enuma elish il mito della creazione

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enuma elish il mito della creazione
ENUMA ELISH IL MITO DELLA CREAZIONE
Scritto da Wolfman
EPICA DELLA CREAZIONE
Enuma Elish o “Poema della creazione”veniva recitato il quarto giorno del capodanno di
Babele, come inno di propiziazione. Il titolo del poema è dato dalle sue parole iniziali, enuma
elish, appunto. L’urigallu, il gran sacerdote, lo declamava davanti alla statua di Baal (Marduk),
verso sera. In quell’occasione le statue degli altri dei dovevano restare coperte, per deferenza
verso il dio nazionale, Marduk. Lo scopo dell’inno era pertanto celebrativo, della capacità di
Marduk come ordinatore del cosmo, capacità che gli ha permesso di salire da un secondo
rango di divinità fino ad essere di diritto il capo del Pantheon.
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Il poema consta di sette tavole e, oltre a quello celebrativo, ha anche lo scopo di descrivere
una cosmogonia. L’autore quindi parte dal tempo dei primordi, da prima dell’origine del tutto,
come accade in Genesi.
Probabilmente, accanto alla versione “canonica”, presso i babilonesi esistevano altre versioni
di questo mito, soprattutto se si pensa alla consuetudine di trasmettere oralmente la cultura (le
tavolette cuneiformi erano un lusso, riservato agli archivi di stato e a pochi ricchissimi, e la
scrittura cuneiforme non era poi così diffusa, perché molto difficile da apprendere). Dell’autore
nulla sappiamo, perché presso i babilonesi non si teneva conto della paternità delle opere
letterarie di nessun tipo. L’epoca di composizione è fissato dagli studiosi verosimilmente al
tempo della prima dinastia di Babele, ma non vi sono riferimenti certi: altri ad esempio la
collocano nell’ottavo secolo, al tempo del re assiro Tiglatpilsiter III, che dominò anche su
Babilonia, e individuano l’autore in un assiro e non in un babilonese.
Sino a noi sono giunte quattro redazioni del poema: una neo Babilonese, una neo Assira
(dalla biblioteca di Assurbanipal a Ninive) e una assira più antica, ai tempi in cui fioriva la
capitale Assur, e infine una pre-Babilonese, di cui si conosce solo un piccolo frammento
rinvenuto negli scavi di Kish. Ma anche i frammenti più antichi, di epoca prebabilonese, non
possono comunque essere più antichi del regno di Hammurabi (1955 – 1913), periodo storico
nel quale Marduk fu proclamato dio nazionale. E’ certo in ogni caso che il poema fu
modellato su un racconto dedicato a Enlil, il dio della terra, il più potente prima di Marduk. La
struttura e lo stile mostrano caratteri di forte unitarietà, e da qui vien da congetturare che
l’opera sia stata scritta da un solo scriba. Molti racconti circolavano in Babilonia, intorno
all’origine del mondo, la comparsa degli dei, degli animali, dell’uomo, le lotte primordiali fra i
principi del bene e del male simboleggiato da mostri terribili. L’autore dell’Euma Elish aveva
quindi molto materiale da rielaborare.
Il poema si chiude, al settimo canto, con un inno ai 50 nomi di Marduk, ed è questo un
elemento che rafforza l’ipotesi che esso sia una rielaborazione del poema dedicato a Enlil:
infatti il numero 50 era sacro a questo dio.
L’epopea può essere divisa in cinque parti: la genealogia degli dei, che è certamente sumera,
con qualche lieve aggiunta, la vicenda di Ea e Apsu (mito eridiano del drago), il mito del drago,
il racconto della creazione, l’inno dei cinquanta nomi.
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Le divinità presentano caratteri antropomorfici, ma il racconto è permeato di simbologie
astrali dell’ultimo periodo della religione mesopotamica, anche se non conosciamo con
precisione il significato di questi riferimenti astrali. Ogni dio rappresenta un carattere
naturale, e lo si vede specialmente nel conflitto fra Marduk e Tiamat (il primo
rappresenterebbe la primavera, il secondo l’inverno). Il mito infatti si celebrava in primavera,
per propiziare il favore degli dei sulle seminagioni: può essere il racconto del sorgere del sole
(Marduk) e del suo affermarsi all’orizzonte, con riferimento all’anno che sorge. Ma
l’antropomorfizzazione è talmente evoluta che si fatica a riconoscere il significato che sta dietro
al racconto. Anche le prime divinità, che si riferiscono all’acqua, potrebbero avere un
significato legato al ciclo delle stagioni, ma potrebbero avere anche un significato di vittoria del
bene sul male, dell’ordine sul disordine.
