto con l’articolo 32
della Costituzione:
“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per
disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal
rispetto della persona umana”.
La Cassazione si espresse definitivamente sulla questione dell’alimentazione artificiale,
che venne definitivamente esclusa dalla definizione di accanimento terapeutico.
La Corte, però, precisò anche un altro elemento che si rivelò fondamentale per il caso:
l’alimentazione artificiale poteva in realtà essere interrotta, a patto che si verificassero
due circostanze. La prima: lo stato vegetativo doveva essere giudicato dai medici
completamente irreversibile. La seconda: si doveva poter dimostrare che il paziente
avesse espresso la richiesta di non essere mantenuto in vita in maniera artificiale, una
cosa che la famiglia Englaro era riuscita a fare portando diverse testimonianze di amici
di Eluana.
La Corte decise comunque di rimandare tutto alla Corte d’Appello di Milano, per
l’ennesima volta, che nel luglio 2008 accolse il ricorso di Beppino Englaro e lo
autorizzò ad interrompere l’alimentazione artificiale, in quanto vi era un vuoto
normativo che regolasse l’interruzione o meno dell’alimentazione artificiale in un
soggetto in coma vegetativo.
Da diversi mesi, ormai, il caso era arrivato sui giornali e la sentenza della Cassazione
fece aumentare l’attenzione di tutti i media italiani e di quelli esteri, suscitando pareri
favorevoli e contrari.
Pochi giorni dopo la sentenza, il parlamento composto da una larga maggioranza di
centrodestra del governo Berlusconi in carica cercarono di bloccare l’esecuzione della
sentenza in ogni modo, a tal punto che la Corte Costituzionale dichiarò che il
parlamento poteva in qualunque momento legiferare per colmare il vuoto che la Corte di
Cassazione era stata costretta a riempire con la sua sentenza.
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Arrivarono così le iniziative legislative, in cui il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi
emanò un “atto di indirizzo” con il quale veniva vietato di interrompere l’alimentazione
artificiale a tutte le strutture del servizio sanitario nazionale o convenzionate con esso.
Il 3 febbraio la famiglia Englaro decise di lasciare la regione Lombardia e di portare
Eluana nella clinica “La Quiete” di Udine. Il servizio sanitario del Friuli, infatti, non
faceva più parte del sistema sanitario nazionale dal 1996. Il governo tentò di bloccare la
famiglia con un decreto legge, approvato all’unanimità dal Consiglio dei ministri.
In quei giorni Beppino Englaro invitò il governo e la stampa a visitare Eluana, perché
gli interessati potessero rendersi conto di persona delle sue condizioni. Circolava in
parte dell’opinione pubblica l’idea che Eluana fosse, in un certo senso, semplicemente
“addormentata” da 17 anni. Alcuni sottolineavano con insistenza che fosse ancora bella
e che potesse svegliarsi in qualunque momento: in realtà l’autopsia rivelò le condizioni
incredibilmente gravi nelle quali si trovava Eluana, come ad esempio la parziale
ossificazione dei polmoni.
La notizia della morte arrivò al Senato, suscitando sdegno e sgomento tra i Senatori,
mentre era in corso la discussione del disegno di legge che avrebbe dovuto impedire
l’interruzione dell’alimentazione forzata.
2.3 La dignità negata: il caso di Piergiorgio Welby
Piergiorgio Welby era affetto da un gravissimo stato morboso degenerativo,
clinicamente diagnosticato quale “distrofia muscolare”. La sua sopravvivenza era
assicurata esclusivamente per mezzo del respiratore automatico al quale era stato
collegato già dal 1997.
I trattamenti sanitari praticati sulla sua persona non erano in grado di arrestare in alcun
modo il decorso della malattia, avendo quindi quale unico scopo, quello di
semplicemente prolungare la sopravvivenza biologica ed il gravissimo stato patologico
in cui Welby versava.
22
Welby, in considerazione del suo grave e sofferto stato di malattia, in fase
irreversibilmente terminale, dopo essere stato debitamente informato dai propri medici
circa l’evoluzione della sua patologia, chiedeva al medico dal quale era
professionalmente assistito, di non essere ulteriormente sottoposto alle terapie di
sostentamento che erano in atto e di ricevere assistenza solamente per lenire le
sofferenze fisiche.
In particolare, Welby chiedeva che si procedesse al distacco dell'apparecchio di
ventilazione, sotto sedazione. Tuttavia, il medico opponeva un rifiuto alla richiesta di
Welby, assumendo di non poter dar seguito alla volontà espressa dal paziente, in
considerazione degli obblighi ai quali si riteneva astretto.
Piergiorgio Welby inizia così, attaccato ad un respiratore, alla sua battaglia politica,
poiché come nel caso Englaro, anche qui gli fu risposto che il sistema giuridico italiano
era privo di una normativa specifica atta a regolamentare le decisioni di fine vita in un
contesto clinico, pur avendo una normativa riguardante il divieto di accanimento
terapeutico, poiché non erano definite le modalità attuative se vi fosse stata una
richiesta.
Nel frattempo Welby, più che certo dell'esistenza del suo diritto all'autodeterminazione,
e data l'impossibilità di staccare il respiratore con l'assenso del giudice, decideva di
proseguire nel suo intento, avendo trovato un medico anestesista disponibile a venir
incontro alle sue esigenze.
E difatti, il dottor Mario Riccio si recò presso l'abitazione di Welby nel dicembre 2006
per accertare l'evoluzione della patologia e per raccogliere la volontà del paziente che
confermava, ancora una volta, di voler essere sedato e staccato dal respiratore artificiale.
Due giorni dopo il medico chiedeva a Welby per l'ennesima ed ultima volta la conferma
della sua volontà, quindi, ottenuta la conferma, procedeva prima alla sedazione del
paziente e, subito dopo, al distacco del ventilatore automatico.
La morte, come afferma il referto medico-legale, sopraggiungeva nell'arco di mezz'ora,
per arresto cardiocircolatorio dovuto ad una irreversibile insufficienza respiratoria, da
attribuire unicamente alla impossibilità di Welby di ventilare meccanicamente in
23
maniera spontanea, a causa della gravissima distrofia muscolare da cui lo stesso era
affetto.
E' proprio dopo la morte di Welby che si apre la fase cruciale relativa al riconoscimento
del diritto in questione. Attesa la legislazione esaminata e il parere contrario alla
magistratura, tutto faceva ritenere che il dottor Riccio sarebbe stato condannato.
Tuttavia, il primo procedimento che si apre sulla condotta del medico è quello
dell'Ordine dei medici di Cremona, a cui dottor Riccio appartiene. Gli elementi presi in
considerazione sono due: da un lato la volontà "chiara, decisa e non equivocabile" del
paziente "perfettamente in grado di intendere e volere e di esprimersi" e "pienamente
consapevole della conseguenza del sopraggiungere della morte"; dall'altro il fatto che
l'anestesista "non ha somministrato farmaci o altre sostanze atte a determinare la morte"
e che la sedazione terminale è risultata "per posologia di farmaci, modalità e tempi di
somministrazione, in linea con i normali protocolli". Per questi motivi la Commissione
disciplinare dell'ordine dei medici di Cremona dispone l'archiviazione del caso.
