Pulcini virtuali e frittate reali
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Pulcini virtuali e frittate reali
Andrea Atzeni1 Pulcini virtuali e frittate reali I casisti benevoli, quelli che mitigano il rigore della legge eterna con la saggia valutazione del male minore, indulgono persino all’aborrita gommosa protezione, ma solo in situazioni rocambolesche. Metti putacaso la vispa frequentatrice, in ore antelucane, di discoteche lascive ove consumare amplessi estemporanei con perfetti sconosciuti negli anfratti promiscui (a onor del vero non di rado forniti di provvidenziali distributori), ebbene, nonostante la situazione sia oltremodo peccaminosa, anzi proprio per questo, prudenza lassista la autorizza all’impiego dell’innaturale barriera a prevenzione di danni peggiori. Per tacere dei connubi omosessuali, allusi ma tralasciati perché vieppiù complicati. Così almeno un eticista di cui si dirà più sotto. Ignoriamo se questa fabulazione sia frutto di personale fantasticheria o non magari di assidua escussione di penitenti, né vogliamo violare il sigillo sacramentale. Certo che situazioni di banale fornicazione su giaciglio domestico nell’ambito di un minimo di relazioni affettive devono essere ormai omesse in confessionale persino dagli assidui, tanto sono perlopiù ritenute lecite dai fedeli (e, nel segreto, dagli stessi confessori, stando a recenti inchieste giornalistiche). Il problema della prevenzione sembrerebbe presentarsi però anche in questi contesti più all’ordine del giorno, o della notte. Ma quel legalismo, arrendevole dove ha già perso, si trincera proprio quando trova del tenero. Così, a furia di sentir dire peste e corna dell’ordigno di lattice, ben difficilmente la fanciulla ne risulterà 1 Docente di Filosofia e Storia al liceo scientifico Ferraris di Varese. 1 provvista nel momento in cui (lo spirito è pronto ma la carne è debole!) dovesse contravvenire al divieto del sesso prematrimoniale. Questo cedimento infatti, per comune sentire, sarebbe veniale in quanto impulsivo e colposo, l’altro invece, previo acquisto anzitempo dello strumento del peccato, biecamente premeditato e pianificato. Come che sia, in una bella mattina al principio del nuovo anno, nel corso di un’iniziativa scolastica riservata a tutti gli studenti delle ultime classi, la liceale che a seguito di varie private vicende avesse infine assunto la pillola del giorno dopo, avrebbe avuto modo si sentirsi dare dell’omicida. A dichiararla tale, com’è prevedibile, l'eticista tuziorista. Preceduto da opportuno supporto ginecologico riproduttivo comprensivo di asseverazione scientifica, nelle forme perlomeno, delle presunte virtù antinidatorie delle pillole del giorno e dei cinque giorni dopo, rispettivamente prima dell’impianto embrionale (abortive per la chiesa) e dopo (abortive per la medicina), tutto all’insaputa della scienza medica ufficiale. Ma, attenzione, l’eticista, pur presbitero come si sarà inteso, non parlava alla luce della sua personalissima vocazione, limitandosi a riferire la posizione delle autorità di riferimento. In questo caso infatti la sua accusa sarebbe suonata simile a quella di un induista che avesse redarguito lo studente ghiotto di bistecche o di un testimone di Geova che avesse trattato da cannibale l’emotrasfuso. No, il relatore parlava da esperto di un’etica che si presume universale (com’è abbastanza naturale che ogni etica aspiri a essere, almeno in teoria). Purtroppo o per fortuna in etica ben pochi presupposti sono generalmente condivisi nella stessa comunità specialistica. L’eticista teologo, tanto per fare un esempio, ha esordito dichiarando che la morale ha a che fare con la possibilità di guardarsi allo specchio senza farsi troppo schifo. In realtà possiamo benissimo figurarci Hitler che si rimira soddisfatto allo specchio mentre i forni crematori vanno a pieno ritmo (e compiacendosi non del baffo ben scolpito ma proprio del bilancio retrospettivo del proprio operato). E possiamo, al contrario, immaginare la nostra liceale che pur non avendo fatto, fino a prova contraria, nulla di male, si guardi avvilita allo specchio dopo una simile allegra mattinata. Ancora, il teologo morale ha sostenuto che nell’etica di inizio vita è in questione che cosa è bene per l’embrione. Ma, dato che l’embrione usa albergare nel corpo di una persona da esso ben distinguibile, non sarà forse in questione anche e