Lourdes

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Lourdes
TRAMA DEL FILM LOURDES:
Christine ha trascorso la maggior parte della sua esistenza inchiodata a una sedia a rotelle. Decide di
recarsi a Lourdes, il leggendario luogo di pellegrinaggio situato nel cuore dei Pirenei, per uscire
dall'isolamento. Una mattina, al risveglio, si scopre apparentemente guarita da un miracolo. La
guida del gruppo di pellegrini, un affascinante quarantenne membro dell'Ordine di Malta, comincia
a mostrare un certo interesse nei suoi confronti. Mentre la sua guarigione suscita gelosia e
ammirazione, Christine cerca di afferrare la nuova occasione di felicità che la vita le ha offerto.
USCITA CINEMA: 11/02/2010
REGIA: Jessica Hausner
SCENEGGIATURA: Jessica Hausner
ATTORI: Sylvie Testud, Léa Seydoux, Bruno Todeschini, Elina Löwensohn
FOTOGRAFIA: Martin Gschlacht
MONTAGGIO: Karina Ressler
PRODUZIONE: Coop 99
DISTRIBUZIONE: Istituto Luce
PAESE: Austria, Francia 2009
GENERE: Drammatico
DURATA: 96 Min
FORMATO: Colore 35mm
NOTE:
Presentato in Concorso alla 66ma Mostra del Cinema di Venezia (2009)
LOURDES. DALLA CROCE ALLA VITA
Premessa
Molti che guarderanno questo film avranno la sensazione di rivedere la loro Lourdes senza più
l’anima. Ogni espressione di fede risulta appiattita, la dimensione comunitaria e corale è quasi
invisibile sullo sfondo. Perfino la statua dell’Immacolata posta sul luogo dell’apparizione non è mai
inquadrata, mentre si da’ ampio spazio alle sue riproduzioni. La visione laica con cui la regista
Jessica Hausner ha descritto, pur con correttezza, la sua e-sperienza di Lourdes non riesce a
raccontare da dentro l’incontro delle persone con il mi-stero che questo luogo custodisce, e neanche
riesce (posto che ci abbia provato) ad avere un dialogo con esse.
Ciò nonostante il film può essere una buona occasione per riflettere. A volte nascondere le cose è il
modo migliore per metterle in evidenza e per condurre a vederle in modo nuovo, paradossalmente
più autentico. Nascondendo Dio tornano in primo piano le domande e le attese, come attacchi dei
sentieri che a lui conducono; si staglia con maggior chiarezza il confine da cui ogni pellegrino,
giunto a Lourdes, dovrà decidere se andare oltre in un per-corso di fede e di servizio.
Una rilettura del film
Il film Lourdes si propone come un grande abbraccio che tante persone sole invocano nel-la storia
raccontata da Jessica Hausner, e che con grande semplicità, reciprocamente si donano. Le stesse
parole iniziali di Cecile, senz’altro familiari a quanti accompagnano i ma-lati in pellegrinaggio,
sono un invito ad aprirsi e a prendersi cura degli altri, a far sì che possano stare bene e sentirsi meno
soli. Un abbraccio, però, che sembra non saper acco-gliere Dio.
D’altra parte la stessa esperienza di Bernardetta non è di spontanea adesione a ciò che le è proposto
a Massabielle. Significativo è il fatto che si senta frenata non nell’alzare lo sguardo verso la luce,
bensì nel compiere il segno di croce, il più semplice gesto di fede con il quale, per altro, intendeva
invocare protezione per ciò che le stava accadendo.
In questo film il segno della croce è mostrato raramente. Il più evidente è quello che il sa-cerdote
compie sui singoli pellegrini per chiedere la guarigione dell’anima e del corpo. Ma sono molti altri i
gesti, a tutti noti, con cui a Lourdes si esprime la propria devozione: si prega in ginocchio, si
accendono le candele, si tocca la roccia della grotta, si beve e ci si bagna con l’acqua. Tutti gesti
con i quali i pellegrini cercano il contatto con Dio e ne invo-cano l’aiuto
Christine, la protagonista del film, non farà mai il segno della croce. Ad impedirlo la sua malattia,
una lunga paralisi che, forse, le ha fatto anche perdere l’abitudine del gesto. Sa-ranno le mani di
altri a farle compiere ogni altro segno. Una giovane dama che l’accompagna, le prenderà la mano
per farle sfiorare la roccia della grotta. Lo farà con quella stessa mano che la imbocca, la pettina e la
accudisce. Altre mani, nella piscina, aiu-teranno Christine a congiungere le proprie in preghiera.
