Letteratura italiana Favaro - Università Terza Età Mestre

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Letteratura italiana Favaro - Università Terza Età Mestre
Giacomo Leopardi
Amore e Morte
Muor giovane colui ch’al cielo è caro
Menandro
Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte
Ingenerò la sorte.
Cose quaggiù sì belle
Altre il mondo non ha, non han le stelle.
Nasce dall’uno il bene,
Nasce il piacer maggiore
Che per lo mar dell’essere si trova;
L’altra ogni gran dolore,
Ogni gran male annulla.
Bellissima fanciulla,
Dolce a veder, non quale
La si dipinge la codarda gente,
Gode il fanciullo Amore
Accompagnar sovente;
E sorvolano insiem la via mortale,
Primi conforti d’ogni saggio core.
Nè cor fu mai più saggio
Che percosso d’amor, nè mai più forte
Sprezzò l’infausta vita,
Nè per altro signore
Come per questo a perigliar fu pronto:
Ch’ove tu porgi aita,
Amor, nasce il coraggio,
O si ridesta; e sapiente in opre,
Non in pensiero invan, siccome suole,
Divien l’umana prole.
Quando novellamente
Nasce nel cor profondo
Un amoroso affetto,
Languido e stanco insiem con esso in petto
Un desiderio di morir si sente:
Come, non so: ma tale
D’amor vero e possente è il primo effetto.
Forse gli occhi spaura
Allor questo deserto: a se la terra
Forse il mortale inabitabil fatta
Vede omai senza quella
Nova, sola, infinita
Felicità che il suo pensier figura:
Ma per cagion di lei grave procella
Presentendo in suo cor, brama quiete,
Brama raccorsi in porto
Dinanzi al fier disio,
Che già, rugghiando, intorno intorno oscura.
Poi, quando tutto avvolge
La formidabil possa,
E fulmina nel cor l’invitta cura,
Quante volte implorata
Con desiderio intenso,
Morte, sei tu dall’affannoso amante!
Quante la sera, e quante
Abbandonando all’alba il corpo stanco,
Se beato chiamò s’indi giammai
Non rilevasse il fianco,
Nè tornasse a veder l’amara luce!
E spesso al suon della funebre squilla,
Al canto che conduce
La gente morta al sempiterno obblio,
Con più sospiri ardenti
Dall’imo petto invidiò colui
Che tra gli spenti ad abitar sen giva.
Fin la negletta plebe,
L’uom della villa, ignaro
D’ogni virtù che da saper deriva,
Fin la donzella timidetta e schiva,
Che già di morte al nome
Sentì rizzar le chiome,
Osa alla tomba, alle funeree bende
Fermar lo sguardo di costanza pieno,
Osa ferro e veleno
Meditar lungamente,
E nell’indotta mente
La gentilezza del morir comprende.
Tanto alla morte inclina
D’amor la disciplina. Anco sovente,
A tal venuto il gran travaglio interno
Che sostener nol può forza mortale,
O cede il corpo frale
Ai terribili moti, e in questa forma
Pel fraterno poter Morte prevale;
O così sprona Amor là nel profondo,
Che da se stessi il villanello ignaro,
La tenera donzella
Con la man violenta
Pongon le membra giovanili in terra.
Ride ai lor casi il mondo,
A cui pace e vecchiezza il ciel consenta.
Ai fervidi, ai felici,
Agli animosi ingegni
L’uno o l’altro di voi conceda il fato,
Dolci signori, amici
All’umana famiglia,
Al cui poter nessun poter somiglia
Nell’immenso universo, e non l’avanza,
Se non quella del fato, altra possanza.
E tu, cui già dal cominciar degli anni
Sempre onorata invoco,
Bella Morte, pietosa
Tu sola al mondo dei terreni affanni,
Se celebrata mai
Fosti da me, s’al tuo divino stato
L’onte del volgo ingrato
Ricompensar tentai,
Non tardar più, t’inchina
A disusati preghi,
Chiudi alla luce omai
Questi occhi tristi, o dell’età reina.
Me certo troverai, qual si sia l’ora
Che tu le penne al mio pregar dispieghi,
Erta la fronte, armato,
E renitente al fato,
La man che flagellando si colora
Nel mio sangue innocente
Non ricolmar di lode,
Non benedir, com’usa
Per antica viltà l’umana gente;
Ogni vana speranza onde consola
Se coi fanciulli il mondo,
Ogni conforto stolto
Gittar da me; null’altro in alcun tempo
Sperar, se non te sola;
Solo aspettar sereno
Quel dì ch’io pieghi addormentato il volto
Nel tuo virgineo seno.
A se stesso
Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, nè di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
L’ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l’infinita vanità del tutto.
Palinodia Al Marchese Gino Capponi
Il sempre sospirar nulla rileva
Petrarca
Errai, candido Gino; assai gran tempo,
E di gran lunga errai. Misera e vana
Stimai la vita, e sovra l’altre insulsa
La stagion ch’or si volge. Intolleranda
Parve, e fu, la mia lingua alla beata
Prole mortal, se dir si dee mortale
L’uomo, o si può. Fra maraviglia e sdegno,
Dall’Eden odorato in cui soggiorna,
Rise l’alta progenie, e me negletto
Disse, o mal venturoso, e di piaceri
O incapace o inesperto, il proprio fato
Creder comune, e del mio mal consorte
L’umana specie. Alfin per entro il fumo
De’ sígari onorato, al romorio
De’ crepitanti pasticcini, al grido
Militar, di gelati e di bevande
Ordinator, fra le percosse tazze
E i branditi cucchiai, viva rifulse
Agli occhi miei la giornaliera luce
Delle gazzette. Riconobbi e vidi
La pubblica letizia, e le dolcezze
Del destino mortal. Vidi l’eccelso
Stato e il valor delle terrene cose,
E tutto fiori il corso umano, e vidi
Come nulla quaggiù dispiace e dura.
Nè men conobbi ancor gli studi e l’opre
Stupende, e il senno, e le virtudi, e l’alto
Saver del secol mio. Nè vidi meno
Da Marrocco al Catai, dall’Orse al Nilo
E da Boston a Goa, correr dell’alma
Felicità su l’orme a gara ansando
Regni, imperi e ducati; e già tenerla
O per le chiome fluttuanti, o certo
Per l’estremo del boa. Così vedendo,
E meditando sovra i larghi fogli
Profondamente, del mio grave, antico
Errore, e di me stesso, ebbi vergogna.
Aureo secolo omai volgono, o Gino,
I fusi delle Parche. Ogni giornale,
Gener vario di lingue e di colonne,
Da tutti i lidi lo promette al mondo
Concordemente. Universale amore,
Ferrate vie, moltiplici commerci,
Vapor, tipi e choléra i più divisi
Popoli e climi stringeranno insieme:
Nè maraviglia fia se pino o quercia
Suderà latte e mele, o s’anco al suono
D’un walser danzerà. Tanto la possa
Infin qui de’ lambicchi e delle storte,
E le macchine al cielo emulatrici
Crebbero, e tanto cresceranno al tempo
Che seguirà; poiché di meglio in meglio
Senza fin vola e volerà mai sempre
Di Sem, di Cam e di Giapeto il seme.
Ghiande non ciberà certo la terra
Però, se fame non la sforza: il duro
Ferro non deporrà. Ben molte volte
Argento ed or disprezzerà, contenta
A polizze di cambio. E già dal caro
Sangue de’ suoi non asterrà la mano
La generosa stirpe: anzi coverte
Fien di stragi l’Europa e l’altra riva
Dell’atlantico mar, fresca nutrice
Di pura civiltà, sempre che spinga
Contrarie in campo le fraterne schiere
Di pepe o di cannella o d’altro aroma
Fatal cagione, o di melate canne,
O cagion qual si sia ch’ad auro torni.
Valor vero e virtù, modestia e fede
E di giustizia amor, sempre in qualunque
Pubblico stato, alieni in tutto e lungi
Da’ comuni negozi, ovvero in tutto
Sfortunati saranno, afflitti e vinti;
Perchè diè lor natura, in ogni tempo
Starsene in fondo. Ardir protervo e frode,
Con mediocrità, regneran sempre,
A galleggiar sortiti. Imperio e forze,
Quanto più vogli o cumulate o sparse,
Abuserà chiunque avralle, e sotto
Qualunque nome. Questa legge in pria
Scrisser natura e il fato in adamante;
E co’ fulmini suoi Volta nè Davy
Lei non cancellerà, non Anglia tutta
Con le macchine sue, nè con un Gange
Di politici scritti il secol novo.
Sempre il buono in tristezza, il vile in festa
Sempre e il ribaldo: incontro all’alme eccelse
In arme tutti congiurati i mondi
Fieno in perpetuo: al vero onor seguaci
Calunnia, odio e livor: cibo de’ forti
Il debole, cultor de’ ricchi e servo
Il digiuno mendico, in ogni forma
Di comun reggimento, o presso o lungi
Sien l’eclittica o i poli, eternamente
Sarà, se al gener nostro il proprio albergo
E la face del dì non vengon meno.
Queste lievi reliquie e questi segni
Delle passate età, forza è che impressi
Porti quella che sorge età dell’oro:
Perchè mille discordi e repugnanti
L’umana compagnia principii e parti
Ha per natura; e por quegli odii in pace
Non valser gl’intelletti e le possanze
Degli uomini giammai, dal dì che nacque
L’inclita schiatta, e non varrà, quantunque
Saggio sia nè possente, al secol nostro
Patto alcuno o giornal. Ma nelle cose
Più gravi, intera, e non veduta innanzi,
Fia la mortal felicità. Più molli
Di giorno in giorno diverran le vesti
O di lana o di seta. I rozzi panni
Lasciando a prova agricoltori e fabbri,
Chiuderanno in coton la scabra pelle,
E di castoro copriran le schiene.
Meglio fatti al bisogno, o più leggiadri
Certamente a veder, tappeti e coltri,
Seggiole, canapè, sgabelli e mense,
Letti, ed ogni altro arnese, adorneranno
Di lor menstrua beltà gli appartamenti;
E nove forme di paiuoli, e nove
Pentole ammirerà l’arsa cucina.
Da Parigi a Calais, di quivi a Londra,
Da Londra a Liverpool, rapido tanto
Sarà, quant’altri immaginar non osa,
Il cammino, anzi il volo: e sotto l’ampie
Vie del Tamigi fia dischiuso il varco,
Opra ardita, immortal, ch’esser dischiuso
Dovea, già son molt’anni. Illuminate
Meglio ch’or son, benchè sicure al pari,
Nottetempo saran le vie men trite
Delle città sovrane, e talor forse
Di suddita città le vie maggiori.
Tali dolcezze e sì beata sorte
Alla prole vegnente il ciel destina.
Fortunati color che mentre io scrivo
Miagolanti in su le braccia accoglie
La levatrice! a cui veder s’aspetta
Quei sospirati dì, quando per lunghi
Studi fia noto, e imprenderà col latte
Dalla cara nutrice ogni fanciullo,
Quanto peso di sal, quanto di carni,
E quante moggia di farina inghiotta
Il patrio borgo in ciascun mese; e quanti
In ciascun anno partoriti e morti
Scriva il vecchio prior: quando, per opra
Di possente vapore, a milioni
Impresse in un secondo, il piano e il poggio,
E credo anco del mar gl’immensi tratti,
Come d’aeree gru stuol che repente
Alle late campagne il giorno involi,
Copriran le gazzette, anima e vita
Dell’universo, e di savere a questa
Ed alle età venture unica fonte!
Quale un fanciullo, con assidua cura,
Di fogliolini e di fuscelli, in forma
O di tempio o di torre o di palazzo,
Un edificio innalza; e come prima
Fornito il mira, ad atterrarlo è volto,
Perchè gli stessi a lui fuscelli e fogli
Per novo lavorio son di mestieri;
Così natura ogni opra sua, quantunque
D’alto artificio a contemplar, non prima
Vede perfetta, ch’a disfarla imprende,
Le parti sciolte dispensando altrove.
