Letteratura italiana Favaro - Università Terza Età Mestre
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Letteratura italiana Favaro - Università Terza Età Mestre
Giacomo Leopardi Amore e Morte Muor giovane colui ch’al cielo è caro Menandro Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte Ingenerò la sorte. Cose quaggiù sì belle Altre il mondo non ha, non han le stelle. Nasce dall’uno il bene, Nasce il piacer maggiore Che per lo mar dell’essere si trova; L’altra ogni gran dolore, Ogni gran male annulla. Bellissima fanciulla, Dolce a veder, non quale La si dipinge la codarda gente, Gode il fanciullo Amore Accompagnar sovente; E sorvolano insiem la via mortale, Primi conforti d’ogni saggio core. Nè cor fu mai più saggio Che percosso d’amor, nè mai più forte Sprezzò l’infausta vita, Nè per altro signore Come per questo a perigliar fu pronto: Ch’ove tu porgi aita, Amor, nasce il coraggio, O si ridesta; e sapiente in opre, Non in pensiero invan, siccome suole, Divien l’umana prole. Quando novellamente Nasce nel cor profondo Un amoroso affetto, Languido e stanco insiem con esso in petto Un desiderio di morir si sente: Come, non so: ma tale D’amor vero e possente è il primo effetto. Forse gli occhi spaura Allor questo deserto: a se la terra Forse il mortale inabitabil fatta Vede omai senza quella Nova, sola, infinita Felicità che il suo pensier figura: Ma per cagion di lei grave procella Presentendo in suo cor, brama quiete, Brama raccorsi in porto Dinanzi al fier disio, Che già, rugghiando, intorno intorno oscura. Poi, quando tutto avvolge La formidabil possa, E fulmina nel cor l’invitta cura, Quante volte implorata Con desiderio intenso, Morte, sei tu dall’affannoso amante! Quante la sera, e quante Abbandonando all’alba il corpo stanco, Se beato chiamò s’indi giammai Non rilevasse il fianco, Nè tornasse a veder l’amara luce! E spesso al suon della funebre squilla, Al canto che conduce La gente morta al sempiterno obblio, Con più sospiri ardenti Dall’imo petto invidiò colui Che tra gli spenti ad abitar sen giva. Fin la negletta plebe, L’uom della villa, ignaro D’ogni virtù che da saper deriva, Fin la donzella timidetta e schiva, Che già di morte al nome Sentì rizzar le chiome, Osa alla tomba, alle funeree bende Fermar lo sguardo di costanza pieno, Osa ferro e veleno Meditar lungamente, E nell’indotta mente La gentilezza del morir comprende. Tanto alla morte inclina D’amor la disciplina. Anco sovente, A tal venuto il gran travaglio interno Che sostener nol può forza mortale, O cede il corpo frale Ai terribili moti, e in questa forma Pel fraterno poter Morte prevale; O così sprona Amor là nel profondo, Che da se stessi il villanello ignaro, La tenera donzella Con la man violenta Pongon le membra giovanili in terra. Ride ai lor casi il mondo, A cui pace e vecchiezza il ciel consenta. Ai fervidi, ai felici, Agli animosi ingegni L’uno o l’altro di voi conceda il fato, Dolci signori, amici All’umana famiglia, Al cui poter nessun poter somiglia Nell’immenso universo, e non l’avanza, Se non quella del fato, altra possanza. E tu, cui già dal cominciar degli anni Sempre onorata invoco, Bella Morte, pietosa Tu sola al mondo dei terreni affanni, Se celebrata mai Fosti da me, s’al tuo divino stato L’onte del volgo ingrato Ricompensar tentai, Non tardar più, t’inchina A disusati preghi, Chiudi alla luce omai Questi occhi tristi, o dell’età reina. Me certo troverai, qual si sia l’ora Che tu le penne al mio pregar dispieghi, Erta la fronte, armato, E renitente al fato, La man che flagellando si colora Nel mio sangue innocente Non ricolmar di lode, Non benedir, com’usa Per antica viltà l’umana gente; Ogni vana speranza onde consola Se coi fanciulli il mondo, Ogni conforto stolto Gittar da me; null’altro in alcun tempo Sperar, se non te sola; Solo aspettar sereno Quel dì ch’io pieghi addormentato il volto Nel tuo virgineo seno. A se stesso Or poserai per sempre, Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo, Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento, In noi di cari inganni, Non che la speme, il desiderio è spento. Posa per sempre. Assai Palpitasti. Non val cosa nessuna I moti tuoi, nè di sospiri è degna La terra. Amaro e noia La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. T’acqueta omai. Dispera L’ultima volta. Al gener nostro il fato Non donò che il morire. Omai disprezza Te, la natura, il brutto Poter che, ascoso, a comun danno impera, E l’infinita vanità del tutto. Palinodia Al Marchese Gino Capponi Il sempre sospirar nulla rileva Petrarca Errai, candido Gino; assai gran tempo, E di gran lunga errai. Misera e vana Stimai la vita, e sovra l’altre insulsa La stagion ch’or si volge. Intolleranda Parve, e fu, la mia lingua alla beata Prole mortal, se dir si dee mortale L’uomo, o si può. Fra maraviglia e sdegno, Dall’Eden odorato in cui soggiorna, Rise l’alta progenie, e me negletto Disse, o mal venturoso, e di piaceri O incapace o inesperto, il proprio fato Creder comune, e del mio mal consorte L’umana specie. Alfin per entro il fumo De’ sígari onorato, al romorio De’ crepitanti pasticcini, al grido Militar, di gelati e di bevande Ordinator, fra le percosse tazze E i branditi cucchiai, viva rifulse Agli occhi miei la giornaliera luce Delle gazzette. Riconobbi e vidi La pubblica letizia, e le dolcezze Del destino mortal. Vidi l’eccelso Stato e il valor delle terrene cose, E tutto fiori il corso umano, e vidi Come nulla quaggiù dispiace e dura. Nè men conobbi ancor gli studi e l’opre Stupende, e il senno, e le virtudi, e l’alto Saver del secol mio. Nè vidi meno Da Marrocco al Catai, dall’Orse al Nilo E da Boston a Goa, correr dell’alma Felicità su l’orme a gara ansando Regni, imperi e ducati; e già tenerla O per le chiome fluttuanti, o certo Per l’estremo del boa. Così vedendo, E meditando sovra i larghi fogli Profondamente, del mio grave, antico Errore, e di me stesso, ebbi vergogna. Aureo secolo omai volgono, o Gino, I fusi delle Parche. Ogni giornale, Gener vario di lingue e di colonne, Da tutti i lidi lo promette al mondo Concordemente. Universale amore, Ferrate vie, moltiplici commerci, Vapor, tipi e choléra i più divisi Popoli e climi stringeranno insieme: Nè maraviglia fia se pino o quercia Suderà latte e mele, o s’anco al suono D’un walser danzerà. Tanto la possa Infin qui de’ lambicchi e delle storte, E le macchine al cielo emulatrici Crebbero, e tanto cresceranno al tempo Che seguirà; poiché di meglio in meglio Senza fin vola e volerà mai sempre Di Sem, di Cam e di Giapeto il seme. Ghiande non ciberà certo la terra Però, se fame non la sforza: il duro Ferro non deporrà. Ben molte volte Argento ed or disprezzerà, contenta A polizze di cambio. E già dal caro Sangue de’ suoi non asterrà la mano La generosa stirpe: anzi coverte Fien di stragi l’Europa e l’altra riva Dell’atlantico mar, fresca nutrice Di pura civiltà, sempre che spinga Contrarie in campo le fraterne schiere Di pepe o di cannella o d’altro aroma Fatal cagione, o di melate canne, O cagion qual si sia ch’ad auro torni. Valor vero e virtù, modestia e fede E di giustizia amor, sempre in qualunque Pubblico stato, alieni in tutto e lungi Da’ comuni negozi, ovvero in tutto Sfortunati saranno, afflitti e vinti; Perchè diè lor natura, in ogni tempo Starsene in fondo. Ardir protervo e frode, Con mediocrità, regneran sempre, A galleggiar sortiti. Imperio e forze, Quanto più vogli o cumulate o sparse, Abuserà chiunque avralle, e sotto Qualunque nome. Questa legge in pria Scrisser natura e il fato in adamante; E co’ fulmini suoi Volta nè Davy Lei non cancellerà, non Anglia tutta Con le macchine sue, nè con un Gange Di politici scritti il secol novo. Sempre il buono in tristezza, il vile in festa Sempre e il ribaldo: incontro all’alme eccelse In arme tutti congiurati i mondi Fieno in perpetuo: al vero onor seguaci Calunnia, odio e livor: cibo de’ forti Il debole, cultor de’ ricchi e servo Il digiuno mendico, in ogni forma Di comun reggimento, o presso o lungi Sien l’eclittica o i poli, eternamente Sarà, se al gener nostro il proprio albergo E la face del dì non vengon meno. Queste lievi reliquie e questi segni Delle passate età, forza è che impressi Porti quella che sorge età dell’oro: Perchè mille discordi e repugnanti L’umana compagnia principii e parti Ha per natura; e por quegli odii in pace Non valser gl’intelletti e le possanze Degli uomini giammai, dal dì che nacque L’inclita schiatta, e non varrà, quantunque Saggio sia nè possente, al secol nostro Patto alcuno o giornal. Ma nelle cose Più gravi, intera, e non veduta innanzi, Fia la mortal felicità. Più molli Di giorno in giorno diverran le vesti O di lana o di seta. I rozzi panni Lasciando a prova agricoltori e fabbri, Chiuderanno in coton la scabra pelle, E di castoro copriran le schiene. Meglio fatti al bisogno, o più leggiadri Certamente a veder, tappeti e coltri, Seggiole, canapè, sgabelli e mense, Letti, ed ogni altro arnese, adorneranno Di lor menstrua beltà gli appartamenti; E nove forme di paiuoli, e nove Pentole ammirerà l’arsa cucina. Da Parigi a Calais, di quivi a Londra, Da Londra a Liverpool, rapido tanto Sarà, quant’altri immaginar non osa, Il cammino, anzi il volo: e sotto l’ampie Vie del Tamigi fia dischiuso il varco, Opra ardita, immortal, ch’esser dischiuso Dovea, già son molt’anni. Illuminate Meglio ch’or son, benchè sicure al pari, Nottetempo saran le vie men trite Delle città sovrane, e talor forse Di suddita città le vie maggiori. Tali dolcezze e sì beata sorte Alla prole vegnente il ciel destina. Fortunati color che mentre io scrivo Miagolanti in su le braccia accoglie La levatrice! a cui veder s’aspetta Quei sospirati dì, quando per lunghi Studi fia noto, e imprenderà col latte Dalla cara nutrice ogni fanciullo, Quanto peso di sal, quanto di carni, E quante moggia di farina inghiotta Il patrio borgo in ciascun mese; e quanti In ciascun anno partoriti e morti Scriva il vecchio prior: quando, per opra Di possente vapore, a milioni Impresse in un secondo, il piano e il poggio, E credo anco del mar gl’immensi tratti, Come d’aeree gru stuol che repente Alle late campagne il giorno involi, Copriran le gazzette, anima e vita Dell’universo, e di savere a questa Ed alle età venture unica fonte! Quale un fanciullo, con assidua cura, Di fogliolini e di fuscelli, in forma O di tempio o di torre o di palazzo, Un edificio innalza; e come prima Fornito il mira, ad atterrarlo è volto, Perchè gli stessi a lui fuscelli e fogli Per novo lavorio son di mestieri; Così natura ogni opra sua, quantunque D’alto artificio a contemplar, non prima Vede perfetta, ch’a disfarla imprende, Le parti sciolte dispensando altrove. E indarno a preservar se stesso ed altro Dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa Eternamente, il mortal seme accorre Mille virtudi oprando in mille guise Con dotta man: che, d’ogni sforzo in onta, La natura crudel, fanciullo invitto, Il suo capriccio adempie, e senza posa Distruggendo e formando si trastulla. Indi varia, infinita una famiglia Di mali immedicabili e di pene Preme il fragil mortale, a perir fatto Irreparabilmente: indi una forza Ostil, distruggitrice, e dentro il fere E di fuor da ogni lato, assidua, intenta Dal dì che nasce; e l’affatica e stanca, Essa indefatigata; insin ch’ei giace Alfin dall’empia madre oppresso e spento. Queste, o spirto gentil, miserie estreme Dello stato mortal; vecchiezza e morte, Ch’han principio d’allor che il labbro infante Preme il tenero sen che vita instilla; Emendar, mi cred’io, non può la lieta Nonadecima età più che potesse La decima o la nona, e non