soprattutto che cosa sia bene 2 per questa persona? Si è molte volte notato che in nessun caso riteniamo lecito privare un uomo della potestà più elementare, quella che esercita spontaneamente sul proprio corpo, neppure se è a rischio la vita di qualcun altro (cosa peraltro a dir poco dubbia nel nostro caso, come vedremo); e d’altronde a sancire l’eccezione, la peculiare minorità della donna, sarebbero proprio i tratti caratterizzanti del corpo femminile, insieme oggetto e titolo d’appropriazione. Su questi punti ha spesso insistito la difesa del diritto all’aborto, dagli slogan abortisti agli esperimenti mentali di Judith Jarvis Thomson. Qui invece l’embrione personificato capovolge i ruoli: è una specie di improbabile ometto che reclama come proprio bene (anzi come un proprio bene, ovvero come utile strumento di sua esclusiva proprietà) il corpo della donna. Lo sentiamo quasi dichiarare, come a fare il verso alle femministe d’altri tempi, che l’utero è suo e se lo gestisce lui. Come non domandarsi, allora, se e da quale momento l’embrione sia una persona? La questione sarebbe controversa: per alcuni si tratta di una persona già al concepimento, per altri conta il momento in cui l’embrione si annida nell’utero, per qualcuno conta lo sviluppo del sistema nervoso, per altri ancora occorre aspettare alcuni mesi dopo il parto. Fermo restando, puntualizza il relatore professandosi tuziorista, che si tratterebbe quantomeno di un individuo della specie umana, di un essere umano fin dal concepimento giacché il patrimonio genetico è fin da principio quello di un uomo ed è originale e distinto da quello dei genitori. Non sapendo poi con certezza quando cominciamo ad aver a che fare con una persona vera e propria, sarebbe comunque nostro dovere, nel dubbio, trattare da subito il nuovo essere come fosse una persona a tutti gli effetti. Diversamente ci comporteremmo come quel tale che durante una battuta di caccia fa fuoco contro un cespuglio senza sapere se le fronde in movimento nascondano il sospirato coniglio o il proprio compare di caccia. Il cacciatore che mette in conto di uccidere un uomo nella speranza di avere una lepre in salmì a cena è, moralmente parlando, un assassino. Lo stesso dicasi di chi interrompa consapevolmente in qualsiasi momento lo sviluppo dell’embrione e del feto, visto che non può sapere se si tratti di una persona o meno. Ed ecco servita la nostra ipotetica femmina viziosa. In un simile ragionamento si presume scontato il disvalore dell’omicidio. In effetti, anche a parere di antropologi come Donald Brown, la condanna morale dell’omicidio sembra essere condivisa da tutte le popolazioni umane note. Tuttavia dovunque si 3 ammettono varie eccezioni. Il catechismo della chiesa cattolica, per restare vicini all’impostazione culturale del colpevolista, non esclude né la pena di morte né la guerra. E quasi tutti giustifichiamo la legittima difesa. Quindi non è detto che l’interruzione dello sviluppo dell’embrione, posto pure che si trattasse di una forma di omicidio, non possa essere moralmente giustificata. A proposito di catechismo, è singolare che, benché la tesi in questione si presenti argomentata in modo razionale e non dogmatico, da un lato vada a collimare perfettamente con la posizione del magistero della chiesa cattolica, dall’altro non riesca a trascinare i bioeticisti di altra formazione, favorendo un accordo generale almeno su questo problema. In fondo è il minimo che ci si attenderebbe da un’argomentazione valida in qualunque ambito di studio, anche per poterla poi recepire nell’insegnamento scolastico come altrove. Mentre le posizioni ecclesiastiche sul sesso e la riproduzione non riescono a persuadere neppure la maggioranza di quanti in paesi come il nostro si professano cattolici. Quanto poi all’aneddoto della battuta di caccia, non è affatto nuovo e negli anni è stato oggetto di varie obiezioni. Che diremmo del cacciatore che sparasse al cespuglio allo scopo di assassinare il suo compare impallinando invece un coniglio? Insomma, la valutazione morale si deve limitare all’esame delle intenzioni dell’agente e dell’immagine che egli ha di sé o non deve forse fare i conti anche con le azioni e coi loro effetti reali? Anche la ricerca di un inizio della persona si esaurisce in oziosi giochi di parole se non si decide da principio a che cosa si intenda concretamente riferirsi quando si parla di