Nel secondo procedimento, in sede penale, la Procura della Repubblica di Roma giunge
ad un esito molto simile a quello dell'ordine dei medici, con richiesta di archiviazione
del caso. La conclusione si basa sull'esito della consulenza medicolegale, che esclude
qualsiasi nesso tra la sedazione ed il decesso del paziente, indicando quale unica causa
di morte l'insufficienza respiratoria relativa alla malattia. Il medico anestesista verrà, in
seguito, assolto, poiché la volontà dell’individuo a non volersi sottoporre a trattamenti
sanitari, sono sanciti sia dalla nostra Costituzione, sia dalla Convenzione di Oviedo.
2.3.1 Lettera di Piergiorgio Welby al Presidente Napolitano
Caro Presidente,
Scrivo a Lei, e attraverso Lei mi rivolgo anche a quei cittadini che avranno la possibilità
di ascoltare queste mie parole, questo mio grido, che non è di disperazione, ma carico di
24
speranza
umana
e
civile
per
questo
nostro
Paese.
Fino a due mesi e mezzo fa la mia vita era sì segnata da difficoltà non indifferenti, ma
almeno per qualche ora del giorno potevo, con l’ausilio del mio computer, scrivere,
leggere, fare delle ricerche, incontrare gli amici su internet. Ora sono come sprofondato
in
un
baratro
da
dove
non
trovo
uscita.
La giornata inizia con l’allarme del ventilatore polmonare […]. Guardo la tv, aspettando
che arrivi l’ora della compressa del Tavor per addormentarmi e non sentire più nulla e
nella
speranza
di
non
svegliarmi
la
mattina.
Io amo la vita, Presidente. Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul
viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una
giornata di pioggia, l’amico che ti delude. Io non sono né un malinconico né un maniaco
depresso – morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un
testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio
corpo non è più mio ... è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti […].
Starà pensando, Presidente, che sto invocando per me una “morte dignitosa”. No, non si
tratta
di
questo.
E
non
parlo
solo
della
mia,
di
morte.
La morte non può essere “dignitosa” […]. La morte è altro. Definire la morte per
eutanasia “dignitosa” è un modo di negare la tragicità del morire. È un continuare a
muoversi nel solco dell’occultamento o del travisamento della morte che, scacciata dalle
case, nascosta da un paravento negli ospedali, negletta nella solitudine dei gerontocomi,
appare essere ciò che non è. Cos’è la morte? La morte è una condizione indispensabile
per la vita […]
In Italia, l’eutanasia è reato, ma ciò non vuol dire che non “esista”: vi sono richieste di
eutanasia che non vengono accolte per il timore dei medici di essere sottoposti a
giudizio penale e viceversa, possono venir praticati atti eutanasici senza il consenso
informato di pazienti coscienti […] Una legge sull’eutanasia non è più la richiesta
incomprensibile di pochi eccentrici. Anche in Italia, i disegni di legge depositati nella
scorsa legislatura erano già quattro o cinque. L’associazione degli anestesisti, pur con
molta cautela, ha chiesto una legge più chiara; il recente pronunciamento dello scaduto
(e non ancora rinnovato) Comitato Nazionale per la bioetica sulle Direttive Anticipate di
25
Trattamento ha messo in luce l’impossibilità di escludere ogni eventualità eutanasica nel
caso in cui il medico si attenga alle disposizioni anticipate redatte dai pazienti. Anche
nella diga opposta dalla Chiesa si stanno aprendo alcune falle che, pur restando
nell’alveo della tradizione, permettono di intervenire pesantemente con le cure palliative
e di non intervenire con terapie sproporzionate che non portino benefici concreti al
paziente. L’opinione pubblica è sempre più cosciente dei rischi insiti nel lasciare al
medico ogni decisione sulle terapie da praticare. Molti hanno assistito un famigliare, un
amico o un congiunto durante una malattia incurabile e altamente invalidante ed hanno
maturato la decisione di, se fosse capitato a loro, non percorrere fino in fondo la stessa
strada. Altri hanno assistito alla tragedia di una persona in stato vegetativo persistente.
Quando affrontiamo le tematiche legate al termine della vita, non ci si trova in presenza
di uno scontro tra chi è a favore della vita e chi è a favore della morte: tutti i malati
vogliono guarire, non morire […]. Tra desideri e speranze, il tempo scorre inesorabile e,
con il passare del tempo, le speranze si affievoliscono e il desiderio di guarigione
diventa desiderio di abbreviare un percorso di disperazione, prima che arrivi a quel
termine naturale che le tecniche di rianimazione e i macchinari che supportano o
simulano le funzioni vitali riescono a spostare sempre più in avanti nel tempo. Per il
modo in cui le nostre possibilità tecniche ci mantengono in vita, verrà un giorno che dai
centri di rianimazione usciranno schiere di morti-viventi che finiranno a vegetare per
anni […].
Sua Santità, Benedetto XVI, ha detto che “di fronte alla pretesa, che spesso affiora, di
eliminare la sofferenza, ricorrendo perfino all’eutanasia, occorre ribadire la dignità
inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo termine naturale”. Ma che cosa
c’è di “naturale” in una sala di rianimazione? Che cosa c’è di naturale in un buco nella
pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine? Che cosa c’è di naturale in
uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia l’aria nei polmoni? Che cosa c’è di
naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l’ausilio di respiratori
artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale
artificiale, morte-artificialmente-rimandata? Io credo che si possa, per ragioni di fede o
26
di potere, giocare con le parole, ma non credo che per le stesse ragioni si possa
“giocare” con la vita e il dolore altrui […].
Sono consapevole, Signor Presidente, di averle parlato anche, attraverso il mio corpo
malato, di politica, e di obiettivi necessariamente affidati al libero dibattito parlamentare
e non certo a un Suo intervento o pronunciamento nel merito. Quello che però mi
permetto di raccomandarle è la difesa del diritto di ciascuno e di tutti i cittadini di
conoscere le proposte, le ragioni, le storie, le volontà e le vite che, come la mia, sono
investite da questo confronto […].
Il mio sogno, […] che voglio porre in ogni sede, a partire da quelle politiche e
giudiziarie è oggi nella mia mente più chiaro e preciso che mai: poter ottenere
l’eutanasia. Vorrei che anche ai cittadini italiani sia data la stessa opportunità che è
concessa ai cittadini svizzeri, belgi, olandesi.
27
CAPITOLO 3
La giurisdizione sulla Dichiarazione Anticipata di
Trattamento
28
3.1 Generalità sul Comitato Nazionale per la Bioetica
Sul finire degli anni '80, i progressi della ricerca scientifica e dell’innovazione
tecnologica in campo medico hanno potenziato enormemente la possibilità di intervento
dell’uomo sull’uomo stesso (oltre che sulla vita non umana) ed hanno suscitato una
vivace discussione in ambito antropologico, filosofico, etico e giuridico.
In questo contesto, il Governo italiano, ha colto l’importanza di istituire un organismo
permanente, a carattere consultivo, nel tentativo di dare risposte concrete in una
prospettiva interdisciplinare e pluralistica a quesiti riguardanti la vita umana e non
umana.
Iniziò, pertanto, a profilarsi l’idea di istituire un comitato incaricato di esaminare i temi
di bioetica a livello nazionale, costituito da personalità competenti, esterno al
Parlamento, allo scopo di promuovere un confronto, anche internazionale, sullo stato
della ricerca biomedica e dell'ingegneria genetica nella prospettiva del rispetto della
libertà e dignità umana, con attenzione anche alla tutela dell’ambiente.
