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VII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO IV domenica del Tempo Ordinario Matteo 5,1-12 «Coraggio!» P er Matteo Gesù è il nuovo Mosè, il nuovo legislatore che porta a compimento la Legge antica e che perfeziona ciò che da sempre venne stabilito dai padri. Mosè aveva legiferato per il popolo «eletto», si sente spesso dire, ma popolo eletto non vuol dire «popolo migliore degli altri». Vuol dire popolo scelto tra tanti per avere in affido le Dieci Parole, dette normalmente i Dieci Comandamenti, con l’incarico di diffonderle nel mondo. «Gli Ebrei», ha scritto Lia Levi, «avrebbero dovuto diventare una specie di propagandisti, di rappresentanti delle Tavole della Legge che Dio aveva consegnato a Mosè sul Monte Sinai. Perché eletto non vuol dire migliore, ma scelto per un incarico». E il rabbino David Sciunnach riconosce che «la radice della parola ebraica vuol dire “capace” [...] di distinguersi dagli altri popoli per l’osservanza dei precetti divini della Torah ed essere d’esempio». Anche i seguaci di Gesù, per Matteo, sono popolo «eletto», sono discepoli che «sul monte», là dove secondo la tradizione biblica normalmente YHWH appare, hanno ricevuto dal loro Maestro e Legislatore una serie di insegnamenti che sono molto più importanti dei 613 precetti della Torah e molto più pregnanti delle Dieci Parole. 97 VII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO Questi discepoli sono stati scelti per diventare nel mondo il «sale e la luce della terra» (Mt 5,13) e per essere testimoni di una dottrina portatrice di «beatitudine, di allegria e di esultanza» per tutti. Sono infatti presenti, oltre i discepoli, anche «le folle» perché la parola di Gesù non è per pochi iniziati, è aperta a tutti e nascosta a nessuno. E tutti, folle e discepoli, non contestano affatto queste beatitudini. Proprio come i cristiani di sempre che portano all’occhiello della loro religione questo discorso del Monte e ne vanno fieri, anzi se ne fanno vanto, quasi che bastasse ammirarlo o battergli le mani per farlo conoscere o vederlo così interiorizzato, realizzato, vissuto. Quando lo citano molti cristiani si sentono i migliori, gli eletti, i fortunati depositari di un insegnamento che li distingue dai credenti di altre religioni. Vanno sul sicuro se fanno riferimento alle beatitudini, certi come sono che nessuno potrà mai contestare la loro incommensurabile verità e bellezza. Ma non è tutto questo un impoverire le beatitudini? Qualcuno traduce «beati» con «coraggio!». Io preferisco quest’ultima traduzione, perché beatitudine ha un significato un po’ troppo paternalistico e teorico. Invece «coraggio!» mi pare che sia contemporaneamente un invito alla speranza e, nello stesso tempo, anche un fuoco che scalda e che illumina chi brancola nel freddo e nel buio. Abbiamo proprio bisogno di far diventare vive le «beatitudini» e per fare questo ci vuole coraggio, ci vuole fiducia che la forza interiore che emanano questi annunci non sono vuote parole, né appartengono alla categoria dei precetti da analizzare, interpretare, normare. Sono opportunità per prendere finalmente coscienza che per essere felici occorre «giocarsi la vita» su questi imperativi di Gesù. Occorre «dare l’anima» per riuscire a realizzare questo sogno che il Maestro di Nazareth ha certamente meditato nelle lunghe ore di silenzio, riflessione e preghiera che scandivano la quotidianità delle sue giornate. Ad esempio, quale esplosione di vita ci sarebbe nel mondo se i cristiani credessero all’invito di Gesù: «Coraggio, tu che sei perseguitato per causa della giustizia, perché tuo, adesso, è il regno di Dio». E quanta fiducia nell’abbraccio del Padre abiterebbe nel cuore 98 VII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO dei cristiani se ricordassero che solo nel futuro potremo avere la piena consolazione per le nostre afflizioni e i nostri lutti: «Coraggio tu che sei afflitto, perché sarai consolato». «Troverai misericordia» in seguito. «Vedrai Dio», poi. «Erediterai la terra», ma non ora. È importante notare che sei beatitudini si realizzeranno nel futuro. Gesù è stato corretto con noi. Si è ben guardato dal minimizzare i problemi o dal far sorgere in noi false illusioni. La piena consolazione, la definitiva giustizia, la completa visione di Dio, la più appagante sazietà non ci saranno mai su questa terra. Nessuna societas perfecta, nessuna età dell’oro, nessuna pietra filosofale. Nessun essere umano