Dal punto di vista letterario abbiamo un linguaggio altamente poetico e molto raffinato, che fa
pensare alle classi colte. Ogni distico consta di due emistichi, separati da una specie di
cesura, che non coincide solo con la pausa del ritmo e del respiro, ma anche con il senso di
ciò che si dice. Si può ipotizzare anche che il poeta abbia voluto dividere il lavoro in sei parti
(la settima parte, ricordiamo, è la celebrazione dei nomi di Marduk e appare quasi come a se
stante), richiamandosi a un significato astrale. Per conservare la divisione infatti, talvolta
chiude nel bel mezzo di un’azione una certa parte, per proseguire l’azione nella parte
successiva.
Man mano che sono stati conosciuti dalla cultura contemporanea, i miti di altri popoli ancora
primitivi, sono stati presi come un riferimento per lo studio del mito classico. Essi contengono
elementi che ci fanno capire che il testo di Esiodo è immerso in un clima culturale che
conosce molti miti oltre a quelli omerici. L’Enuma Elish è uno dei miti che sicuramente furono
conosciuti dai greci dell’età omerica, e che in qualche modo influenzarono anche la mitologia
greca. Pertanto, raccontiamo brevemente questi miti, attingendo a una vecchia ma
autorevole traduzione (Testo curato da Giuseppe Furlanio, edito da Zanichelli nel 1934
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Quando di sopra non era ancora nominato il cielo
di sotto la terra ferma non aveva (ancora) nome,
l’Apsu primiero, il loro generatore,
Mummu e Tiamat, la generatrice di tutti: loro,
le loro acque insieme mescolavano,
ed essi non portavano (ancora) un nome, e i destini
non erano ancora stati destinati,
furono procreati gli Dei in mezzo ad essi.
Ecco che il poema ci mostra prima di tutto alcune super divinità primitive, i fondamenti del
mondo divino, naturale ed umano, e le identifica con tre divinità superiori. Apsu “primiero”,
primo; pare che sia, secondo gli interpreti, l’acqua primordiale che viene divinizzata. L’acqua
dolce primordiale, bevibile (siamo in Mesopotamia, dove l’acqua è molto importante). Invece
Tiamat è l’acqua salata del mare, amara. In questo stato primordiale queste due forze erano
mescolate, insieme a Munmu, che è di dubbia identificazione: pare che sia lo scroscio
dell’acqua, lo scroscio della pioggia. Qui possiamo fare un riferimento al caos primordiale
esiodeo, l’abisso scuro, l’apertura primordiale, un universo non ancora ordinato; possiamo
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anche fare un riferimento al racconto biblico, che è inserito anch’esso in quel clima culturale. In tutti i miti orientali c’è questa affermazione, che all’inizio c’è una mescolanza di acque e Dio
che pone il fondamento del cielo e della terra.
Qui incomincia la narrazione dell’esistenza di questi Dei. Non sono tutti posti nell’ordine
genealogico, perché le prime due divinità che emergono da questo mondo primordiale,
emergono proprio dalla terra, vengono al mondo ma non si sa per opera di chi. Pare che
siano rappresentanti della luce e delle tenebre o del principio maschile e del principio
femminile (luce maschile e tenebre femminile). Poi si parla di altre divinità che rappresentano
il mondo celeste, il mondo terrestre, una divinità che rappresenta la sapienza, la forza, la
saggezza.
Lahmu e Lahamu furono creati e ricevettero il nome.
I secoli divennero molti e crebbero.
Anshar e Kishar furono procreati molto tempo dopo di essi.
Essi allungarono i giorni e aggiunsero gli anni.