potranno Più di questa giammai l’età future. Però, se nominar lice talvolta Con proprio nome il ver, non altro in somma Fuor che infelice, in qualsivoglia tempo, E non pur ne’ civili ordini e modi, Ma della vita in tutte l’altre parti, Per essenza insanabile, e per legge Universal, che terra e cielo abbraccia, Ogni nato sarà. Ma novo e quasi Divin consiglio ritrovàr gli eccelsi Spirti del secol mio: che, non potendo Felice in terra far persona alcuna, L’uomo obbliando, a ricercar si diero Una comun felicitade; e quella Trovata agevolmente, essi di molti Tristi e miseri tutti, un popol fanno Lieto e felice: e tal portento, ancora Da pamphlets, da riviste e da gazzette Non dichiarato, il civil gregge ammira. Oh menti, oh senno, oh sovrumano acume Dell’età ch’or si volge! E che sicuro Filosofar, che sapienza, o Gino, In più sublimi ancora e più riposti Subbietti insegna ai secoli futuri Il mio secolo e tuo! Con che costanza Quel che ieri schernì, prosteso adora Oggi, e domani abbatterà, per girne Raccozzando i rottami, e per riporlo Tra il fumo degl’incensi il dì vegnente! Quanto estimar si dee, che fede inspira Del secol che si volge, anzi dell’anno, Il concorde sentir! con quanta cura Convienci a quel dell’anno, al qual difforme Fia quel dell’altro appresso, il sentir nostro Comparando, fuggir che mai d’un punto Non sien diversi! E di che tratto innanzi, Se al moderno si opponga il tempo antico, Filosofando il saper nostro è scorso! Un già de’ tuoi, lodato Gino; un franco Di poetar maestro, anzi di tutte Scienze ed arti e facoltadi umane, E menti che fur mai, sono e saranno, Dottore, emendator, lascia, mi disse, I propri affetti tuoi. Di lor non cura Questa virile età, volta ai severi Economici studi, e intenta il ciglio Nelle pubbliche cose. Il proprio petto Esplorar che ti val? Materia al canto Non cercar dentro te. Canta i bisogni Del secol nostro, e la matura speme. Memorande sentenze! ond’io solenni Le risa alzai quando sonava il nome Della speranza al mio profano orecchio Quasi comica voce, o come un suono Di lingua che dal latte si scompagni. Or torno addietro, ed al passato un corso Contrario imprendo, per non dubbi esempi Chiaro oggimai ch’al secol proprio vuolsi, Non contraddir, non repugnar, se lode Cerchi e fama appo lui, ma fedelmente Adulando ubbidir: così per breve Ed agiato cammin vassi alle stelle. Ond’io, degli astri desioso, al canto Del secolo i bisogni omai non penso Materia far; che a quelli, ognor crescendo, Provveggono i mercati e le officine Già largamente; ma la speme io certo Dirò, la speme, onde visibil pegno Già concedon gli Dei; già, della nova Felicità principio, ostenta il labbro De’ giovani, e la guancia, enorme il pelo. O salve, o segno salutare, o prima Luce della famosa età che sorge. Mira dinanzi a te come s’allegra La terra e il ciel, come sfavilla il guardo Delle donzelle, e per conviti e feste Qual de’ barbati eroi fama già vola. Cresci, cresci alla patria, o maschia certo Moderna prole. All’ombra de’ tuoi velli Italia crescerà, crescerà tutta Dalle foci del Tago all’Ellesponto Europa, e il mondo poserà sicuro. E tu comincia a salutar col riso Gl’ispidi genitori, o prole infante, Eletta agli aurei dì: nè ti spauri L’innocuo nereggiar de’ cari aspetti. Ridi, o tenera prole: a te serbato E’ di cotanto favellare il frutto; Veder gioia regnar, cittadi e ville, Vecchiezza e gioventù del par contente, E le barbe ondeggiar lunghe due spanne. Il tramonto della luna Quale in notte solinga, Sovra campagne inargentate ed acque, Là ‘ve zefiro aleggia, E mille vaghi aspetti E ingannevoli obbietti Fingon l’ombre lontane Infra l’onde tranquille E rami e siepi e collinette e ville; Giunta al confin del cielo, Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno Nell’infinito seno Scende la luna; e si scolora il mondo; Spariscon l’ombre, ed una Oscurità la valle e il monte imbruna; Orba la notte resta, E cantando, con mesta melodia, L’estremo albor della fuggente luce, Che dianzi gli fu duce, Saluta il carrettier dalla sua via; Tal si dilegua, e tale Lascia l’età mortale La giovinezza. In fuga Van l’ombre e le sembianze Dei dilettosi inganni; e vengon meno Le lontane speranze, Ove s’appoggia la mortal natura. Abbandonata, oscura Resta la vita. In lei porgendo il guardo, Cerca il confuso viatore invano Del cammin lungo che avanzar si sente Meta o ragione; e vede Che a se l’umana sede, Esso a lei veramente è fatto estrano. Troppo felice e lieta Nostra misera sorte Parve lassù, se il giovanile stato, Dove ogni ben di mille pene è frutto, Durasse tutto della vita il corso. Troppo mite decreto Quel che sentenzia ogni animale a morte, S’anco mezza la via Lor non si desse in pria Della terribil morte assai più dura. D’intelletti immortali Degno trovato, estremo Di tutti i mali, ritrovàr gli eterni La vecchiezza, ove fosse Incolume il desio, la speme estinta, Secche le fonti del piacer, le pene Maggiori sempre, e non più dato il bene. Voi, collinette e piagge, Caduto lo splendor che all’occidente Inargentava della notte il velo, Orfane ancor gran tempo Non resterete; che dall’altra parte Tosto vedrete il cielo Imbiancar novamente, e sorger l’alba: Alla qual poscia seguitando il sole, E folgorando intorno Con sue fiamme possenti, Di lucidi torrenti Inonderà con voi gli eterei campi. Ma la vita mortal, poi che la bella Giovinezza sparì, non si colora D’altra luce giammai, nè d’altra aurora. Vedova è insino al fine; ed alla notte Che l’altre etadi oscura, Segno poser gli Dei la sepoltura. La ginestra o il fiore del deserto E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce. Giovanni, III, 19. Qui su l’arida schiena Del formidabil monte Sterminator Vesevo, La qual null’altro allegra arbor nè fiore, Tuoi cespi solitari intorno spargi, Odorata ginestra, Contenta dei deserti. Anco ti vidi De’ tuoi steli abbellir l’erme contrade Che cingon la cittade La qual fu donna de’ mortali un tempo, E del perduto impero Par che col grave e taciturno aspetto Faccian fede e ricordo al passeggero. Or ti riveggo in questo suol, di tristi Lochi e dal mondo abbandonati amante, E d’afflitte fortune ognor compagna. Questi campi cosparsi Di ceneri infeconde, e ricoperti Dell’impietrata lava, Che sotto i passi al peregrin risona; Dove s’annida e si contorce al sole La serpe, e dove al noto Cavernoso covil torna il coniglio; Fur liete ville e colti, E biondeggiàr di spiche, e risonaro Di muggito d’armenti; Fur giardini e palagi, Agli ozi de’ potenti Gradito ospizio; e fur città famose Che coi torrenti suoi l’altero monte Dall’ignea bocca fulminando oppresse Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno Una ruina involve, Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi I danni altrui commiserando, al cielo Di dolcissimo odor mandi un profumo, Che il deserto consola. A queste piagge Venga colui che d’esaltar con lode Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto E’ il gener nostro in cura All’amante natura. E la possanza Qui con giusta misura Anco estimar potrà dell’uman seme, Cui la dura nutrice, ov’ei men teme, Con lieve moto in un momento annulla In parte, e può con moti Poco men lievi ancor subitamente Annichilare in tutto. Dipinte in queste rive Son dell’umana gente Le magnifiche sorti e progressive. Qui mira e qui ti specchia, Secol superbo e sciocco, Che il calle insino allora Dal risorto pensier segnato innanti Abbandonasti, e volti addietro i passi, Del ritornar ti vanti, E proceder il chiami. Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti, Di cui lor sorte rea padre ti fece, Vanno adulando, ancora Ch’a ludibrio talora T’abbian fra se. Non io Con tal vergogna scenderò sotterra; Ma il disprezzo piuttosto che si serra Di te nel petto mio, Mostrato avrò quanto si possa aperto: Ben ch’io sappia che obblio Preme chi troppo all’età propria increbbe. Di questo mal, che teco Mi fia comune, assai finor mi rido. Libertà vai sognando, e servo a un tempo Vuoi di novo il pensiero, Sol per cui risorgemmo Della barbarie in parte, e per cui solo Si cresce in civiltà, che sola in meglio Guida i pubblici fati. Così ti spiacque il vero Dell’aspra sorte e del depresso loco Che natura ci diè. Per questo il tergo Vigliaccamente rivolgesti al lume Che il fe palese: e, fuggitivo, appelli Vil chi lui segue, e solo Magnanimo colui Che se schernendo o gli altri, astuto o folle, Fin sopra gli astri il mortal grado estolle. Uom di povero stato e membra inferme Che sia dell’alma generoso ed alto, Non chiama se nè stima Ricco d’or nè gagliardo, E di splendida vita o di valente Persona infra la gente Non fa risibil mostra; Ma se di forza e di tesor mendico Lascia parer senza vergogna, e noma Parlando, apertamente, e di sue cose Fa stima al vero uguale. Magnanimo animale Non credo io già, ma stolto, Quel che nato a perir, nutrito in pene, Dice, a goder son fatto, E di fetido orgoglio Empie le carte, eccelsi fati e nove Felicità, quali il ciel tutto ignora, Non pur quest’orbe, promettendo in terra A popoli che un’onda Di mar commosso, un fiato D’aura maligna, un sotterraneo crollo Distrugge sì, che avanza A gran pena di lor la rimembranza. Nobil natura è quella Che a sollevar s’ardisce Gli occhi mortali incontra Al comun fato, e che con franca lingua, Nulla al ver detraendo, Confessa il mal che ci fu dato in sorte, E il basso stato e frale; Quella che grande e forte Mostra se nel soffrir, nè gli odii e l’ire Fraterne, ancor più gravi D’ogni altro danno, accresce Alle miserie sue, l’uomo incolpando Del suo dolor, ma dà la colpa a quella Che veramente è rea, che de’ mortali Madre è di parto e di voler matrigna. Costei chiama inimica; e incontro a questa Congiunta esser pensando, Siccome è il vero, ed ordinata in pria L’umana compagnia, Tutti fra se confederati estima Gli uomini, e tutti abbraccia Con vero amor, porgendo Valida e pronta ed aspettando aita Negli alterni perigli e nelle angosce Della guerra comune. Ed alle offese Dell’uomo armar la destra, e laccio porre Al vicino ed inciampo, Stolto crede così, qual fora in campo Cinto d’oste contraria, in sul più vivo Incalzar degli assalti, Gl’inimici obbliando, acerbe gare Imprender con gli amici, E sparger fuga e fulminar col brando Infra i propri guerrieri. Così fatti pensieri Quando fien, come fur, palesi al volgo, E quell’orror che primo Contra l’empia natura Strinse i mortali in social catena, Fia ricondotto in parte Da verace saper, l’onesto e il retto Conversar cittadino, E giustizia e pietade, altra radice Avranno allor che non superbe fole, Ove fondata probità del volgo Così star suole in piede Quale star può quel ch’ha in error la sede. Sovente in queste rive, Che, desolate, a bruno Veste il flutto indurato, e par che ondeggi, Seggo la notte; e sulla mesta landa In purissimo azzurro Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle, Cui di lontan fa specchio Il mare, e tutto di scintille in giro Per lo vòto Seren brillar il mondo. E poi che gli occhi a quelle luci appunto, Ch’a lor sembrano un punto, E sono immense, in guisa Che un punto a petto a lor son terra e mare Veracemente; a cui L’uomo non pur, ma questo Globo ove l’uomo è nulla, Sconosciuto è del tutto; e quando miro Quegli ancor più senz’alcun fin remoti Nodi quasi di stelle, Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo E non la terra sol, ma tutte in uno, Del numero infinite e della mole, Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle O sono ignote, o così paion come Essi alla terra, un punto Di luce nebulosa; al pensier mio Che sembri allora, o prole Dell’uomo? E rimembrando Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte, Che