senza imperfezioni, senza condizionamenti, senza errori. Su questa terra ci aspettano tanto impegno, tanta speranza, tanto coraggio. Certo bisogna essere «puro di cuore, misericordioso, operatore di pace». Certo è necessario «avere adesso fame e sete di giustizia» per essere un giorno «appagati» da quella giustizia che viene da Dio. Delle otto beatitudini, due sono rivolte al presente. È stata questa una delle più belle scoperte della mia vita spirituale. Allora, ho subito pensato, se voglio rendere presente il regno di Dio adesso, attorno a me, là dove vivo, la risposta è: «Coraggio se sei povero, il Regno si realizza e ne puoi far parte». Invece di andare a cercare teorie o maestri spirituali che ti chiedono spesso percorsi cervellotici, masochistici e, a volte, persino sadici, ama la povertà, l’essenzialità, la condivisione. Non accumulare per il domani, fai affidamento sulla certezza che solo se hai una casa accogliente e non emarginante riesci a testimoniare la presenza di Gesù. Non temere di essere annoverato tra i non garantiti e tra i senza potere e sarai nel Regno. Basta che tu sia te stesso nella realtà della tua umanità limitata e fragile e il Regno ti avvolgerà tutto come un caldo oceano di pace. Il povero in spirito è colui che non può sopportare di essere felice senza gli altri. «Coraggio se sei perseguitato a causa della giustizia, sentiti in diritto di far parte del Regno», ci dice la seconda beatitudine al presente. Quanti continuano a cercare affannosamente illuminazioni, rivelazioni, apparizioni, sogni, ma la salvezza sta nel fare nostro questo messaggio dell’Abbé Pierre: «Condividete! Date! Tendete la 99 mano agli altri! Conservate sempre un vetro rotto nel vostro mondo ben protetto, così da poter sentire i lamenti che vengono dal di fuori» o, almeno, fare spesso la preghiera di Proverbi 30,7-9: «Io ti domando due cose, non negarmele prima che io muoia: tieni lontane da me la falsità e la menzogna, non darmi né povertà né ricchezza: ma fammi avere il cibo necessario, perché, una volta sazio, io non ti rinneghi e dica: “Chi è il Signore?”, oppure, ridotto all’indigenza, non rubi e profani il nome del mio Dio». Il Vangelo secondo «T ????? enevo per la seconda volta un corso generale sul buddhismo, cercando di capirne sufficientemente le dottrine basilari. Ero anche estremamente infelice. Mi ero appena trasferita ad Eau Claire, nel Wisconsin, dove vivo da più di trent’anni, e mi ero presto accorta che lì mi sarei sentita molto sola. Ero ancora in preda al dolore per la malattia terminale del mio fidanzato che, giorni prima, avevo visto per quella che sarebbe stata l’ultima volta. Era una splendida giornata d’autunno e mi stavo recando in aula, tentando di capire meglio le quattro nobili Verità che io stessa dovevo insegnare. La sola cosa che desideravo era poter apprezzare la bellezza di quel giorno, libera dalla mia miseria. Improvvisamente, le cose mi apparvero chiarissime: non potevo godere della bellezza che mi circondava perché volevo così disperatamente cose che non potevo avere. La seconda nobile Verità del buddhismo, e cioè che il desiderio è la causa della sofferenza, si chiarì completamente. Non avevo più bisogno di convincermi della prima nobile Verità, ovvero che la sofferenza pervade la vita di chiunque. Anche la terza nobile Verità, la quale afferma che la sofferenza cessa quando si rinuncia alla sua causa, ovvero l’attaccamento, divenne straordinariamente chiara in un intenso momento di completo distacco e apertura. Mi fermai e dissi a me stessa: “Le quattro nobili Verità sono vere!”. Diversamente da molti accademici, 100 VIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO che possono manipolare filosoficamente le idee senza prendersi cura delle loro conseguenze pratiche, pensai immediatamente che, se le prime tre Verità erano effettivamente vere, allora la quarta Verità – la quale descrive dettagliatamente il percorso buddhista – deve essere anch’essa vera. Questo avrebbe significato che dovevo imparare a meditare, una cosa questa di non facile realizzazione». Beati voi Signore, c’è stato un tempo – e forse ci sarà ancora domani –, in cui maledicevo le mie afflizioni, i miei tormenti e le mie inquietudini. Ti chiedevo il conto delle presunte ingiustizie, dal destino avverso alla cattiveria degli uomini, che pure tu tolleravi e consentivi. Rimpiangevo la mia mitezza, la bontà e la sensibilità, con il suo rosario di sofferenze, portate dall’aspettarsi la stessa equità dalle vite degli altri che si dimostrava puntualmente un’illusione. Facevo proclami di pace quando si trattava dei lontani, mentre tenevo a debita distanza chi mi aveva tradito o ferito, senza mettere in conto la possibilità di dimenticare. Anzi, mi sembrava assurda la misericordia, perché la vita mi aveva costretto a difendermi, ed ora non volevo perdere la sicurezza di chi non si lascia calpestare da nessuno. Poi sei arrivato a chiedermi queste cose, ed io ci ho provato a malincuore, perché mi sembrava di essere sconfitto. E non bastava che tu mi dicessi che sarei stato beato, perché il peso del presente sovrastava quello del futuro. 