Tale esigenza ha trovato concreta realizzazione con l’istituzione del Comitato Nazionale
per la Bioetica, che è un organo consultivo che svolge sia funzioni di consulenza presso
il Governo, il Parlamento e le altre istituzioni, sia funzioni di informazione nei confronti
dell’opinione pubblica sui problemi etici emergenti.
Al Comitato è affidata la funzione di supportare l’orientamento degli operatori
normativi sia che agiscono in veste di legislatori, sia che siano investiti di tali
problematiche in qualità di amministratori. Il Comitato, dunque, con il proprio operato
contribuisce a definire i criteri da utilizzare nella pratica medica e biologica per tutelare
i diritti umani ed evitare eventuali abusi e discriminazioni che possano, anche
involontariamente, discendere dalla rapida implementazione dei risultati delle tecnoscienze.
29
3.2 Posizione del CNB su alimentazione e idratazione in persone in
stato vegetativo permanente
Il 18 Dicembre del 2003 il Comitato Nazionale di Bioetica ha approvato il
documento sulle “dichiarazioni anticipate di trattamento” in cui afferma che “le varie
forme di dichiarazioni anticipate si iscrivono in un positivo processo di adeguamento
della nostra concezione dell’atto medico ai principi di autonomia decisionale del
paziente”, cioè l'espressione della volontà da parte di una persona (testatore), fornita in
condizioni di lucidità mentale, in merito alle terapie che intende o non intende accettare
nell'eventualità in cui dovesse trovarsi nella condizione di incapacità di esprimere il
proprio diritto di acconsentire o non acconsentire alle cure proposte per malattie o
lesioni traumatiche cerebrali irreversibili o invalidanti, malattie che costringano a
trattamenti permanenti con macchine o sistemi artificiali che impediscano una normale
vita di relazione.
Il Comitato Nazionale di Bioetica ci tiene a sottolineare come, attraverso le
dichiarazioni, non si vuole sostenere un diritto alla eutanasia, né un diritto soggettivo a
morire, ma il diritto di richiedere ai medici la sospensione o la non attivazione di
pratiche terapeutiche anche nei casi più estremi di sostegno vitale.
Quindi il Comitato Nazionale di Bioetica, nel documento sulla “dichiarazione anticipata
di trattamento” inserisce una serie di indicazioni, tra cui anche la volontà della
sospensione all’alimentazione e idratazione nel caso di stato vegetativo permanente o
coma irreversibile: “[...] Se dunque una persona, nella piena consapevolezza della sua
condizione e delle conseguenze del suo eventuale rifiuto, è libera di decidere su
qualunque intervento gli venga proposto, ivi compresa la nutrizione artificiale [...] non è
possibile sottrarre alla medesima persona la libertà di dare disposizioni anticipate di
analoga estensione, e quindi anche circa l’attivazione o non attivazione dell’idratazione
e alimentazione artificiali, nel caso in cui si venisse a trovare nella condizione che, in
base alle conoscenze mediche e ai protocolli disponibili, fosse diagnosticata come stato
vegetativo[...]”.
Riguardo quest’ultimo argomento, sono presenti dei pareri contrastanti all’interno dello
stesso Comitato. Alcuni membri sostengono il riconoscimento della facoltà di dare
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disposizioni anticipate circa la volontà di accettare o rifiutare qualsiasi trattamento,
purché la redazione del DAT avvenga nell’ambito della relazione medico-paziente.
Altri membri sostengono che non è possibile scegliere su trattamenti di sostegno vitale
di carattere non straordinario, né su alimentazione e idratazione, eticamente e
deontologicamente doverose, se proporzionate alle condizioni cliniche.
3.3 Interruzione dell’alimentazione e idratazione come omissione
La questione sta nel determinare la natura commissiva o omissiva della
sospensione dei trattamenti di sostegno vitale, cui consegue la morte della persona.
Nel caso di PiergiorgioWelby l’azione dell’anestesista di staccare il respiratore è stata
riconosciuta di natura commissiva, sulla base del nesso causale tra tale condotta e il
successivo evento morte.
La non punibilità dell’azione è stata riconosciuta sulla base di un adempimento ad un
dovere discendente dall’articolo 32, poiché fu la volontà del paziente in piena coscienza
a imporre all’anestesista il distacco del respiratore che lo manteneva in vita.
Non è quindi configurabile un reato omissivo qualora il medico decida di non
intraprendere o sospendere trattamenti di sostegno vitale, seguendo l’esplicita volontà
della persona assistita.
Far valere una simile argomentazione anche nel caso di una persona incosciente che non
abbia precedentemente espresso alcuna volontà contraria, appare assai più problematico.
Nelle ipotesi in cui il medico si limiti a sospendere un trattamento precedentemente
iniziato, la sua condotta dal punto di vista giuridico e penale risulta come omissiva, cioè
la mancata prosecuzione dello stesso trattamento.
Il quadro normativo di riferimento è quello dell’articolo 40 del codice penale, che
equipara il mancato impedimento del decesso della persona alla sua causazione, a
condizione che il medico avesse l’obbligo giuridico di impedire che si verificasse
l’evento stesso.
31
Da quanto emerso nella Sentenza della Cassazione sul caso di Eluana Englaro, si
esclude che esista un dovere di salvaguardare ad ogni costo la vita di una persona in
caso di irreversibilità.
La prosecuzione di un trattamento di sostegno vitale nel caso di un paziente in stato
vegetativo permanente che non risponde più a nessun apprezzabile cambiamento da
parte del paziente stesso, va considerata come futile. Un paziente in quelle condizioni è
incapace di trarre benefici dal trattamento, essendo privo di qualsiasi capacità cognitiva
e sensoriale, né sarà in grado di trarre in futuro alcun beneficio dal suo mantenimento in
vita, vista l’irreversibilità della sua condizione patologica. Ciò basta ad escludere la
doverosità del trattamento.
Ogni decisione concernente la salute della persona incapace, dovrà essere conforme al
suo mondo ideale, alla sua personalità, alla sua visione del mondo. Dovrà essere una
decisione assunta necessariamente da una persona diversa e vicina all’incapace,
solitamente il tutore, la quale dovrà calarsi idealmente nei panni di costui, per decidere
come lui stesso avrebbe deciso se ne avesse avuto la possibilità. Qualora risultasse
dubbia la possibilità di ricostruire la volontà presunta, il trattamento deve proseguire.
Il Comitato Nazionale di Bioetica ha ritenuto opportuno effettuare una distinzione tra il
“lasciar morire e il provocare la morte”, concetto che può essere espresso anche in
termini di condotta omissiva e condotta commissiva.
Il risultato a cui si giunge risulta essere sempre quello del decesso della persona. Ma la
necessità, sociale, giuridica e etica, di mantenere distinte le due situazioni, è data da un
differente valore che assumono le due situazioni, in quanto l’omissione è percepita con
una minore carica offensiva rispetto all’agire eutanasico e, quindi, al provocare la
morte.
La condizione omissiva del “lasciar morire”, seppure giuridicamente accettabile in
condizioni di autonomia, risulta eticamente problematico pensando al dovere morale del
medico di curare.
