Quello che avevano in comune Leopoldo Elia e Carlo Lavagna

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Quello che avevano in comune Leopoldo Elia e Carlo Lavagna
DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE in collaborazione con Fondazione “Paolo Galizia-­‐Storia e libertà” G. AMATO Quello che avevano in comune Leopoldo Elia e Carlo Lavagna “La Sapienza del giovane Leopoldo Elia: 1948-­‐1962” Sala del Senato Accademico Rettorato 27 marzo 2014 G. Amato, Quello che avevano in comune Leopoldo Elia e Carlo Lavagna QUELLO CHE AVEVANO IN COMUNE LEOPOLDO ELIA E CARLO LAVAGNA di Giuliano Amato (testo rivisto dall’autore) E’ attorno alla figura di Leopoldo Elia che Fulco Lanchester ha progettato il complesso mosaico di questo seminario. Ed è per questo utile che io dedichi la breve riflessione affidatami su Carlo Lavagna a ciò che i due ebbero in comune. Si tratta di un tema che in apparenza, ma solo in apparenza, sembra offrire assai poco: l’uno che vedeva nella politica la matrice delle vicende costituzionali ed era portato di conseguenza a leggerle sulla base dei caratteri e delle vicende del sistema politico; l’altro, innamorato del neopositivismo giuridico e dell’analisi del linguaggio, che ricavava il senso della Costituzione e dei suoi istituti dai nessi che sapeva portare alla luce fra le proposizioni normative ad essi relative. Nella giornata di studi, organizzata anch’essa da Fulco Lanchester, che dedicammo al ricordo di Carlo Lavagna vent’anni fa a Scienze politiche, Leopoldo Elia così concluse il suo intervento “Concludo – disse Elia-­‐ ribadendo il mio legame al ricordo di Carlo Lavagna, anche per ragioni di origine regionale. Tutti e due siamo delle Marche: zona che viene predicata, come altre Regioni dell’Italia centrale, come centro di prudenza, di equilibrio, insomma di saggezza anche se non di molta fantasia: spero di essere accomunato a lui anche in questo”. Attenzione, Elia non esauriva il suo legame con Lavagna nella comunanza dei tratti marchigiani. Tant’è che precisava di voler essere accomunato a lui “anche” per questo. C’era dell’altro, dunque, ed era ciò che qui ha bene messo in evidenza, nella sua Relazione di apertura, proprio Lanchester, quando ha sottolineato la centralità che Elia assegnava all’equilibrio fra i poteri in un sistema costituzionale che voglia essere democratico. Un equilibrio -­‐ nota Lanchester-­‐ che l’Elia della voce “Governo. Forme di” dell’Enciclopedia del diritto aveva affidato al sistema politico, dai cui tratti aveva fatto anzi discendere l’intera tipologia delle forme di governo. Mentre più tardi, quando lo smalto dei partiti si viene perdendo ed essi sono un supporto sempre più fragile degli equilibri necessari, l’attenzione di Elia si rivolge di più alle istituzioni e al modo in cui sono regolate le relazione fra esse. E quindi non solo i partiti, ma anche le istituzioni, non solo la politica, ma anche il diritto. E’ esattamente qui che avveniva l’incontro con Lavagna, come lo stesso Elia spiegò nell’intervento che prima citavo, constatando che fra gli scritti di lui che lo avevano colpito di più c’era il suo saggio sulla democrazia – la prolusione pisana che aveva fatto idealmente da cornice al saggio-­‐
comizio sul sistema proporzionale, uscito nel 1953 contro la legge maggioritaria, allora definita (ingiustamente) truffa e predisposta per le elezioni di quell’anno. In entrambe le opere era sottolineato l’irrinunciabile equilibrio tra i due momenti della dinamica democratica, il momento dell’investitura e quello dell’azione delle istituzioni politiche ed era un equilibrio – rilevava Elia-­‐ che proprio nel momento in cui lo stesso Elia ne parlava (era il 1994) si cominciava a dimenticare in nome di una legittimazione popolare nella quale si ravvisava la fonte di un non contrastabile potere superiore. Fu questo un tema centrale per Leopoldo Elia ed anche grazie a lui ci accorgiamo che centrale era stato per lo stesso Lavagna, che ne aveva fatto addirittura il filo rosso più continuo della sua ricerca, partita sia pure da fondamenta teoriche e metodologiche tanto lontane da quelle di Elia. Lavagna – l’ho già ricordato-­‐ comincia dalle parole, le parole dei testi normativi, che recano in sè significati e logiche da scoprire e valorizzare attraverso gli strumenti dell’analisi del linguaggio. Sono questi che portano il sistema normativo a quella coerenza di cui esso ha bisogno per essere poi applicato. E’, esposta in quattro parole, l’impostazione del neopositivismo giuridico, del quale, negli anni in cui Lavagna se ne innamorò, era innamorato – non dimentichiamolo-­‐ anche Norberto Bobbio, il cui saggio più famoso sull’argomento era infatti del 1950. Io conobbi Lavagna pochi anni dopo, quando fui suo studente a Pisa nel 1956 e suo studente rimasi finchè lui visse ed anche quando ormai non c’era più. Io stesso perciò, impostato da lui agli studi giuridici, ho scavato molto nel rapporto tra le proposizioni normative, cioè i materiali lessicali forniti dal Legislatore, e la prescrizione normativa, che è poi quella che si applica al caso concreto. E mi sono chiesto come si fa, muovendosi in questo perimetro così come sempre aveva fatto Lavagna, ad arrivare agli stessi punti di Elia, alla messa a fuoco dello stesso equilibrio. Ebbene, questa è la cosa che io ho sempre ammirato di più in Lavagna, ed è non casualmente su di essa che mi ero intrattenuto nella relazione per quel seminario del dicembre 1994, nel quale era stato affidato a me il compito di