Relazione per l`Inaugurazione dell`Anno delle Pari Opportunità per

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Relazione per l`Inaugurazione dell`Anno delle Pari Opportunità per
Università Commerciale Luigi Bocconi
Econpubblica
Centre for Research on the Public Sector
SHORT NOTES SERIES
Per una crescita di tutti: formazione, lavoro,
conciliazione
Alessandra Casarico, Paola Profeta
Short note n. 18
May 2007
www.econpubblica.unibocconi.it
Per una crescita di tutti: formazione, lavoro, conciliazione1
di Alessandra Casarico e Paola Profeta
Università Bocconi
1. Introduzione
Le pari opportunità sono largamente accettate come obiettivo socialmente rilevante. Dal punto di
vista dell’economista, il loro perseguimento è tipicamente dettato da ragioni di equità. In questo
intervento argomenteremo che la promozione delle pari opportunità come obiettivo equitativo non è
in contrasto con la crescita e lo sviluppo economico. Al contrario, le pari opportunità possono
rappresentare un fattore produttivo che influenza positivamente la crescita di tutti. In questa
prospettiva, le pari opportunità sono un investimento per individui, imprese e società nel suo
complesso, non un costo o un vincolo.
L’impegno per la promozione delle pari opportunità come fattore produttivo che stimola la crescita
coinvolge tre dimensioni: formazione, lavoro e conciliazione.
L’investimento in capitale umano attraverso istruzione e formazione è il primo canale per la
promozione di uguaglianza di opportunità tra individui diversi per livello di reddito familiare, età,
genere, razza e altre caratteristiche individuali. Esso stimola i talenti innati, la produttività e il suo
corretto riconoscimento da parte della società. Mobilità sociale, riconoscimento del merito e delle
abilità personali emergono tipicamente in società con più elevati livelli di istruzione.
Il beneficio in termini di crescita non si concretizza però se l’investimento in istruzione e
formazione non dà i suoi frutti sul mercato del lavoro. E’ necessario che le competenze acquisite
siano opportunamente allocate, per impiegare al meglio le risorse umane già disponibili, e per
incentivare alla formazione di ulteriori.
Questo passaggio da istruzione a mercato del lavoro chiama in gioco tutti: le imprese, nella loro
scelta di promuovere le pari opportunità rivolgendo la domanda di lavoro a tutti gli individui,
giovani, anziani, uomini, donne, italiani, stranieri; le famiglie, nella ricerca del modo migliore per
conciliare il lavoro con altri ruoli specifici del singolo componente (pensiamo alle donne, madri e
lavoratrici), e il governo, nella proposta di politiche che rendano questa conciliazione il più
automatica possibile.
2. Obiettivo: crescita.
L’impegno in questa triplice direzione è cruciale per il futuro del nostro Paese, caratterizzato da
crescita contenuta, anche se in ripresa negli ultimi trimestri - il tasso di crescita medio annuale del
PIL procapite dal 2000 al 2006 è stato pari all’1,2%; disuguaglianza piuttosto elevata - l’indice di
Gini, che misura il grado di disuguaglianza nella distribuzione del reddito, era pari nel 2005 al
34,7% e meno del 28% in Francia e in Germania -; occupazione in crescita negli ultimi 10 anni (di
circa il 10%) fino a un tasso pari al 57,6% nel 2005, ma ancora al di sotto della media europea a 25
(63,8%).
Crescere di più, salvaguardando l’uguaglianza, è dunque un obiettivo prioritario. Cerchiamo di
capire perché promuovere le pari opportunità, seguendo le tre direzioni che abbiamo indicato, ci
possa aiutare a raggiungerlo.
Gli studi economici concordano sui principali fattori che determinano il livello del PIL e la sua
crescita. Il numero di ore lavorate e la produttività sono cruciali. Se guardiamo al tasso di
1
Relazione di apertura del workshop “Per una crescita di tutti: formazione, lavoro, conciliazione”, Inaugurazione
dell’Anno Europeo delle Pari Opportunità per Tutti, Roma 3 Maggio 2007.
occupazione, che definisce in larga parte il numero di ore lavorate, due anomalie caratterizzano
l’Italia: il basso tasso di occupazione delle donne e degli ultracinquantacinquenni. Questo mancato
utilizzo della forza lavoro potenziale determina, secondo i dati OCSE, una perdita di almeno il 10%
del PIL italiano, calcolato rispetto a quello statunitense.