32
3.4 Dichiarazione anticipata di trattamento: aspetti giuridici e limiti di
cura
I trattamenti sanitari risultano essere qualcosa di diverso dal sostegno vitale, ma
è necessario stabilire contenuti e confini di una dichiarazione anticipata di trattamento.
L’articolo 32 della Costituzione al comma 2, parla esclusivamente di trattamenti
sanitari, ma non di forme di sostegno vitale.
Tra le cure di fine vita, l’aspetto più controverso del dibattito riguarda la nutrizione e
l’idratazione artificiali. Il problema di natura etica, antropologica, clinica e sociale tocca
vari punti, quali il tempo di somministrazione, la modalità di somministrazione, la
valutazione circa l’efficacia del trattamento e gli effetti, ossia come non farlo diventare
un accanimento terapeutico, né un abbandono che ne provocherebbe il decesso.
Il primo punto, quali il tempo di somministrazione, coinvolge direttamente la persona
che decide di includere o meno, nella propria dichiarazione, anche qualcosa che si
riferisca alla nutrizione e idratazione artificiali.
Gli altri punti riguardano il medico come persona competente in grado di valutare sia le
modalità di somministrazione sia se questa produce effetti positivi o meno.
Da un lato c’`e chi sostiene che la persona, in nome del principio di autodeterminazione,
può chiedere ciò che vuole. Dall’altro c’è chi sostiene che alcune richieste possono
risultare una forma di suicidio assistito o di eutanasia passiva, azioni poi punite
dall’attuale codice penale.
Quindi la nutrizione artificiale andrebbe somministrata fino a quando il malato può
assimilarla, mentre il medico deve valutare quanto può ancora vivere la persona, fino a
che questo può essere considerato come un intervento proporzionato e non confuso con
l’accanimento terapeutico.
Secondo il Comitato Nazionale per la Bioetica, riguardo il rifiuto di cure salvavita e di
alimentazione e idratazione artificiali, alcuni membri sostengono che al paziente va
riconosciuta la facoltà di dare disposizioni anticipate circa la sua volontà di accettare o
meno qualsiasi tipo di trattamento e di indicare le situazioni nelle quali la sua volontà
deve trovare attuazione, sottolineando che la redazione di tali disposizioni avvenga nel
33
contesto del rapporto medico paziente, in modo che il paziente abbia piena
consapevolezza delle conseguenze che derivano dalla attuazione delle sue volontà.
Altri membri ritengono che il potere dispositivo del paziente vada limitato
esclusivamente a quei trattamenti che integrino, in varia misura, forme di accanimento
terapeutico, perché sproporzionate o addirittura futili.
La nostra Costituzione esclude qualunque intervento effettuato sul corpo di un soggetto
non cosciente, se non nei casi previsti dalla legge, che salvaguarda la salute, non solo
del singolo soggetto ma della collettività.
Le norme del codice penale applicabili al rifiuto delle cure salvavita e dei trattamenti di
sostegno vitale sono entrate in vigore ancora prima della Costituzione e dovrebbero
essere reinterpretate in conformità con il dettato costituzionale.
I casi di Welby e di Englaro, dimostrano come si difficile per i giudici rendere attuali
norme costituzionali sulla libertà di ciascuno di scegliere se sottoporsi o meno alle cure
ritenute idonee da parte dei medici.
3.5 Articolo 32, diritto alla cura e non cura
L’articolo 32 della nostra Costituzione, riguardo all’assistenza sanitaria è i suoi
limiti, recita nel comma 1:“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto
dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti”.
Nel comma 2: “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario,
se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti
imposti dal rispetto della persona umana”.
L’articolo esprime, attraverso i due comma, la necessità di sottoporsi volontariamente,
ma non la possibilità di una rinuncia da parte del costituente, rispetto alla permanenza
del principio della indisponibilità del bene, anche da parte del soggetto che ne è titolare.
34
In pratica, giuridicamente nessuno è obbligato a curarsi ma esiste il dovere morale di
farlo. Il rifiuto o la rinuncia a un trattamento sanitario non può essere considerato un
bene né per l’interessato né per la società.
Il rifiuto a un trattamento sanitario può essere considerato ammissibile non perché è
possibile disporre liberamente sulla vita o sulla morte, sulla salute o sulla malattia, ma
perché ogni persona deve avere la possibilità di considerare dei trattamenti non adeguati
al proprio corpo e al proprio limite di sopportazione, quindi scegliere di conseguenza.
Per quanto riguarda l’eutanasia, essa non è assolutamente normata dai codici del nostro
Paese: ragion per cui essa è assimilabile all’omicidio volontario (articolo 575 del codice
penale). Nel caso si riesca a dimostrare il consenso del malato, le pene sono previste
dall’articolo 579 (omicidio del consenziente) e vanno comunque dai sei ai quindici anni.
Anche il suicidio assistito è considerato un reato, ai sensi dell’articolo 580.
Nel caso di eutanasia passiva, pur essendo anch’essa proibita, la difficoltà nel
dimostrare la colpevolezza la rende più sfuggente a eventuali denunce.
3.6 Articoli 2, 3, 13 della Costituzione italiana
Ulteriori articoli costituzionali che necessitano di essere menzionati, per quanto
riguarda il diritto alle cure e la libertà del cittadino di scegliere, sono l’articolo 2, 3 e 13
della Costituzione italiana.
L’articolo 2 recita: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo,
sia come singolo sia nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità, e richiede
l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Tale articolo assegna il primato all’individuo, rispetto allo Stato. Nell’articolo viene,
quindi, riconosciuto e affermato il valore del singolo individuo, la possibilità che possa
sviluppare pienamente la propria personalità, che possa fare le proprie scelte, facendo
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valere i propri diritti e adempiendo ai propri doveri, assegnando a ognuno la
responsabilità della proprie scelte.
L’articolo 3 recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla
legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di
ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione
di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
L’articolo è sicuramente uno dei principi più significativi della Costituzione
Repubblicana. Esso è il portatore dei valori che discendono dalla rivoluzione francese e
dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
La proclamazione del principio di uguaglianza segna una rottura decisa nei confronti
del passato. Tutti sono titolari dei medesimi diritti e doveri, in quanto tutti sono uguali
davanti alla legge. Essa va oltre, assegnando allo Stato il compito di creare azioni
positive per rimuovere quelle barriere di ordine naturale, sociale ed economico che non
consentirebbero a ciascuno di noi di realizzare pienamente la propria personalità.
Infine, l’articolo 13, che fa parte dei diritti civili sulla libertà, dice: “La libertà personale
e inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione
personale, n’è qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato
dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di
necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge l’autorità di pubblica sicurezza
può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto
ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore,
si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. È punita ogni violenza fisica e
morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. La legge stabilisce i
limiti massimi della carcerazione preventiva”.
Quest’ultimo, stabilisce che la libertà personale è inviolabile e che nessuna legge e
nessuna persona li può violare. Viene sancito cosa vuol dire la libertà personale cioè il
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diritto di non essere portato in carcere, di non essere controllato se non si ha un mandato
del giudice e solo se c’è una legge che lo autorizza.
Viene sancito che in casi di necessità, indicati dalla legge, l’autorità può adottare
provvedimenti provvisori che vengono comunicati all’autorità giudiziaria e se questa
non li convalida entro il termine previsto, i provvedimenti vengono revocati. Viene
punita qualsiasi violenza fisica o morale sulle persone private della libertà personale.