Altre ancora si prodigheranno per condurla nei luoghi di Lourdes dove Dio si china sugli uomini. In
queste immagini del film possiamo riconoscere un singolare scambio: i malati, impossibilitati dal
fisico o dalla poca fede, trovano in chi li assiste, coloro che li accompagnano in un gesto che ricorda
a tutti la presenza della croce di Gesù nel loro corpo ferito. Allo stesso tempo quanti si sono presi
cura degli ammalati trovano nelle storie di quelle persone la croce più vera con la quale segnare la
propria vita.
La croce si rivela con violenza nella vicenda di Cecile. La consapevolezza che questa donna ha di
come tutto nella sua esistenza, compresa la propria malattia, sia legato dalla fede al-la volontà di
Dio, è lucidamente espressa nelle parole che, seppur con qualche asprezza, rivolge a Christine “Le
sofferenze che ci portiamo dentro possono avere un significato pro-fondo. San Paolo ha detto
«Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e quello che manca ai patimenti di Cristo,
lo completo nella mia carne a favore del suo copro che è la Chiesa”. Quando siamo ai piedi della
croce di altri, abbracciare la croce di Gesù ci appare qualcosa di più accettabile e comprensibile. Ma
il giorno i cui essa ci prende su di sé, dubbi, paure, forse anche gelosie turbano il nostro l’animo e
sentiamo l’inquietudine che non può non portare con sé il segno della croce poggiato sul nostro
corpo. Nel film si assiste alla Via Crucis giunta alla stazione della deposizione. Il Sacerdote ricorda
che i cre-denti non si fermano davanti alla tomba perché la morte è solo un passaggio verso la vita
eterna. Il gruppo di pellegrini, al canto dell’alleluia, si incammina verso l’ultima stazione, dedicata,
appunto, alla resurrezione. Ma l’inquadratura resta ferma; mentre la scena pro-gressivamente si
svuota, lo sguardo del pubblico non riesce a staccarsi dall’immagine del sepolcro che sta per
accogliere e chiudere su di se il corpo senza vita di Gesù. La fede re-sta un dono. Così come il
cammino della croce, erto e faticoso, può essere percorso fino alla fine solo con la compagnia e
l’aiuto dei fratelli.
Il film offre un’immagine di coloro che accompagnano i malati e si prendono cura della lo-ro salute,
ricca di tutte le sfumature che si possono incontrare anche nella realtà. Sono persone non prive di
dubbi, molte sono giovani in cerca di un senso della vita, capaci co-munque di contaminare il
pellegrinaggio con la loro allegria; le vediamo pronte alla rela-zione e allo stesso tempo discrete e
competenti nel loro servizio.
La fisionomia di questi volontari trova il suo tratto decisivo nell’accoglienza: il sorriso, la
pacatezza, la disponibilità, l’incoraggiamento, la delicatezza dei gesti di cura … tutto que-sto offre
alle persone ammalate la netta percezione di essere accolti e di trovare in ciò ra-gioni e forza per
andare oltre. La solitudine, così temuta e sofferta da tutti, una volta in-franta apre ad una
condivisione di lacrime e di speranze, da’ la capacità di accogliere le novità e i mutamenti della vita
che ogni dono di Dio, piccolo miracolo, porta con sé.
L’immagine accogliente dell’Immacolata torna spesso nel film; sono sguardi smarriti, supplichevoli che la fissano. Lei sembra lasciarsi fare, afferrare e protendere verso chi non la sa
raggiungere; resta immobile, come chi fedelmente non si sottrae al dolore delle soffe-renze altrui,
ma anche come chi, con le braccia aperte, attende di essere abbracciata.
Ma queste sono esperienze che il film non racconta; le nasconde, forse, nel silenzio, di Christine
chiusa tra i chiaroscuri di un’esperienza che non sa interpretare. Il finale aperto ai più diversi esiti,
sembra affidare a noi la possibilità di quel miracolo che cambia la croce in vita.