parlare del suo metodo. Qui posso solo ritornarci, sia pure in brevissima sintesi. Lavagna – lo accennavo poc’anzi-­‐ riteneva essenziale non soltanto la logica del linguaggio che da’ coerenza alle proposizioni dei testi, ma anche la messa a fuoco dei significati che le parole portano in sè, grazie alle culture e alle tradizioni da cui provengono e ai cambiamenti in esse intervenuti. Cosi facendo ibridava, anche se mai ne ha dato ragione in modo esplicito, quella che secondo Bobbio era la scienza del diritto, intessuta di logica da analisi del linguaggio e quindi lontana dal mondo dei valori, con la filosofia del diritto, che è quella che cerca il tèlos, il valore che sta nel diritto. Lavagna, già dal contenuto frequentemente polisenso delle parole, portatrici dei significati non univoci che contesti e tempi diversi introducono in loro, traeva la conseguenza che quei significati sono destinati a comporsi, proprio perchè contenuti in una stessa parola; e scriveva che a un’intesa è dunque fisiologico che giungano coloro che inizialmente si contrappongono sui fronti di significati diversi. Del resto-­‐ concludeva seccamente poco più avanti-­‐ è in questo avvicinamento la finalità stessa del diritto. C’è, io l’ho sempre pensato, una qualche riflessione mai tradotta in bibliografia da parte di Carlo Lavagna sul progredire della civiltà, sul fatto che il diritto sostituisce storicamente la violenza e lo fa quando gli esseri umani accettano la convenienza del capirsi e dell’adozione di relazioni pacifiche, in una convivenza che è necessariamente convivenza di esigenze e quindi conciliazione fra esse. A questo serve il diritto. E qui vi accorgete che la fermezza con la quale Lavagna sostiene che il sistema proporzionale è dettato dalla Costituzione non deriva soltanto dalle parole dell’art. 82 – e da quelle di 3 altri articoli che egli mirabilmente connette leggendo in esse il riflesso del principio di proporzionalità – ma deriva non di meno dalla sua profonda convinzione che: meta finale di ogni sistema democratico, deve essere non già la realizzazione di alcune esigenze, sia pure prevalenti, col sacrificio totale delle altre, ma – è lui a scriverlo-­‐ “la conciliazione proporzionale di tutte, per un princìpio coessenziale al concetto stesso di diritto e di disciplina giuridica”. Quindi, la conciliazione proporzionale attiene alla disciplina giuridica. Il diritto sostituisce la violenza, per sostituire all’imposizione la conciliazione, anche se non necessariamente alla pari: vi saranno sempre esigenze prevalenti, ma dovrà esservi nelle soluzioni una compresenza delle stesse esigenze non prevalenti. E’ per questa strada che Lavagna arriva a un tema che sta tra i cavalli di battaglia di uno studioso come Leopoldo Elia, il valore cruciale delle procedure democratiche. La democrazia procedurale, e quindi in primo luogo le procedure che segnano il lavoro del Parlamento, sono il veicolo essenziale perché le varie esigenze si mettano l’una di fronte all’altra e siano in condizioni di tenere conto l’una dell’altra. È una grandissima verità, della quale si avvalse in passato la nostra Repubblica, quando attraverso la consuetudine al rispetto delle procedure parlamentari fece maturare l’adesione ai principi democratici di partiti politici che ne erano inizialmente distanti. Mentre percepiamo oggi quanto sia dissanguante e deformante, ai danni della stessa democrazia, che tali procedure siano strozzate e soffocate in nome di una rapidità decisionale che non si è riusciti a conseguire altrimenti. Non a caso ha finito per intervenire la stessa Corte Costituzionale, dichiarando di recente costituzionalmente illegittima l’inclusione di emendamenti eterogenei, addirittura di un nuovo ed estraneo corpo normativo, nella legge di conversione di un decreto legge. Dove la questione non è soltanto di formale omogeneità o eterogeneità degli emendamenti, ma di forzata trattazione di essi in una procedura che, nei sessanta giorni, non è fatta per consentire il confronto che è invece necessario per far maturare consensi e dissensi su temi delicati e nuovi. La necessità della conciliazione fra le diverse esigenze, e della sua proporzionalità, è dunque un tema sul quale Lavagna ha continuato a lavorare, non è una pur formidabile intuizione rimasta solo in un saggio lontano. Lo dimostra anche il fatto che poi fu lui tra i primi ad elaborare la ragionevolezza come criterio applicativo dell’art. 3 della Costituzione. Il suo saggio negli Scritti in onore di Carlo Esposito – siamo quindi sul finire degli anni ’60 -­‐ era una prima analisi delle decisioni della Corte su questo tema e la irragionevolezza la riscontrava in primis (anche se non solo) nell’assenza di proporzionalità. Da allora ragionevolezza e proporzionalità sono divenute paradigmi essenziali nei giudizi delle Corti nazionali ed europee, sulla frontiera dove si incontra quella che si chiama la discrezionalità della politica . Ciò invera quella posizione finale di Elia che Lanchester ci ricordava, vale a dire l’equilibrio da trovare con gli strumenti del diritto e da non lasciare soltanto a quelli politici. Sarebbe pertinente esaminare a questo punto proprio l’evoluzione intervenuta nella giurisprudenza della nostra Corte, che è arrivata alla “ragionevole soglia minima” per i premi in seggi previsti dalle leggi elettorali, e che discute in questi giorni del fondamento costituzionale e dei limiti dell’autodichia delle Camere a tutela della loro indipendenza. Ma qui non posso che fermarmi. 4