E indarno a preservar se stesso ed altro
Dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa
Eternamente, il mortal seme accorre
Mille virtudi oprando in mille guise
Con dotta man: che, d’ogni sforzo in onta,
La natura crudel, fanciullo invitto,
Il suo capriccio adempie, e senza posa
Distruggendo e formando si trastulla.
Indi varia, infinita una famiglia
Di mali immedicabili e di pene
Preme il fragil mortale, a perir fatto
Irreparabilmente: indi una forza
Ostil, distruggitrice, e dentro il fere
E di fuor da ogni lato, assidua, intenta
Dal dì che nasce; e l’affatica e stanca,
Essa indefatigata; insin ch’ei giace
Alfin dall’empia madre oppresso e spento.
Queste, o spirto gentil, miserie estreme
Dello stato mortal; vecchiezza e morte,
Ch’han principio d’allor che il labbro infante
Preme il tenero sen che vita instilla;
Emendar, mi cred’io, non può la lieta
Nonadecima età più che potesse
La decima o la nona, e non potranno
Più di questa giammai l’età future.
Però, se nominar lice talvolta
Con proprio nome il ver, non altro in somma
Fuor che infelice, in qualsivoglia tempo,
E non pur ne’ civili ordini e modi,
Ma della vita in tutte l’altre parti,
Per essenza insanabile, e per legge
Universal, che terra e cielo abbraccia,
Ogni nato sarà. Ma novo e quasi
Divin consiglio ritrovàr gli eccelsi
Spirti del secol mio: che, non potendo
Felice in terra far persona alcuna,
L’uomo obbliando, a ricercar si diero
Una comun felicitade; e quella
Trovata agevolmente, essi di molti
Tristi e miseri tutti, un popol fanno
Lieto e felice: e tal portento, ancora
Da pamphlets, da riviste e da gazzette
Non dichiarato, il civil gregge ammira.
Oh menti, oh senno, oh sovrumano acume
Dell’età ch’or si volge! E che sicuro
Filosofar, che sapienza, o Gino,
In più sublimi ancora e più riposti
Subbietti insegna ai secoli futuri
Il mio secolo e tuo! Con che costanza
Quel che ieri schernì, prosteso adora
Oggi, e domani abbatterà, per girne
Raccozzando i rottami, e per riporlo
Tra il fumo degl’incensi il dì vegnente!
Quanto estimar si dee, che fede inspira
Del secol che si volge, anzi dell’anno,
Il concorde sentir! con quanta cura
Convienci a quel dell’anno, al qual difforme
Fia quel dell’altro appresso, il sentir nostro
Comparando, fuggir che mai d’un punto
Non sien diversi! E di che tratto innanzi,
Se al moderno si opponga il tempo antico,
Filosofando il saper nostro è scorso!
Un già de’ tuoi, lodato Gino; un franco
Di poetar maestro, anzi di tutte
Scienze ed arti e facoltadi umane,
E menti che fur mai, sono e saranno,
Dottore, emendator, lascia, mi disse,
I propri affetti tuoi. Di lor non cura
Questa virile età, volta ai severi
Economici studi, e intenta il ciglio
Nelle pubbliche cose. Il proprio petto
Esplorar che ti val? Materia al canto
Non cercar dentro te. Canta i bisogni
Del secol nostro, e la matura speme.
Memorande sentenze! ond’io solenni
Le risa alzai quando sonava il nome
Della speranza al mio profano orecchio
Quasi comica voce, o come un suono
Di lingua che dal latte si scompagni.
Or torno addietro, ed al passato un corso
Contrario imprendo, per non dubbi esempi
Chiaro oggimai ch’al secol proprio vuolsi,
Non contraddir, non repugnar, se lode
Cerchi e fama appo lui, ma fedelmente
Adulando ubbidir: così per breve
Ed agiato cammin vassi alle stelle.
Ond’io, degli astri desioso, al canto
Del secolo i bisogni omai non penso
Materia far; che a quelli, ognor crescendo,
Provveggono i mercati e le officine
Già largamente; ma la speme io certo
Dirò, la speme, onde visibil pegno
Già concedon gli Dei; già, della nova
Felicità principio, ostenta il labbro
De’ giovani, e la guancia, enorme il pelo.
O salve, o segno salutare, o prima
Luce della famosa età che sorge.
Mira dinanzi a te come s’allegra
La terra e il ciel, come sfavilla il guardo
Delle donzelle, e per conviti e feste
Qual de’ barbati eroi fama già vola.
Cresci, cresci alla patria, o maschia certo
Moderna prole. All’ombra de’ tuoi velli
Italia crescerà, crescerà tutta
Dalle foci del Tago all’Ellesponto
Europa, e il mondo poserà sicuro.
E tu comincia a salutar col riso
Gl’ispidi genitori, o prole infante,
Eletta agli aurei dì: nè ti spauri
L’innocuo nereggiar de’ cari aspetti.
Ridi, o tenera prole: a te serbato
E’ di cotanto favellare il frutto;
Veder gioia regnar, cittadi e ville,
Vecchiezza e gioventù del par contente,
E le barbe ondeggiar lunghe due spanne.
Il tramonto della luna
Quale in notte solinga,
Sovra campagne inargentate ed acque,
Là ‘ve zefiro aleggia,
E mille vaghi aspetti
E ingannevoli obbietti
Fingon l’ombre lontane
Infra l’onde tranquille
E rami e siepi e collinette e ville;
Giunta al confin del cielo,
Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno
Nell’infinito seno
Scende la luna; e si scolora il mondo;
Spariscon l’ombre, ed una
Oscurità la valle e il monte imbruna;
Orba la notte resta,
E cantando, con mesta melodia,
L’estremo albor della fuggente luce,
Che dianzi gli fu duce,
Saluta il carrettier dalla sua via;
Tal si dilegua, e tale
Lascia l’età mortale
La giovinezza. In fuga
Van l’ombre e le sembianze
Dei dilettosi inganni; e vengon meno
Le lontane speranze,
Ove s’appoggia la mortal natura.
Abbandonata, oscura
Resta la vita. In lei porgendo il guardo,
Cerca il confuso viatore invano
Del cammin lungo che avanzar si sente
Meta o ragione; e vede
Che a se l’umana sede,
Esso a lei veramente è fatto estrano.
Troppo felice e lieta
Nostra misera sorte
Parve lassù, se il giovanile stato,
Dove ogni ben di mille pene è frutto,
Durasse tutto della vita il corso.
Troppo mite decreto
Quel che sentenzia ogni animale a morte,
S’anco mezza la via
Lor non si desse in pria
Della terribil morte assai più dura.
D’intelletti immortali
Degno trovato, estremo
Di tutti i mali, ritrovàr gli eterni
La vecchiezza, ove fosse
Incolume il desio, la speme estinta,
Secche le fonti del piacer, le pene
Maggiori sempre, e non più dato il bene.
Voi, collinette e piagge,
Caduto lo splendor che all’occidente
Inargentava della notte il velo,
Orfane ancor gran tempo
Non resterete; che dall’altra parte
Tosto vedrete il cielo
Imbiancar novamente, e sorger l’alba:
Alla qual poscia seguitando il sole,
E folgorando intorno
Con sue fiamme possenti,
Di lucidi torrenti
Inonderà con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella
Giovinezza sparì, non si colora
D’altra luce giammai, nè d’altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
Che l’altre etadi oscura,
Segno poser gli Dei la sepoltura.
La ginestra o il fiore del deserto
E gli uomini vollero piuttosto
le tenebre che la luce.
Giovanni, III, 19.
Qui su l’arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null’altro allegra arbor nè fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de’ mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell’impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s’annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d’armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de’ potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l’altero monte
Dall’ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d’esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
E’ il gener nostro in cura
All’amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell’uman seme,
Cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell’umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E proceder il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch’a ludibrio talora
T’abbian fra se. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch’io sappia che obblio
Preme chi troppo all’età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell’aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell’alma generoso ed alto,
Non chiama se nè stima
Ricco d’or nè gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma se di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest’orbe, promettendo in terra
A popoli che un’onda
Di mar commosso, un fiato
D’aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s’ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra se nel soffrir, nè gli odii e l’ire
Fraterne, ancor più gravi
D’ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l’uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L’umana compagnia,
Tutti fra se confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell’uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così, qual fora in campo
Cinto d’oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl’inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell’orror che primo
Contra l’empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l’onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch’ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e sulla mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto Seren brillar il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch’a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L’uomo non pur, ma questo
Globo ove l’uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz’alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell’uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell’universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz’altra forza atterra,
D’un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l’opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l’assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d’alto piombando,
Dall’utero tonante
Scagliata al ciel, profondo
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli,
O pel montano fianco
Furiosa tra l’erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d’infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l’estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L’arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell’uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell’altra è la strage,
Non avvien ciò d’altronde
Fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall’ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell’ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall’inesausto grembo
Sull’arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l’acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontano l’usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l’antica obblivion l’estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all’aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Ch’alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell’orror della secreta notte
Per li vacui teatri, per li templi
Deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per voti palagi atra s’aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l’ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell’uomo ignara e dell’etadi
Ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino,
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l’uom d’eternità s’arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l’avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Nè sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell’uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
Paralipomeni della Batracomiomachia: riassunto
La vicenda si apre sulla sconfitta in battaglia dei topi contro le rane e i granchi; dopo la morte del
re Mangiaprosciutti, i topi decidono di farsi guidare dal condottiero Rubatocchi, e inviano il
liberale Leccafondi in ambasceria dai granchi, per trattare le condizioni di pace (canto I).
Leccafondi però viene imprigionato da Brancaforte che, per tramite del re dei granchi Senzacapo,
detta delle dure condizioni di resa: oltre a dover eleggere un re legittimo e ad ospitare nella loro
capitale sotterranea di Topaia trentamila granchi, i topi dovranno accettare i principi di equilibrio e
di legittimo intervento dei granchi sul loro regno (canto II). Leccafondi chiede di avere quindici
giorni per poter discuterne con gli altri topi, mentre a Topaia Rubatocchi, che pure detiene il potere,
indice una consultazione popolare per scegliere la nuova forma di governo: viene così scelta una
monarchia costituzionale ed eletto re Rodipane, genero di Mangiaprosciutti (canto III). Il nuovo
re e il governo accettano le condizioni dei granchi riferito da Leccafondi, che diventa ministro
dell’Interno; tuttavia, Senzacapo, che non vede di buon occhio il regime costituzionale di Topaia,
pretende che alla corte dei topi sia riservato un posto per un suo ambasciatore (canto IV). Al
rifiuto dei topi, l’unica alternativa è la guerra in campo aperto: i topi, terrorizzati dalla forza dei
granchi, fuggono, lasciando il solo Rubatocchi a combattere e a morire eroicamente in battaglia
(canto V). Brancaforte occupa Topaia, abolisce la costituzione e controlla Rodipane, rimasto
sovrano di facciata, attraverso il granchio consigliere Camminatorto. I tentativi dei topi di
organizzarsi in società segrete, sul modello della Carboneria, per ribaltare il regime assolutistico
imposto dai granchi si rivelano nei fatti peggiori del male stesso. Leccafondi, perduta ogni carica
pubblica, si dà all’esilio, per giungere infine nel palazzo del nobile Dedalo, che lo ospita (canto
VI). Quest’ultimo spiega a Leccafondi che potrà salvare Topaia discendendo agli Inferi per
chiedere ai morti quale sarà il futuro della città. Così Leccafondi e Dedalo volano sulla terra e
arrivano all’Averno, situato in un isola dell’Oceano Pacifico (canto VII). Tuttavia, disceso agli
Inferi, Leccafondi scopre che le anime dei topi sono catatoniche, senza alcuno stimolo o desiderio.
Riesce tuttavia a parlare con Mangiaprosciutti e Rubatocchi che gli dicono di cercare l’aiuto del
generale Assaggiatore. A questo punto il poemetto si interrompe.
Leopardi, dai Paralipomeni della Batracomiomachia, canto I, ottave 34 - 41
34
Era nel campo il conte Leccafondi,
Signor di Pesafumo e Stacciavento;
Topo raro a' suoi dì, che di profondi
Pensieri e di dottrina era un portento:
Leggi e stati sapea d'entrambi i mondi,
E giornali leggea più di dugento;
Al cui studio in sua patria aveva eretto,
Siccom'oggi diciamo, un gabinetto.