Anu, il loro figlio, pari ai suoi padri,
Anshar fece Anu, il suo primonato uguale a se stesso,
e Anu procreò quale suo uguale Nudimmud [Ea]
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Nudimmud che era il principe dei suoi padri,
era di vasta sapienza, saggio, potente di forza,
molto più forte del suo procreatore, padre Anshar.
Insisterei su una divinità, che prende il nome di Ea, che rappresenta la saggezza, ed è un
protagonista, se così si può dire, del poema stesso. Non c’è qui la sistematicità che c’è in
Esiodo, anche perché questo poema non ci presenta tutta la narrazione del mondo, ma solo la
parte iniziale.
Queste diverse divinità danno molta noia alle due vecchie divinità, Apsu e Tiamat. Il t6esto
prosegue narrando che questi Dei, nati dalla prima generazione, si agitano dentro Tiamat, con
prepotenza e frastuono, disturbando il sonno di Apsu che, chiamato Mummu (nella veste di
servitore e messaggero) lo injvia a Tiamat dichiarandogli il suo intento di uccidere la prole. Tiamat se ne dispiace ma Apsu, consigliato da Mummu, non desiste. Pare dunque che la
storia del mondo si evolva perché Ea e le altre giovani divinità fanno rumore. Il vecchio Apsu
vuole dormire e si lamenta con Tiamat. Anche lei si lamenta dal comportamento di questi Dei,
che diventano sempre più prepotenti. Qui forse c’è la contrapposizione fra il mondo
primordiale, fisso, e le nuove forze che si manifestano. O, per alcuni versi, sembra anche la
narrazione che giustifica le piene del Tigri e dell’Eufrate (Apsu, l’acqua dolce e Mummu, lo
scroscio di pioggia, che tendono a soffocare ciò che evolve).
Proseguendo nel racconto, il vecchio Apsu dice a Mummu: andiamo da Tiamat. Giunto in
presenza di Tiamat dice Apsu a Tiamat: "io distruggerò queste forze, perché regni la
tranquillità". Tiamat si adira per questo e non vuole. Risponde: "come distruggeremo noi ciò
che abbiamo fatto"? Qui si manifesta la contrapposizione, riscontrabile in molte mitologie, fra
forze buone e giovani e forze primordiali. Mummu invece insiste e incoraggia Apsu a
proseguire. La notizia di questo progetto di Apsu giunge ai giovani Dei.
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Il Dio Ea crea (questo è un fatto che non troviamo in Esiodo) una specie di incantesimo, una
figura magica che il racconto non spiega bene in cosa consista, e che presenta ad Apsu
pronunciando insieme uno scongiuro (ecco il senso del magico che esiste solo come traccia
nei miti greci). Apsu si addormenta. Del fatto approfitta Ea per ucciderlo e insieme a lui il
consigliere Mummu. Ea Fissa la sua dimora proprio nel luogo dove ha posto il cadavere di
Apsu. Inizia la nuova era per gli Dei. Da Damkina, sua moglie, Ea genera il figlio Marduk e
dal verso 79 al verso 103 abbiamo la prima esaltazione del dio destinato a diventare
l’ordinatore del mondo e il preminente fra gli dei. Segue poi il racconto del disappunto di
Tiamat e dei suoi preparativi per vendicare il marito, alleandosi al potente mostro Quingu e ad
una schiera di terribili divinità.
Qui non si parla di castrazione, come in Esiodo e nel mito di Kumarbi. La nuova generazione
degli Dei succede alla vecchia per via di un fatto violento. Figlio di Ea, è quella divinità
massima adorata dagli Assiri-Babilonesi: Marduk. Nasce Marduk, già un essere di
straordinaria grandezza e potenza, che si esprime anche nella statura. Eredita dal padre
anche la sapienza e l’intelligenza. Ora, la forza, la potenza di Marduk, viene messa subito a
prova per il fatto che Tiamat non si rassegna e organizza la repressione, scatenando una
guerra contro i giovani Dei.
La seconda tavola narra la costernazione e lo sgomento di fronte ai propositi di Tiamat. Ea e
Anu vanno per affrontare Tiamat e calmarla, ma siccome hanno paura se ne tornano indietro. Nell’assemblea degli Dei convocata apposta per risolvere questo problema, si presenta
Marduk, figlio di Ea, che afferma di essere in grado di sconfiggere Tiamat, ma chiede in
cambio il sommo potere nel mondo divino (terza tavola).
