le soluzioni di Keynes
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le soluzioni di Keynes
Una stima della funzione degli investimenti secondo la teoria macroeconomica: le soluzioni di Keynes Catalina Sandra Neagoe – Marco Benedetto Sunto: Secondo la teoria macroeconomica, gli investimenti totali di un’economia dipendono dal reddito e dal tasso di interesse reale, oltre che dalle aspettative di profitto degli imprenditori. In questo lavoro, si descrivono gli aspetti teorici che stanno alla base della macroeconomia, gli investimenti e l’importanza del fattore rischio, gli elementi fondanti della spesa pubblica, il modello IS-LM e il pensiero economico Keynesiano,e ci si pone l’obiettivo di valutare la validità di questa relazione attraverso il pensiero e le teorie Keynesiani attraverso l’individuazione dettagliata del problema, le sue possibili soluzioni ed i limiti. 1. Princìpi di teoria macroeconomica Secondo la teoria macroeconomica1 gli investimenti totali di un’economia dipendono dal reddito e dal tasso di interesse, oltre alle aspettative di profitto degli imprenditori. La teoria macroeconomica tratta le relazioni quali il PIL, investimenti, consumo, risparmio, reddito. Il prodotto interno lordo è definibile come complesso dei redditi prodotti e somma dei consumi, investimenti e spesa pubblica. Il reddito pro capite è pari al rapporto tra il PIL e il numero dei cittadini. Il reddito2 è definito come l'incremento o decremento, espresso in termini monetari, della ricchezza di un soggetto in un determinato periodo di tempo. Rappresenta in pratica il divenire di componenti economici attribuito ad un dato periodo di tempo. Il reddito è quindi una variabile di flusso, in quanto legata ad un preciso orizzonte temporale senza il quale non avrebbe senso. Al reddito viene contrapposto il concetto di patrimonio che esprime in termini monetari la ricchezza in un dato istante: si usa dire pertanto che il reddito è flusso, mentre il patrimonio è stock3 Una prima distinzione va fatta tra reddito nazionale e reddito interno. Il reddito nazionale si riferisce al reddito dei cittadini residenti nel paese anche se operano 1 De Vincenti C., Macroeconomia. Elementi Di Base, Carocci, Roma,2003 Per approfondimenti sul reddito e sui principali operatori dell'economia si veda: Modigliani F., Reddito, interesse, inflazione, Einaudi, Torino, 1987. 3 Espressione di origine anglosassone utilizzata, generalmente in opposizione a flusso , per designare un quantità di merce, moneta od altro, che possa essere descritta prescindendo dall'elemento temporale. 2 all’estero; il reddito interno invece si riferisce alle operazioni che vengono effettuate all’interno del territorio nazionale degli operatori residenti e non. Secondo punto differenziale è il reddito nazionale lordo e quello netto: il primo è riferito ovviamente nel complesso all’intera operazione di produzione, quindi il valore delle macchine e la merce eventualmente importata utilizzata per la produzione. Il secondo invece viene ottenuto per differenza e quindi nell’ammortamento tra il costo delle macchine in acquisto, la sostituzione delle stesse nel corso del tempo, e l’acquisto delle materie prime. Analizzando l’andamento delle risorse disponibili di un Paese e dei loro impieghi, capiamo se una Nazione cresce oppure no; in effetti, se le risorse disponibili superano gli impieghi a cui sono destinati, quindi i consumi, investimenti ecc… aritmeticamente otteniamo segno +, di contro abbiamo segno -: il tutto definito come identità contabile. Una delle principali funzioni del reddito è quella di costituire la base imponibile per le principali imposte di ogni ordinamento fiscale. Misurare infatti l'arricchimento di un dato soggetto rappresenta senza dubbio il parametro più equo per commisurare il prelievo fiscale. Alla luce di quanto detto, del reddito possono essere ulteriormente rintracciati quattro aspetti: • il reddito è una variazione (esprime la natura dinamica dello stesso, mutabile dunque sia positivamente, sia negativamente) • il reddito deve poter essere individuato in un intervallo di tempo (esistono infatti esigenze di amministrazione aziendale che rendono indispensabile la determinazione periodica del reddito) • il reddito presuppone la presenza di un capitale (esso è lo strumento materiale della produzione aziendale; ne segue che il reddito è un valore, non un bene, dunque è astratto, ed è indeterminato, non deriva cioè da una operazione di calcolo oggettiva.) • il reddito è il risultato della gestione non del solo processo di produzione (operazioni interne), ma anche di un insieme di operazioni di gestione esterna. Il reddito è distinto dalla rendita che è una variabile di flusso finanziario legata a più di un periodo. La rendita è un'entrata costante ad intervalli di tempo regolari per un certo orizzonte temporale. Una delle più comuni classificazioni di reddito è relativa al soggetto percettore. A tal proposito distinguiamo tra:il reddito delle persone fisiche e il reddito delle persone giuridiche. Una ulteriore classificazione, sulla falsa riga di quella effettuata dal legislatore tributario nella disciplina del Testo Unico delle Imposte sui Redditi4, segue il criterio della fonte di provenienza: • redditi di impresa: derivanti dall'esercizio di attività commerciali 4 Col D.P.R. n. 917/1986 si è racchiusa la disciplina IRPEF in un unico testo che ha sostituito i decreti presidenziali nn. 597, 598 e 599 del 1973. • • • • redditi di lavoro: derivanti da prestazioni di lavoro dipendente o dall'esercizio di arti o professioni redditi di capitale: derivanti dall'impiego di denaro o strumenti finanziari (interessi, dividendi e simili) redditi fondiari: derivanti dall'esercizio di diritti reali su terreni e fabbricati (redditi dominicali dei terreni, redditi agrari, redditi di fabbricati) redditi diversi: categoria residuale, destinata ad accogliere operazioni con intento speculativo (cessioni di titoli azionari, terreni edificabili, vincite alle lotterie, prestazioni di lavoro occasionale...) Ci sono dei criteri per stabilire la presenza del redito: il legislatore fiscale del 1972 ha accolto una nozione di reddito complessivo, come entità omnicomprensiva ed eterogenea, risultante dalla somma dei singoli redditi (di lavoro, di capitale, ecc.). Il concetto di reddito fiscale può dunque comprendere il reddito-entrata (cioè gli incrementi patrimoniali anche a titolo gratuito) e le cd. entrate figurative (ad es. il reddito dell'immobile occupato dallo stesso soggetto d'imposta). Le singole categorie di reddito individuate dalla legge sono ritenute un numerus clausus: se una determinata fattispecie vi rientra, allora è considerata reddito a tutti gli effetti (civili, fiscali, ecc.). Se invece non vi rientra, non è ritenuta una fattispecie imponibile e quindi non è tassabile nemmeno se produce un aumento di ricchezza. Per stabilire se una data fattispecie rientra nella previsione dell'art. 6 del Testo Unico delle Imposte sui redditi, si applica il principio di equipollenza, secondo cui i proventi conseguiti in sostituzione del reddito e le indennità percepite per il risarcimento della perdita del reddito sono considerati redditi della stessa categoria di quelli perduti o sostituiti . Il reddito come prodotto e la più antica concezione probabilmente, riconducibile almeno ad Adam Smith 5 che identificava il reddito come valore dei beni e servizi prodotti dedotto il valore del consumo dei beni capitali. Secondo questa concezione il reddito è quanto può essere consumato senza intaccare il capitale. La funzione che spiega questa concezione è: RP = Salari e stipendi + Profitto + Rendite + Interessi Questa concezione è ormai ritenuta riduttiva perché considera solo i frutti di fonte produttiva. 6 Il reddito come entrata (RE) è stato elaborato dagli economisti Schanz, Haig, Simons7 pertanto viene chiamato definizione S-H-S dalle loro iniziali. 5 Adam Smith (Kirkcaldy,5 giugno1723 –Edimburgo,17 luglio1790) è stato un economista e filosofo scozzese, che gettò le basi dell'economia politica classica, viene considerato unanimemente il primo degli economisti classici. 6 La più antica concezione è riconducibile almeno ad Adam Smith, che identificava il reddito come valore dei beni e servizi prodotti dedotto il valore del consumo dei beni capitali. Secondo questa concezione il reddito è quanto può essere consumato senza intaccare il capitale. Secondo questa concezione il reddito è l'incremento della capacità di acquisto di un individuo. La funzione che spiega questa concezione è: RE = C+∆W (dove C sono i consumi e W rappresenta il patrimonio). Se si considera gli impieghi che l'individuo per fare del reddito, mentre se si considera le fonti, diviene: RE = RP+Rtrasf+IVPn+ESD+EInasp dove RP, come spiegato sopra, è il Reddito come Prodotto, Rtrasf i redditi di trasferimento (pensioni, sussidi..), ESD entrate per successioni o donazioni, IVP gli incrementi di valore patrimoniale e EInasp le entrate inaspettate. Questa definizione di reddito, essendo onnicomprensiva degli aspetti delle entrate e perdite che può subire un individuo, è ritenuta abbastanza esaustiva da molti economisti. Il reddito come consumo è stato propugnato da coloro (in Italia da Luigi Einaudi8 ), che volevano porre a tassazione soltanto quella parte della ricchezza personale destinata al consumo al fine di escludere quella destinata al risparmio ed agli impieghi di capitale. Tale esenzione deriva dall'esigenza di dover evitare che il risparmio venga tassato doppiamente: se viene tassato tutto il reddito, cioè sia il consumo sia il risparmio, su quella quota risparmiata si pagherebbero due volte le imposte: la prima volta quando viene colpito l'intero reddito, e una seconda volta quando vengono colpiti gli interessi fruttati dal risparmio 2. Gli investimenti e l’importanza del fattore rischio Per investimento9 si intende l'incremento dei beni capitali e l'acquisizione e la creazione di risorse da usare nel processo produttivo. Nelle imprese private e nel settore pubblico l'investimento serve ad acquistare o produrre in proprio (nella terminologia aziendale si dice “in economia”) beni capitali materiali quali impianti, macchinari, capannoni, beni immateriali, quali ricerche o campagne pubblicitarie destinate a produrre un ritorno d'immagine per più di un esercizio, risorse da usare nel processo produttivo, come le materie prime e infine scorte di prodotti finiti o di materie prime. 7 Il reddito entrata di Schanz-Haig-Simons (SHS) è dato, come definizione, dalla differenza tra valori patrimoniali alla fine ed all’inizio di un periodo (inclusi i trasferimenti patrimoniali a titolo gratuito) più i consumi del periodo. 8 Luigi Einaudi (Carrù, 24 marzo 1874 –Roma,30 ottobre 1961) è stato un economista, politico e giornalista italiano; è stato il secondo Presidente della Repubblica Italiana. 