35
Gabinetto di pubblica lettura,
Con legge tal, che da giornali in fuore,
Libro non s'accogliesse in quelle mura,
Che di due fogli al più fosse maggiore;
Perché credea che sopra tal misura
Stender non si potesse uno scrittore
Appropriato ai bisogni universali
Politici, economici e morali.
36
Pur dagli amici in parte, e dalle stesse
Proprie avvertenze a poco a poco indotto,
Anche al romanzo storico concesse
Albergar coi giornali, e che per otto
Volumi o dieci camminar potesse;
E in fin, come dimostro è da quel dotto
Scrittor che sopra in testimonio invoco,1
Alla tedesca poesia diè loco.
37
La qual d'antichità supera alquanto
Le semitiche varie e la sanscrita,2
E parve al conte aver per proprio vanto
Sola il buon gusto ricondurre in vita,
Contro il fallace oraziano canto,
A studio, per uscir della via trita,
Dando tonni al poder, montoni al mare;
Gran fatica, e di menti al mondo rare.
38
D'arti tedesche ancor fu innamorato,
E chiamavale a se con gran mercede:
Perché, giusta l'autor sopra citato,
Non eran gli obelischi ancora in piede,
Né piramide il capo avea levato,
Quando l'arti in Germania avean lor sede,
Ove il senso del bello esser più fino
Veggiam, che fu nel Greco o nel Latino.
39
1
2
Il “tedesco filologo” della strofa 16
Probabile ironia sulle tesi di J. W. Kuithan e E. Jaekel
La biblioteca ch'ebbe, era guernita
Di libri di bellissima sembianza,
Legati a foggia varia, e sì squisita,
Con oro, nastri ed ogni circostanza,
Ch'a saldar della veste la partita
Quattro corpi non erano abbastanza.
Ed era ben ragion, che in quella parte
Stava l'utilità, non nelle carte.
40
Lascio il museo, l'archivio, e delle fiere
Il serbatoio, e l'orto delle piante,
E il portico, nel quale era a vedere,
Con baffi enormi e coda di gigante,
La statua colossal di Lucerniere,
Antico topolin filosofante,
E dello stesso una pittura a fresco,
Pur di scalpello e di pennel tedesco.
41
Fu di sua specie il conte assai pensoso,
Filosofo morale, e filotopo;
E natura lodò che il suo famoso
Poter mostri quaggiù formando il topo;
Di cui l'opre, l'ingegno e il glorioso
Stato ammirava; e predicea che dopo
Non molto lunga età, saria matura
L'alta sorte che a lui dava natura.
Paralipomeni della Batracomiomachia, canto IV, ottave 1 – 28
1
Maraviglia talor per avventura,
Leggitori onorandi e leggitrici,
Cagionato v'avrà questa lettura.
E come son degli uomini i giudici
Facili per usanza e per natura,
Forse, benché benevoli ed amici,
Più d'un pensiero in mente avrete accolto,
Ch'essere io deggia o menzognero o stolto,
2
Perché le cose del topesco regno,
Che son per vetustà da noi lontane
Tanto che come appar da più d'un segno,
Agguaglian le antichissime indiane,
I costumi, il parlar, l'opre, l'ingegno,
E l'infime faccende e le sovrane,
Quasi ieri o l'altr'ier fossero state,
Simili a queste nostre ho figurate.
3
Ma con la maraviglia ogni sospetto
Come una nebbia vi torrà di mente
Il legger, s'anco non avete letto,
Quel che i savi han trovato ultimamente,
Speculando col semplice intelletto
Sopra la sorte dell'umana gente,
Che d'Europa il civil presente stato
Debbe ancor primitivo esser chiamato.
4
E che quei che selvaggi il volgo appella
Che nei più caldi e nei più freddi liti
Ignudi al sole, al vento, alla procella,
E sol di tetto natural forniti,
Contenti son da poi che la mammella
Lasciàr, d'erbe e di vermi esser nutriti,
Temon l'aure, le frondi, e che disciolta
Dal Sol non caggia la celeste volta;
5
Non vita naturale e primitiva
Menan, come fin qui furon creduti,
Ma per corruzion sì difettiva,
Da una perfetta civiltà caduti,
Nella qual come in propria ed in nativa
I padri de' lor padri eran vissuti:
Perché stato sì reo, come il selvaggio,
Estimar natural non è da saggio:
6
Non potendo mai star che la natura,
Che al ben degli animali è sempre intenta,
E più dell'uom che principal fattura
Esser di quella par che si consenta
Da tutti noi, sì povera e sì dura
Vita ove pur pensando ei si sgomenta,
Come propria e richiesta e conformata
Abbia al genere uman determinata.
7
Né manco sembra che possibil sia
Che lo stato dell'uom vero e perfetto
Sia posto in capo di sì lunga via
Quanta a farsi civile appar costretto
Il gener nostro a misurare in pria,
U' son cent'anni un dì quanto all'effetto:
Sì lento è il suo cammin per quelle strade
Che il conducon dal bosco a civiltade.
8
Perché ingiusto e crudel sarebbe stato,
Né per modo nessun conveniente,
Che all'infelicità predestinato,
Non per suo vizio o colpa anzi innocente,
Per ordin primo e natural suo fato
Fosse un numero tal d'umana gente,
Quanta nascer convenne, e che morisse
Prima che a civiltà si pervenisse.
9
Resta che il viver zotico e ferino
Corruzion si creda e non natura,
E che ingiuria facendo al suo destino
Caggia quivi il mortal da grande altura,
Dico dal civil grado, ove il divino
Senno avea di locarlo avuto cura:
Perché se al ciel non vogliam fare oltraggio,
Civile ei nasce, e poi divien selvaggio.
10
Questa conclusion che ancor che bella
Parravvi alquanto inusitata e strana,
Non d'altronde provien se non da quella
Forma di ragionar diritta e sana
Ch'a priori in iscola ancora s'appella,
Appo cui ciascun'altra oggi par vana,
La qual per certo alcun principio pone,
E tutto l'altro a quel piega e compone.
11
Per certo si suppon che intenta sia
Natura sempre al ben degli animali,
E che gli ami di cor come la pia
Chioccia fa del pulcin che ha sotto l'ali:
E vedendosi al tutto acerba e ria
La vita esser che al bosco hanno i mortali,
Per forza si conchiude in buon latino
Che la città fu pria del cittadino.
12
Se libere le menti e preparate
Fossero a ciò che i fatti e la ragione
Sapessero insegnar, non inchinate
A questa più che a quella opinione,
Se natura chiamar d'ogni pietate
E di qual s'è cortese affezione
Sapesser priva, e de' suoi figli antica
E capital carnefice e nemica;
13
O se piuttosto ad ogni fin rivolta,
Che al nostro che diciamo o bene o male;
E confessar che de' suoi fini è tolta
La vista al riguardar nostro mortale,
Anzi il saper se non da fini sciolta
Sia veramente, e se ben v'abbia, e quale;
Diremmo ancor con ciascun'altra etade
Che il cittadin fu pria della cittade.
14
Non è filosofia se non un'arte
La qual di ciò che l'uomo è risoluto
Di creder circa a qualsivoglia parte,
Come meglio alla fin l'è conceduto,
Le ragioni assegnando empie le carte
O le orecchie talor per instituto,
Con più d'ingegno o men, giusta il potere
Che il maestro o l'autor si trova avere.
15
Quella filosofia dico che impera
Nel secol nostro senza guerra alcuna,
E che con guerra più o men leggera
Ebbe negli altri non minor fortuna,
Fuor nel prossimo a questo, ove se intera
La mia mente oso dir, portò ciascuna
Facoltà nostra a quelle cime il passo
Onde tosto inchinar l'è forza al basso.
16
In quell'età, d'un'aspra guerra in onta,
Altra filosofia regnar fu vista,
A cui dinanzi valorosa e pronta
L'età nostra arretrossi appena avvista
Di ciò che più le spiace e che più monta,
Esser quella in sostanza amara e trista;
Non che i principii in lei né le premesse
Mostrar false da se ben ben sapesse.
17
Ma false o vere, ma disformi o belle
Esser queste si fosse o no mostrato,
Le conseguenze lor non eran quelle
Che l'uom d'aver per ferme ha decretato,
E che per ferme avrà fin che le stelle
D'orto in occaso andran pel cerchio usato:
Perché tal fede in tali o veri o sogni
Per sua quiete par che gli bisogni.
18
Ed ancor più, perché da lunga pezza
È la sua mente a cotal fede usata,
Ed ogni fede a che sia quella avvezza
Prodotta par da coscienza innata:
Che come suol con grande agevolezza
l'usanza con natura esser cangiata,
Così vien facilmente alle persone
Presa l'usanza lor per la ragione.
19
Ed imparar cred'io che le più volte
Altro non sia, se ben vi si guardasse,
Che un avvedersi di credenze stolte
Che per lungo portar l'alma contrasse,
E del fanciullo racquistar con molte
Cure il saper ch'a noi l'età sottrasse;
Il qual già più di noi non sa né vede,
Ma di veder né di saper non crede.
20
Ma noi, s'è fuor dell'uso, ogni pensiero
Assurdo giudichiam tosto in effetto,
Né pensiam ch'un assurdo il mondo e il vero
Esser potrebbe al fral nostro intelletto:
E mistero gridiam, perch'a mistero
Riesce ancor qualunque uman concetto,
Ma i misteri e gli assurdi entro il cervello
Vogliam foggiarci come a noi par bello.
21
Or, leggitori miei, scendendo al punto
Al qual per lunga e tortuosa via
Sempre pure intendendo, ecco son giunto,
Potete ormai veder che non per mia
Frode o sciocchezza avvien che tali appunto
Si pingan nella vostra fantasia
De' topi gli antichissimi parenti
Quali i popoli son che abbiam presenti:
22
Ma procede da ciò, che il nostro stato
Antico è veramente e primitivo
Non degli uomini sol, ma in ogni lato
D'ogni animal che in aria o in terra è vivo.
Perché ingiusto saria che condannato
Fosse di sua natura a un viver privo
Quasi d'ogni contento e pien di mali
L'interminato stuol degli animali.
23
Per tanto in civiltà, data secondo
Il grado naturale a ciascheduna,
Tutte le specie lor vennero al mondo,
E tutte poscia da cotal fortuna
Per lor proprio fallir caddero in fondo,
E infelici son or; né causa alcuna
Ha il ciel però dell'esser lor sì tristo
Il qual bene al bisogno avea provvisto.
24
E se colma d'angoscia e di paura
Del topolin la vita ci apparisce,
Il qual mirando mai non s'assicura,
Fugge e per ogni crollo inorridisce,
Corruzion si creda e non natura
La miseria che il topo oggi patisce,
A cui forse il menàr quei casi in parte
Che seguitando narran queste carte.
25
E la dispersion della sua schiatta
Ebbe forse d'allor cominciamento,
La qual raminga in su la terra è fatta.
Perduto il primo e proprio alloggiamento.
Come il popol giudeo, che mal s'adatta
Esule, sparso, a cento sedi, e cento,
E di Solima il tempio e le campagne
Di Palestina si rammenta e piagne.
26
Ma il novello signor giurato ch'ebbe
Servar esso e gli eredi eterno il patto,
Incoronato fu come si debbe,
E il manto si vestì di pel di gatto,
E lo scettro impugnò, che d'auro crebbe,
Nella cui punta il mondo era ritratto,
Perché credeva allor del mondo intero
La specie soricina aver l'impero.
27
Dato alla plebe fu cacio con polta,
E vin vecchio gittàr molte fontane,
Gridando ella per tutto allegra e folta
Viva la carta e viva Rodipane,
Tal ch'eccheggiando quell'alpestre volta
Carta per tutto ripeteva e pane,
Cose al governo delle culte genti,
Chi le sa ministrar, sufficienti.
28
Re de' topi costui con nuovo nome,
O suo trovato fosse o de' soggetti.
S'intitolò, non di Topaia, come
Propriamente in addietro s'eran detti
I portatori di quell'auree some.
