Viola al mare ci era andata tutte le estati di cui

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Viola al mare ci era andata tutte le estati di cui
MEDUSA  Una favola –
di Francesca Scotti
Viola al mare ci era andata tutte le estati di cui aveva un ricordo.
Finita la scuola suo padre le preparava la valigia, le metteva un cuscino
morbido sul sedile posteriore dell’automobile e poi partivano
all’imbrunire. Al risveglio la aspettava già Palmira, nella sua casa
luminosa con uno strano odore di umidità fresca. Palmira non amava
essere chiamata nonna, era una donna robusta con gli occhiali appesi a
una catenella di pietre dure.
Il paese aveva poche vie e poche case, si conoscevano tutti e Viola
poteva giocare indisturbata. La maggior parte del tempo che non
trascorreva fra le onde, preferiva passarlo nel frutteto. O nell’orto.
C’erano albicocchi, fichi, susini. E poi angurie, piante di cappero,
pomodori messi a seccare che diffondevano quell’odore acre al caldo del
sole.
Palmira, intanto, si dedicava alle conserve piccanti, definendole
sbrigativamente amare, e alle salse. Aveva sempre addosso un profumo
sapido e di alloro. Riempiva i barattoli di piccole olive nere aiutandosi
con un mestolo, mentre Viola le chiedeva, per l’ennesima volta, come si
preparassero. Poi avvitava il tappo e asciugava la salamoia con il
grembiule.
Le vicine di casa andavano da Palmira a bere il caffè quasi ogni
giorno e fu da una di loro che, per la prima volta, quell’estate, Viola
sentì parlare di Medusa. Così chiamavano la nuova arrivata che era
andata ad abitare nella casa vuota poco lontano. Poi quel nome lo sentì
pronunciare anche dal ragazzo che vendeva il pesce la mattina presto: a
bocca semichiusa, mentre incartava le triglie luccicanti “Palmira, e voi
che mi dite della Medusa?”
Lei lo guardò sospirando. “E che ci dobbiamo fare?”
Mentre si allontanavano dal molo Viola le domandò perché quella
signora la chiamassero proprio così, se fosse perché bruciava o perché
aveva qualcosa di viscido: erano quelle le meduse che lei conosceva.
Palmira, ridendo senza tenerezza, le rispose che la medusa di cui
parlavano loro era una creatura che nessun essere umano avrebbe
potuto guardare negli occhi senza essere pietrificato all’istante.
Lei ne aveva sentite tante di storie come quella da sua nonna, e tutte
la rendevano inquieta. Forse Palmira si divertiva a non spiegarle le cose
fino in fondo e a lasciare che la sua immaginazione facesse il resto.
Di Medusa ormai, in paese, parlavano tutti e Viola era sempre più
impaurita. Anche prima di chiudere gli occhi, tra le lenzuola che
sapevano di vecchio armadio, il pensiero era arrivato a lei. Mettendo in
fuga il sonno fino al mattino.
“Palmira,
ma
Medusa
pietrifica
proprio
chiunque?”
Aveva
domandato Viola mentre pizzicava con le dita il pane fresco che di solito
mangiava con voracità a colazione.
“Chiunque” le aveva risposto la nonna, spaccando una fetta di
anguria con il coltello. “E se non ti va il pane, almeno mangia la frutta.”
Viola si sedette dove il porticato confinava con il prato, appoggiando
la fetta di anguria sulle ginocchia. Sembrava un sorriso rosso. Il pensiero
di quella nuova vicina, però, non le dava pace.
“Quindi Medusa deve abitare da sola? Non ha anche lei una
bambina come me?”
“No, Viola mia, diventerebbe pure lei di pietra.”
Viola quella mattina non disegnò con i pastelli e non sfogliò
nemmeno un libro di quelli con tante figure. Ma il pomeriggio arrivò
comunque in un attimo.