persone. Il significato delle parole comuni si è sedimentato lungo i secoli attraverso l’esperienza quotidiana che non ci pone abitualmente a contatto con zigoti, embrioni o feti. Siccome lo sviluppo scientifico in tempi recenti ha arricchito la nostra esperienza, non è detto che il linguaggio corrente con la sua semantica intuitiva resti il più adeguato a descrivere le nuove conoscenze. Se si vogliono usare le parole correnti, occorre spesso, nei nuovi contesti, chiarirlo, precisarlo, adattarlo. Se vogliamo estendere l’uso della parola “persona” sarà necessario preliminarmente chiarire come e perché si intenda avventurarsi su questa strada. Possiamo anche evitare di circoscrivere l’uso del termine ai soli esseri dotati di una mente consapevole suscettibile di razionalità e di volontà autonoma, cioè di abilità tipicamente umane, possiamo persino estenderlo a designare esseri costituiti da poche cellule non specializzate, ma quale sarebbe il vantaggio? Di certo non basterebbe estendere in modo indiscriminato l’uso della denominazione per vedere riconosciuti agli esseri del secondo tipo 4 gli stessi diritti che plausibilmente riconoscevamo a quelli del primo tipo. Non basta ingenerare equivoci linguistici per risolvere i dilemmi etici. Il mio gatto per me può essere una personcina, ma questo non basta a garantirgli la patente o il diritto di voto. La parabola apocrifa del cespuglio, a dirla tutta, sorge originariamente dal tentativo di mettere insieme la dottrina cattolica tradizionale, per la quale la persona umana è caratterizzata dall’anima, con la presa d’atto delle acquisizioni della scienza moderna. In particolare: ci sono e quali sono le facoltà umane che necessitano di una spiegazione spirituale? quando avviene l’animazione e dunque quando possiamo cominciare a parlare di essere umano? La chiesa comprensibilmente, non potendo e non volendo azzardare ipotesi, ha abbandonato la sicumera scolastica di un Tommaso, per il quale l’infusione dell’anima avviene solo il quarantesimo giorno dopo il concepimento dell’embrione (maschile; nel novantesimo giorno per quello femminile), per approdare paradossalmente ad una rigidità morale ancora maggiore (la dignità umana fa capolino già col semplice concepimento). Se però oggi l’anima appare improponibile in qualsiasi trattazione non confessionale, tutta la pertinenza dell’apologo venatorio viene meno. Anche proclamare tuzioristica questa linea teorica ha senso solo nell’ambito della teologia cattolica. Il cespuglio campagnolo potrebbe nascondere di tutto: cani, cacciatori, nidi, picnic, spazzatura, esibizionisti (con o senza profilattico), voyeur, carcasse di lavatrici. Il cacciatore potrebbe sapere cosa c’è dietro dandoci un’occhiata, non lo fa solo per evitare che l’eventuale coniglio, allarmato, gli scappi sotto il naso. Il ventre materno tra il concepimento e il parto invece non nasconde niente del genere. Sappiamo benissimo che cosa ci avviene e con buona approssimazione temporale. L’anima, ormai fuori moda, sembra quasi essere stata sostituita dal patrimonio genetico persino nelle riflessioni pubbliche di certi teologi. L’embrione allora è umano perché ha un patrimonio genetico umano. Si badi bene che in questo senso banalmente incontestabile qualsiasi cellula del nostro corpo è umana, ma questo non implica che ogni cellula sia un uomo o che abbia dignità umana. Mentre perché uno zigote possa aspirare a essere considerato membro della specie umana bisognerebbe almeno che gli uomini fossero organismi unicellulari. Né l’originalità del patrimonio genetico sembra particolarmente rilevante per circoscrivere l’individualità umana: se di un uomo ci resta solo una cellula, non per questo tale cellula è quell’uomo. Per converso i gemelli identici (compresi quelli non sincronici prodotti tramite clonazione) hanno lo stesso patrimonio genetico senza per questo 5 essere lo stesso uomo. Il relatore a specifica domanda sulla clonazione, che renderà possibile ottenere un uomo da una qualsiasi cellula del nostro corpo, ha risposto che la cellula clonabile non è da ritenersi individuo finché, privata della sua specializzazione, non assume la capacità di svilupparsi come un embrione. Assumerebbe dunque individualità umana nel momento in cui fosse posta in grado di svilupparsi fino a divenire un uomo propriamente inteso: solo questo permetterebbe di equiparare ad un uomo alcune sparute