9 Si veda: Izzo Claudio, Investimenti finanziari. Gli strumenti, i prodotti, i processi, i servizi. Caratteristiche e criteri di valutazione, Il Sole 24 Ore Pirola, , 2007 Vi sono poi investimenti che non rientrano nel bilancio d'esercizio di una impresa privata, ma, quando previsto, nel bilancio sociale, come gli investimenti in formazione del personale o in sistemi produttivi meno inquinanti. In questo caso si parla di investimento in senso lato, dal momento che i costi corrispondenti rientrano nelle spese correnti. La finanza aziendale considera l'investimento dal punto di vista dei capitali che esso richiede, del costo delle diverse fonti di capitale, delle scelte tra diversi piani di ammortamento dei debiti contratti per realizzare l'investimento e tra diversi investimenti che generano flussi finanziari diversi. L'economia considera l'investimento come una componente della domanda aggregata e per l'effetto moltiplicativo del prodotto che esso produce. L'economia politica prende in considerazione due tipi di funzione di investimento. Nella prima si mette in relazione inversa l'investimento con il tasso di interesse: I = I 0 − b ⋅1 dove (i è il tasso di interesse; b è un coefficiente; I0 è l' ascissa, ossia il valore dell'investimento nel caso in cui i=0.) Nella seconda, detta dell'acceleratore, si considera l'investimento dipendente dall'incremento atteso del prodotto: I= v(Yt+1-Yt) dove: v è un coefficiente ; Yt+1 è il prodotto atteso per l'anno successivo; Yt è il prodotto corrente (all'anno t). L'investimento comporta di per sè un rischio, connesso alla possibilità che il "bene"/strumento finanziario acquisito vari il suo valore nel tempo. Quindi l'atto stesso di investire equivale ad un'assunzione di rischio. Questo è connesso all'acquisto o alla vendita di ad una serie di "beni"/strumenti finanziari legati a proprie intrinseche variabili, a loro volta funzioni di una serie di elementi aleatori (andamento dei titoli, andamento dei cambi, rischi di un esito diverso da quello previsto dell'investimento o per il sopraggiungere di elementi negativi imprevisti come attentati terroristici, speculazioni di mercato, mode improvvise,ecc.) La presenza del rischio induce gli investitori a diversificare gli investimenti per ridurre il rischio a parità di rendimento atteso. In un'ottica finanziaria, il tasso d'interesse deve essere pari a quello risk-free aumentato di un premio di rischio che deve essere crescente col rischio d'investimento. Il rendimento di riferimento per il tasso risk-free è quello dei titoli di Stato, che appunto garantiscono l'intero capitale investito e l'interesse. Altrimenti, il riferimento del tasso risk-free è scelto fra gli strumenti aventi rating pari ad A, o maggiore. La diversificazione del rischio e dell'investimento avviene per tutte le componenti del rischio di investimento: durata, rischio di liquidità (legato alla società, al comparto, settore e alla congiuntura economica/mercato di appartenenza), rischio valutario. Perciò, si diversifica investendo in tipologie di titoli differenti (opzioni, azioni, obbligazioni), in titoli differenti per società e settore di afferenza, moneta di denominazione e mercato di appartenenza (es. quotati alla Borsa Italiana e in un altro Paese dell'area a UE), durata (obbligazioni a 6 mesi e a 5 anni),e combinazioni di questi fattori. La riduzione del rischio è maggiore e la diversificazione più efficace se avviene tra investrimenti a correlazione zero, indipendenti. È ancora più alta se avviene tra investimenti correlati negativamente, ma in questo caso la scelta è più critica perché comporta anche una riduzione di profitti. Una strategia di investimento può essere quella di spingere la diversificazione fino a scegliere investimenti in comparti o settori, o tipologie di titoli correlati negativamente (es. energetico vs manifatturiero, azioni vs obbligazioni). Se il coefficiente di correlazione investimenti è negativo ( e al limite pari a − 1), il rischio complessivo dell'investimento è minore, ma scende anche il profitto atteso. Il rischio complessivo di un portafoglio di due investimenti 1 e 2 è pari a: σ = σ 1 2 + σ 2 2 + ρ12 ⋅ σ 1 ⋅ σ 2 Scegliendo investimenti con indice di correlazione ρ12 negativo, si abbassa il rischio complessivo del portafoglio di investimenti. L’azienda decide come, quando e se investire in merito ai risultati ottenuti, quindi l’imprenditore deve valutare i tre costi iniziali per creare la sua azienda: terreno, edificio, attrezzature ecc. e determineranno nell’insieme quale somma investire nel progetto. Poi i costi correnti di produzione e i ricavi, che l’imprenditore deve considerare, infatti, egli deve conoscere tecnicamente le sue macchine e quali aspettative di durata possono avere per ammortizzarle al meglio, valutare l’andamento dei prezzi nell’immediato futuro quindi di un possibile aumento di salari o di costo delle materie prime, agendo di conseguenza sulla produzione del proprio prodotto e quindi nella formulazione del prezzo. L’imprenditore investirà se i ricavi netti futuri attesi compensano il costo iniziale dell’investimento e permettono di ottenere un profitto sufficiente. Come visto l’imprenditore deve valutare attentamente i fattori di costo, ma questo non basta; per valutare se un investimento è fattibile o no si deve considerare il valore del denaro con interesse positivo nel corso degli anni su cui l’investimento fa fronte. Infatti, se metto in Banca 10.000/00 euro oggi e con tasso del 5% tra 1 anno io avrò 10.000/00 + Xi (interesse) quindi 10.000/00+200/00=10.200/00, se lascio in banca questo denaro anche il secondo anno, avrò i 10.200/00+Xi2 (interesse del secondo anno) quindi 10.510/00 e così via… Il problema inverso può essere ad esempio: conoscere il valore dell’euro tra 1,2 o 3 anni rispetto a quello attuale, quindi se X1 è il valore attuale di R1. X1 (1+i)=R1 Dove: X1=Valore attuale; 1=somma iniziale; I=interesse. Per cui se indichiamo con V il valore dei redditi netti futuri attesi per gli anni di vita dell’impianto avremo: V=R1/(1+i)+R2/(1+i)^2+R3/(1+i)^3 …..Rn/(1+i)^n Con questa formula possiamo definire il criterio utilizzato dagli imprenditori per decidere se realizzare o no un determinato progetto di