Lourdes. Storie di inquiete solitudini
Si nascondono grandi inquietudini dietro la pacatezza con cui persone e cose si muovono in
Lourdes. Quel senso di ordine e contegno, descritto con altrettanta pulizia fin dalle prime scene del
film, lascia trapela-re, da dentro le storie dei tanti personaggi, una fatica che non trova senso. Tutto
si compie con grande com-postezza: i pranzi, gli spostamenti, le code, i riti, gli stessi dialoghi, i
richiami al silenzio e, perfino, la festa fina-le dove ci si concede, con grande misura, qualche
palloncino e un po’ di musica. Anche lo spettatore viene preparato, con l’uso di sequenze lunghe, di
inquadrature mai strette e di uno scarno e calcolato uso dello zo-om, ad entrare con rispetto nel
recinto di Lourdes e nelle vite delle persone, a fare propri i ritmi di un pellegri-naggio, a seguirne i
movimenti come una giovane volontaria che deve osservare ed imparare in quale modo ci si accosta
alla malattia e alla fede.
Eppure i segnali di turbamento non mancano, come il tic di Cecile che s’aggiusta il parrucchino
segreto o i sorrisi che fioriscono e scompaiono dal volto di Christine, il volto cupo di una madre
angosciata per la figlia malata o di un anziano imprigionato nella solitudine della sua carrozzina.
Ma sono soprattutto le domande, puntuali e taglienti, a dar voce ai molti dubbi, ai dolori, alle
rabbie che i protagonisti, e forse ognuno di noi, si portano dentro. L’aurea del santuario, fatta di
mistero e sacralità, e che ispira salvezza, ma nega certezze, viene violata dagli interrogativi
pungenti di chi non si lascia domare dalle ragioni della fede. Domande alle qua-li il sacerdote,
accompagnatore dei pellegrini, risponde con un rigore inappuntabile che fa chiarezza senza pe-rò
svelare.
“Cosa devo fare per ottenere una guarigione?”
E’ la domanda dell’anziana signora Carrè; non è per sé, ma per la sua compagna di stanza,
Christine, malata di sclerosi a placche e ridotta in carrozzina. Carrè è una donna semplice, schiva e
molto diretta quando serve. Non ha una ragione particolare che la spinge a Lourdes, ma presto,
forse incentivata dall’invito della capo infermiera Cecile ad essere vicini agli ammalati e ad
assisterli, la troverà nel procurare la guarigione per questa sua nuova e giovane amica. La risposta
del prete non la soddisfa per la sua astrattezza: cosa vorrà di-re che bisogna aprire il cuore, guarire
l’anima? La signora ha bisogno di risposte concrete, di fare chiarezza tra le tante chiacchiere che si
sentono, e sapere dove ottenere il miracolo: è nel toccare la pietra della grotta, nella preghiera, nei
bagni, nell’ostensione eucaristica? Non ci sta’ a rinunciarvi in un atteggiamento di chi si accontenta
di essere fatta parte dei patimenti del Cristo, o di chi, cinicamente, trova ragioni di dubbio ovunque,
o, ancora, nel dignitoso lasciarsi portare dal mistero di Lourdes. L’anziana donna scalpita e porta la
sua protet-ta lì davanti, dove il prete, senza però fermarsi, passerà con l’ostensorio; la spinge,
sostituendosi alla sua in-fermiera, alla roccia della grotta, prega ferventemente, si azzarda a vestirla
di notte, a caricarla sulla carrozzel-la e a portarla nascostamente alla processione notturna.
Alla fine vede compiersi il miracolo; non sa come, ma ha trovato risposta alla sua domanda. Ed
ecco che sorge il dubbio, lo smarrimento: che ne sarà della sua vita ora che Christine non ha più
bisogno di lei? Ora che preti e dottori gliela portano via escludendola dal suo futuro? La scena in
cima al monte, dove la signora Carrè prima insegue l’amica che se ne va con altri e poi si perde tra i
sentieri, evidenzia l’ambiguità della sua domanda. C’è un senso di vuoto e inutilità che ferisce la
sua vita e che non ha ancora trovato nessuna miraco-losa guarigione.
Cosa vuol dire una vita normale?