Cosa molto a notar, che negli effetti
Differisce d'assai, benché non paia,
S'alcun sia re de' topi o di Topaia.
Paralipomeni della Batracomiomachia, canto VIII, ottave 7 – 25
7
Tacito discendeva in compagnia
Di molte larve i sotterranei fondi.
Senza precipitar quivi la via
Mena ai più ciechi abissi e più profondi.
Can Cerbero latrar non vi s'udia,
Sferze fischiar né rettili iracondi,
Non si vedevan barche e non paludi,
Né spiriti aspettar sull'erba ignudi.
8
Senza custode alcuno era l'entrata
Ed aperta la via perpetuamente,
Che da persone vive esser tentata
La non può mai che malagevolmente,
E per l'uso de' morti apparecchiata
Fu dal principio suo naturalmente,
Onde non è ragion farvisi altrui
Ostacolò al calar ne' regni bui.
9
E dell'uscir di là nessun desio
Provano i morti, se ben hanno il come;
Che spiccato che fu de' topi l'io,
Non si rappicca alle corporee some,
E ritornando dall'eterno obblio,
Sanno ben che rizzar farian le chiome;
E fuggiti da ognuno e maledetti
Sarian per giunta da' parenti stretti.
10
Premii né pene non trovò nel regno
De' morti il conte, ovver di ciò non danno
Le sue storie antichissime alcun segno,
E maraviglia in questo a me non fanno,
Che i morti aver quel ch'alla vita è degno,
Piacere eterno ovvero eterno affanno,
Tacque, anzi mai non seppe, a dire il vero,
Non che il prisco Israele, il dotto Omero.
11
Sapete che se in lui fu lungamente
Creduta ritrovar questa dottrina,
Avvenne ciò perché l'umana mente,
Quei dogmi ond'ella si nutrì bambina
Veri non crede sol ma d'ogni gente
Natii, quantunque antica o pellegrina.
Dianzi in Omero errar di ciò la fama
Scoprimmo: ed imparar questo si chiama.
12
Né mai selvaggio alcun di premii o pene
Destinate agli spenti ebbe sentore,
Né già dopo il morir delle terrene
Membra l'alme credé viver di fuore.
Ma palpitare ancor le fredde vene,
E in somma non morir colui che more.
Perch'un rozzo del tutto e quasi infante
La morte a concepir non è bastante.
13
Però questa caduca e corporale
Vita, non altra, e il breve uman viaggio
In modi e luoghi incogniti immortale
Dopo il fato durar crede il selvaggio
E lo stato i sepolti anco aver tale,
Qual ebber quei di sopra al lor passaggio,
Tali i bisogni e non in parte alcuna
Gli esercizi mutati o la fortuna.
14
Ond'ei sotterra con l'esangue spoglia
Ripon cibi e ricchezze e vestimenti,
Chiude le donne e i servi acciò non toglia
Il sepolcro al defunto i suoi contenti,
Cani, frecce ed arnesi a qualsivoglia
Arte ch'egli adoprasse appartenenti,
Massime se il destin gli avea prescritto
Che con la man si procacciasse il vitto.
15
E questo è quello universal consenso
Che in testimon della futura vita
Con eloquenza e con sapere immenso
Da dottori gravissimi si cita,
D'ogni popol più rozzo e più milenso,
D'ogni mente infingarda e inerudita:
Il non poter nell'orba fantasia
La morte immaginar che cosa sia.
16
Son laggiù nel profondo immense file
Di seggi ove non può lima o scarpello,
Seggono i morti in ciaschedun sedile
Con le mani appoggiate a un bastoncello,
Confusi insiem l'ignobile e il gentile
Come di mano in man gli ebbe l'avello.
Poi ch'una fila è piena, immantinente
Da più novi occupata è la seguente.
17
Nessun guarda il vicino o gli fa motto.
Se visto avete mai qualche pittura
Di quelle usate farsi innanzi a Giotto,
O statua antica in qualche sepoltura
Gotica, come dice il volgo indotto,
Di quelle che a mirar fanno paura,
Con le facce allungate e sonnolenti
E l'altre membra pendule e cadenti,
18
Pensate che tal forma han per l'appunto
L'anime colaggiù nell'altro mondo,
E tali le trovò poi che fu giunto
Il topo nostro eroe nel più profondo.
Tremato sempre avea fino a quel punto
Per la discesa, il ver non vi nascondo,
Ma come vide quel funereo coro
Per poco non restò morto con loro.
19
Forse con tal, non già con tanto orrore
Visto avete in sua carne ed in suoi panni
Federico secondo imperatore
In Palermo giacer da secent'anni
Senza naso né labbra, e di colore
Quale il tempo può far con lunghi danni,
Ma col brando alla cinta e incoronato,
E con l'imago della terra allato.
20
Poscia che dal terror con gran fatica
A poco a poco ritornato il conte
Oso fu di mirar la schiera antica
Negli occhi mezzo chiusi e nella fronte,
Cercando se fra lor persona amica
Riconoscesse alle fattezze conte,
Gran tempo andò con le pupille errando
Di contanti nessun raffigurando.
21
Sì mutato d'ognuno era il sembiante,
E sì tra lor conformi apparian tutti,
Che a gran pena gli venne in sul davante
Riconosciuto in fin Mangiaprosciutti,
Rubatocchi e poche altre anime sante
Di cari amici suoi testè distrutti:
A cui principalmente il sermon volto
Narrò perché a cercarli avesse tolto.
22
Ma gli convenne incominciar dal primo
Assalto che dai granchi ebbero i suoi,
Novo agli scesi anzi quel tempo all'imo
Essendo quel che occorso era da poi.
Ben ciascun giorno dal terrestre limo
Discendon topi al mondo degli eroi,
Ma non fan motto, che alla gente morta
Questa vita di qua niente importa.
23
Narrato ch'ebbe alla distesa il tutto,
La tregua, il novo prence e lo statuto,
Il brutto inganno dei nemici, e il brutto
Galoppar dell'esercito barbuto,
Addimandò se la vergogna e il lutto
Ove il popol de' topi era caduto
Sgombro sarebbe per la man de' molti
Collegati da lui testè raccolti.
24
Non è l'estinto un animal risivo,
Anzi negata gli è per legge eterna
La virtù per la quale è dato al vivo
Che una sciocchezza insolita discerna,
Sfogar con un sonoro e convulsivo
Atto un prurito della parte interna.
Però, del conte la dimanda udita,
Non risero i passati all'altra vita.
25
Ma primamente allor su per la notte
Perpetua si diffuse un suon giocondo,
Che di secolo in secolo alle grotte
Più remote pervenne insino al fondo.
I destini tremàr non forse rotte
Fosser le leggi imposte all'altro mondo,
E non potente l'accigliato Eliso,
Udito il conte, a ritenere il riso.
Giovanni Berchet, traduzione della Lenore di Gottfried August Bürger (1747- 1794)
Sul far del mattino Eleonora sbalzò su agitata da sogni affannosi: «Sei tu infedele, o Guglielmo, o
sei tu morto? E fino a quando indugerai?».
Egli era uscito coll’esercito del Re Federigo alla battaglia di Praga; e non aveva scritto mai se ne
fosse scampato. Stanchi delle lunghe ire, il Re e l’Imperatrice ammollirono le feroci anime, e
finalmente fecero pace. Ed ogni schiera, preceduta da inni, da cantici, dal fragore de’ timpani, da
suoni e da sinfonie, adornata di verdi rami, si riduceva alle proprie case.
E da per tutto, da per tutto, sulle strade, sui sentieri, giovani e vecchi traevano incontro ai viva
d’allegrezza de’ vegnenti. «Sia lode al cielo!» esclamavano fanciulli e mogli. «Ben venga!»
esclamavano assai spose contente. Ma, oh Dio! per Eleonora non v’era né saluto, né bacio. Ella di
qua di là cercò tutto l’esercito, dimandò tutti i nomi. Ma fra tanti reduci non uno v’era che le desse
ragguaglio. Oltrepassate che furono da ultimo tutte quante le schiere, ella si stracciò la nera chioma,
[6
e furibonda si buttò sul terreno.
Accorse precipitosa la madre. «O Dio, misericordia! Che hai, che t’avvenne, figlia mia cara?». E se
la serrò fra le braccia.
– «O madre, madre! è perduto, è morto. Or vada in rovina il mondo, e tutto vada in rovina! Non ha
misericordia Iddio. Ahi me misera! misera!».
– «O Dio, ne assisti! Misericordia, o Signore! Dí, figlia mia, dí un Paternostro. Quello che è fatto da
Dio è ben fatto. Egli sí, Iddio, è pietoso di noi».
– «O madre, madre! Tutte illusioni! Nulla di bene ha fatto per me il Signore! nulla. Che giovarono,
che giovarono le mie orazioni? Oramai non n’è piú bisogno».
«O Dio, ne assisti! Chi in Dio riconosce il nostro padre, sa ch’egli soccorre a’ figliuoli. Il santissimo
Sacramento metterà calma al tuo affanno».
– «O madre, madre! Questo incendio che m’arde, non v’ha Sacramento che me lo calmi. Non v’ha
Sacramento che restituisca a’ morti la vita».
– «Ascoltami, o cara; e se quell’uom falso, là lontano, nell'Ungheria, avesse rinnegata la fede per
isposarsi ad altra donna? No, cara, non pensar piú a quel suo cuore. E neppure egli se ne troverà
contento! Quando un giorno l’anima verrà a separarsi dal corpo, lui trarrà nelle fiamme il suo
spergiuro».
– «O madre, madre! Non è piú, non è piú: egli è perduto, perduto per sempre. La morte, altro non
mi resta che la morte! Oh non fossi io nata mai! Spegniti, luce mia, spegniti in perpetuo. Muori,
muori sepolta nella notte e nell’orrore, No, non ha misericordia Iddio. Ahi me misera! misera!»
– «O Dio, ne assisti! Non voler no entrare, o Dio, in giudizio contro la povera tua creatura. Ella non
sa quel che la sua lingua si dica: non tener conto dei peccati di lei. – Dimentica, figliuola mia,
dimentica la tua afflizione terrena; pensa al Signore, pensa alla beatitudine eterna; e t’assicura che
non verrà meno lo sposo all’anima tua».
– «E che è mai, o madre, la beatitudine eterna? Che mai, o madre, è l’Inferno? Con lui, con lui è
beatitudine eterna; e senza di Guglielmo non v’ha, che inferno. Spegniti , luce mia, spegniti in
perpetuo: muori, muori sepolta nella notte e nell’orrore! Senza di lui, né sulla terra, né fuori della
terra posso aver pace io mai».
Cosí a lei nella mente e nelle vene infuriava la disperazione. Più e piú continuò temeraria ad
accusare la Provvidenza di Dio; si percosse il seno; si storse le mani, fino al tramonto del sole, fino
all’apparire delle stelle auree per la. volta del cielo.
Quand’ecco, trap trap trap, un calpestìo al di fuori come di zampa di destriero; e strepitante
nell’armatura smontare agli scalini del verone un cavaliero. E tin tin tin, ecco sfrenarsi pian piano la
campanella dell’uscio; e da traverso l’uscio venire queste distinte parole:
– «Su su! Apri, o mia cara, apri. Dormi tu, amor mio, o sei desta? Che intenzioni sono ancora le tue
verso di me? Piangi, o sei lieta?».
«Oh cielo! Tu, Guglielmo? Tu... di notte... cosí tardi...? Ho pianto, ho vegliato. Ahi misera! un
grande affanno ho sostenuto... E donde vieni tu cosí a cavallo?».
– «Noi non mettiamo sella che a mezzanotte. Lungo viaggio cavalcai a questa volta, fino dalla
Boemia. Tardi ho preso il cammino, tardi: e voglio condurti meco».
– «Ah Guglielmo! Entra prima qua dentro un istante. Su presto! Il vento fischia ne’ roveti. Entra,
vieni, cuor mio carissimo, a riscaldarti fra le mie braccia».