Viene sancito che la legge stabilisce il limite massimo di quanto un uomo deve rimanere
privato della sua libertà personale in attesa di giudizio.
3.7 Uno sguardo internazionale
Considerando la situazione legislativa da un punto di vista internazionale, si può
dire che molti degli altri Paesi europei ed extraeuropei si trovano di gran lunga avanti
rispetto alla legislazione italiana, in cui spesso per questi argomenti, la tutela del diritto
di libertà sulla scelta della propria vita e della propria salute, appare ancora pieno di
dubbi, lacune e contrasti etici e ideologici.
Gli Stati Uniti sono, a livello mondiale il paese precursore del via libera al testamento
biologico, il cosiddetto “living will” già a partire dal 1975, ma nel 1998 si è riaperta la
discussione sul testamento biologico, in merito al caso di Terry Schiavo, perché in
Florida non era previsto che in assenza di testamento biologico si potesse dare
attuazione all’interruzione del trattamento, scelta dopo numerose battaglie legali dai
genitori di Schiavo. Alcune inchieste rilevano come due terzi degli americani riportino
di aver dovuto prendere decisioni sul fine vita di loro cari.
In Francia, nell’aprile 2005 è stata approvata la legge sui diritti del malato e sul fine
vita. L’articolo prescrive che “se una persona, in fase avanzata di una malattia grave e
incurabile, decide di limitare o interrompere ogni trattamento, il medico è tenuto a
rispettarne le volontà. Il medico deve informare sulle conseguenze della scelta al fine di
salvaguardare la dignità dell’assistito e assicurargli la qualità della vita con il ricorso a
terapie palliative”.
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In Germania, vi è una legge approvata nel 2009 riguardo il testamento biologico. Tale
legge, basata sul principio del diritto all'autodeterminazione, prevede l'assistenza di un
fiduciario e del medico curante. In base alla legge, un maggiorenne può predisporre per
iscritto il consenso o rifiuto a sottoporsi ad esami, cure o interventi medici "per il caso
in cui si trovasse nell'incapacità di prestare consenso"; tale dichiarazione è sempre
revocabile "senza vincoli di forma".
Il fiduciario ha il compito di valutare se la scelta espressa a suo tempo si attagli alle
condizioni di vita e salute del paziente; in tal caso egli è "tenuto ad esternare e a far
valere la volontà dell'amministrato", e decidere assieme al medico curante sul
trattamento o sulla "desistenza", in base alle volontà a suo tempo espresse.
Dove manchi una disposizione espressa, o questa non si adatti alle condizioni del
paziente, il fiduciario si occuperà di "accertare le cure mediche desiderate o la volontà
presunta" del paziente, prendendo decisioni di cura assieme al medico curante. Tale
volontà presunta si accerta tramite "le precedenti dichiarazioni sia orali sia scritte, le
convinzioni etiche e religiose, e gli altri principi di valore personali" del paziente.
La legislazione spagnola risulta molto simile a quella tedesca. La legge n.41 del 14
Novembre 2002 si basa su due principi fondamentali: l’autonomia della persona e i
diritti e gli obblighi in materia di informazione clinica. Per quanto riguarda il fine vita
questa legge che il paziente possa accettare o rifiutare di sottoporsi a specifici
trattamenti dopo una adeguata e completa informazione clinica da parte del medico. Se
l’assistito si trova in uno stato di incapacità, l’informazione è rivolta a un rappresentante
legale del paziente.
E, infine, merita particolare attenzione la Svizzera, a cui molti malati terminali italiani si
recano per esercitare la propria volontà di fine vita. Vista la diffusione di questa pratica,
molto elevata rispetto ad altri paesi europei, il parlamento vuole imporre
regolamentazioni legali. Uno studio statistico afferma che vi siano almeno 3 italiani al
mese che decidono di andare in Svizzera per morire e, degli stessi svizzeri, sono 7
malati terminali su 10 che ne fanno ricorso. La Svizzera figura in prima posizione anche
per quanto concerne l’eutanasia passiva (interruzione delle terapie destinate a
prolungare la vita), mentre rientra invece nella media per quanto riguarda i casi di
38
eutanasia attiva. In proporzione al totale dei decessi, in Svizzera la percentuale di
decisioni mediche che implicavano una forma di eutanasia si è attestata al 52 per cento.
Si tratta del dato più alto fra i Paesi che hanno preso parte allo studio.
39
CAPITOLO 4
Il ruolo dell’infermiere tra valori etici e bioetici
40
4.1 Il codice deontologico dell’infermiere
Nel 2009 è stata pubblicata una nuova versione del Codice deontologico
dell’infermiere. Questo documento è stato rinnovato a partire dalla volontà degli
infermieri italiani che hanno dibattuto e si sono confrontati con esperti sulle varie
problematiche di tipo etico, bioetico, giuridico e tecnico professionale.
Per quanto riguarda l’eutanasia, il Codice Deontologico degli infermieri dice “no”, porta
rispetto per le differenza culturali ed etniche dei pazienti, si promuove il dialogo serrato
con il paziente, ma anche possibile obiezione di coscienza sui temi etici, la tutela della
privacy e del consenso informato, il dissenso all’accanimento terapeutico e promozione
dell’assistenza ai familiari e alle persone vicine alle persone malate.
Tra gli elementi più innovativi del nuovo codice, come spiega la stessa presidente
Ipasvi, ci sono gli articoli che si occupano di ridisegnare il ruolo dell’infermiere
nell’assistere (articoli 4, 7, 11 e 27) il paziente: "L’infermiere orienterà la sua azione al
bene dell’assistito sostenendolo nel raggiungimento della maggiore autonomia possibile
anche quando in via di disabilità, svantaggio e fragilità" (articolo 4).
Ma importanti sono anche i vari e molteplici accenni relativi al comportamento del
personale sanitario infermieristico sui temi eticamente sensibili. In questo senso, nel
Codice deontologico dell’infermiere si dice chiaramente no all’eutanasia nell’articolo
40: "l’infermiere non partecipa a interventi finalizzati a provocare la morte, anche se la
richiesta proviene dall’assistito". Ma arriva anche uno stop all’accanimento terapeutico
citato nell’articolo 37: "L’infermiere tutela la volontà dell’assistito di porre dei limiti
agli interventi che non siano proporzionati alla sua condizione clinica e coerenti con la
concezione da lui espressa della qualità della vita" e un accenno alla necessità delle cure
palliative (Art. 36).
Per quanto concerne l’obiezione di coscienza in temi etici per l’infermiere, si intende
“la non accettazione deliberata e pubblica di una norma al fine di essere coerenti con i
propri principi morali” e “l’agire secondo la propria coscienza, cioè secondo ciò che la
propria coscienza indica come giusto, necessario, doveroso in una data circostanza”.
41
L’articolo 8 del Codice Deontologico dell’infermiere parla infatti di “clausola di
coscienza”, che esprime il diritto di appellarsi alla propria coscienza morale, anche al di
fuori di disposizioni normative riferite all’oggetto dell’obiezione.
L’obiezione di coscienza fa riferimento alla propria autonomia personale e
professionale, con lo scopo di dare la possibilità di esercitare la propria libertà di
coscienza quando l’azione o i precetti di una certa legge risultano in conflitto con i
propri valori morali.