investimento. Il progetto sarà realizzato se i ricavi ottenuti saranno inferiori ai costi sostenuti, ma per fare ciò verranno confrontati i dati dello stesso periodo in modo omogeneo. L’imprenditore però può anche optare per un altro criterio, cioè calcolando il tasso di rendimento di un investimento definito come quel tasso di sconto che eguaglia il valore attuale dei redditi netti futuri attesi al costo attuale del progetto d’investimento, poi confrontando questo tasso di rendimento con il tasso d’interesse. Avremo: K=R1/(1+r)+R2/(1+r)^2+R3/(1+r)^3…Rn/(1+r)^n Dove: R = tasso di rendimento di investimento e R1 = redditi futuri attesi Una volta ottenuto “r” l’imprenditore lo confronta con “i” (tasso d’interesse prevalente sul mercato); infatti, “i” rappresenta il costo del denaro che l’imprenditore deve prendere in prestito per realizzare l’investimento se non utilizza fondi propri. Se r > i allora l’imprenditore decide di investire. 3. La spesa pubblica La spesa pubblica è l’insieme delle spese che lo Stato e gli enti pubblici effettuano per soddisfare gli interessi pubblici. In genere, da un punto di vista strettamente economico, si distingue fra: • • spese di trasformazione, corrispondenti agli investimenti pubblici (acquisto di fattori produttivi e loro utilizzo nella produzione); spese di trasferimento, che consistono nella erogazione di sussidi a particolari categorie di cittadini, imprese ecc. In questo caso si ha un semplice trasferimento di risorse e dunque una redistribuzione della ricchezza. La spesa pubblica può essere finanziata in due modi: con la base monetaria e mediante imposte. Il finanziamento della spesa pubblica mediante la base monetaria e un sistema molto semplice per finanziare la spesa pubblica è il ricorso all'emissione di carta moneta. Tale sistema presenta indubbi vantaggi: un costo praticamente nullo (i semplici costi di stampa);e un effetto espansivo massimo sul reddito, dovuto al fatto che oltre all'operare del moltiplicatore occorre considerare l'aumento degli investimenti dovuto al ribasso del tasso d'interesse (un aumento della base monetaria comporta una riduzione del tasso d'interesse).Nel lungo periodo però il finanziamento con base monetaria ha deleteri effetti inflazionistici. Secondo Keynes la spesa pubblica finanziata mediante l'emissione di carta moneta aveva solo l'effetto di generare effetti inflazionistici. L'economista era invece convinto che la spesa pubblica finanziata attraverso prestiti pubblici (deficit spending) avrebbe generato reddito senza distruggere risorse, semplicemente convertendo i risparmi in investimenti. In alternativa, la spesa pubblica avrebbe potuto essere finanziata facendo ricorso al sistema della tassazione: un'imposta progressiva sui redditi avrebbe potuto, per esempio, ridistribuire risorse a favore delle classi più disagiate, caratterizzate da una più alta propensione al consumo. L'imposizione fiscale, però, riduce l'effetto espansivo del moltiplicatore; infatti, consideriamo il caso semplice di un'imposta proporzionale sul reddito T = tY ( t è l'aliquota d'imposta). É evidente che il consumo non sarà più funzione del reddito, ma dipenderà dal reddito disponibile Yd dove Yd = Y – T. La funzione del consumo sarà allora così espressa: C = C0+CYd= C0+C(Y-T) = C0+C(Y- tY)=C0+CY(1-t) Se raggruppiamo in A tutte le componenti della domanda aggregata non dipendenti dal reddito (consumi autonomi C0, investimenti I e spesa pubblica G), possiamo scrivere Y=A+cY(1-t) oppure, come Y-CY(1-t)=A. Mettendo in evidenza Y, si ottiene Y[1-c(1-t)]=A che può essere scritta come: Y= 1 A 1 − c(1 − t ) 1 Nella formula finale 1 − c(1 − t ) rappresenta il moltiplicatore del reddito: come si vede, un incremento iniziale un aumento della domanda aggregata generato dall'incremento della spesa pubblica avrà in questo caso un effetto minore, poiché le imposte riducono quella parte di reddito che gli individui possono destinare al consumo. 4. Il modello IS-LM e il pensiero economico Keynesiano Uno dei maggiori esponenti della teoria economica del ‘900 è John Maynard Keynes10. Egli con la sua teoria generale dell’occupazione, interesse e moneta, illustra in un quadro molto ampio e dettagliato le basi dello sviluppo economico e dell’occupazione. E’ pacifico considerare secondo la sua teoria, che non ci potrà mai essere la piena occupazione se lo Stato non interviene nel sistema economico; infatti, egli con un esempio ne spiega il motivo: in un sistema economico in cui le imprese agiscono da sole lasciando lo Stato in disparte, si assiste ben presto ad una crisi lavorativa dovuta alla sempre più incalzante disoccupazione. Poiché le imprese aumentando il loro progresso tecnologico, hanno bisogno sempre meno di manodopera, di conseguenza sempre più persone restano senza lavoro. Per cui Keynes afferma che è importante che lo Stato sia presente, spingendo le imprese private alla produzione e assicurando il lavoro dei disoccupati riassorbendoli nel mondo del lavoro in modo tale che in virtù del soddisfacimento dei loro bisogni spingano le imprese a produrre: ciò fa si che l’economia non ristagni e il reddito aumenti. Il modello IS-LM è una rappresentazione sintetica del pensiero economico keynesiano. Nel 1936 l'economista inglese Keynes diede alle stampe l'importante Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta11 che rimase per almeno trent'anni la più importante opera economica a occuparsi di temi macroeconomici. Nel 1937 sir John Richard Hicks12 formalizzò il sistema keynesiano elaborando uno schema che considera congiuntamente gli aspetti reali e monetari. Questi elaborò due curve che chiamò IS-LL, che subirono successive rielaborazioni nel dopoguerra, diventando le curve IS-LM. 10 John Maynard Keynes nasce a Cambridge (Inghilterra) il 5 giugno 1883. Il suo nome è noto nel mondo economico per essere considerato tra i più importanti economisti del XX secolo, grazie alle sue idee che avrebbero influenzato non solo l'economia ma anche, e di conseguenza, il mondo politico. 