Lo chiede il prete a Christine la quale, in confessione, dice tutta la sua rabbia per non poter avere
una vita come quella degli altri. Il ragionamento del sacerdote è semplice: non esiste nulla di
normale, perché sia-mo tutti unici e differenti, ognuno con la propria storia fatta di fatiche e
soddisfazioni. Ma per la donna così gravemente ammalata, normalità vuol dire vivere di affetti e
relazioni, non dover vedere la gente che si ama allontanarsi con altre senza poter far niente;
significa poter ballare e baciarsi, amare e metter su famiglia. Normalità e non essere condannati alla
solitudine. Normalità è anche non esagerare, come rimproverano alla mamma che insistentemente
porta in pellegrinaggio la figlia, persa nel vuoto della mente, ad implorare il mira-colo, che poi,
altro non è, che tornare ad incontrarla nella luce di uno sguardo che si riaccende, per essere,
finalmente, tutte due meno sole. Prendono, allora, altro peso le parole conclusive del sacerdote:
“Con questo miracolo Dio ci dice: tu non sei solo”. Al di là della fede o meno con cui si possano
accogliere, resta la segna-lazione di una malattia universale, di una ferita dalla quale nemmeno la
giovane Maria, con i suoi sguardi affet-tuosi rivolti a chi non le risponde come vorrebbe, è immune:
la solitudine.
Ma Dio è buono o onnipotente?
E’ l’interrogativo di uno degli infermieri anziani, che ne ha viste tante, ma nulla che lo abbia
convinto che credere in un miracolo abbia senso. Forse pago del bene che lui fa e rinforzato nel suo
scetticismo dagli at-teggiamenti bigotti ed egoisti di finte devote, scarica su Dio e sulle sue
contraddizioni il non aver fede: “Come può essere buono un Dio che non concede un miracolo
davanti a tanta sofferenza?”. Ma sono cose diverse credere in Dio e credere che un miracolo sia
possibile. Christine non da segni di grande fede: non recita con gli altri le preghiere, dice di andare
in pellegrinaggio per uscire di casa e di preferire Roma a Lourdes perché è più culturale; eppure
tutti l’applaudono come un atleta che ha raggiunto il premio, vogliono vederla alzarsi e rifare la foto
mentre sommessamente si chiedono: “Durerà?”. Quel miracolo provoca turbamento: l’infermiere
scettico è quasi tentato a credere, il suo collega più giovane non sa se avventurarsi in un amore che
potrebbe crollare non appena le gambe di Christine tornassero a vacillare, la signora Carrè perde il
suo piccolo scopo di vita. Il miracolo che Dio dona, giunge non per tornare alla normalità, ma per
cambiare la vita; qualcosa di nuo-vo entra con la violenza delle incertezze che porta con sé,
mettendo a fuoco non tanto l’inaffidabilità di Dio, quanto piuttosto debolezze, chiusure e paure del
cuore umano.
Perché il miracolo è accaduto a lei?
Fa sorridere il disappunto del sacerdote, colpito a freddo dall’inquieta domanda di chi torna da
Lourdes con ancora sulla pelle il suo eczema. E sorprende la geniale semplicità della sua risposta:
“Dio è libero”. An-che Christine, non sa spiegare il perché, ma si giustifica dicendo: “Tutto questo
ha senso per me. Spero di essere la persona giusta”. La domanda di senso attraversa da cima a
fondo tutto il film: da Maria che dice di cercare un senso alla sua vita nel volontariato,
confondendolo con l’affetto di un uomo, mancato il quale torne-rà a cercare la felicità nella neve e
nella spensieratezza della sua giovane età. E’ il senso che Cecile da’ alla sua malattia segreta,
facendo proprie le parole di san Paolo che avvicina le sofferenze dei cristiani a quelle di Gesù. E’ il
senso che il sacerdote cerca di dare alle persone che lo interpellano invitando ad una guarigione
interiore, ad interpretare i doni di Dio per dare un senso nuovo alla propria esistenza. La forte
emozione che si accende ogni volta che il sacerdote invoca, sui singoli pellegrini che lo chiedono, la
salute dell’anima e del corpo, sembra segnare la riscoperta individuale di una mancanza di senso
nella propria vita, come fosse una profonda e quasi mortale ferita, dalla quale non scorre sangue, ma
sgorgano lacrime.