te signora e fine Credi tu data al Tutto, e quante volte Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro Granel di sabbia, il qual di terra ha nome, Per tua cagion, dell’universe cose Scender gli autori, e conversar sovente Co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi Sogni rinnovellando, ai saggi insulta Fin la presente età, che in conoscenza Ed in civil costume Sembra tutte avanzar; qual moto allora, Mortal prole infelice, o qual pensiero Verso te finalmente il cor m’assale? Non so se il riso o la pietà prevale. Come d’arbor cadendo un picciol pomo, Cui là nel tardo autunno Maturità senz’altra forza atterra, D’un popol di formiche i dolci alberghi, Cavati in molle gleba Con gran lavoro, e l’opre E le ricchezze che adunate a prova Con lungo affaticar l’assidua gente Avea provvidamente al tempo estivo, Schiaccia, diserta e copre In un punto; così d’alto piombando, Dall’utero tonante Scagliata al ciel, profondo Di ceneri e di pomici e di sassi Notte e ruina, infusa Di bollenti ruscelli, O pel montano fianco Furiosa tra l’erba Di liquefatti massi E di metalli e d’infocata arena Scendendo immensa piena, Le cittadi che il mar là su l’estremo Lido aspergea, confuse E infranse e ricoperse In pochi istanti: onde su quelle or pasce La capra, e città nove Sorgon dall’altra banda, a cui sgabello Son le sepolte, e le prostrate mura L’arduo monte al suo piè quasi calpesta. Non ha natura al seme Dell’uom più stima o cura Che alla formica: e se più rara in quello Che nell’altra è la strage, Non avvien ciò d’altronde Fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde. Ben mille ed ottocento Anni varcàr poi che spariro, oppressi Dall’ignea forza, i popolati seggi, E il villanello intento Ai vigneti, che a stento in questi campi Nutre la morta zolla e incenerita, Ancor leva lo sguardo Sospettoso alla vetta Fatal, che nulla mai fatta più mite Ancor siede tremenda, ancor minaccia A lui strage ed ai figli ed agli averi Lor poverelli. E spesso Il meschino in sul tetto Dell’ostel villereccio, alla vagante Aura giacendo tutta notte insonne, E balzando più volte, esplora il corso Del temuto bollor, che si riversa Dall’inesausto grembo Sull’arenoso dorso, a cui riluce Di Capri la marina E di Napoli il porto e Mergellina. E se appressar lo vede, o se nel cupo Del domestico pozzo ode mai l’acqua Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli, Desta la moglie in fretta, e via, con quanto Di lor cose rapir posson, fuggendo, Vede lontano l’usato Suo nido, e il picciol campo, Che gli fu dalla fame unico schermo, Preda al flutto rovente Che crepitando giunge, e inesorato Durabilmente sovra quei si spiega. Torna al celeste raggio Dopo l’antica obblivion l’estinta Pompei, come sepolto Scheletro, cui di terra Avarizia o pietà rende all’aperto; E dal deserto foro Diritto infra le file Dei mozzi colonnati il peregrino Lunge contempla il bipartito giogo E la cresta fumante, Ch’alla sparsa ruina ancor minaccia. E nell’orror della secreta notte Per li vacui teatri, per li templi Deformi e per le rotte Case, ove i parti il pipistrello asconde, Come sinistra face Che per voti palagi atra s’aggiri, Corre il baglior della funerea lava, Che di lontan per l’ombre Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge. Così, dell’uomo ignara e dell’etadi Ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno Dopo gli avi i nepoti, Sta natura ognor verde, anzi procede Per sì lungo cammino, Che sembra star. Caggiono i regni intanto, Passan genti e linguaggi: ella nol vede: E l’uom d’eternità s’arroga il vanto. E tu, lenta ginestra, Che di selve odorate Queste campagne dispogliate adorni, Anche tu presto alla crudel possanza Soccomberai del sotterraneo foco, Che ritornando al loco Già noto, stenderà l’avaro lembo Su tue molli foreste. E piegherai Sotto il fascio mortal non renitente Il tuo capo innocente: Ma non piegato insino allora indarno Codardamente supplicando innanzi Al futuro oppressor; ma non eretto Con forsennato orgoglio inver le stelle, Nè sul deserto, dove E la sede e i natali Non per voler ma per fortuna avesti; Ma più saggia, ma tanto Meno inferma dell’uom, quanto le frali Tue stirpi non credesti O dal fato o da te fatte immortali. Paralipomeni della Batracomiomachia: riassunto La vicenda si apre sulla sconfitta in battaglia dei topi contro le rane e i granchi; dopo la morte del re Mangiaprosciutti, i topi decidono di farsi guidare dal condottiero Rubatocchi, e inviano il liberale Leccafondi in ambasceria dai granchi, per trattare le condizioni di pace (canto I). Leccafondi però viene imprigionato da Brancaforte che, per tramite del re dei granchi Senzacapo, detta delle dure condizioni di resa: oltre a dover eleggere un re legittimo e ad ospitare nella loro capitale sotterranea di Topaia trentamila granchi, i topi dovranno accettare i principi di equilibrio e di legittimo intervento dei granchi sul loro regno (canto II). Leccafondi chiede di avere quindici giorni per poter discuterne con gli altri topi, mentre a Topaia Rubatocchi, che pure detiene il potere, indice una consultazione popolare per scegliere la nuova forma di governo: viene così scelta una monarchia costituzionale ed eletto re Rodipane, genero di Mangiaprosciutti (canto III). Il nuovo re e il governo accettano le condizioni dei granchi riferito da Leccafondi, che diventa ministro dell’Interno; tuttavia, Senzacapo, che non vede di buon occhio il regime costituzionale di Topaia, pretende che alla corte dei topi sia riservato un posto per un suo ambasciatore (canto IV). Al rifiuto dei topi, l’unica alternativa è la guerra in campo aperto: i topi, terrorizzati dalla forza dei granchi, fuggono, lasciando il solo Rubatocchi a combattere e a morire eroicamente in battaglia (canto V). Brancaforte occupa Topaia, abolisce la costituzione e controlla Rodipane, rimasto sovrano di facciata, attraverso il granchio consigliere Camminatorto. I tentativi dei topi di organizzarsi in società segrete, sul modello della Carboneria, per ribaltare il regime assolutistico imposto dai granchi si rivelano nei fatti peggiori del male stesso. Leccafondi, perduta ogni carica pubblica, si dà all’esilio, per giungere infine nel palazzo del nobile Dedalo, che lo ospita (canto VI). Quest’ultimo spiega a Leccafondi che potrà salvare Topaia discendendo agli Inferi per chiedere ai morti quale sarà il futuro della città. Così Leccafondi e Dedalo volano sulla terra e arrivano all’Averno, situato in un isola dell’Oceano Pacifico (canto VII). Tuttavia, disceso agli Inferi, Leccafondi scopre che le anime dei topi sono catatoniche, senza alcuno stimolo o desiderio. Riesce tuttavia a parlare con Mangiaprosciutti e Rubatocchi che gli dicono di cercare l’aiuto del generale Assaggiatore. A questo punto il poemetto si interrompe. Leopardi, dai Paralipomeni della Batracomiomachia, canto I, ottave 34 - 41 34 Era nel campo il conte Leccafondi, Signor di Pesafumo e Stacciavento; Topo raro a' suoi dì, che di profondi Pensieri e di dottrina era un portento: Leggi e stati sapea d'entrambi i mondi, E giornali leggea più di dugento; Al cui studio in sua patria aveva eretto, Siccom'oggi diciamo, un gabinetto. 35 Gabinetto di pubblica lettura, Con legge tal, che da giornali in fuore, Libro non s'accogliesse in quelle mura, Che di due fogli al più fosse maggiore; Perché credea che sopra tal misura Stender non si potesse uno scrittore Appropriato ai bisogni universali Politici, economici e morali. 36 Pur dagli amici in parte, e dalle stesse Proprie avvertenze a poco a poco indotto, Anche al romanzo storico concesse Albergar coi giornali, e che per otto Volumi o dieci camminar potesse; E in fin, come dimostro è da quel dotto Scrittor che sopra in testimonio invoco,1 Alla tedesca poesia diè loco. 37 La qual d'antichità supera alquanto Le semitiche varie e la sanscrita,2 E parve al conte aver per proprio vanto Sola il buon gusto ricondurre in vita, Contro il fallace oraziano canto, A studio, per uscir della via trita, Dando tonni al poder, montoni al mare; Gran fatica, e di menti al mondo rare. 38 D'arti tedesche ancor fu innamorato, E chiamavale a se con gran mercede: Perché, giusta l'autor sopra citato, Non eran gli obelischi ancora in piede, Né piramide il capo avea levato, Quando l'arti in Germania avean lor sede, Ove il senso del bello esser più fino Veggiam, che fu nel Greco o nel Latino. 39 1 2 Il “tedesco filologo” della strofa 16 Probabile ironia sulle tesi di J. W. Kuithan e E. Jaekel La biblioteca ch'ebbe, era guernita Di libri di bellissima sembianza, Legati a foggia varia, e sì squisita, Con oro, nastri ed ogni circostanza, Ch'a saldar della veste la partita Quattro corpi non erano abbastanza. Ed era ben ragion, che in quella parte Stava l'utilità, non nelle carte. 40 Lascio il museo, l'archivio, e delle fiere Il serbatoio, e l'orto delle piante, E il portico, nel quale era a vedere, Con baffi enormi e coda di gigante, La statua colossal di Lucerniere, Antico topolin filosofante, E dello stesso una pittura a fresco, Pur di scalpello e di pennel tedesco. 41 Fu di sua specie il conte assai pensoso, Filosofo morale, e filotopo; E natura lodò che il suo famoso Poter mostri quaggiù formando il topo; Di cui l'opre, l'ingegno e il glorioso Stato ammirava; e predicea che dopo Non molto lunga età, saria matura L'alta sorte che a lui dava natura. Paralipomeni della Batracomiomachia, canto IV, ottave 1 – 28 1 Maraviglia talor per avventura, Leggitori onorandi e leggitrici, Cagionato v'avrà questa lettura. E come son degli uomini i giudici Facili per usanza e per natura, Forse, benché benevoli ed amici, Più d'un pensiero in mente avrete accolto, Ch'essere io deggia o menzognero o stolto, 2 Perché le cose del topesco regno, Che son per vetustà da noi lontane Tanto che come appar da più d'un segno, Agguaglian le antichissime indiane, I costumi, il parlar, l'opre, l'ingegno, E l'infime faccende e le sovrane, Quasi ieri o l'altr'ier fossero state, Simili a queste nostre ho figurate. 3 Ma con la maraviglia ogni sospetto Come una nebbia vi torrà di mente Il legger, s'anco non avete letto, Quel che i savi han trovato ultimamente, Speculando col semplice intelletto Sopra la sorte dell'umana gente, Che d'Europa il civil presente stato Debbe ancor primitivo esser chiamato. 4 E che quei che selvaggi il volgo appella Che nei più caldi e nei più freddi liti Ignudi al sole, al vento, alla procella, E sol di tetto natural forniti, Contenti son da poi che la mammella Lasciàr, d'erbe e di vermi esser nutriti, Temon l'aure, le frondi, e che disciolta Dal Sol non caggia la celeste volta; 5 Non vita naturale e primitiva Menan, come fin qui furon creduti, Ma per corruzion sì difettiva, Da una perfetta civiltà caduti, Nella qual come in propria ed in nativa I padri de' lor padri eran vissuti: Perché stato sì reo, come il selvaggio, Estimar natural non è da saggio: 6 Non potendo mai star che la natura, Che al ben degli animali è sempre intenta, E più dell'uom che principal fattura Esser di quella par che si consenta Da tutti noi, sì povera e sì dura Vita ove pur pensando ei si sgomenta, Come propria e richiesta e conformata Abbia al genere uman determinata. 7 Né manco sembra che possibil sia Che lo stato dell'uom vero e perfetto Sia posto in capo di sì lunga via Quanta a farsi civile appar costretto Il gener nostro a misurare in pria, U' son cent'anni un dì quanto all'effetto: Sì lento è il suo cammin per quelle strade Che il conducon dal bosco a civiltade. 