11 The general theory of employment, interest and money, 1936. Le argomentazioni proposte da Keynes in questo lavoro troveranno conferma nei risultati della politica del "New Deal", varata negli USA in quegli anni dal presidente Roosevelt. 12 Sir John Richard Hicks (Leamington Spa, 8 aprile 1904 – 20 maggio 1989) è stato un economista inglese. Nel 1972 vinse il Premio della Banca di Svezia in memoria di Alfred Nobel per le Scienze Economiche. Il suo più influente contributo alla scienza economica è probabilmente il modello IS-LM (detto anche modello di Hicks-Hansen), basato sulla teoria macroeconomica sviluppata da John Maynard Keynes Si parla di schema delle curve IS-LM o della sintesi neoclassica-keynesiana. Oggi lo schema è completato dalle curve AD-AS (domanda aggregata-offerta aggregata). Il modello IS-LM unisce la rappresentazione del settore reale (curva IS) con quella del settore monetario (LM).L'equilibrio generale macroeconomico si ha quando i due mercati sono simultaneamente in equilibrio, vale a dire quando nel settore reale la domanda aggregata è uguale all'offerta aggregata e quando nel settore monetario la domanda di moneta è uguale all'offerta di moneta. L'equilibrio è simultaneo in quanto i due mercati presentano variabili comuni, e dunque essi sono interdipendenti. Il fatto che il tasso d'interesse aumenti a causa dell'intervento pubblico implica che gli investimenti vengano ridotti. Quindi, l'aumento di domanda autonoma conduce sì ad un aumento della domanda aggregata, ma ne cambia anche la composizione: gli investimenti diminuiscono relativamente alle altre componenti. Questo effetto collaterale della politica fiscale è stato chiamato spiazzamento ed ha fornito lo spunto per dure critiche alla fiducia, tipicamente keynesiana, nella politica fiscale. Si è detto che la politica danneggia l'iniziativa privata, perché scoraggia la forma in cui le imprese maggiormente contribuiscono alla crescita della produzione, cioè gli investimenti. Naturalmente, non è necessariamente vero che lo spiazzamento sia completo, come si vede in figura 1 l'effetto complessivo è comunque di un aumento del reddito, almeno in generale. Figura 1: il modello IS-LM Un aumento della spesa pubblica finanziato con le imposte comporta: un aumento della domanda autonoma che sposta la IS a destra e in alto, nella figura 1 seguente la IS* si sposta in IS' . Il punto E* in figura 1 non rappresenta più un punto di equilibrio; l'economia dovrebbe spostarsi nel punto E'. In E*, infatti, vi è un eccesso di domanda di beni. In altre parole, nel punto E* il prodotto (Y*) è troppo basso, le imprese vedono calare le loro scorte troppo rapidamente e quindi aumentano la produzione, finché non viene raggiunto il livello di equilibrio Y'. Il percorso di avvicinamento al punto E' avviene lungo la curva LM, perché man mano che il reddito aumenta, anche il tasso d'interesse aumenta, passando da i* a i. Nel modello IS-LM, l'aumento della spesa pubblica non è efficace quanto si potrebbe pensare in base al solo moltiplicatore, a causa della presenza del tasso d'interesse e della moneta. Infatti, man mano che il reddito cresce, per adeguarsi alla domanda aggregata e portare in equilibrio il mercato della moneta aumenta il tasso d'interesse. Ma se cresce il tasso d'interesse, la domanda aggregata diminuisce, perché calano gli investimenti; quindi, l'aumento di domanda aggregata creato dall'aumento della spesa pubblica è parzialmente ridotto dall'aumento del tasso di interesse. Globalmente, la domanda aumenta, ma meno che proporzionalmente di quanto sarebbe aumentata se non ci fosse stato il tasso d'interesse. Infatti ogni aumento della spesa autonoma ∆A produce un aumento di reddito pari a 1 ∆A 1 − c (1 − t ) secondo il principio del moltiplicatore. La distanza fra le due curve IS è esattamente pari a questa grandezza; in figura 1 il segmento in rosso rappresenta tale distanza. Come si può notare l'aumento di reddito che effettivamente si è verificato, cioè il passaggio da Y* a Y', è inferiore alla distanza fra le due IS. Infatti, il segmento (Y'-Y*) è molto più piccolo di 1 ∆A 1 − c (1 − t ) 5. Tasso d’interesse e tasso d’interesse reale Il tasso di interesse rappresenta la misura dell'interesse su un prestito e l'importo della remunerazione spettante al prestatore. Viene espresso come una percentuale per un dato periodo di tempo e indica quanta parte della somma prestata debba essere corrisposta come interesse al termine del tempo considerato o, da un altro punto di vista, indica il costo del denaro. Il debitore, infatti, ricevendo una somma di denaro, si impegna a pagare una somma superiore a quella ricevuta. La differenza costituisce l'interesse, che viene solitamente calcolato in percentuale sulla somma prestata. Tale percentuale costituisce il tasso di interesse. Il tasso d'interesse è variabile anche in funzione della moneta di riferimento, del rischio connesso alla solvibilità del debitore e della lunghezza del periodo di riferimento. Oltre che dalla percentuale, i tassi d'interesse sono caratterizzati dal cosiddetto regime di capitalizzazione degli interessi, che può essere semplice o composto. Se la durata del prestito è superiore al periodo di tempo per cui l'interesse viene conteggiato, si parla di tasso di interesse composto, perché vengono conteggiati nel calcolo dell'interesse finale anche gli interessi parziali già maturati