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Si fece avanti Marduk, il saggio tra gli dei, vostro figlio.
Di andare avanti a Tiamat egli decise.
Egli aprì la sua bocca e mi disse:
“se io, vostro vindice,
lego Tiamat e vi libero
raduna l’assemblea, fa strapotente il mio destino e rendilo noto.
Chiedono gli dei (quarta tavola) una verifica di questa capacità di Marduk. Anche qui si
compie una magìa. Gli pongono davanti un mantello che egli distrugge e fa ricomparire. Questo è manifestazione della potenza straordinaria di Marduk. Sazi e ubriachi di vino e di
birra, affidano dunque il loro destino a Marduk.
Egli montò sul carro della tempesta inoppugnabile, terribile.
Egli attaccò ad esso quattro attacchi e li legò al suo lato.
Il Distruttore, l’Implacabile, l’Abbattitore, l’Alato.
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Acuti erano i suoi denti e portavano veleno.
Va dunque il dio, e con l’aiuto di forti venti che porta con sé, riesce a far aprire la bocca a
Tiamat. Ella getta contro di lui un incantesimo, che sembra farlo vacillare, ma il dio si riprende
e lancia contro Tiamat il ciclone. Tiamat è costretta ad aprire la bocca, e i venti cattivi la
ingorgano, paralizzandola. Marduk la colpisce con una freccia, penetra con la spada nella
bocca di Tiamat e la distrugge, facendo scempio del suo cadavere e segnando la vittoria dei
nuovi Dei. Taglia in due il corpo di Tiamat: la parte superiore la fissa nel cielo e la parte
inferiore nella terra.
Egli la spaccò in due parti come un’ostrica.
Metà di essa egli rizzò e coprì con essa il cielo.
Egli tirò un chiavistello e stabilì guardiani.
Egli ingiunse loro di non lasciar uscire la sua acqua.
E’ Marduk allora che crea l’universo (tema della quinta tavola), perché fino ad allora c’erano
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queste forze primordiali ma non esisteva ancora l’universo. E’ Marduk poi che stabilisce il
corso delle stelle, che stabilisce il calcolo degli anni,. ecc, che dà ordine a questo universo. Ed
esercita esattamente la funzione che Zeus esercita nel mito Esioideo.
La presenza dell’uomo è solo una vicenda di contorno, di secondaria importanza, narrata nella
sesta tavola. Gli Dei infatti non hanno nessuno che li serva, e così vengono formati gli uomini. Secondo questo mito dunque gli uomini sono stati creati per servire gli Dei. La religione
babilonese infatti prevedeva che il sacerdote nel tempio offrisse per quattro volte al giorno del
cibo agli Dei.
La settima tavola, come si è detto, è un elogio dei 50 nomi di Marduk.
I miti mesopotamici e la teogonia di Esiodo
Appunti da una lezione del Prof. Aldo Bonetti, dell’Università Cattolica di Brescia
Questo mito era recitato durante una processione in Babilonia, all’inizio del nuovo anno,
processione che andava fino al tempio di Marduk. Riprendeva infine quelle che erano le
vicende che avevano portato all’ordinamento dell’universo e che permettevano di poter
cominciare di nuovo la vita. La recita del mito era una specie di codice morale che veniva
ricordata agli uomini di Babilonia, perché potessero compiere il loro dovere e poter terminare
felicemente la loro esistenza.
Quali riflessioni possiamo fare? Sia nell’Enuma Elish che nella Teogonia, abbiamo due
tentativi di ordinare il mondo divino, partendo dalle forze primordiali, con qualche somiglianza
fra le diverse divinità. C’è per esempio una grande somiglianza fra Marduk e Zeus, anche se il
modo in cui procedono è diverso. C’è anche una differenza essenziale: il mondo è formato da
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Marduk alla fine del processo di contrasti divini, mentre invece per Esiodo si va formando fin
dalle prime generazioni divine.