101 VIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO E finalmente un giorno ti ho immaginato seduto al mio fianco, lo sguardo fermo e risoluto, le mani sulle mie braccia, a ripetermi come un mantra la mia beatitudine: «Sì, Dio è con te. La vita e l’amore continuano grazie a te! Il mondo ha una speranza nei tuoi gesti di giustizia, di misericordia, di accoglienza. Dio è con te anche quando gli insulti e le bugie rendono più arduo il cammino, più lontana la verità. Dio è con te e i tuoi occhi puri possono vederlo. Per questo sei beato, fortunato, felice, nonostante tutto e tutti». Credo non sia stato soltanto un pensiero. La forza di proseguire era indubbiamente vera. Eri, probabilmente, proprio tu. Cara Filomena, ora che sei una catechista diciottenne, con le tue idee originali, e ti appresti a raccontare le beatitudini ai ragazzi, te lo posso dire. Quel mattino in classe mi accorsi di aver fatto uno dei più grandi errori d’inesperienza. Era una delle prime lezioni in una classe vivace, non solo in negativo ma in positivo. Il trucco più semplice per riportare il silenzio è far leggere un libro. Così uno si «rompe» e gli altri possono disconnettersi e viaggiare con la fantasia. Vi feci iniziare da capo, fidandomi dell’autore – un salesiano che stimavo da tanti anni. L’argomento era il discorso della montagna. Era stato inserito nel libro il testo integrale del Vangelo di Matteo. Si cominciava dalle beatitudini e dalle prime righe iniziò la sollevazione popolare: «Come? Beati i poveri? Gli afflitti? I perseguitati? Crederà mica che alla nostra età possiamo bere certe fesserie!». Questo era il tono degli interventi, qualcuno più pacato, altri più diretti e sinceri. Ed io, preso in contropiede, mi scusavo: «È il linguaggio di 2000 anni fa... Ascoltiamo 102 VIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO il parere di Gesù, io non devo mica convincervi... Sì, è il suo discorso più difficile...». E giocai la carta del classico rimando al paradiso. Ma quanto interessava l’aldilà a ragazzi che hanno l’urgenza di risposte per una vita – non semplice – da vivere nell’«aldiqua»? Sembravo un professore che veniva dalla Luna e finalmente loro potevano esporre chiaramente tutto l’astio accumulato in sette anni di catechismo formale e anacronistico. Non so se riuscii quell’anno ad essere incisivo sull’argomento. Ma negli anni successivi cambiai modo e prospettiva. A mio parere, Gesù sta raccontando il «sogno di Dio», il suo desiderio per l’umanità, molto vicino al suo modo di essere. Dio è amore e suggerisce quanto sarebbe bello se gli uomini imparassero a volersi bene sul serio. Non sarebbero più affamati ed assetati di pane e giustizia, perché ognuno penserebbe anche a tutti gli altri. Non ci sarebbero afflitti perché la maggior parte delle cause scomparirebbe; e per quelle naturali o legate al ciclo della vita, ci sarebbe la vicinanza e la consolazione del proprio vicino. I miti non dovrebbero guardarsi le spalle, gli operatori di pace sarebbero i prediletti dal mondo e da Dio. E i puri non avrebbero difficoltà a scorgere la presenza reale del Padre nel mondo. Gesù chiama tutto questo: «Regno di Dio» (i cieli sono il luogo in cui l’ebreo riteneva risiedesse Javhé) e crede possa iniziare già dal presente. Per questo i suoi discepoli, se fedeli a questo messaggio, saranno da subito sale e luce del mondo. La storia personale di Gesù ci fa capire che difficilmente il mondo comprenderà in toto. In qualche luogo e qualche tempo della storia quest’utopia sarà già presente. In altri i discepoli dovranno sopportare le opposizioni (come la vostra?) e le persecuzioni. «Rallegratevi», dice Gesù. La vostra ricompensa sarà grande nei cieli, questa volta indicazione precisa dell’altra vita, quella che il risorto renderà evidente. Ma per apprezzare questo – avevate ragione voi – ci vuole fede. 103