Le risposte fatte di parole ad ognuna di queste domande lascia interdetti. Ci si immaginava che
bastas-se un ragionamento nuovo per vincere le inquietudini della vita. Ma è stato come varcare le
tende delle pisci-ne, che nascondono qualcosa e che costringono anche lo spettatore a pazientare
umilmente. Quello che si trova dall’altra parte non ha nulla di illuminante: tre inservienti,
dell’acqua e il rito di una preghiera; ma è richie-sto di spogliarsi di tutto, anche di quegli orecchini
senza i quali ci sembra di smarrire la propria identità. Anche se è da lì che avrà inizio il suo
miracolo, quello che Christine vive oltre la tenda lo può solo intuire; forse con più forza nel gesto
del bacio che indugia a dare alla statuetta della Madonna, tesa verso di lei. E’ il cielo che si è
inchinato sulla terra e le dice: “Tu non sei sola”.
don Gabriele Pedrina
Tratto da ZENIT.org
Lourdes, il film che non ti aspetti
di Elizabeth Lev*
ROMA, martedì, 2 marzo 2010 - In generale, il “mormorio” che circonda un film di argomento
cattolico suscita spesso cattivi presagi sul suo contenuto sacro. Ad eccezione de “La passione” di
Mel Gibson nel 2004, quanta più attenzione riceve una pellicola sulla religione, tanto più è
probabile che attacchi i cattolici.
Per questo, quando “Lourdes”, il film della regista austriaca Jessica Hausner, è stato proiettato al
Festival del Cinema di Venezia e ha vinto un premio dell'Unione degli Atei (anche se credo che il
premio ateo del cinema si chiami Palma d'Oro) ho pensato al peggio. La Hausner, tuttavia, mi ha
colto completamente di sorpresa con questo film caloroso e molto umano; non pietoso ma
rispettoso, che non evangelizza ma non provoca neanche rifiuto.
La trama ruota intorno a una ragazza francese, Christine, costretta sulla sedia a rotelle da una
malattia che potrebbe sembrare sclerosi multipla. Le sue braccia, bloccate, sembrano confinarla alla
sedia. Eterea e con gli occhi grandi, non è un'immagine di pietà, ma quella di un altro mondo in un
contesto sconosciuto. Christine non è particolarmente devota ed è andata a Lourdes soprattutto per
la compagnia e per cambiare ambiente, più che per la speranza di una cura miracolosa. E' la prima a
dire che “preferisce i luoghi culturali, come Roma, a quelli religiosi” (guadagnandosi
immediatamente la mia simpatia). Per un semplice spirito di cameratismo, si unisce alle masse di
gente di ogni colore, lingua e malattia – spirituale o fisica – riunite a Lourdes.
La Hausner non nasconde la commercializzazione dei luoghi sacri. Gli enormi negozi di souvenir e
le massicce infrastrutture turistiche mostrano gli affari di Lourdes. Vivendo a Roma e dopo essere
stata di recente in Terra Santa, la pellicola ha toccato una corda in me con le sue giustapposizioni di
sacro e profano. Quando la Hausner permette però che la Basilica di Lourdes entri sulla scena, gli
ornamenti di plastica lasciano spazio all'imponente maestà della chiesa. L'impressionante edificio si
oppone alle colline e al cielo, come un simbolo di qualcosa di molto superiore all'attività economica
che lo circonda. Il film porta lo spettatore a Lourdes attraverso gli occhi di Christine, che fa la fila
per toccare le pareti della Grotta, bagnarsi nelle acque o ricevere l'unzione dei malati. La Hausner
non ridicolizza mai i fedeli e le loro preghiere per avere la salute, ma fa entrare lo spettatore in un
mondo in cui i malati sono la classe privilegiata e i sani sono i curiosi.
Il suono gioca un ruolo importante nell'opera, in cui il brusio delle voci sostituisce la colonna
sonora e il rumore delle sedie e i piedi trascinati forniscono le percussioni. Gli aspri suoni della vita
quotidiana si addolciscono solo quando si arriva alle scene che ritraggono delle cerimonie sacre, in
cui il pubblico è alleviato dai canti, dal suono d'organo o dall'“Ave Maria”.
La Hausner aggiunge un moderno coro greco nei personaggi di due donne che oscillano tra dubbio e
fede. Le loro domande sono pensate per suscitare un'eco in noi, soprattutto quando affrontano un
potenziale miracolo.
Perché a lei e non a un'altra? Forse è credente? Che cosa succede dopo un miracolo?
Il pacifico sacerdote dal volto rotondo che accompagna il gruppo è descritto in modo positivo, lungi
dalle moderne caricature dei sacerdoti che infettano il cinema contemporaneo. Accentua il vero
proposito di Lourdes: non curare il corpo, ma aiutare la gente ad accettare la volontà divina come ha
fatto la Madre di Dio. Pone la domanda chiave: un corpo paralizzato dalla malattia è il dolore più
grande o lo è l'anima paralizzata dal dubbio e dalla paura? La sua fede ha radici solide, ma anche lui
non è immune dalla tentazione di gustare la luce di un miracolo. In questo film, i cattolici
apprezzeranno la figura di una anziana signora che intercede per la guarigione di Christine e si
consuma dalla preoccupazione per lei. La sua fede semplice, la sua costante intercessione e, infine,
la confessione di Christine avranno come frutto il fatto che la giovane paraplegica ricomincerà a
camminare.