Abbiamo in comune anche questa traccia dell’oppressione degli Dei nel seno materno ad
opera del loro genitore: i Titani sono repressi nel seno di Gaia, e così i nuovi dei dell’Enuma
Elish
nel seno
di Tiamat. Abbiano però una concezione molto diversa per quanto riguarda l’uomo, anche se
nella Teogonia non si parla della creazione dell’uomo. In ogni caso, Esiodo non parla di un
uomo servo degli Dei, ma da essi autonomo, almeno in linea di principio. L’uomo servitore
degli Dei è un dato caratteristico del poema babilonese.
Non possiamo dire quindi che la genealogia degli Dei descritta nella Teogonia sia una
creazione personale di Esiodo. Egli può avere certamente ricevuto l’influsso di questa
tradizione mitica, anche se non abbiamo documenti per testimoniarlo. Però è plausibile che
Esiodo abbia ricevuto informazione di questi miti, forse in forma indiretta, forse sotto forma di
altri miti simili a questo. Può darsi che Esiodo non faccia altro che riprendere certe forme
comuni dei miti, alcune delle quali si trovano nell’Enuma Elish, col proposito di dare loro una
loro sistematica esposizione. Non dobbiamo infatti dimenticare che i miti sono fissati
definitivamente con la scrittura in epoca abbastanza tarda e che quindi non era facile ad un
greco leggere questi testi (scritti non in greco): era pertanto necessaria l’elaborazione di un
testo che mettesse un po’ d’ordine in racconti che rischiavano di contraddirsi e confondere
l’ascoltatore.
La successione teogonica di Esiodo ha ancora un preciso parallelo in un testo ittita risalente
al XIII secolo A.C. (il “mito di Kumarbi”), ma derivante da un più antico mito Hurrita. Si tratta di
quattro divinità, invece delle tre di Esiodo, che lottano per conseguire il potere: Alau, Anu,
Kumarbi e il Dio delle Tempeste (Giove).
Alalu è vinto da Anu. Ma Kumarbi, discendente di Alalu, lo vince, lo insegue e ne inghiotte la
virilità. Ma gli disse Anu:
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"Nel tuo interno ti rallegri perché hai inghiottito la mia virilità. Non rallegrarti nel tuo interno. Nel tuo interno un peso ho messo: in primo luogo ti ho ingravidato col grave Dio delle
Tempeste; in secondo ti ho ingravidato col fiume Tigri irresistibile e in terzo luogo ti ho
ingravidato col grave Dio Tasmisu. Tre Dei tremendi nel tuo interno…"
La somiglianza col testo Esioideo è vistosa, anche nei nomi (Anu = cielo – Urano). Come
Urano Anu viene evirato e dalla sua mutilazione nascono altre divinità. Kumarbi, porta dentro
di sé la sua prole, come Crono, con la differenza che non divora i figli dopo averli fatti, ma li
genera vomitandoli. Infine, il Dio delle Tempeste ha chiaramente i caratteri di Zeus. D’altra
parte, la grande letteratura trasfigura i soggetti che prende come tema. Ma l’abilità di Esiodo
sta piuttosto non in questo, ma nella capacità di inserire questo mito, che si esaurisce nel
semplice racconto, in un processo teogonico e cosmogonico di carattere unitario, congiunto ad
altri racconti in un continuum. C’è un tentativo di sistematizzare e collegare fra di loro in
complessi organici, elementi che nella mitologia orientale appaiono come episodi staccati e
disorganizzati fra loro.
Un altro di questi miti ittiti ci viene raccontato da Eusebio di Cesarea, un Padre della Chiesa
vissuto nel III – IV secolo (riportato nella sua opera “Preparatio evangelica”). Eusebio attinge
il suo racconto da un testo, oggi ormai perduto, di Filone di Biblos, autore del II secolo d.C. Filone, racconta Eusebio, dice di narrare il contenuto della storia dei Fenici, scritto a sua volta
da un autore che sarebbe vissuto prima della guerra di Troia. Ovviamente questo racconto di
terza mano, giunto fino a noi per mezzo di un autore lontano tredici secoli dalla sua fonte, ha
sempre lasciato molto scettici gli studiosi. Si riteneva impossibile che la narrazione di un
autore vissuto prima dei fatti narrati da Omero potesse giungere fino a Eusebio, e si era
propensi a credere che il racconto di Eusebio fosse una finzione letteraria, una sua
invenzione. Fatto sta che nel corso di scavi relativi alla città di Ugarit, furono scoperti
documenti che confermano in gran parte il racconto di Eusebio tramandato da Filone, di
modo che ciò che sembrava un’invenzione fantastica, viene considerata oggi una fonte
attendibile per conoscere questo grande mito.