8 Perché ingiusto e crudel sarebbe stato, Né per modo nessun conveniente, Che all'infelicità predestinato, Non per suo vizio o colpa anzi innocente, Per ordin primo e natural suo fato Fosse un numero tal d'umana gente, Quanta nascer convenne, e che morisse Prima che a civiltà si pervenisse. 9 Resta che il viver zotico e ferino Corruzion si creda e non natura, E che ingiuria facendo al suo destino Caggia quivi il mortal da grande altura, Dico dal civil grado, ove il divino Senno avea di locarlo avuto cura: Perché se al ciel non vogliam fare oltraggio, Civile ei nasce, e poi divien selvaggio. 10 Questa conclusion che ancor che bella Parravvi alquanto inusitata e strana, Non d'altronde provien se non da quella Forma di ragionar diritta e sana Ch'a priori in iscola ancora s'appella, Appo cui ciascun'altra oggi par vana, La qual per certo alcun principio pone, E tutto l'altro a quel piega e compone. 11 Per certo si suppon che intenta sia Natura sempre al ben degli animali, E che gli ami di cor come la pia Chioccia fa del pulcin che ha sotto l'ali: E vedendosi al tutto acerba e ria La vita esser che al bosco hanno i mortali, Per forza si conchiude in buon latino Che la città fu pria del cittadino. 12 Se libere le menti e preparate Fossero a ciò che i fatti e la ragione Sapessero insegnar, non inchinate A questa più che a quella opinione, Se natura chiamar d'ogni pietate E di qual s'è cortese affezione Sapesser priva, e de' suoi figli antica E capital carnefice e nemica; 13 O se piuttosto ad ogni fin rivolta, Che al nostro che diciamo o bene o male; E confessar che de' suoi fini è tolta La vista al riguardar nostro mortale, Anzi il saper se non da fini sciolta Sia veramente, e se ben v'abbia, e quale; Diremmo ancor con ciascun'altra etade Che il cittadin fu pria della cittade. 14 Non è filosofia se non un'arte La qual di ciò che l'uomo è risoluto Di creder circa a qualsivoglia parte, Come meglio alla fin l'è conceduto, Le ragioni assegnando empie le carte O le orecchie talor per instituto, Con più d'ingegno o men, giusta il potere Che il maestro o l'autor si trova avere. 15 Quella filosofia dico che impera Nel secol nostro senza guerra alcuna, E che con guerra più o men leggera Ebbe negli altri non minor fortuna, Fuor nel prossimo a questo, ove se intera La mia mente oso dir, portò ciascuna Facoltà nostra a quelle cime il passo Onde tosto inchinar l'è forza al basso. 16 In quell'età, d'un'aspra guerra in onta, Altra filosofia regnar fu vista, A cui dinanzi valorosa e pronta L'età nostra arretrossi appena avvista Di ciò che più le spiace e che più monta, Esser quella in sostanza amara e trista; Non che i principii in lei né le premesse Mostrar false da se ben ben sapesse. 17 Ma false o vere, ma disformi o belle Esser queste si fosse o no mostrato, Le conseguenze lor non eran quelle Che l'uom d'aver per ferme ha decretato, E che per ferme avrà fin che le stelle D'orto in occaso andran pel cerchio usato: Perché tal fede in tali o veri o sogni Per sua quiete par che gli bisogni. 18 Ed ancor più, perché da lunga pezza È la sua mente a cotal fede usata, Ed ogni fede a che sia quella avvezza Prodotta par da coscienza innata: Che come suol con grande agevolezza l'usanza con natura esser cangiata, Così vien facilmente alle persone Presa l'usanza lor per la ragione. 19 Ed imparar cred'io che le più volte Altro non sia, se ben vi si guardasse, Che un avvedersi di credenze stolte Che per lungo portar l'alma contrasse, E del fanciullo racquistar con molte Cure il saper ch'a noi l'età sottrasse; Il qual già più di noi non sa né vede, Ma di veder né di saper non crede. 20 Ma noi, s'è fuor dell'uso, ogni pensiero Assurdo giudichiam tosto in effetto, Né pensiam ch'un assurdo il mondo e il vero Esser potrebbe al fral nostro intelletto: E mistero gridiam, perch'a mistero Riesce ancor qualunque uman concetto, Ma i misteri e gli assurdi entro il cervello Vogliam foggiarci come a noi par bello. 21 Or, leggitori miei, scendendo al punto Al qual per lunga e tortuosa via Sempre pure intendendo, ecco son giunto, Potete ormai veder che non per mia Frode o sciocchezza avvien che tali appunto Si pingan nella vostra fantasia De' topi gli antichissimi parenti Quali i popoli son che abbiam presenti: 22 Ma procede da ciò, che il nostro stato Antico è veramente e primitivo Non degli uomini sol, ma in ogni lato D'ogni animal che in aria o in terra è vivo. Perché ingiusto saria che condannato Fosse di sua natura a un viver privo Quasi d'ogni contento e pien di mali L'interminato stuol degli animali. 23 Per tanto in civiltà, data secondo Il grado naturale a ciascheduna, Tutte le specie lor vennero al mondo, E tutte poscia da cotal fortuna Per lor proprio fallir caddero in fondo, E infelici son or; né causa alcuna Ha il ciel però dell'esser lor sì tristo Il qual bene al bisogno avea provvisto. 24 E se colma d'angoscia e di paura Del topolin la vita ci apparisce, Il qual mirando mai non s'assicura, Fugge e per ogni crollo inorridisce, Corruzion si creda e non natura La miseria che il topo oggi patisce, A cui forse il menàr quei casi in parte Che seguitando narran queste carte. 25 E la dispersion della sua schiatta Ebbe forse d'allor cominciamento, La qual raminga in su la terra è fatta. Perduto il primo e proprio alloggiamento. Come il popol giudeo, che mal s'adatta Esule, sparso, a cento sedi, e cento, E di Solima il tempio e le campagne Di Palestina si rammenta e piagne. 26 Ma il novello signor giurato ch'ebbe Servar esso e gli eredi eterno il patto, Incoronato fu come si debbe, E il manto si vestì di pel di gatto, E lo scettro impugnò, che d'auro crebbe, Nella cui punta il mondo era ritratto, Perché credeva allor del mondo intero La specie soricina aver l'impero. 27 Dato alla plebe fu cacio con polta, E vin vecchio gittàr molte fontane, Gridando ella per tutto allegra e folta Viva la carta e viva Rodipane, Tal ch'eccheggiando quell'alpestre volta Carta per tutto ripeteva e pane, Cose al governo delle culte genti, Chi le sa ministrar, sufficienti. 28 Re de' topi costui con nuovo nome, O suo trovato fosse o de' soggetti. S'intitolò, non di Topaia, come Propriamente in addietro s'eran detti I portatori di quell'auree some. Cosa molto a notar, che negli effetti Differisce d'assai, benché non paia, S'alcun sia re de' topi o di Topaia. Paralipomeni della Batracomiomachia, canto VIII, ottave 7 – 25 7 Tacito discendeva in compagnia Di molte larve i sotterranei fondi. Senza precipitar quivi la via Mena ai più ciechi abissi e più profondi. Can Cerbero latrar non vi s'udia, Sferze fischiar né rettili iracondi, Non si vedevan barche e non paludi, Né spiriti aspettar sull'erba ignudi. 8 Senza custode alcuno era l'entrata Ed aperta la via perpetuamente, Che da persone vive esser tentata La non può mai che malagevolmente, E per l'uso de' morti apparecchiata Fu dal principio suo naturalmente, Onde non è ragion farvisi altrui Ostacolò al calar ne' regni bui. 9 E dell'uscir di là nessun desio Provano i morti, se ben hanno il come; Che spiccato che fu de' topi l'io, Non si rappicca alle corporee some, E ritornando dall'eterno obblio, Sanno ben che rizzar farian le chiome; E fuggiti da ognuno e maledetti Sarian per giunta da' parenti stretti. 10 Premii né pene non trovò nel regno De' morti il conte, ovver di ciò non danno Le sue storie antichissime alcun segno, E maraviglia in questo a me non fanno, Che i morti aver quel ch'alla vita è degno, Piacere eterno ovvero eterno affanno, Tacque, anzi mai non seppe, a dire il vero, Non che il prisco Israele, il dotto Omero. 11 Sapete che se in lui fu lungamente Creduta ritrovar questa dottrina, Avvenne ciò perché l'umana mente, Quei dogmi ond'ella si nutrì bambina Veri non crede sol ma d'ogni gente Natii, quantunque antica o pellegrina. Dianzi in Omero errar di ciò la fama Scoprimmo: ed imparar questo si chiama. 12 Né mai selvaggio alcun di premii o pene Destinate agli spenti ebbe sentore, Né già dopo il morir delle terrene Membra l'alme credé viver di fuore. Ma palpitare ancor le fredde vene, E in somma non morir colui che more. Perch'un rozzo del tutto e quasi infante La morte a concepir non è bastante. 13 Però questa caduca e corporale Vita, non altra, e il breve uman viaggio In modi e luoghi incogniti immortale Dopo il fato durar crede il selvaggio E lo stato i sepolti anco aver tale, Qual ebber quei di sopra al lor passaggio, Tali i bisogni e non in parte alcuna Gli esercizi mutati o la fortuna. 14 Ond'ei sotterra con l'esangue spoglia Ripon cibi e ricchezze e vestimenti, Chiude le donne e i servi acciò non toglia Il sepolcro al defunto i suoi contenti, Cani, frecce ed arnesi a qualsivoglia Arte ch'egli adoprasse appartenenti, Massime se il destin gli avea prescritto Che con la man si procacciasse il vitto. 15 E questo è quello universal consenso Che in testimon della futura vita Con eloquenza e con sapere immenso Da dottori gravissimi si cita, D'ogni popol più rozzo e più milenso, D'ogni mente infingarda e inerudita: Il non poter nell'orba fantasia La morte immaginar che cosa sia. 16 Son laggiù nel profondo immense file Di seggi ove non può lima o scarpello, Seggono i morti in ciaschedun sedile Con le mani appoggiate a un bastoncello, Confusi insiem l'ignobile e il gentile Come di mano in man gli ebbe l'avello. Poi ch'una fila è piena, immantinente Da più novi occupata è la seguente. 17 Nessun guarda il vicino o gli fa motto. Se visto avete mai qualche pittura Di quelle usate farsi innanzi a Giotto, O statua antica in qualche sepoltura Gotica, come dice il volgo indotto, Di quelle che a mirar fanno paura, Con le facce allungate e sonnolenti E l'altre membra pendule e cadenti, 18 Pensate che tal forma han per l'appunto L'anime colaggiù nell'altro mondo, E tali le trovò poi che fu giunto Il topo nostro eroe nel più profondo. Tremato sempre avea fino a quel punto Per la discesa, il ver non vi nascondo, Ma come vide quel funereo coro Per poco non restò morto con loro. 19 Forse con tal, non già con tanto orrore Visto avete in sua carne ed in suoi panni Federico secondo imperatore In Palermo giacer da secent'anni Senza naso né labbra, e di colore Quale il tempo può far con lunghi danni, Ma col brando alla cinta e incoronato, E con l'imago della terra allato. 20 Poscia che dal terror con gran fatica A poco a poco ritornato il conte Oso fu di mirar la schiera antica Negli occhi mezzo chiusi e nella fronte, Cercando se fra lor persona amica Riconoscesse alle fattezze conte, Gran tempo andò con le pupille errando Di contanti nessun raffigurando. 21 Sì mutato d'ognuno era il sembiante, E sì tra lor conformi apparian tutti, Che a gran pena gli venne in sul davante Riconosciuto in fin Mangiaprosciutti, Rubatocchi e poche altre anime sante Di cari amici suoi testè distrutti: A cui principalmente il sermon volto Narrò perché a cercarli avesse tolto. 22 Ma gli convenne incominciar dal primo Assalto che dai granchi ebbero i suoi, Novo agli scesi anzi quel tempo all'imo Essendo quel che occorso era da poi. Ben ciascun giorno dal terrestre limo Discendon topi al mondo degli eroi, Ma non fan motto, che alla gente morta Questa vita di qua niente importa. 23 Narrato ch'ebbe alla distesa il tutto, La tregua, il novo prence e lo statuto, Il brutto inganno dei nemici, e il brutto Galoppar dell'esercito barbuto, Addimandò se la vergogna e il lutto Ove il popol de' topi era caduto Sgombro sarebbe per la man de' molti Collegati da lui testè raccolti. 