Spesso gli infermieri si trovano spesso di fronte al dovere di attuare delle decisioni
cliniche che sono state prese da un’altra figura professionale, come il medico, ma
percepite come una forzatura della propria coscienza morale e professionale.
La clausola di coscienza si estende a tutte le professioni sanitarie, applicandosi quando
la libertà della coscienza morale personale può essere messa a rischio da situazioni
clinico assistenziali complesse ed eticamente rilevanti.
4.2 La deontologia dell’infermiere rispetto alla legge sul Testamento
Biologico
In Italia il testamento biologico non ha valore giuridico come espressione di volontà, ed
è preso in considerazione solo attraverso un passaggio che è anche deontologico. Si
tratta di rispettare il diritto di ogni cittadino a decidere in autonomia e libertà il proprio
futuro, soprattutto nel caso si realizzasse la sfortunata condizione di impossibilità e
incapacità di esprimere la propria volontà.
Il valore etico delle Dichiarazioni Anticipate è già stato assorbito dai Codici
Deontologici Medico ed Infermieristico ed i tempi sono maturi perché si passi ad un
piano giuridico.
Nel Dicembre 2009, il presidente della Federazione Nazionale del Collegio Ipasvi,
Annalisa Silvestro, rende pubblica la posizione degli infermieri italiani in merito alla
42
legge sulle dichiarazioni anticipate e sul “fine vita”, attraverso un Pronunciamento,
inteso come posizione pubblica degli infermieri, “la persona nel fine vita”, attraverso
cui l’Ipasvi, anche per il coinvolgimento professionale degli infermieri su tale tematica,
ha ritenuto di dover esprimere la propria posizione.
Nel corso degli ultimi anni, il disegno di legge sul fine vita ha rappresentato un
argomento la cui portata etica, e non meramente legislativa, è stata più volte al centro di
opinioni e riflessioni che si sono articolate in un ampio dibattito in tutto il Paese.
Secondo l’Ipasvi il ddl Calabrò: non assume come fondante la centralità della persona e
delle sue volontà, assegna una forte discrezionalità decisoria al medico, non riconosce il
lavoro in team e quindi il ruolo dell’intera équipe assistenziale nell’accompagnamento
dell’assistito al fine vita.
La figura dell’infermiere, in tale ddl, appare trascurata e priva di importanza, in quanto
le decisioni sul trattamento e sulle cure della persona, spettano discretamente al medico
e non viene tenuto in considerazione quanto l’infermiere svolga un ruolo importante di
relazione, di educazione e di assistenza e informazione, che sembrano non essere
adeguatamente considerati dall’attuale disegno di legge o non rilevanti ai fini di una
adeguata formulazione e attuazione delle dichiarazioni anticipate di trattamento.
Intanto, nel Pronunciamento viene fatto un richiamo sistematico al Codice
Deontologico, evidenziando e valorizzando questi ruoli. Gli articoli del Codice
deontologico che possono essere presi come riferimento riguardo la “relazione” con la
persona assistita sono:
L’articolo 3: “La responsabilità dell’infermiere consiste nell’assistere, nel curare e nel
prendersi cura della persona nel rispetto della vita, della salute, della libertà e della
dignità dell’individuo”.
L’articolo 35: “L’infermiere presta assistenza qualunque sia la condizione clinica e fino
al termine della vita dell’assistito, riconoscendo l’importanza della palliazione e del
conforto ambientale, fisico, psicologico, relazionale, spirituale”.
43
L’articolo 36: “L’infermiere tutela la volontà dell’assistito di porre dei limiti agli
interventi che non siano proporzionati alla sua condizione clinica e coerenti con la
concezione da lui espressa di qualità della vita”.
L’articolo 38: “L’infermiere non attua e non partecipa a interventi finalizzati a
provocare la morte, anche se la richiesta proviene dall’assistito”.
Ciò che riguarda l’informazione è espresso nei seguenti articoli:
L’articolo 20: “L’infermiere ascolta, informa, coinvolge l’assistito e valuta con lui i
bisogni assistenziali, anche al fine di esplicitare il livello di assistenza garantito e
facilitarlo nell’esprimere le proprie scelte.
L’articolo 24: “L’infermiere aiuta e sostiene l’assistito nelle scelte, fornendo
informazioni di natura assistenziale in relazione ai progetti diagnostico-terapeutici e
adeguando la comunicazione alla sua capacità di comprendere”.
L’articolo 37: “L’infermiere quando l’assistito non `e in grado di manifestare la propria
volontà, tiene conto di quanto da lui chiaramente espresso in precedenza e
documentato”.
Per quanto riguarda le modalità di assistenza, il Codice recita:
L’articolo 14: “L’infermiere riconosce che l’interazione tra professionisti e
l’integrazione interprofessionale sono modalità fondamentali per far fronte ai bisogni
dell’assistito.
L’articolo 27: “L’infermiere garantisce la continuità assistenziale anche contribuendo
alla realizzazione di una rete di rapporti interprofessionali e di una efficace gestione
degli strumenti informativi”.
L’articolo 39: “L’infermiere sostiene i familiari e le persone di riferimento dell’assistito,
in particolare nelle evoluzione terminale della malattia e nel momento della perdita e
della elaborazione del lutto”.
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4.3 La figura dell’infermiere di fronte al rifiuto delle cure
Il rifiuto della persona di sottoporsi ad un trattamento, soprattutto quando questo
sia indispensabile alla sopravvivenza, pone notevoli problemi e questioni di natura etica
e giuridica.
Se `e possibile per una persona capace di intendere e di volere manifestare il proprio
diritto di non sottoporsi ad un trattamento, allora tale diritto deve essere fatto vale anche
per la persona incapace di esprimere le proprie volontà in modo attuale, attraverso lo
strumento delle dichiarazioni anticipate, ossia del Testamento Biologico.
Il rifiuto alle cure, anche quando questo conduce alla morte, non può essere scambiato
per una ipotesi di eutanasia, ma esprime un atteggiamento di scelta, una possibilità di
autodeterminazione per il malato, che la malattia segua il suo corso naturale.
Come si è già potuto analizzare la situazione è più complessa nel caso di quei malati in
stato vegetativo permanente che non abbiamo precedentemente manifestato in modo
chiaro e documentato le proprie volontà.
Il bisogno e l’importanza di scrivere la propria dichiarazione anticipata di trattamento
potrebbe derivare dalla situazione di abbandono e solitudine del malato, abbandono
talvolta affettivo ma anche terapeutico e assistenziale. Un’altra motivazione potrebbe
essere la paura di un accanimento terapeutico, oltre all’esaurimento di ogni energia per
sostenere ulteriormente la malattia. Altra paura potrebbe essere, soprattutto nei soggetti
giovani, quella di soffrire che risulta essere una delle maggiori ansie di un uomo che
chiede aiuto, rivolgendosi a medici e infermieri.
E proprio della professione infermieristica lo stare vicino e accompagnare il malato
nella evoluzione terminale della malattia e le persone a lui vicino nel momento della
perdita e delle elaborazione del lutto, la relazione, atteggiamenti e gesti che vogliono
accogliere, ascoltare, assistere, comunicare, lenire, attraverso questo rapporto empatico
che non è tipico delle altre figure professionali sanitarie presenti.