Filone racconta che la divinità fenicia di El, che corrisponde al Cronos greco, figlio di divinità
che corrispondono a Gaia e Urano, avrebbe spodestato il padre. Qui lo schema si stacca dal
racconto analogo di Esiodo, nel senso che l’Urano fenicio avrebbe più volte tentato di
riconquistare il potere, ma senza successo, fino a quando, dopo anni di guerra El avrebbe teso
un’imboscata al padre e in quell’occasione lo avrebbe evirato, sconfiggendolo definitivamente.
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Vi sono altre differenze col mito di Esiodo. Innanzitutto non risulta che l’agguato fosse
condotto d’accordo con la madre (come nel caso di Gaia e Cronos). Inoltre dall’evirazione del
padre non nascono altri dei come nel caso di Urano: semplicemente viene spiegato
l’arrossamento annuale che avviene in un certo fiume della Siria.
Nello stesso miti fenicio, queste divinità sono interpretate da Filone come uomini che sono
stati divinizzati per le loro imprese. É questa una tendenza interpretativa del mito, che risale
allo studioso greco Evemero, del III secolo a.C. (340-260 – evemerismo), con la differenza
che costui applicava la tesi al solo mito greco, mentre Filone la applica anche al mito fenicio. Su questo punto gli studiosi sono incerti se attribuire la tesi della divinizzazione di uomini a
Filone, oppure se il mito stesso contenga questo elemento. Certo è che nello stesso mito
fenicio è contenuta la narrazione della fondazione del mondo, che non viene fatta risalire a
questi Dei, e questo dato potrebbe suggerire che il resoconto di Filone sia quello originario,
ossia il pensiero degli antichi fenici che celebravano il mito. Il mito della cosmogonia, che noi
conosciamo solo per il riassunto dello stesso Filone, narra infatti che dal caos originario (inteso
come mescolanza di elementi, come un vento scuro che si diffonde senza limiti di spazio e
tempo) sarebbe stata generata una mescolanza, un insieme di elementi chiamato Desiderio. Da Desiderio proverrebbero tutte le cose, le acque, il cielo, il firmamento, la terra e quindi gli
esseri umani.
Di fatto dunque, questi racconti ci fanno capire che la “Teogonia” di Esiodo debba essere
inserito in un più vasto contesto culturale. Concludiamo ribadendo che questo non significa
che noi abbiamo ricostruito le fonti della “Teogonia”, ma abbiamo ricostruito quella complessa
e incerta tradizione mitica nell’ambito della quale, per canali che noi non possiamo verificare
pienamente, si svolge il mito raccontato dal poeta greco.
Fra gli antichi miti, soltanto quello biblico della creazione non fa risalire l’origine di Dio a
qualcosa di promordiale (l’abisso o altro). Dio, qui, non è creato da nessuno, nessuno lo
genera ed Egli non è compreso da spazio o da tempo alcuno. Piuttosto, egli crea e non solo
ordina le grandi strutture del cosmo. Il Dio biblico non ha bisogno di combattere contro altre
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forze: egli semplicemente vuole e ciò che egli vuole accade. Nelle poche righe del Genesi che
narrano la creazione del mondo, vi è dunque una sostanziale differenza del racconto, anche
se molti elementi sono comuni con le altre mitologie. Ovviamente però, sarà solo la tradizione
interpretativa più matura, dopo l’incontro con la filosofia greca e con il pensiero cristiano, che
farà emergere nella loro consistenza queste differenze.