La promozione delle pari opportunità potrebbe o dovrebbe essere orientata a recuperare queste due
anomalie. Soffermiamoci in particolare sull’occupazione femminile.
2.1 Occupazione
Il tasso di occupazione femminile tra i 15 e i 64 anni è stato pari, nel 2006, al 46% (14 punti
percentuali sotto obiettivo di Lisbona) contro il 70,7% per gli uomini. Nelle coorti più giovani, il
tasso di occupazione femminile è più elevato ed è pari al 58,8% (per il gruppo 25-34 anni),
suggerendo una prospettiva più ottimistica sulla partecipazione delle donne. Tuttavia il divario con
gli uomini, il cui tasso di occupazione nello stesso gruppo di età è superiore all’ 80%, resta
significativo. I differenziali regionali sono altrettanto marcati: il tasso di occupazione femminile
(nella classe 15-64) è nel Nord pari al 56%, mentre nel Mezzogiorno è fermo al 31%.
Alcuni aspetti più specifici sull’occupazione femminile sono interessanti. Se ci soffermiamo sulle
tipologie di impiego delle donne, negli ultimi anni c’è stata una forte crescita delle tipologie di
lavoro flessibile o precario (part-time e lavoro a tempo determinato). Sul totale delle donne
occupate, il 26% ha un contratto part-time, mentre per gli uomini questa percentuale è pari al 5%.
Anche l’occupazione a tempo determinato è più alta per le donne: 14,7% contro 10,5% degli
uomini. Il part-time è più diffuso nel Centro-Nord, mentre il lavoro a tempo determinato domina al
Sud. La ricerca di maggiore flessibilità al Nord sembra riflettere l’impossibilità delle donne di
conciliare tempo della famiglia e del lavoro, un problema tipicamente italiano. Nel nostro paese i
dati mostrano che la responsabilità familiare è la causa principale di inattività. Non è così nel resto
d’Europa. D’altro canto, ancora maggiori sono le difficoltà lavorative delle donne al Sud, se la
maggior parte deve ripiegare su lavori a tempo determinato.
La diffusione del part-time, sulla linea degli altri Paesi Europei, è desiderabile se l’obiettivo è
aumentare l’occupazione femminile e se è una scelta ed una opportunità per le donne. Ma stiamo
attenti alla minaccia di nuove forme di segregazione occupazionale, con le donne relegate in lavori
precari, meno remunerativi e meno prestigiosi, peraltro non giustificate dai dati sui livelli di
istruzione, nella quale uomini e donne sono pressoché alla pari.
Un ulteriore aspetto interessante è la crescita della presenza femminile nelle libere professioni e
nell’imprenditoria, dove le donne hanno raggiunto il 29,2%. La presenza delle donne imprenditrici è
relativamente più elevata al Nord-Ovest e al Centro. Questo dato ha una duplice interpretazione. Da
un lato testimonia la presenza di donne in Italia con elevate capacità, conoscenze e volontà, sempre
più disposte ad intraprendere un’attività in proprio, in linea del resto con i loro successi scolastici.
Dall’altro è un segnale che queste donne hanno pochi spazi di crescita e di accesso a posizioni
prestigiose nei lavori dipendenti e optano quindi per professioni autonome. L’esigenza di
flessibilità, poco diffusa nelle aziende, è un altro incentivo, per chi può, a mettersi in proprio. Una
società che premia il merito e il talento non discrimina le donne e rispetta tempi ragionevoli di
lavoro, favorendo la presenza di donne imprenditrici di pari passo con la promozione di donne ai
vertici di aziende di rilievo.