La “guarigione” è solo un punto nel mezzo del film. Le vere domande iniziano da lì. E' una
remissione della malattia? E' un intervento divino? Durerà? Che cosa farà Christine? Dove termina
l'opera di colui che intercede e quale costo avrà questa guarigione? Se Christine sulla sedia a rotelle
era come una bambina, una volta in piedi diventerà presto un'adolescente. Ora che la sua infermità
fisica è scomparsa, è alla mercè della sua debolezza spirituale. Come i volontari dell'Ordine di alta,
che vengono rappresentati mentre flirtano, bevono o scherzano in modo scettico, cerca di
partecipare ai divertimenti ai quali non ha avuto accesso negli anni della malattia. Anche se si può
leggere in questa vicenda dell'ipocrisia o un'affermazione della mancanza di senso nella religione,
questi aspetti mi hanno colpito molto e li ritengo molto umani, calorosi, compassionevoli. C'è una
sensazione di speranza per tutti noi. Pur non trattandosi certamente di un film facile, la mancanza di
blasfemia, di nudità o profanazione in “Lourdes” è stata molto confortante, e il racconto parla con
successo a un pubblico moderno che vede i santuari come un affare lucrativo che vive sulle spalle
dei creduloni, offrendo anche l'opportunità di un dibattito equilibrato e pacifico sulla fede.
-------* Elizabeth Lev insegna Arte e Architettura Cristiane nel campus italiano della Duquesne
University e nel programma di Studi Cattolici dell'Università San Tommaso. Può essere
contattata all'indirizzo [email protected].
© Innovative Media, Inc.
Corriere della Sera, 12 febbraio 2010
VITTORIO MESSORI:
La prospettiva di Jessica Hausner nel suo Lourdes è dichiarata subito, sin dalla scena iniziale,
coll'inquadratura dall'alto della sala da pranzo per i pellegrini. Nessuna finestra, ma una luce artificiale
fioca, su un ambiente claustrofobico: nero il pavimento, nere le pareti cui sono appesi crocifissi neri, nere le
gonne e i pantaloni del personale, neri i mantelli delle hospitalières con la croce di Malta, nere le divise dei
Cavalieri dell'Ordine, neri i clergyman dei preti. A quei tavoli funerei prende posto,in silenzio, una turba da
corte dei miracoli di nani, paralitici, cancerosi, assistiti da volontari tanto formalmente educati quanto
distratti o perplessi ("che ci faccio, qui?"), vivi solo nello scambio di sguardi tra ragazze col velo e giovanotti
col basco. Poca, pochissima luce in tutto il film, la cui cifra cromatica è il plumbeo: nuvole nere nel cielo
persino nelle pochissime scene all'aperto. Anche la benedizione eucaristica del pomeriggio –
l'appuntamento quotidiano più amato dai pellegrini, assieme alla processione notturna con le fiaccole– non
è girata, come è nel vero, sulla grande, luminosa Esplanade che fronteggia i tre santuari sovrapposti. No, la
Hausner ha scelto di ambientarla nell'enorme chiesa sotterranea, dove non penetra alcuna luce. Poca luce
pure per la lugubre festicciola finale. E buia, ovviamente, la scena topica della guarigione – miracolosa o
casuale che sia – della tetraplegica venuta a Lourdes non per fede, ma per sfuggire dalla casa dove il male la
imprigiona.
Crediamo abbia visto bene la UAAR, "Unione degli atei e degli agnostici razionalisti" nell'attribuire a questo
film il suo beffardo premio intitolato a Brian, dal nome di una dissacrante pellicola su Gesù. Dicono, questi
atei organizzati, che l'opera della Hausner potrà aiutare a perdere la fede "chi non è ancora approdato a
una visione disincantata e scettica". Pure la Massoneria ha espresso il suo apprezzamento. Che dire, allora,
del premio attribuito dagli uomini di cinema cattolici, riuniti in un'associazione riconosciuta ufficialmente
dalla Santa Sede? Che dire della diocesi milanese che ha deciso di sponsorizzare quest'opera, diffondendola
nelle parrocchie?