L'odore dell’aria era quello della linfa che entrava in ebollizione e dei
fichi che si trasformavano in marmellata pur restando attaccati alla
pianta. Viola era irrequieta ma Palmira riposava con le palpebre chiuse e
gli occhiali inforcati. Le cicale avevano interrotto bruscamente il loro
frinire e lei si era sentita ancora più sola. Con gli altri bambini del paese
non si divertiva, passavano le giornate a gareggiare in bici, pedalando
scalzi. Viola si domandava se anche loro sapessero di Medusa e se, più
coraggiosamente di lei, si fossero spinti a vedere dove abitava. Andò sul
prato, aprì l’acqua della canna rimasta al sole e si lavò le gambe minute,
rese appiccicose dal succo di anguria di quella mattina.
Il paese le si mostrò appisolato come sua nonna, crollata davanti a un
televisore a volume troppo alto. Accanto a casa di Palmira c’erano i
ruderi di una villa in costruzione che probabilmente mai avrebbe visto
la fine. Tra questi spuntò un giovane cane randagio con quella magrezza
incerta dei puledri. Lei gli andò incontro timidamente mentre lui si
faceva avanti festoso. Aveva delle orecchie troppo grandi, una in
particolare si richiudeva sull'altra come una sfoglia di pasta fresca.
Viola, dimenticando ogni raccomandazione, lo accarezzò e giocò con lui.
Corsero su e giù per la via. Lei, di tanto in tanto, cambiava rapidamente
direzione e lui si abbassava al suolo, allargando le zampe davanti
pronto ad accettare la nuova sfida. La bambina saltellava sollevando la
polvere e lui la inseguiva ansando.
Come quando si nuota in mare puntando all’orizzonte e solo troppo
tardi ci si accorge di aver perso la riva, Viola si rese conto di essere
arrivata fino a casa di Medusa.
Un cancello smaltato di blu racchiudeva un lungo giardino
interamente ricoperto di statue. Ce n’erano di ogni dimensione e
ritraevano esseri umani e animali in diverse condizioni: mani giunte in
preghiera, fanciulle che tenevano cestini di fiori, un uomo basso e
panciuto con il volto deformato da un ghigno. Erano state tutte
verniciate di bianco, alcune di fresco. Lungo il davanzale del balcone
c’erano delle figure, più esili. Per evitare che cadessero, i loro piedi
erano stati coperti di cemento dipinto. Viola, prima di correre via
terrorizzata, si avvicinò alcuni passi al cancello, per guardare meglio ciò
che non avrebbe mai dimenticato. Intanto il cane abbaiava, desideroso
di tornare al loro gioco. Ma lei non lo sentiva. Lui abbaiava
acquattandosi e correndo intorno. Guaiva cercando di essere persuasivo.
Viola percepì qualche movimento nella casa, suscitato, probabilmente,
dal verso della bestiola. La porta si schiuse e lei, spaventata, si girò per
sgridare il cane e farlo tacere. Lui abbaiava solo di più, divertito,
continuando a balzellare inarrestabile.
“Shhhhhh, buono, zitto!”
Una delle poche auto che si vedevano in paese passò in quel
momento. Non andava veloce e la strada era libera, eppure investì il
cane senza nemmeno accorgersene.
Viola guardava la bestiola a terra, con il pelo ispido sotto il quale le
ossa premevano come se volessero spuntare. Gli occhi fissi e le orecchie
riverse sull'asfalto. Viola rimase immobile, accovacciata, finché, dopo un
tempo che le parve infinito, sentì la porta delle casa richiudersi.
Avrebbe voluto toccare l'animale per sentire se il suo corpo fosse
diventato di pietra, ma non ne ebbe il coraggio. E in ogni caso ne era
certa: Medusa lo aveva guardato.
Viola camminò fino a casa in preda a dei singhiozzi contratti, che non
la lasciavano respirare. Intanto si dimenticava dell'automobile e si
convinceva solo della crudeltà dello sguardo della vicina.
Sotto il porticato tutto era rimasto uguale a poco prima: Palmira
dormiva e gli insetti ronzavano intorno alla frutta caduta. Ma Viola,
dopo quell'estate, non volle più tornarci.