per ogni periodo. L'interesse viene detto semplice quando è proporzionale al capitale e al tempo. Ovvero gli interessi maturati da un dato capitale nel periodo di tempo considerato, non vengono aggiunti al capitale che li ha prodotti e, quindi, non maturano a loro volta interessi. Indicando con: • • • C il capitale iniziale i il tasso di interesse periodale (in genere tasso unitario annuo, ma può essere mensile, trimestrale...) t durata temporale della operazione, espressa in numero di periodi (in genere anni) M il capitale finale, detto anche montante, pari alla somma di capitale iniziale più gli interessi maturati si avrà: M = C + C it = C (1 + it ) L'interesse viene detto composto quando, invece di essere pagato o riscosso, è aggiunto al capitale iniziale che lo ha prodotto. Questo comporta che alla maturazione degli interessi il montante verrà riutilizzato come capitale iniziale per il periodo successivo, ovvero anche l'interesse produce interesse. L'interesse composto si divide in: • • • discontinuo annuo; discontinuo convertibile; continuo o matematico. In caso di montante ad interesse composto discontinuo annuo gli interessi si sommano al capitale iniziale che li ha prodotti al termine di ogni anno. Per determinare il montante di un capitale C, dopo un numero n di anni e impiegato ad interesse composto (annuo) i, si procede come segue. Si indichi con Mn il montante all’inizio dell'anno n. Il montante M1 si ottiene con la formula per l'interesse semplice posto t = 1: . M 1 = C (1 + i) Il montante M2 si applica la stessa formula posto t = 1, ma il capitale è ora M1, quindi:. M 2 = M 1 (1 + i) = (1 + i )(1 + i ) = C (1 + i ) 2 Generalizzando, dopo n anni, il montante Mn risulta: M n = C (1 + i ) n In caso di montante ad interesse composto discontinuo convertibile gli interessi maturano t volte durante l'anno, ma sempre in periodi definiti. In genere viene definito un tasso annuo nominale i al quale corrisponde un tasso convertibile ic dato da: ic = i t Per il calcolo del montante si applica la stessa formula impiegata per l'interesse composto continuo annuo: . i M = C (1 + ic ) nt = C (1 + ) nt t dove ic è l'interesse convertibile e nt indica il numero di volte in cui l'interesse convertibile matura nell'intero periodo. In caso di montante ad interesse composto continuo o matematico gli interessi si sommano al capitale che li ha prodotti ad ogni istante. Il tasso d'interesse composto a capitalizzazione continua ha applicazioni soprattutto teoriche, nella matematica finanziaria; sebbene sia rilevante nelle applicazioni relative alle più semplici operazioni finanziarie, è ad esempio ampiamente utilizzato nelle formule di valutazione di operazioni finanziarie complesse, come nella valutazione delle opzioni L'interesse in capitalizzazione continua può essere giustificato come segue. Si consideri un tasso annuale r, e si supponga di suddividere l'anno in t periodi, al termine di ciascuno dei quali viene corrisposta una frazione dell'interesse relativo all'intero anno pari a , che viene immediatamente reinvestita. A partire da un capitale iniziale C, il montante al termine di n anni sarà allora: r M = C (1 + ) nt t Passando al limite per t che tende a infinito, si ha il caso in cui un flusso continuo di pagamenti viene reinvestito in maniera continua; il montante sarà dato da: M = t lim ∞ C (1 + r nt ) = Ce rn t ricorrendo al limite notevole che definisce il numero di Nepero e. Nel caso in cui il M tasso r è una funzione r(t) il cui valore varia nel tempo, si generalizza l'espressione precedente come: t M ( t ) = C exp ∫ r (τ ) d τ 0 La componente reale del tasso di interesse misura la quantità di beni che un soggetto finanziatore riesce ad acquistare in futuro rinunciando ad utilizzare il capitale per un consumo immediato e finanziando un soggetto debitore. Il tasso d'interesse reale è influenzato da due componenti principali: • • • il grado di necessità di consumo del soggetto finanziatore, la capacità del capitale di generare un rendimento positivo, il rischio associato al finanziamento. Il finanziatore esige un premio per il periodo durante il quale il capitale non è più nella sua disponibilità. Tale premio sarà influenzato dalla capacità del debitore di tener fede agli impegni di restituzione del capitale. Il tasso di interesse nominale non tiene conto dell'inflazione (perdita di potere d'acquisto della moneta): un tasso di interesse del 10% con inflazione al 2% è molto diverso dallo stesso tasso con inflazione al 15%. Affinché io possa valutare il costo opportunità di un investimento, devo considerare il tasso di interesse reale (quanto guadagno dall'investimento stesso: se investo 100, tra un anno avrò 110; perciò, se oggi posso acquistare 100 pezzi al prezzo di 1, tra un anno potrò acquistare 104,76 pezzi in quanto costeranno 1,05 ma io avrò 110 e potrò acquistarne il 4,76% in più). In generale possiamo affermare che: interesse reale = [(interesse nominale + 1) / (inflazione + 1)] -1 ma una buona approssimazione è data da interesse nominale – inflazione. Il tasso d'interesse nominale è quello che si applica nel momento in cui si "presta" una determinata quantità di denaro. Indica quindi un costo per chi ottiene il prestito. Il tasso d'interesse reale invece è quello che si ottiene prendendo in considerazione anche le aspettative sull'inflazione => Tasso interesse reale = Tasso interesse nominale - inflazione attesa. 