45
4.4 Il rischio del burn-out degli infermieri nei casi di fine vita
La nascita e la morte, eventi paragonabili, riservati esclusivamente a pochi
intimi, caratterizzati entrambe da estrema solitudine. La società moderna, a differenza di
quella del passato, partecipa al lutto in maniera più intima e meno solidale soprattutto da
parte dell’intera comunità. Si delega la morte all’interno di stanze di ospedale, Case di
Cura e hospice in modo da non assistere a ciò che è comune ad ogni essere umano.
Ma c’è una figura che da sempre accompagna la sofferenza dell’uomo nell’evoluzione
finale della propria esistenza, sostiene i familiari e li accompagna ad una piena
elaborazione della perdita e del lutto che è l’infermiere.
Lo sviluppo tecnologico e scientifico che ha visto nuovi metodi anche per
l’accertamento di morte stessa, forse non rappresenta sempre un beneficio per la
persona.
Oggi si parla, ad esempio, di “morte cerebrale”, evento di cessazione irreversibile di
tutte le funzioni dell’encefalo per le quali è concesso sospendere le cure di sostegno
vitale senza intercorrere nell’eutanasia.
Molte sono le domande e i dubbi che percorrono la mente degli infermieri, soprattutto
quelli di alcuni reparti, come oncologia e terapia intensiva, che hanno a che fare con
questi temi tutti i giorni, che tutti i giorni devono rapportarsi con il dolore e la
sofferenza di un fine vita non sempre dignitoso e rispettoso delle volontà dell’assistito e
dei suoi familiari.
Ogni evento luttuoso viene vissuto dagli operatori sanitari, sia medici che infermieri,
come un “fallimento terapeutico”, e non come la naturale evoluzione della patologia.
Aspettative risolutive quindi al di sopra della norma, che rendono l’operatore
demotivato, impotente, stressato, ansioso e spesso depresso, in quanto gli infermieri
sono coinvolti e sono chiamati ad esprimere una propria opinione riguardo alle scelte di
“fine della vita”, non solo da un punto di vista diagnostico-terapeutiche, ma soprattutto
assistenziale.
La maggioranza degli infermieri si sentono “tecnicamente” preparati all’evento della
morte di un loro paziente, ma siano completamente non protetti da un punto di vista
46
psicologico ed emotivo, tanto da trascinarsi il lavoro a casa con conseguenze sui
rapporti familiari e di relazione.
In tal proposito, credono che l’intervento di figure di sostegno come counselor e
psicologo siano fondamentali soprattutto nei casi più difficili e coinvolgenti e che la
formazione permanente e continua sui temi di fine vita possa in qualche modo
“strutturare” la propria professione.
Ma l’aspetto più ingiusto nella professione infermieristica è senza dubbio il fatto che il
gruppo infermieristico non ha assolutamente nessuna voce in capitolo riguardo a scelte
diagnostico-terapeutiche e assistenziali nella finitezza della vita inasprendo così il
rapporto con l’equipe medica che resta unica “voce decisionale”, relegando l’infermiere
dentro una “gabbia emozionale” ingiusta per la professione e per la dignità di esseri
umani.
Nessun protocollo o standard di comportamento può guidare l’Infermiere in situazioni
difficili da superare, come la sofferenza e la morte, ma la vera forza e la vera essenza
degli infermieri è da sempre la capacità di conforto e di ascolto, forza non misurabile in
termini “aziendalistici” ma sicuramente di grosso peso qualitativo.
4.5 Etica dell’infermiere che “accompagna” il malato terminale
L’infermiere rappresenta l’anello delle cure, essendo l’infermieristica una
disciplina olistica, capace di accogliere la persona anche nel suo bisogno di
autodeterminazione, favorendo la salute, il benessere e la dignità del malato.
L’infermiere, deve impegnarsi a garantire al malato le migliori cure possibili fino al
termine della sua vita, rispondendo al rispetto del diritto di qualità del malato, evitando
di correre il rischio di abbandono e di accanimento terapeutico, rischi ugualmente
temibili sia dal punto di vista clinico sia etico.
L’infermiere si “prende cura” del malato, attraverso una condotta o a un atteggiamento
che comportano il rispetto per il carattere e la sensibilità o la struttura propria dell’altro
e la disposizione a compartecipare con esso.
47
Ascoltare la situazione, prestare attenzione alle richieste che provengono dal malato e
rispondere considerando la persona non come malato, ma come soggetto di una vita,
soggetto di un dolore. Ascolto, attenzione e risposta richiedono sia la competenza
tecnica che la considerazione attenta della sofferenza.
Talvolta si può instaurare una relazione tra medico, infermiere e persona malata o suoi
familiari, che diventa, se presente il requisito di fiducia, una vera e propria alleanza
terapeutica, in cui risulta possibile ragionare e prendere decisioni cercando le migliori
soluzioni sia sul piano soggettivo sia sul piano oggettivo.
Gli elementi costitutivi di un’etica dell’accompagnamento riguardano il riconoscimento
dei limiti della medicina decidendo di non proporre o di interrompere trattamenti
sproporzionati.
La vicinanza al malato, stare con lui in modo empatico, dandogli l’opportunità, se le
condizioni cliniche lo consentono, di esprimere i propri sentimenti.
Spostare l’obiettivo dello sforzo terapeutico dal guarire al prendersi cura orientando i
trattamenti verso la cura dei sintomi e il sollievo dal dolore.
Aiutare a vivere fino all’ultimo istante: criterio fondamentale che nasce dal presupposto
antropologico per cui il morente è persona fino all’ultimo, con le sue caratteristiche e la
sua dignità, con il valore delle sue relazioni.
4.6 Prendersi cura della persona in fin di vita
L’infermiere coopera con il medico e altri professionisti alla guarigione della
persona malata, interviene cercando di alleviare i sintomi che accompagnano la malattia
e si prende cura della persona in tutti i suoi bisogni umani fondamentali.
Prendersi cura della persona fino agli ultimi istanti rispettando i suoi bisogni
fondamentali, sia quelli di natura corporea, sia quelli di natura psicologica, relazionale e
spirituale, è un obiettivo classico della pratica infermieristica.
48
Spesso si corre il rischio di ritenere che non si può più fare nulla per il malato,
esclusivamente dal punto di vista clinico, quando non c’`e una reale prospettiva di
guarigione.
Non si potrà mai parlare di rispetto della persona malata se non si è raggiunta una
comprensione vera, piena, convinta della dignità della persona umana, della singola
persona umana, anche quella malata, gravemente malata o morente.
Stesso il Codice Deontologico dell’infermiere fa riferimento, per quanto concerne
l’assistenza infermieristica, nell’articolo 34, che parla di una attività infermieristica
volta a contrastare il dolore e alleviare la sofferenza e l’articolo 35 sottolinea come
l’assistenza continua in qualsiasi condizione clinica e fino al termine della vita.
Quindi, oltre alla pratica “tecnica” infermieristica, una certa responsabilità si riconosce
anche sul versante relazionale. La professione stessa si realizza laddove c’è una persona
che chiede aiuto. Ed `e proprio in una relazione reciproca, tra paziente e infermiere, che
si realizza l’etica della cura, intesa come “prendersi cura”, che si esplica tanto
nell’azione di cura, quanto nella relazione con il paziente, soprattutto quando la persona
si trova nella fase avanzata della malattia in cui la relazione con la figura dell’infermiere
diventa indispensabile per un conforto e sostegno morale che rappresenta, in questo
caso, la priorità per un paziente inguaribile.