24 Non è l'estinto un animal risivo, Anzi negata gli è per legge eterna La virtù per la quale è dato al vivo Che una sciocchezza insolita discerna, Sfogar con un sonoro e convulsivo Atto un prurito della parte interna. Però, del conte la dimanda udita, Non risero i passati all'altra vita. 25 Ma primamente allor su per la notte Perpetua si diffuse un suon giocondo, Che di secolo in secolo alle grotte Più remote pervenne insino al fondo. I destini tremàr non forse rotte Fosser le leggi imposte all'altro mondo, E non potente l'accigliato Eliso, Udito il conte, a ritenere il riso. Giovanni Berchet, traduzione della Lenore di Gottfried August Bürger (1747- 1794) Sul far del mattino Eleonora sbalzò su agitata da sogni affannosi: «Sei tu infedele, o Guglielmo, o sei tu morto? E fino a quando indugerai?». Egli era uscito coll’esercito del Re Federigo alla battaglia di Praga; e non aveva scritto mai se ne fosse scampato. Stanchi delle lunghe ire, il Re e l’Imperatrice ammollirono le feroci anime, e finalmente fecero pace. Ed ogni schiera, preceduta da inni, da cantici, dal fragore de’ timpani, da suoni e da sinfonie, adornata di verdi rami, si riduceva alle proprie case. E da per tutto, da per tutto, sulle strade, sui sentieri, giovani e vecchi traevano incontro ai viva d’allegrezza de’ vegnenti. «Sia lode al cielo!» esclamavano fanciulli e mogli. «Ben venga!» esclamavano assai spose contente. Ma, oh Dio! per Eleonora non v’era né saluto, né bacio. Ella di qua di là cercò tutto l’esercito, dimandò tutti i nomi. Ma fra tanti reduci non uno v’era che le desse ragguaglio. Oltrepassate che furono da ultimo tutte quante le schiere, ella si stracciò la nera chioma, [6 e furibonda si buttò sul terreno. Accorse precipitosa la madre. «O Dio, misericordia! Che hai, che t’avvenne, figlia mia cara?». E se la serrò fra le braccia. – «O madre, madre! è perduto, è morto. Or vada in rovina il mondo, e tutto vada in rovina! Non ha misericordia Iddio. Ahi me misera! misera!». – «O Dio, ne assisti! Misericordia, o Signore! Dí, figlia mia, dí un Paternostro. Quello che è fatto da Dio è ben fatto. Egli sí, Iddio, è pietoso di noi». – «O madre, madre! Tutte illusioni! Nulla di bene ha fatto per me il Signore! nulla. Che giovarono, che giovarono le mie orazioni? Oramai non n’è piú bisogno». «O Dio, ne assisti! Chi in Dio riconosce il nostro padre, sa ch’egli soccorre a’ figliuoli. Il santissimo Sacramento metterà calma al tuo affanno». – «O madre, madre! Questo incendio che m’arde, non v’ha Sacramento che me lo calmi. Non v’ha Sacramento che restituisca a’ morti la vita». – «Ascoltami, o cara; e se quell’uom falso, là lontano, nell'Ungheria, avesse rinnegata la fede per isposarsi ad altra donna? No, cara, non pensar piú a quel suo cuore. E neppure egli se ne troverà contento! Quando un giorno l’anima verrà a separarsi dal corpo, lui trarrà nelle fiamme il suo spergiuro». – «O madre, madre! Non è piú, non è piú: egli è perduto, perduto per sempre. La morte, altro non mi resta che la morte! Oh non fossi io nata mai! Spegniti, luce mia, spegniti in perpetuo. Muori, muori sepolta nella notte e nell’orrore, No, non ha misericordia Iddio. Ahi me misera! misera!» – «O Dio, ne assisti! Non voler no entrare, o Dio, in giudizio contro la povera tua creatura. Ella non sa quel che la sua lingua si dica: non tener conto dei peccati di lei. – Dimentica, figliuola mia, dimentica la tua afflizione terrena; pensa al Signore, pensa alla beatitudine eterna; e t’assicura che non verrà meno lo sposo all’anima tua». – «E che è mai, o madre, la beatitudine eterna? Che mai, o madre, è l’Inferno? Con lui, con lui è beatitudine eterna; e senza di Guglielmo non v’ha, che inferno. Spegniti , luce mia, spegniti in perpetuo: muori, muori sepolta nella notte e nell’orrore! Senza di lui, né sulla terra, né fuori della terra posso aver pace io mai». Cosí a lei nella mente e nelle vene infuriava la disperazione. Più e piú continuò temeraria ad accusare la Provvidenza di Dio; si percosse il seno; si storse le mani, fino al tramonto del sole, fino all’apparire delle stelle auree per la. volta del cielo. Quand’ecco, trap trap trap, un calpestìo al di fuori come di zampa di destriero; e strepitante nell’armatura smontare agli scalini del verone un cavaliero. E tin tin tin, ecco sfrenarsi pian piano la campanella dell’uscio; e da traverso l’uscio venire queste distinte parole: – «Su su! Apri, o mia cara, apri. Dormi tu, amor mio, o sei desta? Che intenzioni sono ancora le tue verso di me? Piangi, o sei lieta?». «Oh cielo! Tu, Guglielmo? Tu... di notte... cosí tardi...? Ho pianto, ho vegliato. Ahi misera! un grande affanno ho sostenuto... E donde vieni tu cosí a cavallo?». – «Noi non mettiamo sella che a mezzanotte. Lungo viaggio cavalcai a questa volta, fino dalla Boemia. Tardi ho preso il cammino, tardi: e voglio condurti meco». – «Ah Guglielmo! Entra prima qua dentro un istante. Su presto! Il vento fischia ne’ roveti. Entra, vieni, cuor mio carissimo, a riscaldarti fra le mie braccia». – «Lascia pure che il vento fischi fra i roveti: lascialo fischiare, anima mia, lascialo fischiare. Il mio cavallo morello raspa; il mio sprone suona. In questo luogo non m’è concesso alloggiare. Vieni, succingiti, spicca un salto, e gettati in groppa al mio morello. Ben cento miglia mi restano a correre teco quest’oggi per arrivare al letto nuziale». – «Oh cielo! E tu vorresti in questo sol giorno trasportarmi per cento miglia fino al letto nuziale? Odi come romba tuttavia la campana– le undici sono già battute». – «Gira, gira lo sguardo. Vedi, fa un bel chiaro di luna. Noi e i morti cavalchiamo in furia. Oggi, sí quest’oggi, scommetto ch’io ti porto nel letto nuziale». – «E dov’è, dimmi, dov’è la cameretta? E dove, e che letticciuolo nuziale è il tuo?». – «Lontano, lontano di qui..., in mezzo al silenzio..., alla frescura..., angusto... Sei assi... e due assicelle...». – «V’ha spazio per me?». – «Per te e per me. Vieni, succingiti, spicca un salto, e gettati in groppa. I convitati alle nozze aspettano; la camera è già schiusa per noi». La vezzosa donzelletta innamorata si succinse, spiccò un salto, snella si gittò in groppa al cavallo, e con le candide mani tutta si ristrinse all’amato cavaliere. E arri arri arri! salta salta salta; e l’aria sibilava rotta dal gran galoppare. Sbuffavano cavallo e cavaliere; e sparpagliavansi intorno sabbia e scintille. A destra e a sinistra, deh! come fuggivano loro innanzi allo sguardo e pascoli e lande e paesi! Come sotto la pesta rintronavano i ponti! – «E tu hai paura, o mia cara? Vedi bel chiaro di luna! Arri arri! I morti cavalcano in furia. E tu, mia, cara, hai paura de’ morti?». – «Ah no! Ma lasciali in pace i morti!». Da colaggiú qual canto, qual suono mai rimbombò? Che svolazzare fu quello de’ corvi? Odi suono di squille, odi canto di morte! «Seppelliamo il cadavere». Ed ecco avvicinarsi una comitiva funebre, e recar la cassa e la bara de’ morti. E l’inno somigliava al gracidar dei rospi negli stagni. – «Passata la mezzanotte, seppellirete il cadavere con suoni e cantici e compianti. Ora io accompagno a casa la giovinetta mia sposa. Entrate meco, entrate al convito nuziale. Vieni, o sagrestano; vieni col coro, e precedimi intuonando il cantico delle nozze. Vieni, o sacerdote; vieni a darci la benedizione prima che ci mettiamo a giacere». Tace il suono, tace il canto; la bara sparí. E obbedienti, alla chiamata quelli correvano veloci, arri arri arri! lí lí sulle peste del morello. E va e va e va; salta salta salta; e l’aria sibilava rotta dal gran galoppare. Sbuffavano cavallo e cavaliere; e sparpagliavansi intorno sabbia e scintille. Deh come fuggivano a destra, come a sinistra fuggiva e montagne e piante e siepi! Come fuggivano a sinistra, destra, e ville e città e borghi! – «E tu hai paura, o mia cara? Vedi bel chiaro di luna Arri arri arri! I morti cavalcano in furia. E tu, mia cara, hai paura dei morti?». – «Ahi misera! Lasciali in pace i morti». Ecco; ecco; là sul patibolo, al lume incerto della luna una ciurma di larve balla intorno al perno della ruota! – «Qua qua, o larve. Venite, seguitemi. Ballateci la giga degli ,sposi, quando saliremo in letto». E via via via, le larve gli stormivano dietro a’ passi, come turbine che in una selvetta di noccioli stride fra mezzo all’arida frasca. E va e va e va; salta salta salta; e l’aria sibilava rotta dal gran galoppare. Sbuffavano cavallo e cavaliere; e sparpagliavinsi intorno sabbia e scintille. Ogni cosa che la luna illuminava d’intorno, deh! come ratto fuggiva, come fuggiva alla lontana! Come fuggivano e cieli e stelle al disopra di lui! – «E tu hai paura, mia cara? Vedi bel chiaro di luna? Arri arri arri !I morti cavalcano in furia. Ed hai tuttavia paura dei morti, o mia cara?». – «Ahi me misera! Lasciali in pace i morti». – «Su su, o morello! Parmi che il gallo già canti. Fra Poco il sabbione sarà omai tutto trascorso. Su, morello, morello! Al fiuto sento già l’aria del mattino. Di qua, o morello, caracolla di qua. Finito, finito abbiamo di correre. Eccolo che s’apre il letto nuziale. I morti cavalcano in furia. Eccola, eccola la meta». Impetuoso s’avventò a briglia sciolta contro un cancello di ferro. Ad uno sferzar di scudiscio toppa e chiavistello gli si spezzarono innanzi; e le ferree imposte cigolando si spalancarono. Il destriero drizzò la foga su per le sepolture. E al chiaror della luna tutto tutto biancheggiava di monumenti. Ed ecco, ecco in un subito, portento, ahi, spaventoso! Di dosso al cavaliere ecco, a brandelli a brandelli cascar l’armatura, com’esca logorata dagli anni! In teschio senza ciocche e senza ciuffo, in teschio ignudo ignudo gli si convertí il capo; e la persona in ischeletro armato di ronca e d’oriuolo. Alto s’impennò e inferocí sbuffando il morello, e schizzò scintille di fuoco. E via, eccolo sparito e sprofondato disotto alla fanciulla; e strida e strida su per l’aere; e venir dal fondo della fossa un ululato! ... A gran palpiti tremava il cuore d’Eleonora, e combatteva tra la morte e la vita. Allora sí, allora sotto il raggio della luna danzarono a tondo a tondo le larve; ed intrecciando il ballo della catena, con feroci urli ripetevano questa nenia:– «Abbi pazienza, pazienza; s’anche il cuore ti scoppia. Con Dio no, con Dio non venire a contesa. Eccoti sciolta dal corpo. Iddio usi all’anima misericordia!». Arnaldo Fusinato, L'ultima ora di Venezia È fosco l’aere, È l’onda muta!... Ed io sul tacito Veron seduta, In solitaria Malinconia, Ti guardo, e lagrimo, Venezia mia! Sui rotti nugoli Dell’Occidente Il raggio perdesi Del sol morente, E mesto sibila, Per l’aura bruna, L’ultimo gemito Della laguna. Passa una gondola Della città: ― Ehi! della gondola Qual novità? ― Il morbo infuria... Il pan ci manca... Sul ponte sventola Bandiera bianca! ― No, no, non splendere Su tanti guai, Sole d’Italia, Non splender mai! E sulla veneta Spenta fortuna Sia eterno il gemito Della laguna! Venezia, l’ultima Ora è venuta; Illustre martire, Tu sei perduta; Il morbo infuria, Il pan ti manca, Sul ponte sventola Bandiera bianca! Ma non le ignivome Palle roventi, Nè i mille fulmini, Su te stridenti, Troncan ai liberi Tuoi dì lo stame: Viva Venezia: Muor della fame! Sulle tue pagine Scolpisci, o Storia, Le altrui nequizie E la tua gloria, E grida ai posteri Tre volte infame Chi vuol Venezia Morta di fame. Viva Venezia! Feroce, altiera, Difese intrepida La sua bandiera; Ma il morbo infuria, Il pan le manca; Sul ponte sventola Bandiera bianca! Ed ora infrangasi Qui sulla pietra, Finch’è ancor libera, Questa mia cetra. A te, Venezia, L’ultimo canto, L’ultimo bacio, L’ultimo pianto! Ramingo ed esule Sul suol straniero, Vivrai, Venezia, Nel mio pensiero; Vivrai nel tempio Qui del mio cuore, Come l’imagine Del primo amore. Ma il vento sibila, Ma l’onda è scura, Ma tutta in gemito È la natura: Le corde stridono, La voce manca, Sul ponte sventola Bandiera bianca! Luigi Mercantini, La spigolatrice di Sapri Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti. Me ne andava al mattino a spigolare, quando ho visto una barca in mezzo al mare: era una barca che andava a vapore; e alzava una bandiera tricolore; all'isola di Ponza si è fermata, è stata un poco e poi si è ritornata; s'è ritornata ed è venuta a terra; sceser con l'armi, e a noi non fecer guerra. Sceser con l'armi, e a noi non fecer guerra, ma s'inchinaron per baciar la terra, ad uno ad uno li guardai nel viso; tutti aveano una lagrima e un sorriso. Li disser ladri usciti dalle tane, ma non portaron via nemmeno un pane; e li sentii mandare un solo grido: “Siam venuti a morir pel nostro lido”. Con gli occhi azzurri e coi capelli d'oro un giovin camminava innanzi a loro. Mi feci ardita, e, presol per mano, gli chiesi: “Dove vai, bel capitano?” Guardommi, e mi rispose: “O mia sorella, vado a morir per la mia patria bella». Io mi sentii tremare tutto il core, né potei dirgli: “V'aiuti il Signore!” Quel giorno dimenticai di spigolare, e dietro a loro mi misi ad andare: due volte si scontrâr con li gendarmi, e l'una e l'altra li spogliâr dell'armi: ma quando fûr della Certosa ai muri, s'udirono a suonar trombe e tamburi; e tra 'l fumo e gli spari e le scintille piombaron loro addosso più di mille. Eran trecento e non voller fuggire; parean tremila e vollero morire: ma vollero morir col ferro in mano, e avanti a loro correa sangue il piano: fin che pugnar vid'io per lor pregai, ma a un tratto venni men, né più guardai: io non vedea più fra mezzo a loro quegli occhi azzurri e quei capelli d'oro. Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti. Giuseppe Gioachino Belli Dall' Introduzione ai sonetti (1831) Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizi, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene un’impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. Né Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza. Oltre a ciò, mi sembra la mia idea non iscompagnarsi da novità. Questo disegno così colorito, checché ne sia del soggetto, non trova lavoro da confronto che lo abbiano preceduto.I nostri popolani non hanno arte alcuna, non di oratoria, non di poetica: come niuna plebe n’ebbe mai. Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica perché lasciata libera nello sviluppo di qualità non fattizie. […] Il popolo quindi mancante di arte, manca di poesia. Se mai cedendo all’impeto della rozza e potente sua fantasia, una pure ne cerca, lo fa sforzandosi di imitare la illustre. Allora il plebeo non è più lui, ma un fantoccio male e goffamente ricoperto di vesti non attagliate al suo dosso. Poesia propria non ha: e in ciò errarono quanti il dir romanesco vollero sin qui presentare in versi che tutta palesarono la lotta dell’arte colla natura e la vittoria della natura sull’arte. Esporre le frasi del romano quali dalla bocca del romano escono tuttora, senza ornamento, senza alterazione veruna, senza pure inversioni di sintassi o troncamenti di licenza, eccetto quelli che il parlator romanesco usi egli stesso: insomma cavare una regola dal caso e una grammatica dall’uso, ecco il mio scopo. Io non vo’ gia presentare nelle mie carte la poesia popolare, ma i popolari discorsi svolti nella mia poesia. Il numero poetico e la rima debbono uscire come accidente dall’accozzamento, in apparenza casuale, di libere frasi e correnti parole non iscomposte giammai, non corrette, né modellate, né acconciate con modo differente da quello che ci manda il testimonio delle orecchie: attalché i versi gettati con simigliante artificio non paiano quasi suscitare impressioni ma risvegliare reminiscenze. E dove con tal corredo di colori nativi io giunga a dipingere la morale, la civile e la religiosa vita del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere non al tutto spregevole da chi non guardi le cose attraverso la lente del pregiudizio. Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello, ma sì per dare una immagine fedele di cosa già esistente e, più abbandonata senza miglioramento. Nulladimeno io non m’illudo circa alle disposizioni d’animo colle quali sarebbe accolto questo mio lavoro, quando dal suo nascondiglio uscisse mai al cospetto degli uomini. Bene io preveggo quante timorate e pudiche anime, quanti zelosi e pazienti sudditi griderebber la croce contro lo spirito insubordinato e licenzioso che qua e là ne traspare, quasiché nascondendomi perfidamente dietro la maschera del popolano abbia io voluto prestare a lui le mie massime e i principii miei, onde esaltare il mio proprio veleno sotto l’egida della calunnia. […] Del resto, alle gratuite incolpazioni delle quali io divenissi oggetto replicherò il tenor della mia vita e il testimonio di chi la vide scorrere e terminare tanto ignuda di gloria quanto monda d’ogni nota di vituperio. Molti altri scrittori ne’ dialetti o ne’ patrii vernacoli abbiam noi veduti sorgere in Italia, e vari di questi meritar laude anche fra i posteri. Però un più assai vasto campo che a me non si presenta era loro aperto da parlari non esclusivamente appartenenti a tale o tal plebe o frazione di popolo, ma usate da tutte insieme le classi di una peculiare popolazione: donde nascono le lingue municipali. Quindi la facoltà delle figure, le inversioni della sintassi, le risorse della cultura e dell’arte. Non così a me si concede dalla mia circostanza. Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col soccorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca. Questi idioti o nulla sanno o quasi nulla: e quel pochissimo che imparano per tradizione serve appunto a rilevare la ignoranza loro: in tanto buio di fallacie si ravvolge. Sterili pertanto d’idee, limitate ne sono le forme del dire e scarsi i vocaboli. Alcuni termini di senso generale e di frequente ricorso vi suppliscono a molto. Ed errato andrebbe chi giudicasse essersi da me voluto porre in iscena questo piuttosto che quel rione, ed anzi una che un’altra special condizione d’uomini della nostra città. Ogni quartiere di Roma, ogni individuo fra’ suoi cittadini dal ceto medio in giù, mi ha somministrato episodii pel mio dramma: dove comparirà sì il bottegaio che il servo, e il nudo pitocco farà di sé mostra fra la credula femminetta e il fiero guidatore di carra. Così, accozzando insieme le vari classi dell’intiero popolo, e facendo dire a ciascun popolano quanto sa, quanto pensa e quanto opera, ho io compendiato il cumulo del costume e delle opinioni di questo volgo, presso il quale spiccano le più strane contraddizioni. Dati i popolani nostri per indole al sarcasmo, all’epigramma, al dir proverbiale e conciso, ai risoluti modi di un genio manesco, non parlano a lungo in discorso regolare ed espositivo. Un dialogo inciso, pronto ed energico: un metodo di esporre vibrato ed efficace: una frequenza di equivoci ed anfibologie, risponde ai loro bisogni e alle loro abitudini, siccome conviene alla loro inclinazione e capacità. Di qui la inopportunità nel mio libro di filastrocche poetiche. Distinti quadretti, e non fra loro congiunti fuorché dal filo occulto della macchina, aggiungeranno assai meglio al fine principale, salvando insieme i lettori dal tedio di una lettura troppo unita e monotona. Il mio è un volume da prendersi e lasciarsi, come si fa de’ sollazzi, senza bisogno di progressivo riordinamento d’idee. Ogni pagina è il principio del libro, ogni pagina la fine. L'aducazzione Fijo, nun ribbartà mai tata tua: Abbada a tte, nun te fà mette sotto. Si quarchiduno te viè a dà un cazzotto, Lì callo callo tu dajene dua. Si ppoi quarcantro porcaccio da ua Te ce facessi un po' de predicotto Dije: "De ste raggione io me ne fotto: Iggnuno penzi a li fattacci sua". Quanno giuchi un bucale a mora, o a boccia, Bevi fijo; e a sta gente buggiarona Nun gnene fà restà manco una goccia. D'esse cristiano è ppuro cosa bona: Pe questo hai da portà ssempre in zaccoccia Er cortello arrotato e la corona. Li soprani del monno vecchio C'era una volta un Re cche ddar palazzo mannò ffora a li popoli st'editto: - Io so' io, e vvoi nun zete un cazzo, sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto. Io fo ddritto lo storto e storto er dritto: pozzo vénneve a ttutti a un tant'er mazzo: Io, si vve fo impiccà, nun ve strapazzo, ché la vita e la robba Io ve l'affitto. Chi abbita a sto monno senza er titolo o dde Papa, o dde Re, o dd'Imperatore, quello nun po' avé mmai vosce in capitolo -. Co st'editto annò er boja pe ccuriero, interroganno tutti in zur tenore; e, arisposero tutti: È vvero, è vvero. E' 'gnissempre un pangrattato Pe nnoi, rubbi Simone o rrubbi Ggiuda, magni Bbartolomeo, magni Taddeo, sempr’è ttutt’uno, e nnun ce muta un gneo: er ricco gode e ’r poverello suda. Noi mostreremo sempre er culiseo e mmoriremo co la panza ignuda. Io nun capisco duncue a cche cconcruda d’avé dda seguità sto piaggnisteo. Lo so, lo so cche ttutti li cuadrini c’arrubbeno sti ladri, è ssangue nostro e dde li fijji nostri piccinini. Che sserveno però ttante cagnare? Un pezzaccio de carta, un po’ d’inchiostro, e ttutt’Ora-pro-mè: ll’acqua va ar mare. Chi va la notte, va a la morte Come sò lle disgrazzie! Ecco l’istoria: co cquell’infern’uperto de nottata me ne tornavo da Testa-spaccata a ssett’ora indov’abbita Vittoria. Come llí ppropio dar palazzo Doria sò ppe ssalí Ssanta Maria ’nviolata, scivolo, e tte do un cristo de cascata, e bbatto apparteddietro la momoria. Stavo pe tterra a ppiagne a vvita mozza, quanno c’una carrozza da Signore me passò accanto a ppasso de bbarrozza. «Ferma», strillò ar cucchiero un zervitore; ma un voscino ch’escì da la carrozza je disse: «Avanti, alò: cchi mmore more». La vita dell'omo Nove mesi a la puzza: poi in fassciola tra sbasciucchi, lattime e llagrimoni: poi p’er laccio, in ner crino, e in vesticciola, cor torcolo e l’imbraghe pe ccarzoni. Poi comincia er tormento de la scola, l’abbeccè, le frustate, li ggeloni, la rosalía, la cacca a la ssediola, e un po’ de scarlattina e vvormijjoni. Poi viè ll’arte, er diggiuno, la fatica, la piggione, le carcere, er governo, lo spedale, li debbiti, la fica, er zol d’istate, la neve d’inverno... E pper urtimo, Iddio sce bbenedica, viè la Morte, e ffinissce co l’inferno. Er caffettiere filosofo L'ommini de sto monno sò ll'istesso Che vvaghi de caffè nner mascinino: C'uno prima, uno doppo, e un antro appresso, Tutti cuanti però vvanno a un distino. Spesso muteno sito, e ccaccia spesso Er vago grosso er vago piccinino, E ss'incarzeno, tutti in zu l'ingresso Der ferro che li sfraggne in porverino. E ll'ommini accusì vviveno ar monno Misticati pe mmano de la sorte Che sse li ggira tutti in tonno in tonno; E mmovennose oggnuno, o ppiano, o fforte, Senza capillo mai caleno a ffonno pe ccasscà nne la gola de la morte. Er mercato de Piazza Navona Ch’er mercordí a mmercato, ggente mie, sce siino ferravecchi e scatolari, rigattieri, spazzini, bbicchierari, stracciaroli e ttant’antre marcanzie, nun c’è ggnente da dí. Ma ste scanzìe da libbri, e sti libbracci, e sti libbrari, che cce vienghen’a ffà? ccosa sc’impari da tanti libbri e ttante libbrarie? Tu ppijja un libbro a ppanza vòta, e ddoppo che ll’hai tienuto pe cquarc’ora in mano, dimme s’hai fame o ss’hai maggnato troppo. Che ppredicava a la Missione er prete? «Li libbri nun zò rrobba da cristiano: fijji, pe ccarità, nnu li leggete». Li morti de Roma Cuelli morti che ssò dde mezza tacca fra ttanta ggente che sse va a ffà fotte, vanno de ggiorno, cantanno a la stracca, verzo la bbúscia che sse l’ha dda iggnotte. Cuell’antri, in