– «Lascia pure che il vento fischi fra i roveti: lascialo fischiare, anima mia, lascialo fischiare. Il mio
cavallo morello raspa; il mio sprone suona. In questo luogo non m’è concesso alloggiare. Vieni,
succingiti, spicca un salto, e gettati in groppa al mio morello. Ben cento miglia mi restano a correre
teco quest’oggi per arrivare al letto nuziale».
– «Oh cielo! E tu vorresti in questo sol giorno trasportarmi per cento miglia fino al letto nuziale?
Odi come romba tuttavia la campana– le undici sono già battute».
– «Gira, gira lo sguardo. Vedi, fa un bel chiaro di luna. Noi e i morti cavalchiamo in furia. Oggi, sí
quest’oggi, scommetto ch’io ti porto nel letto nuziale».
– «E dov’è, dimmi, dov’è la cameretta? E dove, e che letticciuolo nuziale è il tuo?».
– «Lontano, lontano di qui..., in mezzo al silenzio..., alla frescura..., angusto... Sei assi... e due
assicelle...».
– «V’ha spazio per me?».
– «Per te e per me. Vieni, succingiti, spicca un salto, e gettati in groppa. I convitati alle nozze
aspettano; la camera è già schiusa per noi».
La vezzosa donzelletta innamorata si succinse, spiccò un salto, snella si gittò in groppa al cavallo, e
con le candide mani tutta si ristrinse all’amato cavaliere. E arri arri arri! salta salta salta; e l’aria
sibilava rotta dal gran galoppare. Sbuffavano cavallo e cavaliere; e sparpagliavansi intorno sabbia e
scintille.
A destra e a sinistra, deh! come fuggivano loro innanzi allo sguardo e pascoli e lande e paesi! Come
sotto la pesta rintronavano i ponti! – «E tu hai paura, o mia cara? Vedi bel chiaro di luna! Arri arri! I
morti cavalcano in furia. E tu, mia, cara, hai paura de’ morti?».
– «Ah no! Ma lasciali in pace i morti!».
Da colaggiú qual canto, qual suono mai rimbombò? Che svolazzare fu quello de’ corvi? Odi suono
di squille, odi canto di morte! «Seppelliamo il cadavere».
Ed ecco avvicinarsi una comitiva funebre, e recar la cassa e la bara de’ morti. E l’inno somigliava al
gracidar dei rospi negli stagni.
– «Passata la mezzanotte, seppellirete il cadavere con suoni e cantici e compianti. Ora io
accompagno a casa la giovinetta mia sposa. Entrate meco, entrate al convito nuziale. Vieni, o
sagrestano; vieni col coro, e precedimi intuonando il cantico delle nozze. Vieni, o sacerdote; vieni a
darci la benedizione prima che ci mettiamo a giacere».
Tace il suono, tace il canto; la bara sparí. E obbedienti, alla chiamata quelli correvano veloci, arri
arri arri! lí lí sulle peste del morello. E va e va e va; salta salta salta; e l’aria sibilava rotta dal gran
galoppare. Sbuffavano cavallo e cavaliere; e sparpagliavansi intorno sabbia e scintille. Deh come
fuggivano a destra, come a sinistra fuggiva e montagne e piante e siepi! Come fuggivano a sinistra,
destra, e ville e città e borghi!
– «E tu hai paura, o mia cara? Vedi bel chiaro di luna Arri arri arri! I morti cavalcano in furia. E tu,
mia cara, hai paura dei morti?».
– «Ahi misera! Lasciali in pace i morti».
Ecco; ecco; là sul patibolo, al lume incerto della luna una ciurma di larve balla intorno al perno
della ruota!
– «Qua qua, o larve. Venite, seguitemi. Ballateci la giga
degli ,sposi, quando saliremo in letto». E via via via, le larve gli stormivano dietro a’ passi, come
turbine che in una selvetta di noccioli stride fra mezzo all’arida frasca.
E va e va e va; salta salta salta; e l’aria sibilava rotta dal gran galoppare. Sbuffavano cavallo e
cavaliere; e sparpagliavinsi intorno sabbia e scintille. Ogni cosa che la luna illuminava d’intorno,
deh! come ratto fuggiva, come fuggiva alla lontana! Come fuggivano e cieli e stelle al disopra di
lui!
– «E tu hai paura, mia cara? Vedi bel chiaro di luna? Arri arri arri !I morti cavalcano in furia. Ed
hai tuttavia paura dei morti, o mia cara?».
– «Ahi me misera! Lasciali in pace i morti».
– «Su su, o morello! Parmi che il gallo già canti. Fra Poco il sabbione sarà omai tutto trascorso. Su,
morello, morello! Al fiuto sento già l’aria del mattino. Di qua, o morello, caracolla di qua. Finito,
finito abbiamo di correre. Eccolo che s’apre il letto nuziale. I morti cavalcano in furia. Eccola,
eccola la meta».
Impetuoso s’avventò a briglia sciolta contro un cancello di ferro. Ad uno sferzar di scudiscio toppa
e chiavistello gli si spezzarono innanzi; e le ferree imposte cigolando si spalancarono. Il destriero
drizzò la foga su per le sepolture. E al chiaror della luna tutto tutto biancheggiava di monumenti.
Ed ecco, ecco in un subito, portento, ahi, spaventoso! Di dosso al cavaliere ecco, a brandelli a
brandelli cascar l’armatura, com’esca logorata dagli anni! In teschio senza ciocche e senza ciuffo, in
teschio ignudo ignudo gli si convertí il capo; e la persona in ischeletro armato di ronca e d’oriuolo.
Alto s’impennò e inferocí sbuffando il morello, e schizzò scintille di fuoco. E via, eccolo sparito e
sprofondato disotto alla fanciulla; e strida e strida su per l’aere; e venir dal fondo della fossa un
ululato! ... A gran palpiti tremava il cuore d’Eleonora, e combatteva tra la morte e la vita.
Allora sí, allora sotto il raggio della luna danzarono a tondo a tondo le larve; ed intrecciando il ballo
della catena, con feroci urli ripetevano questa nenia:– «Abbi pazienza, pazienza; s’anche il cuore ti
scoppia. Con Dio no, con Dio non venire a contesa. Eccoti sciolta dal corpo. Iddio usi all’anima
misericordia!».
Arnaldo Fusinato, L'ultima ora di Venezia
È fosco l’aere,
È l’onda muta!...
Ed io sul tacito
Veron seduta,
In solitaria
Malinconia,
Ti guardo, e lagrimo,
Venezia mia!
Sui rotti nugoli
Dell’Occidente
Il raggio perdesi
Del sol morente,
E mesto sibila,
Per l’aura bruna,
L’ultimo gemito
Della laguna.
Passa una gondola
Della città:
― Ehi! della gondola
Qual novità?
― Il morbo infuria...
Il pan ci manca...
Sul ponte sventola
Bandiera bianca! ―
No, no, non splendere
Su tanti guai,
Sole d’Italia,
Non splender mai!
E sulla veneta
Spenta fortuna
Sia eterno il gemito
Della laguna!
Venezia, l’ultima
Ora è venuta;
Illustre martire,
Tu sei perduta;
Il morbo infuria,
Il pan ti manca,
Sul ponte sventola
Bandiera bianca!
Ma non le ignivome
Palle roventi,
Nè i mille fulmini,
Su te stridenti,
Troncan ai liberi
Tuoi dì lo stame:
Viva Venezia:
Muor della fame!
Sulle tue pagine
Scolpisci, o Storia,
Le altrui nequizie
E la tua gloria,
E grida ai posteri
Tre volte infame
Chi vuol Venezia
Morta di fame.
Viva Venezia!
Feroce, altiera,
Difese intrepida
La sua bandiera;
Ma il morbo infuria,
Il pan le manca;
Sul ponte sventola
Bandiera bianca!
Ed ora infrangasi
Qui sulla pietra,
Finch’è ancor libera,
Questa mia cetra.
A te, Venezia,
L’ultimo canto,
L’ultimo bacio,
L’ultimo pianto!
Ramingo ed esule
Sul suol straniero,
Vivrai, Venezia,
Nel mio pensiero;
Vivrai nel tempio
Qui del mio cuore,
Come l’imagine
Del primo amore.
Ma il vento sibila,
Ma l’onda è scura,
Ma tutta in gemito
È la natura:
Le corde stridono,
La voce manca,
Sul ponte sventola
Bandiera bianca!
Luigi Mercantini, La spigolatrice di Sapri
Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti.
Me ne andava al mattino a spigolare,
quando ho visto una barca in mezzo al mare:
era una barca che andava a vapore;
e alzava una bandiera tricolore;
all'isola di Ponza si è fermata,
è stata un poco e poi si è ritornata;
s'è ritornata ed è venuta a terra;
sceser con l'armi, e a noi non fecer guerra.
Sceser con l'armi, e a noi non fecer guerra,
ma s'inchinaron per baciar la terra,
ad uno ad uno li guardai nel viso;
tutti aveano una lagrima e un sorriso.
Li disser ladri usciti dalle tane,
ma non portaron via nemmeno un pane;
e li sentii mandare un solo grido:
“Siam venuti a morir pel nostro lido”.
Con gli occhi azzurri e coi capelli d'oro
un giovin camminava innanzi a loro.
Mi feci ardita, e, presol per mano,
gli chiesi: “Dove vai, bel capitano?”
Guardommi, e mi rispose: “O mia sorella,
vado a morir per la mia patria bella».
Io mi sentii tremare tutto il core,
né potei dirgli: “V'aiuti il Signore!”
Quel giorno dimenticai di spigolare,
e dietro a loro mi misi ad andare:
due volte si scontrâr con li gendarmi,
e l'una e l'altra li spogliâr dell'armi:
ma quando fûr della Certosa ai muri,
s'udirono a suonar trombe e tamburi;
e tra 'l fumo e gli spari e le scintille
piombaron loro addosso più di mille.
Eran trecento e non voller fuggire;
parean tremila e vollero morire:
ma vollero morir col ferro in mano,
e avanti a loro correa sangue il piano:
fin che pugnar vid'io per lor pregai,
ma a un tratto venni men, né più guardai:
io non vedea più fra mezzo a loro
quegli occhi azzurri e quei capelli d'oro.
Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti.
Giuseppe Gioachino Belli
Dall' Introduzione ai sonetti (1831)
Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un
tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la
credenza, i pregiudizi, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene un’impronta che
assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. Né Roma è tale, che la plebe
di lei non faccia parte di un gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza. Oltre a ciò, mi
sembra la mia idea non iscompagnarsi da novità. Questo disegno così colorito, checché ne sia del
soggetto, non trova lavoro da confronto che lo abbiano preceduto.I nostri popolani non hanno arte
alcuna, non di oratoria, non di poetica: come niuna plebe n’ebbe mai. Tutto esce spontaneo dalla
natura loro, viva sempre ed energica perché lasciata libera nello sviluppo di qualità non fattizie.
[…]
Il popolo quindi mancante di arte, manca di poesia. Se mai cedendo all’impeto della rozza e potente
sua fantasia, una pure ne cerca, lo fa sforzandosi di imitare la illustre. Allora il plebeo non è più lui,
ma un fantoccio male e goffamente ricoperto di vesti non attagliate al suo dosso. Poesia propria non
ha: e in ciò errarono quanti il dir romanesco vollero sin qui presentare in versi che tutta palesarono
la lotta dell’arte colla natura e la vittoria della natura sull’arte.
Esporre le frasi del romano quali dalla bocca del romano escono tuttora, senza ornamento, senza
alterazione veruna, senza pure inversioni di sintassi o troncamenti di licenza, eccetto quelli che il
parlator romanesco usi egli stesso: insomma cavare una regola dal caso e una grammatica dall’uso,
ecco il mio scopo. Io non vo’ gia presentare nelle mie carte la poesia popolare, ma i popolari
discorsi svolti nella mia poesia. Il numero poetico e la rima debbono uscire come accidente
dall’accozzamento, in apparenza casuale, di libere frasi e correnti parole non iscomposte giammai,
non corrette, né modellate, né acconciate con modo differente da quello che ci manda il testimonio
delle orecchie: attalché i versi gettati con simigliante artificio non paiano quasi suscitare
impressioni ma risvegliare reminiscenze. E dove con tal corredo di colori nativi io giunga a
dipingere la morale, la civile e la religiosa vita del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un
quadro di genere non al tutto spregevole da chi non guardi le cose attraverso la lente del
pregiudizio.
Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il
popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello, ma sì per dare una immagine
fedele di cosa già esistente e, più abbandonata senza miglioramento.
Nulladimeno io non m’illudo circa alle disposizioni d’animo colle quali sarebbe accolto questo mio
lavoro, quando dal suo nascondiglio uscisse mai al cospetto degli uomini. Bene io preveggo quante
timorate e pudiche anime, quanti zelosi e pazienti sudditi griderebber la croce contro lo spirito
insubordinato e licenzioso che qua e là ne traspare, quasiché nascondendomi perfidamente dietro la
maschera del popolano abbia io voluto prestare a lui le mie massime e i principii miei, onde esaltare
il mio proprio veleno sotto l’egida della calunnia.
[…]
Del resto, alle gratuite incolpazioni delle quali io divenissi oggetto replicherò il tenor della mia vita
e il testimonio di chi la vide scorrere e terminare tanto ignuda di gloria quanto monda d’ogni nota di
vituperio.
Molti altri scrittori ne’ dialetti o ne’ patrii vernacoli abbiam noi veduti sorgere in Italia, e vari di
questi meritar laude anche fra i posteri. Però un più assai vasto campo che a me non si presenta era
loro aperto da parlari non esclusivamente appartenenti a tale o tal plebe o frazione di popolo, ma
usate da tutte insieme le classi di una peculiare popolazione: donde nascono le lingue municipali.
Quindi la facoltà delle figure, le inversioni della sintassi, le risorse della cultura e dell’arte. Non così
a me si concede dalla mia circostanza. Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in
gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col soccorso di un idiotismo continuo, di una
favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca.
Questi idioti o nulla sanno o quasi nulla: e quel pochissimo che imparano per tradizione serve
appunto a rilevare la ignoranza loro: in tanto buio di fallacie si ravvolge. Sterili pertanto d’idee,
limitate ne sono le forme del dire e scarsi i vocaboli. Alcuni termini di senso generale e di frequente
ricorso vi suppliscono a molto.
Ed errato andrebbe chi giudicasse essersi da me voluto porre in iscena questo piuttosto che quel
rione, ed anzi una che un’altra special condizione d’uomini della nostra città. Ogni quartiere di
Roma, ogni individuo fra’ suoi cittadini dal ceto medio in giù, mi ha somministrato episodii pel mio
dramma: dove comparirà sì il bottegaio che il servo, e il nudo pitocco farà di sé mostra fra la
credula femminetta e il fiero guidatore di carra. Così, accozzando insieme le vari classi dell’intiero
popolo, e facendo dire a ciascun popolano quanto sa, quanto pensa e quanto opera, ho io
compendiato il cumulo del costume e delle opinioni di questo volgo, presso il quale spiccano le più
strane contraddizioni.
Dati i popolani nostri per indole al sarcasmo, all’epigramma, al dir proverbiale e conciso, ai risoluti
modi di un genio manesco, non parlano a lungo in discorso regolare ed espositivo. Un dialogo
inciso, pronto ed energico: un metodo di esporre vibrato ed efficace: una frequenza di equivoci ed
anfibologie, risponde ai loro bisogni e alle loro abitudini, siccome conviene alla loro inclinazione e
capacità.
Di qui la inopportunità nel mio libro di filastrocche poetiche. Distinti quadretti, e non fra loro
congiunti fuorché dal filo occulto della macchina, aggiungeranno assai meglio al fine principale,
salvando insieme i lettori dal tedio di una lettura troppo unita e monotona. Il mio è un volume da
prendersi e lasciarsi, come si fa de’ sollazzi, senza bisogno di progressivo riordinamento d’idee.
Ogni pagina è il principio del libro, ogni pagina la fine.
L'aducazzione
Fijo, nun ribbartà mai tata tua:
Abbada a tte, nun te fà mette sotto.
Si quarchiduno te viè a dà un cazzotto,
Lì callo callo tu dajene dua.
Si ppoi quarcantro porcaccio da ua
Te ce facessi un po' de predicotto
Dije: "De ste raggione io me ne fotto:
Iggnuno penzi a li fattacci sua".
Quanno giuchi un bucale a mora, o a boccia,
Bevi fijo; e a sta gente buggiarona
Nun gnene fà restà manco una goccia.
D'esse cristiano è ppuro cosa bona:
Pe questo hai da portà ssempre in zaccoccia
Er cortello arrotato e la corona.
Li soprani del monno vecchio
C'era una volta un Re cche ddar palazzo
mannò ffora a li popoli st'editto:
- Io so' io, e vvoi nun zete un cazzo,
sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto.
Io fo ddritto lo storto e storto er dritto:
pozzo vénneve a ttutti a un tant'er mazzo:
Io, si vve fo impiccà, nun ve strapazzo,
ché la vita e la robba Io ve l'affitto.
Chi abbita a sto monno senza er titolo
o dde Papa, o dde Re, o dd'Imperatore,
quello nun po' avé mmai vosce in capitolo -.
Co st'editto annò er boja pe ccuriero,
interroganno tutti in zur tenore;
e, arisposero tutti: È vvero, è vvero.
E' 'gnissempre un pangrattato
Pe nnoi, rubbi Simone o rrubbi Ggiuda,
magni Bbartolomeo, magni Taddeo,
sempr’è ttutt’uno, e nnun ce muta un gneo:
er ricco gode e ’r poverello suda.
Noi mostreremo sempre er culiseo
e mmoriremo co la panza ignuda.
Io nun capisco duncue a cche cconcruda
d’avé dda seguità sto piaggnisteo.
Lo so, lo so cche ttutti li cuadrini
c’arrubbeno sti ladri, è ssangue nostro
e dde li fijji nostri piccinini.
Che sserveno però ttante cagnare?
Un pezzaccio de carta, un po’ d’inchiostro,
e ttutt’Ora-pro-mè: ll’acqua va ar mare.
Chi va la notte, va a la morte
Come sò lle disgrazzie! Ecco l’istoria:
co cquell’infern’uperto de nottata
me ne tornavo da Testa-spaccata
a ssett’ora indov’abbita Vittoria.
Come llí ppropio dar palazzo Doria
sò ppe ssalí Ssanta Maria ’nviolata,
scivolo, e tte do un cristo de cascata,
e bbatto apparteddietro la momoria.
Stavo pe tterra a ppiagne a vvita mozza,
quanno c’una carrozza da Signore
me passò accanto a ppasso de bbarrozza.
«Ferma», strillò ar cucchiero un zervitore;
ma un voscino ch’escì da la carrozza
je disse: «Avanti, alò: cchi mmore more».
La vita dell'omo
Nove mesi a la puzza: poi in fassciola
tra sbasciucchi, lattime e llagrimoni:
poi p’er laccio, in ner crino, e in vesticciola,
cor torcolo e l’imbraghe pe ccarzoni.
Poi comincia er tormento de la scola,
l’abbeccè, le frustate, li ggeloni,
la rosalía, la cacca a la ssediola,
e un po’ de scarlattina e vvormijjoni.
Poi viè ll’arte, er diggiuno, la fatica,
la piggione, le carcere, er governo,
lo spedale, li debbiti, la fica,
er zol d’istate, la neve d’inverno...
E pper urtimo, Iddio sce bbenedica,
viè la Morte, e ffinissce co l’inferno.
Er caffettiere filosofo
L'ommini de sto monno sò ll'istesso
Che vvaghi de caffè nner mascinino:
C'uno prima, uno doppo, e un antro appresso,
Tutti cuanti però vvanno a un distino.
Spesso muteno sito, e ccaccia spesso
Er vago grosso er vago piccinino,
E ss'incarzeno, tutti in zu l'ingresso
Der ferro che li sfraggne in porverino.
E ll'ommini accusì vviveno ar monno
Misticati pe mmano de la sorte
Che sse li ggira tutti in tonno in tonno;
E mmovennose oggnuno, o ppiano, o fforte,
Senza capillo mai caleno a ffonno
pe ccasscà nne la gola de la morte.
Er mercato de Piazza Navona
Ch’er mercordí a mmercato, ggente mie,
sce siino ferravecchi e scatolari,
rigattieri, spazzini, bbicchierari,
stracciaroli e ttant’antre marcanzie,
nun c’è ggnente da dí. Ma ste scanzìe
da libbri, e sti libbracci, e sti libbrari,
che cce vienghen’a ffà? ccosa sc’impari
da tanti libbri e ttante libbrarie?
Tu ppijja un libbro a ppanza vòta, e ddoppo
che ll’hai tienuto pe cquarc’ora in mano,
dimme s’hai fame o ss’hai maggnato troppo.
Che ppredicava a la Missione er prete?
«Li libbri nun zò rrobba da cristiano:
fijji, pe ccarità, nnu li leggete».
Li morti de Roma
Cuelli morti che ssò dde mezza tacca
fra ttanta ggente che sse va a ffà fotte,
vanno de ggiorno, cantanno a la stracca,
verzo la bbúscia che sse l’ha dda iggnotte.
Cuell’antri, in cammio, c’hanno la patacca
de Siggnori e dde fijji de miggnotte,
sò ppiú cciovili, e ttiengheno la cacca
de fuggí er Zole, e dde viaggià dde notte.
Cc’è ppoi ’na terza sorte de figura,
’n’antra spesce de morti, che ccammina
senza moccoli e ccassa in zepportura.
Cuesti semo noantri, Crementina,
che ccottivati a ppesce de frittura,
sce bbutteno a la mucchia de matina.
La riliggione der tempo nostro
Che rriliggione! è rriliggione questa?
Tutta quanta oramai la riliggione
Conziste in zinfonie, ggenufressione,
Seggni de crosce, fittucce a la vesta,
Cappell'in mano, cenneraccio in testa,
Pessci da tajjo, razzi, priscissione,
Bbussolette, Madonne a 'ggni cantone,
Cene a ppunta d'orloggio, ozzio de festa,
Scampanate, sbasciucchi, picchiapetti,
Parme, reliquie, medajje, abbitini,
Corone, acquasantiere e mmoccoletti.
E ttrattanto er Vangelo, fratel caro,
Tra un diluvio de smorfie e bbell'inchini,
È un libbro da dà a ppeso ar zalumaro.
Li monni
Che tt’impicci Fra Elia?! Tutti li grobbi
che stanno sparzi pe li sette sceli
sce se troveno ebbrei, turchi e ffedeli
come in ner nostro? Miserere nobbi!
Tu mme dichi una cosa che mme ggeli.
Vedi quanti Abbacucchi, quanti Ggiobbi,
quanti Santi Re Ddàvidi e Ggiacobbi,
e quanti Merdocchei, Caini e Abbeli!
Vedi quant’antre vecchie co l’occhiali!
quant’antri cappuccini co le sporte!
e cquant’antri peccati origginali!
Cristo! quant’antri re! quant’antre Corte!
freggna! quant’antri Papi e Ccardinali!
cazzo! quant’antre incarnazzione e mmorte!
L'aricreazzione
Detta ch’er Papa ha Messa la matina,
e empite le santissime bbudelle,
essce in giardino in buttasù e ppianelle,
a ppijjà na bboccata d’aria fina.
Lì llegato co ccerte catenelle
sce tiè un brutto uscellaccio de rapina,
e, ddentro a una ramata, una ventina
o ddu’ duzzine ar più de tortorelle.
Che ffa er zant’omo! ficca dentro un braccio,
pijja ‘na tortorella e la conzeggna
ridenno tra le granfie a l’uscellaccio.
Tutto lo spasso de Nostro Siggnore
è de vedé cquela bbestiaccia indeggna
squarciajje er petto e rrosicajje er core!
Cletto Arrighi, La Scapigliatura e il 6 febbraio
Riassunto
La vicenda del romanzo si svolge nei giorni tra il 3 e il 6 febbraio 1853. Emilio Digliani è un
giovane della borghesia milanese. Non riconosciuto dal padre, che però gli ha destinato un cospicuo
patrimonio, è stato adottato dal chirurgo ostetrico che ha assistito alla sua nascita, il professor Pier
Ambrogio Bartelloni. Emilio conduce una vita da scapigliato, tra luoghi malfamati, amori e velleità
artistiche, e insieme ad altri sei amici forma un gruppo noto negli ambienti della rivolta
antiaustriaca come la Compagnia brusca.