cellule. Non sarebbe dunque una caratteristica attuale dell’embrione ad accomunarlo all’uomo, a identificarli nonostante le differenze, ma una mera potenzialità tipica dell’embrione che verrà meno con lo sviluppo. Ma perché mai, che ci si appassioni o meno a questo linguaggio vagamente aristotelico, dovremmo identificare l’attualità con la potenzialità, visto che questa è solo una forma di negazione di quella? E perché mai la potenzialità dell’embrione dovrebbe essere più decisiva di quella di una cellula qualsiasi non ancora passata attraverso la clonazione? Fin dove ci si può spingere con l’argomento della potenzialità? Perché la perdita di un capello non dovrebbe equivalere a un genocidio? L’individualità dovrebbe caratterizzare un individuo nel corso di tutta la sua esistenza. Napoleone a Sant’Elena è Napoleone a Waterloo e persino Napoleone a cinque anni è la stessa persona che a Sant’Elena o a Waterloo. Mettiamo dunque da parte le pur rilevanti differenze (eppure quante volte arriviamo a dire, ad esempio di un criminale riabilitato, che è ormai diventato un’altra persona?) per affermare che qualcosa di profondo, l’identità, si è conservata ed è sostanzialmente la stessa. Tuttavia, a spostare l’esistenza dell’individuo fino alla fase in cui il prodotto del concepimento può dar luogo a diversi embrioni gemellari, ci scontriamo con alcuni paradossi. Poniamo infatti che dall’embrione Piero si ottengano due gemelli, il sig. Perluigi e il sig. Pierantonio. Ora, se identifichiamo l’embrione Piero col suo prodotto Pierluigi, dobbiamo identificarlo anche col suo prodotto Pierantonio. Ma allora, per la proprietà transitiva dell’identità, Perluigi e suo fratello gemello Pierantonio sono lo stesso individuo! L’accento posto sulla capacità di sviluppo dell’embrione mi riporta sempre a una lettura infantile avente come protagonista il personaggio popolare di Giufà. Dovendo pagare in osteria un conto vecchio di anni relativo a quattro uova fritte, un malcapitato se lo trovava rincarato del valore dei pulcini e delle galline che quelle stesse uova avrebbero prodotto se allora non fossero state cucinate per lui. Siccome l’uovo di gallina (fecondato, s’intende) in 6 determinate condizioni (la cova) può dar luogo ad un pulcino e quindi ad una gallina, possiamo identificare l’uovo col pollo ruspante e con la sua progenie? O forse, semplicemente, quel pulcino potenziale non è mai esistito per il semplice fatto che abbiamo fritto l’uovo? Nessun rilievo invece è riconosciuto alla comparsa dell’attività cerebrale o anche di una prima, solitaria cellula nervosa. Difficile immaginare sofferenza, volontà, coscienza e razionalità in assenza di simili supporti biologici. Visto che una persona è dichiarata morta quando viene meno la sua attività cerebrale, è coerente spostare l’inizio della vita personale prima del sorgere di una tale attività, anzi persino prima della comparsa dei suoi presupposti biologici? Né la simmetria sarebbe in qualche modo ripristinata se si preferissero criteri alternativi (pur ormai dichiarati superati dalla comunità medica) per constatare la morte della persona, come l’assenza di battito cardiaco o di respirazione autonoma. Nel riferirsi alla morte cerebrale si vuole certo cogliere la scomparsa irreversibile di facoltà tipicamente umane, ma anche per tracciare l’inizio della vita umana non ci si dovrebbe forse riferire alla comparsa di analoghe facoltà? Infine, che dire del fatto che, per motivi squisitamente naturali e spontanei, almeno due zigoti su tre non si sviluppano e vanno perduti (e almeno una gravidanza su sei si interrompe spontaneamente)? Se col concepimento abbiamo già a che fare con un nuovo essere umano, e forse con una persona, l’utero è allora teatro di continui sanguinosi disastri naturali? Una specie di inquietante macchina di morte, di girovagante lager nel quale si sopravvive a stento e che tuttavia non suscita lutto né sgomento alcuno? Si direbbe oltretutto uno stimolante dilemma di teodicea per il credente: perché mai un buon dio provvidente avrebbe dotato ogni donna di un simile sacro altare sul quale immolare almeno un paio di figli ogni volta che si tenta di averne uno? Inutile però interpellare i teologi, ormai non si occupano più di questo genere di argomenti. La dignità dell’embrione: un ottimo pretesto per impedire banali soluzioni di problemi reali paventando misfatti immaginari. 7