cammio, c’hanno la patacca de Siggnori e dde fijji de miggnotte, sò ppiú cciovili, e ttiengheno la cacca de fuggí er Zole, e dde viaggià dde notte. Cc’è ppoi ’na terza sorte de figura, ’n’antra spesce de morti, che ccammina senza moccoli e ccassa in zepportura. Cuesti semo noantri, Crementina, che ccottivati a ppesce de frittura, sce bbutteno a la mucchia de matina. La riliggione der tempo nostro Che rriliggione! è rriliggione questa? Tutta quanta oramai la riliggione Conziste in zinfonie, ggenufressione, Seggni de crosce, fittucce a la vesta, Cappell'in mano, cenneraccio in testa, Pessci da tajjo, razzi, priscissione, Bbussolette, Madonne a 'ggni cantone, Cene a ppunta d'orloggio, ozzio de festa, Scampanate, sbasciucchi, picchiapetti, Parme, reliquie, medajje, abbitini, Corone, acquasantiere e mmoccoletti. E ttrattanto er Vangelo, fratel caro, Tra un diluvio de smorfie e bbell'inchini, È un libbro da dà a ppeso ar zalumaro. Li monni Che tt’impicci Fra Elia?! Tutti li grobbi che stanno sparzi pe li sette sceli sce se troveno ebbrei, turchi e ffedeli come in ner nostro? Miserere nobbi! Tu mme dichi una cosa che mme ggeli. Vedi quanti Abbacucchi, quanti Ggiobbi, quanti Santi Re Ddàvidi e Ggiacobbi, e quanti Merdocchei, Caini e Abbeli! Vedi quant’antre vecchie co l’occhiali! quant’antri cappuccini co le sporte! e cquant’antri peccati origginali! Cristo! quant’antri re! quant’antre Corte! freggna! quant’antri Papi e Ccardinali! cazzo! quant’antre incarnazzione e mmorte! L'aricreazzione Detta ch’er Papa ha Messa la matina, e empite le santissime bbudelle, essce in giardino in buttasù e ppianelle, a ppijjà na bboccata d’aria fina. Lì llegato co ccerte catenelle sce tiè un brutto uscellaccio de rapina, e, ddentro a una ramata, una ventina o ddu’ duzzine ar più de tortorelle. Che ffa er zant’omo! ficca dentro un braccio, pijja ‘na tortorella e la conzeggna ridenno tra le granfie a l’uscellaccio. Tutto lo spasso de Nostro Siggnore è de vedé cquela bbestiaccia indeggna squarciajje er petto e rrosicajje er core! Cletto Arrighi, La Scapigliatura e il 6 febbraio Riassunto La vicenda del romanzo si svolge nei giorni tra il 3 e il 6 febbraio 1853. Emilio Digliani è un giovane della borghesia milanese. Non riconosciuto dal padre, che però gli ha destinato un cospicuo patrimonio, è stato adottato dal chirurgo ostetrico che ha assistito alla sua nascita, il professor Pier Ambrogio Bartelloni. Emilio conduce una vita da scapigliato, tra luoghi malfamati, amori e velleità artistiche, e insieme ad altri sei amici forma un gruppo noto negli ambienti della rivolta antiaustriaca come la Compagnia brusca. Noemi Firmiani Dal Poggio è una giovane donna dell'alta borghesia milanese, bella quanto triste: divisa tra la freddezza del marito Emanuele e la frustrazione di non avere figli, essa vive nello sconforto, finché in casa della cugina Cristina Firmiani non incontra Emilio. Tra i due nasce l'amore, favorito anche da Cristina, che spera di approfittare dello scandalo per mettere in cattiva luce Noemi agli occhi del nonno Lorenzo ed escluderla dall'eredità. Ormai scoperta, Noemi decide di fuggire con l'amato Emilio, ma il progetto naufraga per l'intervento del marito e del nonno, che irrompono in casa del giovane. In preda all'ira, Dal Poggio sfida Emilio a duello, per scoprire poco dopo dal professor Bartelloni che il ragazzo altri non è che il figlio da lui abbandonato 24 anni prima. Sconvolto per quanto ha appreso, Emilio decide d'impulso di unirsi alla rivolta contro gli austriaci scoppiata proprio in quelle ore, morendo da eroe in battaglia. Introduzione della'autore In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità di individui di ambo i sessi, fra i venti e i trentacinque anni, non piú; pieni d’ingegno quasi sempre piú avanzati del loro tempo; indipendenti come l’aquila delle Alpi; pronti al bene quanto al male; irrequieti, travagliati,... turbolenti - i quali - o per certe contraddizioni terribili fra la loro condizione e il loro stato - vale a dire fra ciò che hanno in testa e ciò che hanno in tasca - o per certe influenze sociali da cui sono trascinati - o anche solo per una certa particolare maniera eccentrica e disordinata di vivere - o, infine, per mille altre cause, e mille altri effetti, il cui studio formerà appunto lo scopo e la morale del mio romanzo - meritano di essere classificati in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia sociale, come coloro che vi formano una casta sui generis distinta da tutte le altre. Questa casta o classe - che sarà meglio detto - vero pandemonio del secolo; personificazione della follia che sta fuori dai manicomii; serbatoio del disordine, della imprevidenza, dello spirito di rivolta e di opposizione a tutti gli ordini stabiliti; - io l’ho chiamata appunto la Scapigliatura. La qual parola prettamente italiana mi rese abbastanza bene il concetto di tal parte di popolazione, così diversa dall’altra pei suoi misteri, le sue miserie, i suoi dolori, le sue speranze, i suoi traviamenti, sconosciuti ai ricchi contenti, ai giovani dabbene, alle fanciulle guardate a vista, alle donne che amano il marito ed agli uomini serii che battono la strada maestra della vita, comoda, ombreggiata, senza emozioni, come senza pericoli. La Scapigliatura è composta da individui di ogni ceto, di ogni condizione, di ogni grado possibile della scala sociale. Proletariato, medio ceto, e aristocrazia; foro, letteratura, arte e commercio; celibato e matrimonio; ciascuno vi porta il suo tributo, ciascuno vi conta qualche membro d’ambo i sessi; ed essa li accoglie tutti in un amplesso amoroso, e li lega in una specie di mistica consorteria, forse per quella forza simpatica che nell’ordine dell’universo attrae fra di loro le sostanze consimili. La speranza è la sua religione; la fierezza è la sua divisa; la povertà il suo carattere essenziale. Non la povertà del pitocco che stende la mano all’elemosina, ma la povertà di un duca, a cui tocca di licenziare una dozzina di servitori, vendere molte coppie di cavalli, e ridurre a quattro le portate della sua tavola, perché, fatti i conti coll’intendente, ha trovato di non aver piú a questo mondo... che cinquantamila lire di rendita. Come il Mefistofele del Nipote, essa ha dunque due aspetti, la mia Scapigliatura. Da un lato: un profilo piú italiano che milanese, pieno di brio, di speranza e di amore; e rappresenta il lato simpatico e forte di questa classe, inconscia della propria potenza, propagatrice delle brillanti utopie, focolare di tutte le idee generose, anima di tutti gli elementi geniali, artistici, poetici, rivoluzionari del proprio paese; che per ogni causa bella, grande, o folle balza d’entusiasmo; che del riso conosce la sfumatura arguta come lo scroscio franco e prolungato; che ha le lagrime d’un fanciullo sul ciglio, e le memorie feconde nel cuore. Dall’altro lato, invece, un volto smunto, solcato, cadaverico; su cui stanno le impronte delle notti passate nello stravizzo e nel giuoco; su cui si adombra il segreto d’un dolore infinito... i sogni tentatori di una felicità inarrivabile, e le lagrime di sangue, e le tremende sfiducie, e la finale disperazione. Nel suo complesso perciò la Scapigliatura è tutt’altro che disonesta. Se non che, come accade anche nei partiti politici, che gli estremi accolgono nel loro seno i rifiuti di tutti gli altri, anch’essa conta un buon numero di persone tutt’altro che oneste, le quali finiscono collo screditare la classe intera. Ma codesti signori sono come nel ferro le scorie; e c’è per essi un nome abbastanza conosciuto senza ricorrere alla Scapigliatura; e anch’io sarei tentato di dirli cavalieri d’industria o birbanti, se l’educazione non mi vietasse di chiamar chicchessia col suo vero nome. Ma appunto come tali, essi non hanno una fisonomia particolare, e si perdono in quella putrida vegetazione comune a tutti paesi del mondo - come i ladri e le spie - gente nata per lo piú nel fango, e viventi nel fango del proprio mestiere senza perdono e senza poesia possibile. Però la vera Scapigliatura, li fugge per la prima, e li rinnegherebbe ad alta voce se ella fosse conscia della propria esistenza. Emilio Praga, Preludio Noi siamo i figli dei padri ammalati: aquile al tempo di mutar le piume, svolazziam muti, attoniti, affamati, sull'agonia di un nume. Nebbia remota è lo splendor dell'arca, e già all'idolo d'or torna l'umano, e dal vertice sacro il patriarca s'attende invano; s'attende invano dalla musa bianca che abitò venti secoli il Calvario, e invan l'esausta vergine s'abbranca ai lembi del Sudario... Casto poeta che l 'Italia adora, vegliardo in sante visioni assorto, tu puoi morir!... Degli antecristi è l'ora! Cristo è rimorto ! O nemico lettor, canto la Noia, l'eredità del dubbio e dell'ignoto, il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boia, il tuo cielo, e il tuo loto ! Canto litane di martire e d'empio; canto gli amori dei sette peccati che mi stanno nel cor, come in un tempio, inginocchiati. Canto le ebbrezze dei bagni d'azzurro, e l'Ideale che annega nel fango... Non irrider, fratello, al mio sussurro, se qualche volta piango : giacché più del mio pallido demone, odio il minio e la maschera al pensiero, giacché canto una misera canzone, ma canto il vero! (da Penombre) Vendetta postuma Quando sarai nel freddo monumento immobile e stecchita, se ti resta nel cranio un sentimento di questa vita, ripenserai l'alcova e il letticciuolo dei nostri lunghi amori, quand'io portava al tuo dolce lenzuolo carezze e fiori. Ripenserai la fiammella turchina che ci brillava accanto, e quella fiala che alla tua bocchina piaceva tanto! Ripenserai la tua foga omicida e gli immensi abbandoni; ripenserai le forsennate grida e le canzoni; ripenserai le lagrime delire, e i giuramenti a Dio, o bugiarda, di vivere e morire pel genio mio! E allora sentirai l'onda dei vermi salir nel tenebrore, e colla gioia di affamati infermi morderti il cuore. (da Penombre) Charles Baudlaire, Remords Posthume Lorsque tu dormiras, ma belle ténébreuse, Au fond d'un monument construit en marbre noir, Et lorsque tu n'auras pour alcôve et manoir Qu'un caveau pluvieux et qu'une fosse creuse; Quand la pierre, opprimant ta poitrine peureuse Et tes flancs qu'assouplit un charmant nonchaloir, Empêchera ton cœur de battre et de vouloir, Et tes pieds de courir leur course aventureuse, Le tombeau, confident de mon rêve infini (Car le tombeau toujours comprendra le poète), Durant ces grandes nuits d'où le somme est banni, Te dira: «Que vous sert, courtisane imparfaite, De n'avoir pas connu ce que pleurent les morts?» - Et le ver rongera ta peau comme un remords. Traduzione Quando tu dormirai, mia tenebrosa, nel fondo di una tomba in marmo nero, e per castello e alcova non avrai che una fossa profonda ed un sepolcro in cui stilla la pioggia; quando grave premendoti sui seni impauriti e sopra i fianchi illanguiditi in dolce abbandono, la pietra al cuore tuo impedirà di battere e volere, e ai tuoi piedi di andare all'avventura, in quelle lunghe notti senza sonno la tomba ti dirà (dell'infinito mio sogno confidente, ché il poeta sempre sarà compreso dalla tomba): "Mancata cortigiana, che ti serve il non aver conosciuto quello che rimpiangono i morti?". E la tua pelle il verme roderà, come un rimorso. Iginio Ugo Tarchetti, Ell’era così fragile e piccina Ell’era così fragile e piccina che, più che amor, di lei pietà sentìa; d’angioletto parea la sua testina così diafana ell’era e così pia. Le orazioni dicea sera e mattina. Di notte avea paura e non dormìa, piacevanle le bacche di uva spina, le