Verrebbe in mente quanto mi disse un Umberto Eco ironicamente deluso, quando analoghi premi cattolici
(uno, addirittura dalla Loyola University, l'ateneo dei gesuiti americani) furono attribuiti al film tratto dal
suo Il nome della rosa: "Io ho faticato per fare un libro radicalmente agnostico se non ateo, sperando di
suscitare un dibattito infuocato. E invece no, 'sti preti mi fregano, applaudendomi e riempiendomi di premi.
Quasi quasi ho nostalgia dei bei, vecchi tempi della Santa Inquisizione. Quei tosti domenicani erano meno
noiosi del frate e del sagrestano "adulti" che, entusiasti, acclamano il miscredente".
Ma sì, sarebbe facile sorridere del masochismo clericale, cui peraltro siamo ormai rassegnati. Qui, però,
occorre forse riconoscere delle attenuanti. In effetti, a una prima lettura il film della regista austriaca (la
solita ex-cattolica: l'Occidente ne è ormai pieno) pare accattivante per i devoti. Non c'è nulla
dell'anticlericalismo di un Emile Zola che si intrufolò, da anonimo, nel Pellegrinaggio Nazionale francese e
ne trasse il suo fazioso romanzo, dove tutto inizia, per lui, da "une pauvre idiote", da una piccola isterica
chiamata Bernadette. Nulla, qui, delle invettive delle Logge ottocentesche, che chiedevano la chiusura
manu militari di Lourdes "per abuso della credulità pubblica", nonché per "ragioni igieniche". Il vecchio
mangiapretismo vociferante ha fatto posto, nella Hausner, a un ateismo radicale, ma politically correct. E
una simile negazione della fede -durissima nei contenuti, ma molto soft nei modi- può avere depistato i
clericali entusiasti. L'ateismo, peraltro onestamente dichiarato nelle interviste, non sta tanto nella
barzelletta del capo dei Cavalieri hospitaliers (la Madonna che vuole andare a Lourdes, perché non vi è mai
stata), battuta un po' blasfema che svela l'incredulità di quei volontari. Non sta tanto nei dubbi dei
pellegrini, nel loro spiarsi invidiosi, ciascuno temendo che il vicino di stanza sia guarito e lui no. E non sta
neppure in quei cappellani che, alle domande dei malati, replicano con slogan, quasi fossero distributori
automatici di risposte apologetiche. No, l'ateismo radicale del film sta nell'annuncio che il cristianesimo è
morto, perché proprio la cartina di tornasole di Lourdes rivela che sono morte le tre virtù teologali che lo
sorreggevano: morta la Fede, morta la Speranza, morta anche la Carità, malgrado le apparenze di chi, come
i volontari, sembra esercitarla. Ma per amore di sé, non dei bisognosi. Per sfuggire alla noia, per trovare un
senso o un marito, più che per aiutare il prossimo.
Papa Giovanni definì Lourdes, che molto amava, "una finestra che si è spalancata all'improvviso,
mostrandoci il Cielo". La Hausner, quella finestra la chiude: da qui, la mancanza di luce, il senso di
oppressione, la claustrofobia, il nero che segnano tutta la sua pellicola. Quel Cielo di Roncalli è ormai
sbarrato, uccidendo la Speranza.
L'esplosione gioiosa dell'alba della Risurrezione è rimossa a favore di una routine devozionale grigia, noiosa,
segretamente ipocrita. Ma è sul serio così? Chi ha esperienza vera di Lourdes sa (e non è retorica) che
questo è il regno del dolore ma anche della gioia; della disperazione e della speranza; del dubbio e della
fede; dell'egoismo di mercanti, osti, professionisti dell'assistenza e della generosità di infiniti anonimi. Un
impasto contradditorio, certo, ma pieno di vita e plasmato, malgrado tutto, da una fede tenace, che non si
arrende. Vi sono talvolta nubi, sui Pirenei. Ma, ancor più spesso, vi splende un sole caldo. La Hausner ha le
sue ragioni, cui va il nostro rispetto. Ma, attorno alla Grotta –quella vera, non quella della ex allieva delle
suore che ha perso la fede- c'è un braciere che continua ad ardere, simboleggiato dalle mille candele accese
giorno e notte, da 150 anni. Non c'è il cero ormai spento, o solo fumigante, che vorrebbe questo film, tanto
eccellente nella tecnica quanto unilaterale nei contenuti.