6. Keynes: risparmi e investimenti Abbiamo imparato che un'economia fortemente innovativa e progrediente è un'economia instabile. Negli ultimi dieci anni il tasso giapponese dei fallimenti d'impresa è stato doppio di quello americano, ma il Giappone si sviluppava a una velocità tripla degli Stati Uniti. C'è un secondo motivo per cui l'instabilità tende ad aumentare con lo sviluppo, ed è un motivo sul quale Keynes insistette molto, forte dell'esperienza della grande crisi mondiale cominciata nel 1929. Un'economia sviluppata è un'economia ricca, in cui è facile rinunciare al consumo e risparmiare, mentre l'investimento può essere poco attraente, giacché il capitale, che è stato ormai accumulato in grandi quantitativi, non è più così scarso come all'inizio dello sviluppo. Se l'innovazione tecnologica e merceologica rallenta, se si dorme sugli allori, diventa probabile che si voglia risparmiare troppo rispetto agli investimenti giudicati convenienti. E la situazione opposta a quella dei Paesi poveri, in cui si risparmia troppo poco rispetto agli investimenti, che bisognerebbe realizzare per progredire. Vi sono dei correttivi naturali, s'intende. I Paesi poveri importano risparmi e capitali dai Paesi ricchi, che li esportano. Inoltre, un'economia di mercato possiede meccanismi anche interni per fare affluire il risparmio agli investitori nella giusta misura. Se per esempio il risparmio è troppo, il risparmiatore sarà poco remunerato, e l'investitore potrà indebitarsi con poca spesa, finanziare con poca spesa la costruzione del nuovo stabilimento o l'acquisto delle nuove macchine. Supponiamo che il nuovo stabilimento e le nuove macchine rendano, prevedibilmente, il 10% come tasso di profitto al lordo degli interessi passivi; e supponiamo ancora che l'investitore debba cedere al risparmiatore-creditore, che gli ha prestato i soldi, solo il 4% sotto forma di interessi passivi, e non il 5 o 6%. In tal caso rimane all'investitore il 6% di profitto netto, e non appena il 5 o 4%. Gli investimenti sono incoraggiati e i risparmi sono scoraggiati, proprio ciò che occorre per eliminare l'eccesso di risparmi. Tali meccanismi di mercato sono preziosi, però non sempre operano con sufficiente tempestività e ampiezza. 7. La diagnosi keynesiana L'eccesso di risparmi libera una capacità produttiva esistente, che potrebbe essere impiegata per produrre beni di consumo, ai quali tuttavia si rinuncia. Al loro posto bisognerebbe produrre, con quella capacità produttiva liberata, più beni di investimento, altrimenti essa si sciupa, rimane senz'uso. Ma sappiamo quanto l'investimento dipenda dagli umori degli imprenditori, dal loro ottimismo o pessimismo: la caduta della domanda di beni di consumo può spingere la psicologia imprenditoriale verso il pessimismo, e indurre a investire di meno, non di più. E il pessimismo può trasformarsi in panico, quando la capacità produttiva inutilizzata significhi lavoratori disoccupati e privi di reddito, ulteriore contrazione dei consumi, maggior allarme generale per le prospettive di guadagno futuro. Il ragionamento keynesiano, assai critico verso il mercato, sottolineava il pericolo che le variazioni del tasso di interesse e degli altri prezzi, cui spetterebbe di riportare in equilibrio le domande e le offerte, non fossero efficaci, o peggio assicurassero l'equilibrio soltanto dopo una vasta caduta di tutti i redditi. Immaginiamo una situazione di partenza con un reddito nazionale potenziale pari a 100, che la gente voglia risparmiare per il 10%, mentre gli investimenti desiderati dagli imprenditori siano appena 8. Sembrerebbe che la domanda effettiva fosse pari a 98 (somma di 90 di consumi, più di 8 investimenti), sicché la capacità produttiva di 100 sarebbe disoccupata nella misura 2. Ma i keynesiani additavano una minaccia peggiore. Se i meccanismi riequilibratori non agiscono affatto, la discesa del reddito nazionale effettivo non si ferma a 98, ma prosegue fino a 80. Infatti, qualora la gente seguiti a voler risparmiare il 10% del reddito nazionale, questo deve essere al livello 80 perché i risparmi pareggino gli investimenti, che per ipotesi gli investitori mantengono al livello 8. Se poi il panico induce gli investitori a ridurre sotto il livello 8 i loro progetti di anticipazioni, anche il reddito nazionale scende sotto il livello 80. E’ facile verificare che, se la propensione al risparmio è fissa al 10% del reddito nazionale, alto o basso che sia questo reddito nazionale, esso vale 10 volte gli investimenti progettati: 8 di investimenti significano 80 di reddito nazionale; 6 di investimenti significherebbero soltanto più 60 di reddito nazionale. Chiamiamo I gli investimenti, X il reddito nazionale e s la propensione al risparmio (nel nostro caso s = 0,1, cioè 10%); allora abbiamo la formula generale: Ecco, nelle parole di Keynes, che cosa succede quando difetta la domanda effettiva e il mercato non provvede: «Quanto più ricca è la collettività, tanto maggiore maggiore tenderà ad essere il divario tra la sua produzione effettiva e quella potenziale... Se in una collettività potenzialmente ricca lincentivo ad investire è debole, essa sarà costretta, per effetto del principio della domanda effettiva, e nonostante la sua ricchezza potenziale, a ridurre la produzione effettiva, fino a quando essa sarà diventata tanto povera che l'eccedenza della produzione sul consumo sia discesa abbastanza per corrispondere alla debolezza dell'incentivo a investire... Ma in una collettività ricca, siccome il capitale già accumulato è maggiore, vi saranno possibilità meno attraenti di investimenti ulteriori, a meno che...» («Teoria generale», libro I, cap. III). 