Concludiamo con un accenno alle tradizioni egiziane, visto che la riprenderemo parlando di
Talete di Mileto (filosofo-sapiente che studiò molto a fondo la cultura egizia). Si tratta di un
racconto che ricaviamo da poche righe di un testo, che risale a parecchio tempo prima di
Talete, di datazione incerta, ma collocabile a circa 2.400 anni prima di Cristo, e da cui si può
ricavare quella che poteva essere la cosmologia degli antichi egizi. Questo testo a cui facciamo riferimento è una invocazione al Dio creatore, identificato col nome di Atun, che
viene identificato col sole, e dice: "O Atun, tu eri sulla collina primordiale, la prima terra sorta
dalle acque
". Gli egiziani consideravano dunque l’acqua
primordiale, a cui davano il nome di Nun, come la realtà da cui tutto procedeva. La terra,
questo colle primordiale, emerge dall’acqua, e su questa prima collina che emerge, il Dio
comincia a compiere la sua opera, che è rappresentato in maniera fantasiosa. La prima
divinità, il dio dell’aria, che proviene da uno sputo di Atun, e altri particolari. Bisogna
comunque chiarire, che la religione egiziana non ha mai avuto una struttura unitaria, ma è
stata composta da una molteplicità di diverse tradizioni. Ci sono ad esempio, oltre a questo
testo, altre dottrine che sono state scritte, è vero, in un periodo molto più vicino a noi (700
a.C.), ma il cui contenuto risale a 2.000 anni prima, più o meno alla stessa epoca del testo
precedente, ed è stato tramandato oralmente. Qui si parla di un altro Dio creatore, Tah, che
crea tutti gli dei e tutte le cose. Quello che ci interessa, è che questo Dio forma il mondo in
maniera assai diversa. Prima pensa il mondo nel suo cuore e poi lo porta all’essere con la sua
parola. Il nome fa sussistere nella realtà: la parola crea il mondo. Ne deduciamo che siamo in
presenza di un pensiero molto più complesso, anche se poi questa divinità è concepita
materialistica-mente e antropomorfica-mente e quindi miticamente.
Io vorrei però chiudere il capitolo sul mito medio-orientale, proprio confrontandolo con la fede
nell’immortalità dell’anima nel pensiero cristiano. La fede cristiana non è una dottrina
filosofica, ma è in collegamento con la filosofia greca. Come è stato accolto l’insegnamento
cristiano in un mondo ancora sotto l’influsso delle tradizioni religiose mitiche? Non è subito
chiaro dimostrare in che grado siano sopravvissute e fino a che era, neppure per
approssimazione, queste culture. Tracce di esse sono riscontrabili nei testi degli storici
medioevali, che narrano di riti magici e pratiche religiose ricollegabili agli antichi miti.
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Uno di questi storici ci racconta come poteva essere accolta la fede cristiana in Francia, e il
problema dell’immortalità dell’anima. Racconta che un certo re Edvino, spinto a convertirsi al
cristianesimo, volle prima discutere la sua convinzione con i suoi bardi.
Uno dei signori presenti al consiglio, prese la parola e disse: quando io penso re, al corso di
questa nostra vita terrena e vado paragonandola ai tempi di cui nulla sappiamo, mi viene in
mente un’immagine. In una sera d’inverno tu siedi e intorno ti stanno capitani. Il fuoco è
acceso, la stanza è calda. Ed ecco che entra rapidissimo un passero smarrito e traversa la
sala ed esce di nuovo nella notte. Mentre è nella stanza, non lo tocca il gelo invernale, ma già
quell’attimo è trascorso, ed eccolo ancora travolto nelle tempeste. Tale o sire mi sembra la
vita. Quello che fu, quello che sarà, noi lo ignoriamo. … E siccome la fede ci reca una
speranza, ebbene, ascoltiamola.
Sullo sfondo c’è quella sfiducia che l’uomo sembra avere nella sopravvivenza. Però la novità
per questi popoli era il messaggio dell’immortalità, o, se vogliamo dirla in termini
filosofico-teologici, della salvezza. Di fronte alla consapevolezza del limite terrestre, la
religione cristiana predicava la vita oltre la morte, elemento che il pensiero mitico non
possedeva. Questo è anche un elemento importante di differenziazione fra la teologia che si
ispira al mito e la teologia che si ispira al pensiero cristiano, che è compatibile con il pensiero
razionale. Infatti, studiando filosofia, assistiamo alla comparsa della riflessione filosofica su
Dio e la religione, e la riflessione sul significato dell’esperienza religiosa nella vita dell’uomo,
che è riflessione del pensiero razionale.
FONTE
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