Noemi Firmiani Dal Poggio è una giovane donna dell'alta borghesia milanese, bella quanto triste:
divisa tra la freddezza del marito Emanuele e la frustrazione di non avere figli, essa vive nello
sconforto, finché in casa della cugina Cristina Firmiani non incontra Emilio. Tra i due nasce
l'amore, favorito anche da Cristina, che spera di approfittare dello scandalo per mettere in cattiva
luce Noemi agli occhi del nonno Lorenzo ed escluderla dall'eredità.
Ormai scoperta, Noemi decide di fuggire con l'amato Emilio, ma il progetto naufraga per
l'intervento del marito e del nonno, che irrompono in casa del giovane. In preda all'ira, Dal Poggio
sfida Emilio a duello, per scoprire poco dopo dal professor Bartelloni che il ragazzo altri non è che
il figlio da lui abbandonato 24 anni prima.
Sconvolto per quanto ha appreso, Emilio decide d'impulso di unirsi alla rivolta contro gli austriaci
scoppiata proprio in quelle ore, morendo da eroe in battaglia.
Introduzione della'autore
In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità di individui di ambo i
sessi, fra i venti e i trentacinque anni, non piú; pieni d’ingegno quasi sempre piú avanzati del loro
tempo; indipendenti come l’aquila delle Alpi; pronti al bene quanto al male; irrequieti, travagliati,...
turbolenti - i quali - o per certe contraddizioni terribili fra la loro condizione e il loro stato - vale a
dire fra ciò che hanno in testa e ciò che hanno in tasca - o per certe influenze sociali da cui sono
trascinati - o anche solo per una certa particolare maniera eccentrica e disordinata di vivere - o,
infine, per mille altre cause, e mille altri effetti, il cui studio formerà appunto lo scopo e la morale
del mio romanzo - meritano di essere classificati in una nuova e particolare suddivisione della
grande famiglia sociale, come coloro che vi formano una casta sui generis distinta da tutte le altre.
Questa casta o classe - che sarà meglio detto - vero pandemonio del secolo; personificazione della
follia che sta fuori dai manicomii; serbatoio del disordine, della imprevidenza, dello spirito di
rivolta e di opposizione a tutti gli ordini stabiliti; - io l’ho chiamata appunto la Scapigliatura.
La qual parola prettamente italiana mi rese abbastanza bene il concetto di tal parte di popolazione,
così diversa dall’altra pei suoi misteri, le sue miserie, i suoi dolori, le sue speranze, i suoi
traviamenti, sconosciuti ai ricchi contenti, ai giovani dabbene, alle fanciulle guardate a vista, alle
donne che amano il marito ed agli uomini serii che battono la strada maestra della vita, comoda,
ombreggiata, senza emozioni, come senza pericoli.
La Scapigliatura è composta da individui di ogni ceto, di ogni condizione, di ogni grado possibile
della scala sociale.
Proletariato, medio ceto, e aristocrazia; foro, letteratura, arte e commercio; celibato e matrimonio;
ciascuno vi porta il suo tributo, ciascuno vi conta qualche membro d’ambo i sessi; ed essa li
accoglie tutti in un amplesso amoroso, e li lega in una specie di mistica consorteria, forse per quella
forza simpatica che nell’ordine dell’universo attrae fra di loro le sostanze consimili.
La speranza è la sua religione; la fierezza è la sua divisa; la povertà il suo carattere essenziale. Non
la povertà del pitocco che stende la mano all’elemosina, ma la povertà di un duca, a cui tocca di
licenziare una dozzina di servitori, vendere molte coppie di cavalli, e ridurre a quattro le portate
della sua tavola, perché, fatti i conti coll’intendente, ha trovato di non aver piú a questo mondo...
che cinquantamila lire di rendita.
Come il Mefistofele del Nipote, essa ha dunque due aspetti, la mia Scapigliatura.
Da un lato: un profilo piú italiano che milanese, pieno di brio, di speranza e di amore; e rappresenta
il lato simpatico e forte di questa classe, inconscia della propria potenza, propagatrice delle brillanti
utopie, focolare di tutte le idee generose, anima di tutti gli elementi geniali, artistici, poetici,
rivoluzionari del proprio paese; che per ogni causa bella, grande, o folle balza d’entusiasmo; che del
riso conosce la sfumatura arguta come lo scroscio franco e prolungato; che ha le lagrime d’un
fanciullo sul ciglio, e le memorie feconde nel cuore.
Dall’altro lato, invece, un volto smunto, solcato, cadaverico; su cui stanno le impronte delle notti
passate nello stravizzo e nel giuoco; su cui si adombra il segreto d’un dolore infinito... i sogni
tentatori di una felicità inarrivabile, e le lagrime di sangue, e le tremende sfiducie, e la finale
disperazione.
Nel suo complesso perciò la Scapigliatura è tutt’altro che disonesta. Se non che, come accade anche
nei partiti politici, che gli estremi accolgono nel loro seno i rifiuti di tutti gli altri, anch’essa conta
un buon numero di persone tutt’altro che oneste, le quali finiscono collo screditare la classe intera.
Ma codesti signori sono come nel ferro le scorie; e c’è per essi un nome abbastanza conosciuto
senza ricorrere alla Scapigliatura; e anch’io sarei tentato di dirli cavalieri d’industria o birbanti, se
l’educazione non mi vietasse di chiamar chicchessia col suo vero nome. Ma appunto come tali, essi
non hanno una fisonomia particolare, e si perdono in quella putrida vegetazione comune a tutti paesi
del mondo - come i ladri e le spie - gente nata per lo piú nel fango, e viventi nel fango del proprio
mestiere senza perdono e senza poesia possibile.
Però la vera Scapigliatura, li fugge per la prima, e li rinnegherebbe ad alta voce se ella fosse
conscia della propria esistenza.
Emilio Praga, Preludio
Noi siamo i figli dei padri ammalati:
aquile al tempo di mutar le piume,
svolazziam muti, attoniti, affamati,
sull'agonia di un nume.
Nebbia remota è lo splendor dell'arca,
e già all'idolo d'or torna l'umano,
e dal vertice sacro il patriarca
s'attende invano;
s'attende invano dalla musa bianca
che abitò venti secoli il Calvario,
e invan l'esausta vergine s'abbranca
ai lembi del Sudario...
Casto poeta che l 'Italia adora,
vegliardo in sante visioni assorto,
tu puoi morir!... Degli antecristi è l'ora!
Cristo è rimorto !
O nemico lettor, canto la Noia,
l'eredità del dubbio e dell'ignoto,
il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boia, il tuo cielo,
e il tuo loto !
Canto litane di martire e d'empio;
canto gli amori dei sette peccati
che mi stanno nel cor, come in un tempio,
inginocchiati.
Canto le ebbrezze dei bagni d'azzurro,
e l'Ideale che annega nel fango...
Non irrider, fratello, al mio sussurro,
se qualche volta piango :
giacché più del mio pallido demone,
odio il minio e la maschera al pensiero,
giacché canto una misera canzone,
ma canto il vero! (da Penombre)
Vendetta postuma
Quando sarai nel freddo monumento
immobile e stecchita,
se ti resta nel cranio un sentimento
di questa vita,
ripenserai l'alcova e il letticciuolo
dei nostri lunghi amori,
quand'io portava al tuo dolce lenzuolo
carezze e fiori.
Ripenserai la fiammella turchina
che ci brillava accanto,
e quella fiala che alla tua bocchina
piaceva tanto!
Ripenserai la tua foga omicida
e gli immensi abbandoni;
ripenserai le forsennate grida
e le canzoni;
ripenserai le lagrime delire,
e i giuramenti a Dio,
o bugiarda, di vivere e morire
pel genio mio!
E allora sentirai l'onda dei vermi
salir nel tenebrore,
e colla gioia di affamati infermi
morderti il cuore. (da Penombre)
Charles Baudlaire, Remords Posthume
Lorsque tu dormiras, ma belle ténébreuse,
Au fond d'un monument construit en marbre noir,
Et lorsque tu n'auras pour alcôve et manoir
Qu'un caveau pluvieux et qu'une fosse creuse;
Quand la pierre, opprimant ta poitrine peureuse
Et tes flancs qu'assouplit un charmant nonchaloir,
Empêchera ton cœur de battre et de vouloir,
Et tes pieds de courir leur course aventureuse,
Le tombeau, confident de mon rêve infini
(Car le tombeau toujours comprendra le poète),
Durant ces grandes nuits d'où le somme est banni,
Te dira: «Que vous sert, courtisane imparfaite,
De n'avoir pas connu ce que pleurent les morts?»
- Et le ver rongera ta peau comme un remords.
Traduzione
Quando tu dormirai, mia tenebrosa,
nel fondo di una tomba in marmo nero,
e per castello e alcova non avrai
che una fossa profonda ed un sepolcro
in cui stilla la pioggia; quando grave
premendoti sui seni impauriti
e sopra i fianchi illanguiditi in dolce
abbandono, la pietra al cuore tuo
impedirà di battere e volere,
e ai tuoi piedi di andare all'avventura,
in quelle lunghe notti senza sonno
la tomba ti dirà (dell'infinito
mio sogno confidente, ché il poeta
sempre sarà compreso dalla tomba):
"Mancata cortigiana, che ti serve
il non aver conosciuto quello
che rimpiangono i morti?". E la tua pelle
il verme roderà, come un rimorso.
Iginio Ugo Tarchetti, Ell’era così fragile e piccina
Ell’era così fragile e piccina
che, più che amor, di lei pietà sentìa;
d’angioletto parea la sua testina
così diafana ell’era e così pia.
Le orazioni dicea sera e mattina.
Di notte avea paura e non dormìa,
piacevanle le bacche di uva spina,
le chicche, e mi dicea “dolcezza mia”.
Ella era piena di delicatezze,
piangea di tutto e sorridea di tutto,
vivea di zuccherini e di carezze:
eppur quel fior sì frale e delicato
ha la mia forte gioventù distrutto,
ha la saldezza del mio cor spezzato. (da Disjecta)
Iginio Ugo Tarchetti, Memento
Quando bacio il tuo labbro profumato,
cara fanciulla, non posso obbliare
che un bianco teschio vi è sotto celato.
Quando a me stringo il tuo corpo vezzoso,
obbliar non poss’io, cara fanciulla,
che vi è sotto uno scheletro nascoso.
E nell’orrenda visïone assorto,
dovunque o tocchi, o baci, o la man posi,
sento sporgere le fredda ossa di morto. (da Disjecta)
Arrigo Boito, Dualismo
Son luce ed ombra; angelica
farfalla o verme immondo
sono un caduto cherubo
dannato a errar sul mondo,
o un demone che sale,
affaticando l'ale,
verso un lontano ciel.
Ecco perché nell'intime
cogitazioni io sento
la bestemmia dell'angelo
che irride al suo tormento,
o l'umile orazione
dell'esule dimone
che riede a Dio, fedel.
Ecco perché m'affascina
l'ebbrezza di due canti,
ecco perché mi lacera
l'angoscia di due pianti,
ecco perché il sorriso
che mi contorce il viso
o che m'allarga il cuor.
Ecco perché la torbida
ridda de' miei pensieri,
or mansueti e rosei,
or violenti e neri;
ecco perché con tetro
tedio, avvincendo il metro
de' carmi animator.
O creature fragili
dal genio onnipossente!
Forse noi siamo l'homunculus
d' un chimico demente,
forse di fango e foco
per ozioso gioco
un buio Iddio ci fe'.
E ci scagliò sull'umida
gleba che c'incatena,
poi dal suo ciel guatandoci
rise alla pazza scena
e un dì a distrar la noia
della sua lunga gioia
ci schiaccerà col pie'.
E noi viviam, famelci
di fede o d'altri inganni,
rigirando il rosario
monotono degli anni,
dove ogni gemma brilla
di pianto, acerba stilla
fatta d'acerbo duol.