Dato il limitato utilizzo della forza lavoro femminile, un suo maggiore coinvolgimento è, per
l’Italia, la soluzione più naturale cui pensare se l’obiettivo è la crescita. La maggiore occupazione
ha un impatto diretto positivo sul PIL. Ma non è solo una questione di numero.
Effetti più ampi sulla crescita si possono conseguire se si stimola, o quanto meno non si
disincentiva, l’investimento in capitale umano e la produttività femminile.
2.2 Investimento in capitale umano e produttività
Sul fronte dell’investimento in capitale umano, le donne hanno talenti innati e livelli di istruzione
mediamente non inferiori agli uomini. I dati di Almalaurea relativi al Profilo dei Laureati del 2005
mostrano che la percentuale di laureate è più elevata rispetto alla composizione per genere della
popolazione (60% contro il 49% nella classe di età 15-24); la loro performance, misurata sia in
termini di età alla laurea sia di punteggio agli esami e voto di laurea, è migliore di quella maschile.
Neanche la scelta delle Facoltà sembra un elemento determinante dello svantaggio femminile sul
mercato del lavoro: con l’eccezione di Ingegneria, le donne sono presenti in eguale o maggior
numero in tutte le altre Facoltà (comprese quelle scientifiche e giuridico-economiche). Eppure non
era così anni fa, quando gli investimenti in capitale umano femminile erano decisamente inferiori a
quelli maschili. Si parla di una “rivoluzione silenziosa” delle donne iniziata verso la fine degli anni
70, di cui l’aumento dell’istruzione è una delle principali manifestazioni.
L’uguaglianza di opportunità in ambito educativo sembra quindi aver dato buoni risultati. L’effetto
positivo di un maggior numero di donne istruite sulla crescita passa però attraverso le opportunità
che esse ricevono sul mercato del lavoro. E qui veniamo al ruolo della produttività. Con pari
opportunità e riconoscimento del merito sono meno le donne scoraggiate che abbandonano il lavoro
o rinunciano ad impegnarsi per raggiungere posizioni di prestigio perché, sia pure potenzialmente
accessibili in base alle loro competenze, sanno di non poterle mai raggiungere. Risolvere alla radice
questo problema significa un vero e proprio guadagno di risorse (non solo di numero) per
l’economia.
2.3 Conciliazione di ruoli
Il passaggio da istruzione a mercato del lavoro chiama in gioco il nostro terzo elemento chiave, la
conciliazione. Da un lato le imprese e la loro scelta di impiegare manodopera femminile (domanda
di lavoro), dall’altro la possibilità per le donne di conciliare l’attività lavorativa con il loro ruolo in
ambito familiare (il lato dell’offerta). In entrambi i casi la maternità gioca un ruolo chiave.
Sul fronte della domanda di lavoro, se le imprese attribuiscono a tutte le donne (diversamente dagli
uomini) un costo associato alla fertilità (effettiva o potenziale), assumere una donna invece che un
uomo è per un’impresa più costoso. Questo induce le imprese a preferire un uomo a una donna
oppure ad assumere quest’ultima con stipendi lordi inferiori.
Sul fronte dell’offerta, in Italia la maternità si accompagna ad una riduzione significativa del tasso
di partecipazione e di occupazione femminile. Il tasso di occupazione delle madri con figli di età
inferiore ai 6 anni è in Italia il 53%, contro il 78% della Svezia, il 65% della Francia e il 57% di
Germania e Regno Unito. Al Sud è più che al Nord forte l’associazione tra presenza di figli e
assenza dal mercato del lavoro: il tasso di occupazione delle donne tra 35 e 44 anni
coniugate/conviventi con figli è al Nord del 25% inferiore a quello di una single (68,2% contro 91%
rispettivamente), mentre arriva al 50% al Sud (70,5% contro 36,5%). L’Istat rileva che in Italia il
18,4% delle madri lascia o perde il lavoro dopo la nascita del bambino; questa percentuale varia dal
32% per le donne con bassi livelli di istruzione al 7,8% per quelle con alti livelli di istruzione.