8. La cura keynesiana La ricetta di Keynes era di una semplicità estrema, tanto che prima di lui l'avevano scoperta e applicata, con successo, alcuni uomini politici anche non inglesi. In mancanza di una domanda effettiva spontaneamente adeguata alla capacità produttiva esistente, si susciti una domanda effettiva artificiale, che colmi la lacuna. In particolare, si effettuino investimenti pubblici (lavori pubblici) quanto basta per riportare l'economia al pieno impiego di tutte le risorse umane e materiali. Così, se ogni unità in meno di investimenti provoca - per esempio - 10 unità in meno di reddito nazionale, all'inverso, ogni unità in più di investimento (anche artificiale, pubblico) suscita 10 unità in più di reddito nazionale. I keynesiani parlano di moltiplicatore degli investimenti, riferendosi a questa proprietà degli investimenti di variare causando variazioni ampliate (in valore assoluto) del reddito nazionale effettivo. Occorre però stare bene attenti alla natura di tali effetti. 9. I limiti del keynesismo La cura di Keynes riguarda esclusivamente le domande, non le offerte. Non è che una unità in più di investimento aumenti la capacità produttiva e quindi l'offerta di 10 unità. Sappiamo che la conseguente offerta annuale potrebbe aumentare grosso modo di 1/3 o 1/4 di unità, secondo che il coefficiente di capitale sia 3 o 4. Keynes non si preoccupava dell'offerta, poiché pensava a un'economia in cui l'offerta era patologicamente fin troppa: anzi, a volte egli sembrava addirittura desiderare che si facessero investimenti che non accrescessero per nulla la capacità produttiva, investimenti improduttivi come sarebbe scavar buche in un campo per poi riempirle di terra. Egli puntava esclusivamente sull'aumento delle domande, e argomentava che una maggior domanda di beni di investimento, dando lavoro ai disoccupati, spingeva costoro ad aumentare anche la domanda di beni di consumo, con effetti moltiplicatori sul reddito nazionale. Se non che le formule keynesiane, come tutte le formule macroeconomiche, trattano le grandezze in gioco supponendole omogenee pur quando non lo sono e costituiscono invece degli aggregati eterogenei. Non basta suscitare una domanda qualsiasi per assorbire una capacità produttiva oziosa e un'offerta eccessiva: occorre che la qualità di tale domanda sia conforme alla qualità di tale offerta. Se la conformità non c'è, o la domanda si rivolge all'estero per importare ciò che vuole, o essa fa rincarare i prezzi nazionali senza trovare l'offerta che la soddisfi. In un caso e nell'altro, in nostri disoccupati restano disoccupati, e la crisi continua; anzi, può continuare aggravata, perché ai mali della stagnazione degli affari si aggiungono talvolta i mali dell'inflazione (stag-flazione o stagninflazione). In macroeconomia l'inflazione sembra impossibile fin tanto che esiste una capacità produttiva esuberante, ossia un'offerta sovrabbondante; ma se questa offerta non soddisfa i gusti della gente, la cui domanda si rivolge a beni non prodotti e non producibili nell'immediato, ecco manifestarsi il rincaro dei prezzi nonostante i disoccupati. All'origine della crisi Keynes poneva un eccesso di risparmio o un difetto di consumi, senza però chiedersi a sufficienza il perché di quell'eccesso o di quel difetto. Come escludere che i consumatori non trovassero sul mercato esattamente i prodotti che cercavano? Come escludere che i produttori fossero incapaci di soddisfare i bisogni e i desideri della gente? Forse gli imprenditori erano rimasti indietro, non avevano ammodernato abbastanza la loro offerta, proponevano beni superati nella qualità e nel costo, inducendo i clienti a fuggire, a cercare all'estero ciò che il mercato nazionale non offriva. O al contrario gli imprenditori erano troppo avanti, avevano ammodernato troppo la loro offerta, proponevano beni nuovi cui i clienti non erano ancora preparati. E' ovvio che cambiando la diagnosi dovrebbe cambiare anche la cura: in prima approssimazione parrebbe preferibile avere a che fare con abili imprenditori all'avanguardia, piuttosto che con imprenditori inefficienti di retroguardia. Se i nuovi prodotti che vengono offerti sono buoni, presto o tardi si imporranno quasi da sé; ma se i vecchi prodotti sono cattivi, occorrerebbe migliorare prima la testa degli imprenditori, per sostituirli convenientemente, e non si improvvisa una classe imprenditoriale più competente e più disposta all'innovazione. Ma purtroppo, questi temi non erano del genere che maggiormente interessava il keynesismo: essi dovettero attendere l'affermarsi della cosiddetta economia dell'offerta (supply-side economics) per tornare di moda e bilanciare analisi calate eccessivamente sulla domanda. Non intendiamo sostenere che il keynesismo fosse sbagliato: era parziale, andava bene per ispirare politiche di emergenza, rozze e di primo intervento, ma da sostituire, da affinare, a mano a mano che si procedeva nella comprensione della crisi e delle sue cause profonde. I critici del keynesismo proposero altri punti di vista complementari, più che alternativi: espressero teorie anch'esse parziali, che tuttavia integravano quelle di prima, spostando l'accento su aspetti trascurati. Al di là delle polemiche, gli economisti keynesiani e antikeynesiani collaborarono sostanzialmente per il progresso della loro scienza. Bibliografia De Vincenti C., Macroeconomia. Elementi Di Base, Carocci, Roma,2003 Izzo Claudio, Investimenti finanziari. Gli strumenti, i prodotti, i processi, i servizi. Caratteristiche e criteri di valutazione, Il Sole 24 Ore Pirola, , 2007 Keynes J. M., Terenzio Cozzi (a cura di), Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta. Torino, UTET, 2006 Modigliani F., Reddito, interesse, inflazione, Einaudi, Torino, 1987. Sitografia http://www.simone.it/cgi-local/Dizionari/newdiz.cgi?voce,6,1897 http://www.simone.it/cgi-local/Dizionari/newdiz.cgi?voce,6,2608 http://www.simone.it/economia/sos/la_spesa_pubblica.htm http://rivista.ssef.it/site.php?page=20040202173019203&edition=2006-05-01