chicche, e mi dicea “dolcezza mia”. Ella era piena di delicatezze, piangea di tutto e sorridea di tutto, vivea di zuccherini e di carezze: eppur quel fior sì frale e delicato ha la mia forte gioventù distrutto, ha la saldezza del mio cor spezzato. (da Disjecta) Iginio Ugo Tarchetti, Memento Quando bacio il tuo labbro profumato, cara fanciulla, non posso obbliare che un bianco teschio vi è sotto celato. Quando a me stringo il tuo corpo vezzoso, obbliar non poss’io, cara fanciulla, che vi è sotto uno scheletro nascoso. E nell’orrenda visïone assorto, dovunque o tocchi, o baci, o la man posi, sento sporgere le fredda ossa di morto. (da Disjecta) Arrigo Boito, Dualismo Son luce ed ombra; angelica farfalla o verme immondo sono un caduto cherubo dannato a errar sul mondo, o un demone che sale, affaticando l'ale, verso un lontano ciel. Ecco perché nell'intime cogitazioni io sento la bestemmia dell'angelo che irride al suo tormento, o l'umile orazione dell'esule dimone che riede a Dio, fedel. Ecco perché m'affascina l'ebbrezza di due canti, ecco perché mi lacera l'angoscia di due pianti, ecco perché il sorriso che mi contorce il viso o che m'allarga il cuor. Ecco perché la torbida ridda de' miei pensieri, or mansueti e rosei, or violenti e neri; ecco perché con tetro tedio, avvincendo il metro de' carmi animator. O creature fragili dal genio onnipossente! Forse noi siamo l'homunculus d' un chimico demente, forse di fango e foco per ozioso gioco un buio Iddio ci fe'. E ci scagliò sull'umida gleba che c'incatena, poi dal suo ciel guatandoci rise alla pazza scena e un dì a distrar la noia della sua lunga gioia ci schiaccerà col pie'. E noi viviam, famelci di fede o d'altri inganni, rigirando il rosario monotono degli anni, dove ogni gemma brilla di pianto, acerba stilla fatta d'acerbo duol. Talor, se sono il demone redento che s'india, sento dall'alma effondersi una speranza pia e sul mio buio viso del gaio paradiso mi fulgureggia il sol. L'illusion-libellula che bacia i fiorellini, -l'illusion-scoiattolo che danza in cima i pini, -l'illusion-fanciulla che trama e si trastulla colle fibre del cor, viene ancora a sorridermi nei dì più mesti e soli e mi sospinge l'anima ai canti, ai carmi, ai voli; e a turbinar m'attira nella profonda spira dell'estro ideator. E sogno un'Arte eterea che forse in cielo ha norma, franca dai rudi vincoli del metro e della forma, piena dell'Ideale che mi fa batter l'ale e che seguir non so. Ma poi, se avvien che l'angelo fiaccato si ridesti, i santi sogni fuggono impauriti e mesti; allor, davanti al raggio del mutato miraggio, quasi rapito, sto: e sogno allor la magica Circe col suo corteo d'alci e di pardi, attoniti nel loro incanto reo. E il cielo, altezza impervia, derido e di protervia mi pasco e di velen. E sogno un'Arte reproba che smaga il mio pensiero dietro le basse immagini d'un ver che mente al Vero e in aspro carme immerso sulle mie labbra il verso bestemmiando vien. Questa è la vita! L'ebete vita che c'innamora, lenta che pare un secolo, breve che pare un'ora; un agitarsi alterno fra paradiso e inferno che non s'accheta più! Come istrion, su cupida plebe di rischio ingorda, fa pompa d'equilibrio sovra una tesa corda, tal è l'uman, librato fra un sogno di peccato e un sogno di virtù. (da Il libro dei versi) Arrigo Boito, A Emilio Praga Siam tristi, Emilio, e da ogni salute Messi in bando ambidue. Io numerando vò le mie cadute, Tu numeri le tue. Precipitiam nel sonno e nel dolore Ogni giorno più smorti, Fameliche su noi volano l’ore Qual su due nuovi morti. E intanto il vulgo intuona per le piazze La fanfara dell’ire, Ed urla a noi fra le risate pazze: «Arte dell’avvenire!» E ridiamo noi pur colla baldoria Che ci beffa e trascina, Voltando il segno della nostra gloria In motto da berlina. Tali noi siam ed anco il refrigerio Ci abbandona del canto. E ne strugge perenne un desiderio Sempre nuovo ed affranto. Or sul suolo piombiam verso il fatale Peso che a’ pesi è somma, Or balziamo nel ciel dell’Ideale, Vuote palle di gomma. Sono stanco, languente, ho già percorso Assai la vita rea, Ho già sentito assai quel doppio morso Del Vero e dell’Idea. Ho perduti i miei sogni ad uno ad uno Com’oboli di cieco; Nè un sogno d’oro, ahimè! nè un sogno bruno Oggi non ho più meco. E come il bruco che rifà la seta Colle smunte fibrille. Rifeci il voto a una mia forte mèta E cento volte e mille. Carmi! poemi! liriche! ballate! Drammi! odi! canzoni!... Vanità! Vanità! glorie sognate! Perdute illusïoni! Non parliamone più; quelle rimorte Poniam larve in obblio... I miei pensier vanno verso la morte Come l’acqua al pendio, E se scendo le alture, a notte folta, Solo, nella caligine, L’anima mia già crede esser travolta Dall’eterna vertigine. (da Il libro dei versi) Arrigo Boito, Lezione d'anatomia La sala è lugubre; dal negro tetto discende l'alba, che si riverbera sul freddo letto con luce scialba. Chi dorme?... Un'etica defunta ieri all'ospedale; tolta alla requie dei cimiteri, e al funerale: tolta alla placida nenia del prete, e al dormitorio; tolta alle gocciole roride e chete dell'aspersorio. Delitto! e sanguina per piaga immonda il petto a quella!... Ed era giovane! ed era bionda! ed era bella! Con quel cadavere (steril connubio! sapienza insana!) tu accresci il numero di qualche dubio, scïenza umana! Mentre urla il medico la sua lezione: E cita ad hoc: Vesalio, Ippocrate, Harvey, Bacone, Sprengel e Koch, io penso ai teneri casi passati su quella testa, ai sogni estatici invan sognati da quella mesta. Penso agli eterei della speranza mille universi! Finzion fuggevole più che una stanza di quattro versi. Pur quella vergine senza sudario sperò, nell’ore più melanconiche come un santuario chiuse il suo cuore, ed ora il clinico che glielo svelle grida ed esorta: «ecco le valvole,» «ecco le celle,» «ecco l’aòrta.» Poi segue: « huic sanguinis circulationi...». Ed io, travolto, ritorno a leggere le mie visioni sul bianco volto. Scïenza, vattene co’ tuoi conforti! Ridammi i mondi del sogno e l’anima! Sia pace ai morti e ai moribondi. Perdona o pallida adolescente! Fanciulla pia, dolce, purissima, fiore languente di poësia! E mentre suscito nel mio segreto quei sogni adorni,... in quel cadavere si scopre un feto di trenta giorni. (da Il libro dei versi) Wolfgang Goethe, Aria di Mignon (Kennst du das Land...)3 Conosci tu la terra dove fioriscono i limoni, gli aranci dorati rilucono fra le foglie scure, 3 Mignon è una delicata fanciulla, che è stata rapita in Italia da una compagnia di zingari e condotta in Germania. Dopo varie disavventure, ella viene liberata da Wilhelm Meister, che diviene il suo benefattore. In questa ballata Mignon, presa dalla nostalgia per l'Italia, prega Guglielmo di ricondurla in patria. La ballata fa parte del romanzo Gli anni dell'apprendistato di Wilhelm Meister di Goethe e in essa rivive il ricordo dell'Italia, la terra del sole e dell'azzurro cielo, a cui lo stesso Goethe anelava, come a una patria ideale. L'aria sarà musicata da Franz Schubert. Dal romanzo sarà poi tratta Mignon, tragedia lirica in tre atti e 5 quadri di Amboise Thomas, su libretto di Jules Barbier e Michel Carré, tratta da Gli anni dell'apprendistato di Wilhelm Meister di Goethe, rappresentata per la prima volta all' Opèra Comique di Parigi il 17 novembre 1866. una mite brezza spira dal cielo azzurro, il mirto immoto resta e alto si erge l’alloro, La conosci tu, forse ? Laggiù, laggiù Con te, amore mio, io vorrei andare. Conosci tu la casa ? Il tetto riposa su alte colonne, risplende la sala, la stanza riluce, e si ergono statue di marmo che mi guardano: Che cosa ti hanno fatto, povera bambina ? La conosci tu forse ? Laggiù, laggiù Con te, mio difensore, io vorrei andare. Conosci tu la montagna e il suo sentiero fra le nuvole ? Il mulo cerca il suo cammino nella nebbia; Nelle grotte vive la stirpe antica dei draghi; Si sgretola la rupe e su di essa si chiudono i flutti, La conosci tu, forse ? Laggiù, laggiù E’ il nostro cammino; andiamo, padre mio! Lorenzo Stecchetti (Olindo Guerrini), A Venezia Sei pur bella, Venezia, in mezzo all'onde Specchio tranquillo ai monumenti alteri! Sei pur bella, canzon de' gondolieri, Cui dal Lido muggendo il mar risponde! Amo, Venezia, le tue vie gioconde, Già testimoni dei domati imperi, Amo i palagi tuoi superbi e neri E le tue donne dalle treccie bionde. V'amo, templi ove splende ogni tesoro E d'arti e di memorie, ove Tiziano Pingea fanciulle dai capelli d'oro. V'amo, trofei rapiti al mussulmano Di Candia e di Morea: v'amo e v'adoro, Sogliole fritte e vin di Conegliano. (da Postuma) Lorenzo Stecchetti (Olindo Guerrini), Il canto dell'odio Quando tu dormirai dimenticata Sotto la terra grassa E la croce di Dio sarà piantata Ritta sulla tua cassa, Quando ti coleran marcie le gote Entro i denti malfermi E nelle occhiaie tue fetenti e vuote Brulicheranno i vermi, Per te quel sonno che per altri è pace Sarà strazio novello E un rimorso verrà freddo, tenace, A morderti il cervello. Un rimorso acutissimo ed atroce Verrà nella tua fossa A dispetto di Dio, della sua croce, A rosicchiarti l'ossa. Io sarò quel rimorso. Io te cercando Entro la notte cupa, Lamia che fugge il dì, verrò latrando Come latra una lupa; Io con quest'ugne scaverò la terra Per te fatta letame E il turpe legno schioderò che serra La tua carogna infame. Oh, come nel tuo core ancor vermiglio Sazierò l'odio antico, Oh, con che gioia affonderò l'artiglio Nel tuo ventre impudico! Sul tuo putrido ventre accoccolato Io poserò in eterno, Spettro della vendetta e del peccato, Spavento dell'inferno: Ed all'orecchio tuo che fu sì bello Sussurrerò implacato Detti che bruceranno il tuo cervello Come un ferro infocato. Quando tu mi dirai: perchè mi mordi E di velen m'imbevi? Io ti risponderò: non ti ricordi Che bei capelli avevi? Non ti ricordi dei capelli biondi Che ti coprian le spalle E degli occhi nerissimi, profondi, Pieni di fiamme gialle? E delle audacie del tuo busto e della Opulenza dell'anca? Non ti ricordi più com'eri bella, Provocatrice e bianca? Ma non sei dunque tu che nudo il petto Agli occhi altrui porgesti E, spumante Licisca, entro al tuo letto Passar la via facesti? Ma non sei tu che agli ebbri ed ai soldati Spalancasti le braccia, Che discendesti a baci innominati E a me ridesti in faccia? Ed io t'amavo, ed io ti son caduto Pregando innanzi e, vedi, Quando tu mi guardavi, avrei voluto Morir sotto a' tuoi piedi. Perchè negare - a me che pur t'amavo Uno sguardo gentile, Quando per te mi sarei fatto schiavo, Mi sarei fatto vile? Perchè m'hai detto no quando carponi Misericordia chiesi, E sulla strada intanto i tuoi lenoni Aspettavan gl'Inglesi? Hai riso? Senti! Dal sepolcro cavo Questa tua rea carogna, Nuda la carne tua che tanto amavo L'inchiodo sulla gogna, E son la gogna i versi ov'io ti danno Al vituperio eterno, A pene che rimpianger ti faranno Le pene dell'inferno. Qui rimorir ti faccio, o maledetta, Piano a colpi di spillo, E la vergogna tua, la mia vendetta Tra gli occhi ti sigillo. (da Postuma) Lorenzo Stecchetti (Olindo Guerrini), Poveri uccelli, che al giardin volate Poveri uccelli, che al giardin volate de' poeti morali e religiosi e tra le frasche pudibonde ascosi il biscottino solito aspettate, poveri uccelli, non ve ne fidate, poveri uccelli, siate men golosi. Se gli uomini con voi son maliziosi, fingono i vati per mestier. Badate. Conosco più d' un arcade patito che d' adorarvi ne' sonetti ostenta, ne' sonetti di zucchero candito, ma quando 1' eco de' suoi gridi è spenta, si rassegna a pranzar con appetito e gli piacete assai con la polenta. (da Polemica)