Eppure ben il 67% delle mamme che lavoravano e il 43% di quelle che non lavoravano, vorrebbe
avere un impiego, a indicare che il loro ruolo marginale sul mercato del lavoro non è unicamente
frutto delle loro preferenze, obiezione che spesso viene avanzata quando si discute di aumento nella
partecipazione femminile.
Conciliare lavoro e responsabilità familiari è un problema serio: solo il 13,5% dei bambini di 1 e 2
anni è accudito nei nidi pubblici, mentre il 52,3% è accudito dai nonni quando la mamma lavora, a
indicare che la rete informale di sostegno è cruciale nel definire le possibilità di partecipazione al
mercato del lavoro della madre. Il 28,3% delle madri avrebbe voluto che i bambini frequentassero
l’asilo nido: la carenza di asili è particolarmente sentita nelle regioni del Sud (nel 40% dei casi la
motivazione della non frequenza è la mancanza dell’asilo, contro circa il 16% del Nord).
La scarsa partecipazione femminile alla forza lavoro è quindi un problema di ruoli e di assenza di
strumenti che, riconoscendo il valore sociale del lavoro di cura, rendano più naturale la
conciliazione tra lo svolgimento dell’attività lavorativa e delle funzioni di cura. Questa assenza,
accompagnata ad una diffidenza delle imprese verso il lavoro femminile, ha attivato nel nostro
paese un circolo vizioso di bassa partecipazione e bassa fertilità.
Finora ci siamo soffermate sul legame tra lavoro e crescita. La struttura demografica è un altro
elemento determinante per la crescita di un paese e la bassa fecondità che caratterizza il nostro
paese (1,33 figli per donna) non aiuta.
3. Politiche appropriate per promuovere le pari opportunità e la crescita
Quali politiche potrebbero promuovere le pari opportunità come fattore produttivo? Come e su chi
intervenire? Se l’obiettivo è la crescita, siamo alla ricerca di politiche che promuovano la
partecipazione femminile e sostengano la fecondità. In altri termini, di politiche che agiscano sul
lavoro e sulla conciliazione tra ruoli femminili (madri e lavoratrici).
Possiamo pensare a tre fronti di intervento: la leva fiscale, la spesa pubblica e le imprese.
Il fisco per le donne e/o il fisco per la famiglia sono due argomenti caldi nel dibattito di politica
economica delle ultime settimane. Se pensiamo al fisco come strumento di incentivo del lavoro
femminile, dobbiamo distinguere tra il lato della domanda di lavoro e il lato dell’offerta di lavoro.
Per incentivare la domanda di lavoro, può avere senso utilizzare la leva fiscale, intesa come
riduzione della tassazione sull’impresa, quando assume una donna o quando non ostacola il rientro
di una donna nel mercato del lavoro dopo un periodo dedicato alla cura. La tassazione più
vantaggiosa potrebbe in parte compensare l’impresa per il costo di fertilità e indurla a modificare i
suoi calcoli di convenienza quando confronta l’opportunità di assumere un uomo o una donna. Un
esempio a questo proposito è rappresentato nel nostro paese dagli sgravi sull’IRAP nel
Mezzogiorno, che diventano più consistenti quando associati all’assunzione di donne.
Sotto il profilo dell’offerta di lavoro, la tassazione su base individuale con correzione per carichi
familiari attraverso un sistema di detrazioni, come avviene in Italia, è la scelta più appropriata per
non disincentivare l’offerta di lavoro femminile. Ciò non sembra però bastare.
Cos’altro può essere fatto?
In primo luogo introdurre strumenti che riconoscano il valore sociale del lavoro di cura, ad esempio
sostenendo direttamente quest’ultimo, o con trasferimenti monetari o con l’offerta di servizi. I
trasferimenti monetari ci riportano allo strumento fiscale, con sgravi non per le donne in quanto tali,
ma associati alla presenza di figli.