Talor, se sono il demone
redento che s'india,
sento dall'alma effondersi
una speranza pia
e sul mio buio viso
del gaio paradiso
mi fulgureggia il sol.
L'illusion-libellula
che bacia i fiorellini,
-l'illusion-scoiattolo
che danza in cima i pini,
-l'illusion-fanciulla
che trama e si trastulla
colle fibre del cor,
viene ancora a
sorridermi
nei dì più mesti e soli
e mi sospinge l'anima
ai canti, ai carmi, ai voli;
e a turbinar m'attira
nella profonda spira
dell'estro ideator.
E sogno un'Arte eterea
che forse in cielo ha norma,
franca dai rudi vincoli
del metro e della forma,
piena dell'Ideale
che mi fa batter l'ale
e che seguir non so.
Ma poi, se avvien che l'angelo
fiaccato si ridesti,
i santi sogni fuggono
impauriti e mesti;
allor, davanti al raggio
del mutato miraggio,
quasi rapito, sto:
e sogno allor la magica
Circe col suo corteo
d'alci e di pardi, attoniti
nel loro incanto reo.
E il cielo, altezza impervia,
derido e di protervia
mi pasco e di velen.
E sogno un'Arte reproba
che smaga il mio pensiero
dietro le basse immagini
d'un ver che mente al Vero
e in aspro carme immerso
sulle mie labbra il verso
bestemmiando vien.
Questa è la vita! L'ebete
vita che c'innamora,
lenta che pare un secolo,
breve che pare un'ora;
un agitarsi alterno
fra paradiso e inferno
che non s'accheta più!
Come istrion, su cupida
plebe di rischio ingorda,
fa pompa d'equilibrio
sovra una tesa corda,
tal è l'uman, librato
fra un sogno di peccato
e un sogno di virtù. (da Il libro dei versi)
Arrigo Boito, A Emilio Praga
Siam tristi, Emilio, e da ogni salute
Messi in bando ambidue.
Io numerando vò le mie cadute,
Tu numeri le tue.
Precipitiam nel sonno e nel dolore
Ogni giorno più smorti,
Fameliche su noi volano l’ore
Qual su due nuovi morti.
E intanto il vulgo intuona per le piazze
La fanfara dell’ire,
Ed urla a noi fra le risate pazze:
«Arte dell’avvenire!»
E ridiamo noi pur colla baldoria
Che ci beffa e trascina,
Voltando il segno della nostra gloria
In motto da berlina.
Tali noi siam ed anco il refrigerio
Ci abbandona del canto.
E ne strugge perenne un desiderio
Sempre nuovo ed affranto.
Or sul suolo piombiam verso il fatale
Peso che a’ pesi è somma,
Or balziamo nel ciel dell’Ideale,
Vuote palle di gomma.
Sono stanco, languente, ho già percorso
Assai la vita rea,
Ho già sentito assai quel doppio morso
Del Vero e dell’Idea.
Ho perduti i miei sogni ad uno ad uno
Com’oboli di cieco;
Nè un sogno d’oro, ahimè! nè un sogno bruno
Oggi non ho più meco.
E come il bruco che rifà la seta
Colle smunte fibrille.
Rifeci il voto a una mia forte mèta
E cento volte e mille.
Carmi! poemi! liriche! ballate!
Drammi! odi! canzoni!...
Vanità! Vanità! glorie sognate!
Perdute illusïoni!
Non parliamone più; quelle rimorte
Poniam larve in obblio...
I miei pensier vanno verso la morte
Come l’acqua al pendio,
E se scendo le alture, a notte folta,
Solo, nella caligine,
L’anima mia già crede esser travolta
Dall’eterna vertigine. (da Il libro dei versi)
Arrigo Boito, Lezione d'anatomia
La sala è lugubre;
dal negro tetto
discende l'alba,
che si riverbera
sul freddo letto
con luce scialba.
Chi dorme?... Un'etica
defunta ieri
all'ospedale;
tolta alla requie
dei cimiteri,
e al funerale:
tolta alla placida
nenia del prete,
e al dormitorio;
tolta alle gocciole
roride e chete
dell'aspersorio.
Delitto! e sanguina
per piaga immonda
il petto a quella!...
Ed era giovane!
ed era bionda!
ed era bella!
Con quel cadavere
(steril connubio!
sapienza insana!)
tu accresci il numero
di qualche dubio,
scïenza umana!
Mentre urla il medico
la sua lezione:
E cita ad hoc:
Vesalio, Ippocrate,
Harvey, Bacone,
Sprengel e Koch,
io penso ai teneri
casi passati
su quella testa,
ai sogni estatici
invan sognati
da quella mesta.
Penso agli eterei
della speranza
mille universi!
Finzion fuggevole
più che una stanza
di quattro versi.
Pur quella vergine
senza sudario
sperò, nell’ore
più melanconiche
come un santuario
chiuse il suo cuore,
ed ora il clinico
che glielo svelle
grida ed esorta:
«ecco le valvole,»
«ecco le celle,»
«ecco l’aòrta.»
Poi segue: « huic sanguinis
circulationi...».
Ed io, travolto,
ritorno a leggere
le mie visioni
sul bianco volto.
Scïenza, vattene
co’ tuoi conforti!
Ridammi i mondi
del sogno e l’anima!
Sia pace ai morti
e ai moribondi.
Perdona o pallida
adolescente!
Fanciulla pia,
dolce, purissima,
fiore languente
di poësia!
E mentre suscito
nel mio segreto
quei sogni adorni,...
in quel cadavere
si scopre un feto
di trenta giorni. (da Il libro dei versi)
Wolfgang Goethe, Aria di Mignon (Kennst du das Land...)3
Conosci tu la terra dove fioriscono i limoni,
gli aranci dorati rilucono fra le foglie scure,
3 Mignon è una delicata fanciulla, che è stata rapita in Italia da una compagnia di zingari e condotta
in Germania. Dopo varie disavventure, ella viene liberata da Wilhelm Meister, che diviene il suo
benefattore. In questa ballata Mignon, presa dalla nostalgia per l'Italia, prega Guglielmo di
ricondurla
in
patria.
La ballata fa parte del romanzo Gli anni dell'apprendistato di Wilhelm Meister di Goethe e in essa
rivive il ricordo dell'Italia, la terra del sole e dell'azzurro cielo, a cui lo stesso Goethe anelava, come
a una patria ideale.
L'aria sarà musicata da Franz Schubert.
Dal romanzo sarà poi tratta Mignon, tragedia lirica in tre atti e 5 quadri di Amboise Thomas, su
libretto di Jules Barbier e Michel Carré, tratta da Gli anni dell'apprendistato di Wilhelm Meister di
Goethe, rappresentata per la prima volta all' Opèra Comique di Parigi il 17 novembre 1866.
una mite brezza spira dal cielo azzurro,
il mirto immoto resta e alto si erge l’alloro,
La conosci tu, forse ?
Laggiù, laggiù
Con te, amore mio, io vorrei andare.
Conosci tu la casa ? Il tetto riposa su alte colonne,
risplende la sala, la stanza riluce,
e si ergono statue di marmo che mi guardano:
Che cosa ti hanno fatto, povera bambina ?
La conosci tu forse ?
Laggiù, laggiù
Con te, mio difensore, io vorrei andare.
Conosci tu la montagna e il suo sentiero fra le nuvole ?
Il mulo cerca il suo cammino nella nebbia;
Nelle grotte vive la stirpe antica dei draghi;
Si sgretola la rupe e su di essa si chiudono i flutti,
La conosci tu, forse ?
Laggiù, laggiù
E’ il nostro cammino; andiamo, padre mio!
Lorenzo Stecchetti (Olindo Guerrini), A Venezia
Sei pur bella, Venezia, in mezzo all'onde
Specchio tranquillo ai monumenti alteri!
Sei pur bella, canzon de' gondolieri,
Cui dal Lido muggendo il mar risponde!
Amo, Venezia, le tue vie gioconde,
Già testimoni dei domati imperi,
Amo i palagi tuoi superbi e neri
E le tue donne dalle treccie bionde.
V'amo, templi ove splende ogni tesoro
E d'arti e di memorie, ove Tiziano
Pingea fanciulle dai capelli d'oro.
V'amo, trofei rapiti al mussulmano
Di Candia e di Morea: v'amo e v'adoro,
Sogliole fritte e vin di Conegliano. (da Postuma)
Lorenzo Stecchetti (Olindo Guerrini), Il canto dell'odio
Quando tu dormirai dimenticata
Sotto la terra grassa
E la croce di Dio sarà piantata
Ritta sulla tua cassa,
Quando ti coleran marcie le gote
Entro i denti malfermi
E nelle occhiaie tue fetenti e vuote
Brulicheranno i vermi,
Per te quel sonno che per altri è pace
Sarà strazio novello
E un rimorso verrà freddo, tenace,
A morderti il cervello.
Un rimorso acutissimo ed atroce
Verrà nella tua fossa
A dispetto di Dio, della sua croce,
A rosicchiarti l'ossa.
Io sarò quel rimorso. Io te cercando
Entro la notte cupa,
Lamia che fugge il dì, verrò latrando
Come latra una lupa;
Io con quest'ugne scaverò la terra
Per te fatta letame
E il turpe legno schioderò che serra
La tua carogna infame.
Oh, come nel tuo core ancor vermiglio
Sazierò l'odio antico,
Oh, con che gioia affonderò l'artiglio
Nel tuo ventre impudico!
Sul tuo putrido ventre accoccolato
Io poserò in eterno,
Spettro della vendetta e del peccato,
Spavento dell'inferno:
Ed all'orecchio tuo che fu sì bello
Sussurrerò implacato
Detti che bruceranno il tuo cervello
Come un ferro infocato.
Quando tu mi dirai: perchè mi mordi
E di velen m'imbevi?
Io ti risponderò: non ti ricordi
Che bei capelli avevi?
Non ti ricordi dei capelli biondi
Che ti coprian le spalle
E degli occhi nerissimi, profondi,
Pieni di fiamme gialle?
E delle audacie del tuo busto e della
Opulenza dell'anca?
Non ti ricordi più com'eri bella,
Provocatrice e bianca?
Ma non sei dunque tu che nudo il petto
Agli occhi altrui porgesti
E, spumante Licisca, entro al tuo letto
Passar la via facesti?
Ma non sei tu che agli ebbri ed ai soldati
Spalancasti le braccia,
Che discendesti a baci innominati
E a me ridesti in faccia?
Ed io t'amavo, ed io ti son caduto
Pregando innanzi e, vedi,
Quando tu mi guardavi, avrei voluto
Morir sotto a' tuoi piedi.
Perchè negare - a me che pur t'amavo Uno sguardo gentile,
Quando per te mi sarei fatto schiavo,
Mi sarei fatto vile?
Perchè m'hai detto no quando carponi
Misericordia chiesi,
E sulla strada intanto i tuoi lenoni
Aspettavan gl'Inglesi?
Hai riso? Senti! Dal sepolcro cavo
Questa tua rea carogna,
Nuda la carne tua che tanto amavo
L'inchiodo sulla gogna,
E son la gogna i versi ov'io ti danno
Al vituperio eterno,
A pene che rimpianger ti faranno
Le pene dell'inferno.
Qui rimorir ti faccio, o maledetta,
Piano a colpi di spillo,
E la vergogna tua, la mia vendetta
Tra gli occhi ti sigillo. (da Postuma)
Lorenzo Stecchetti (Olindo Guerrini), Poveri uccelli, che al giardin volate
Poveri uccelli, che al giardin volate
de' poeti morali e religiosi
e tra le frasche pudibonde ascosi
il biscottino solito aspettate,
poveri uccelli, non ve ne fidate,
poveri uccelli, siate men golosi.
Se gli uomini con voi son maliziosi,
fingono i vati per mestier. Badate.
Conosco più d' un arcade patito
che d' adorarvi ne' sonetti ostenta,
ne' sonetti di zucchero candito,
ma quando 1' eco de' suoi gridi è spenta,
si rassegna a pranzar con appetito
e gli piacete assai con la polenta. (da Polemica)