L’infermiere di oggi, grazie a una maggiore preparazione medico-scientifica, ma
soprattutto grazie alla quotidiana esperienza di prendersi cura dell’ammalato nei
momenti più critici della sua esistenza, si confronta con problematiche etiche, non
riducendole a dilemmi filosofici solo teorici, ma valorizzando il carattere peculiare di
ogni singola situazione.
Nella pratica clinica, prima ancora di valutare se sospendere o meno i trattamenti
salvavita, ci si domanda il perché l’assistito avanza una tale richiesta: se per evitare la
sofferenza fisica, per la paura della solitudine e dell’abbandono o se per altre ragioni. La
scelta di sospensione di un trattamento salvavita, sia se fatta da persona capace di
intendere e di volere sia se fatta in una dichiarazione anticipata o se avanzata da un
tutore nel rispetto della volontà della persona assistita che si trova in uno stato di
49
incapacità, risulta essere una situazione particolarmente complessa dal punto di vista
decisionale.
L’infermiere può rappresentare un anello di congiunzione importante tra un lato il
malato, cercando di comprenderlo nei suoi bisogni e nelle sue scelte, dall’altro ha un
ruolo importante all’interno dell’equipe e collabora nei percorsi decisionali che vanno a
costruire l’assistenza.
La domanda più frequente che nasce dalle nuove possibilità di cura e dai progressi
medico scientifici, riguarda quanto sia legittimo e eticamente condivisibile attuare
interventi che finiscono non per prolungare la vita, ma il processo del morire,
rimandando la morte, anche in casi gravi di stato vegetativo permanente, per anni. Ci si
domanda se una tale morte può considerarsi dignitosa, soprattutto se contrastante con le
volontà precedentemente espresse dalla persona assistita.
Una morte serena, dignitosa fino all’ultimo, per quanto possibile senza dolore, può
realizzarsi con il ricorso alle cure palliative, che comprendono non soltanto il
trattamento farmacologica, ma anche e soprattutto i bisogni psicologici, spirituali e
relazionali del morente, ruolo tipico dell’infermiere.
50
CONCLUSIONI
51
Nel corso della presente trattazione sono stati affrontati i diversi aspetti della
tematica inerente alle scelte di fine vita, dall’analisi delle categorie elaborate dalla
dottrina alla luce dei principi costituzionali, passando per le soluzioni giurisprudenziali
relative ai più recenti casi giudiziari italiani.
Il quadro giuridico emergente attualmente in Italia, anche dalla comparazione con gli
altri ordinamenti, è di un approccio legislativo particolarmente restrittivo nei confronti
dell’autodeterminazione individuale, se considerato nella prospettiva tracciata dalle
ultime prese di posizione della politica, a cui si contrappone invece una notevole
apertura da parte della giurisprudenza, più vicina, per sua stessa funzione, alla disamina
delle particolarità dei casi concreti.
La tutela del diritto sulla libertà di morire, se garantito nei confronti dei soggetti capaci,
tanto più se invasivi, dovrebbe poi immancabilmente essere disposta nei confronti dei
soggetti più deboli, quali quelli incapaci, per i quali, sulla base del principio del
consenso, e per il principio di uguaglianza, è stata elaborata la soluzione del recupero o
della ricostruzione delle volontà pregresse, attraverso l’istituto delle dichiarazioni
anticipate di trattamento. Lo spazio per un’autodeterminazione in materia di fine vita è a
tutt’oggi piuttosto limitato e lo sarà ancora per i prossimi anni.
Già i riferimenti normativi della Carta Costituzionale a cui si suole generalmente
guardare quando si affronta la tematica, non appaiono adatti e risultano limitati con vari
vuoti legislativi e necessitano di una “rilettura” che ne dia un senso più vicino e più
rappresentabile alla tematica da affrontare. Ma il medesimo raffronto con la
Costituzione non può che guidare l’approccio alla tematica e le scelte che il legislatore è
chiamato a compiere in relazione alle istanze emergenti dalla società.
La fase terminale della vita oggi subisce quasi un allontanamento dal resto della vita,
attraverso l’ospedalizzazione, ovvero la modalità in cui si assicurano al malato tutte le
cure, ma che può anche trasformarsi in una sorta di limbo in cui diviene difficile
conservare i diritti che sono garantiti agli altri soggetti. Proprio in questi casi così
delicati per le condizioni fisiche del soggetto, oltreché per l’attinenza alla sfera morale
52
delle relative decisioni, appare fondamentale garantire il diritto di gestire ancora la
propria esistenza.
Una vita soggetta al volere altrui, difficilmente può dirsi adeguatamente tutelata dal
diritto. Pertanto laddove si sia conservata la vita biografica in modo attuale, o attraverso
una scelta anticipata, essa andrà tutelata dal diritto.
Una legge che regolamenti le dichiarazioni anticipate di trattamento risulta necessaria
per poter far valere il pieno rispetto della volontà e della libertà della persona malata.
Una buona legge può prevenire il rischio di una richiesta di interventi di eutanasia,
valorizzando il ricorso a terapie palliative ma, allo stesso tempo, tale rischio può essere
prevenuto riconoscendo l’importanza di una vera alleanza terapeutica in una fase
drammatica dell’esistenza del malato.
L’infermiere, come ogni altra figura sanitaria, rispetta la libera scelta del paziente e, nel
caso una scelta anticipata non sia stata espressa in alcun modo, si serve del principio del
pluralismo, principio indispensabile per consentire alle diverse concezioni personali, di
coscienza e di pensiero, di coesistere, derivanti dalle riflessioni originate dal dibattito
etico nella propria professione.
Pur rispettando la volontà del paziente sulla propria libertà di scelta di eventuali
trattamenti sanitari, l’infermiere risulta essere un detentore del principio al diritto alla
vita e, come tale, può opporsi coscientemente ad effettuare un trattamento che
implicherebbe l’andare contro alla propria dottrina morale ed etica, poiché il primo
scopo della professione infermieristica è l’assistenza e la cura del malato e non la sua
morte. Curare il malato e prendersi cura, significa anche aiutarlo a fare delle scelte
consapevoli e responsabili, come previsto dall’articolo 20 del Codice deontologico
dell’infermiere.
Resta comunque che anche quando viene fatta una scelta di estrema tragicità da parte
del paziente, come quella di porre fine alla propria vita attraverso la rinuncia ad un
trattamento di sostegno vitale, gli infermieri continuano a stare con il malato e ad
assisterlo.
53
Il Codice Deontologico dell’Infermiere conferma una posizione per cui l’infermiere
continua a curare o, meglio, a “prendersi cura” della persona malata fino agli ultimi
istanti anche quando non si può più fare niente ai fini di una guarigione.
Prendersi cura della persona rispettando i suoi bisogni fondamentali, sia quelli di natura
corporea sia quelli di natura psicologica, relazionale e spirituale, risulta essere un
obiettivo certo della pratica infermieristica. Tanto maggiore è la debolezza della
persona, tanto maggiore risulta essere il dovere etico e giuridico di prendersi cura di lui.
54
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