Decenni di letteratura economica testimoniano che è meglio privilegiare i trasferimenti in natura
(offerta di servizi), più efficaci dei trasferimenti monetari, che potrebbero essere destinati ad altri
scopi. Su questo fronte l’Italia è particolarmente carente. In Danimarca la spesa in servizi
all’infanzia è pari al 2,7% del PIL. In Italia la spesa complessiva per le famiglie non arriva all’1%
del PIL e l’offerta dei servizi soddisfa solo una minima parte della domanda. Interventi in questa
direzione sono quindi auspicabili. Aiuterebbero non solo a conciliare lavoro e responsabilità
familiari, ma anche a rimuovere l’identificazione tra donna e (unico) prestatore di cura e stimolare il
tasso di fecondità.
Per quanto riguarda le imprese, due sono le direttrici su cui operare: scardinare la percezione che il
costo della fertilità sia esclusivamente femminile e indurle a rispettare i tempi di conciliazione della
vita familiare e professionale.
Politiche concrete nella prima direzione sono i congedi di paternità tipici dei Paesi Scandinavi,
intesi come un periodo riservato al padre, pienamente retribuito, indipendente (e aggiuntivo)
rispetto a quello della madre. La cultura italiana è diversa da quella Scandinava, e nella nostra
società domina la divisione dei ruoli. Ma non dimentichiamo che anche la Spagna ha recentemente
introdotto questo tipo di congedi. A stipendio pieno e senza riduzioni dei benefici della maternità contrariamente a quanto avviene attualmente in Italia- è ragionevole aspettarsi che il congedo di
paternità diventi una scelta diffusa (in Norvegia l’85% dei padri prende il congedo di paternità).
Questo rimuoverebbe lo stigma che, all’interno delle imprese, è spesso associato alla scelta dei
padri di usufruire del congedo. Inoltre, se anche gli uomini interrompono temporaneamente la loro
attività in seguito ad una nascita, le differenze tra uomini e donne in termini di discontinuità
lavorativa si riducono, almeno in parte, influenzando una delle motivazioni spesso addotte per
giustificare le disparità di genere nei salari e nelle prospettive di carriera. Inoltre, è un’esplicita,
parziale, affermazione che la responsabilità della cura dei figli è congiunta.
Abbiamo accennato alla cultura italiana e a come questa sia diversa da quella Scandinava. Variabili
di tipo culturale hanno un ruolo nel determinare le differenze occupazionali di genere, come la
letteratura economica testimonia negli ultimi anni. In particolare, le diverse percezioni sul ruolo
della donna nel lavoro e nella famiglia sembrano influenzare le differenze all’interno del nostro
Paese. Di fronte all’affermazione “una madre lavoratrice può stabilire un rapporto intenso e sicuro
con suo figlio tanto quanto una madre che non lavora”, posta dalla World Value Survey, si dichiara
d’accordo una percentuale che oscilla nelle regioni del Nord tra il 63% e l’88% dei residenti (con
l’eccezione della Valle d’Aosta), e nelle regioni del Sud tra il 49% e il 64% (con l’eccezione della
Basilicata).
Anche le indagini Eurobarometro segnalano che in Italia è più forte che in altri Paesi la percezione
dell’esistenza di forme diffuse di discriminazione di genere, a dimostrare che o in Italia siamo
maggiormente sensibili alla questione, oppure che la discriminazione di genere è maggiormente
diffusa.
4. Conclusioni e spunti per la discussione
Dare priorità alle pari opportunità non è un regalo ai meno rappresentati. E’ una via per crescere di
più e per ridurre esclusione sociale, spesso concentrata tra coloro che stanno ai margini del mercato
del lavoro. Equità ed efficienza in questo contesto non sono incompatibili.
Favorire le pari opportunità significa anche ripensare il nostro modello di welfare, tuttora fondato su
famiglie monoreddito con protezione sul capofamiglia e scarso intervento sulla cura di bambini e
anziani, demandata in via principale alle donne. Significa anche migliorare la qualità della vita delle
famiglie, permettendo una minore specializzazione produttiva tra uomini e donne (mercato e casa),
che promuove una migliore ripartizione del rischio (occupazionale o familiare) all’interno della
coppia.
Promuovere le pari opportunità è un’area di policy relativamente nuova e non consolidata.
Conoscenze, confronto e dibattito sono cruciali per trovare gli strumenti migliori.