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Quesito di Impresa n. 976-2013/I
SNC, SCIOGLIMENTO E CONTINUAZIONE DELL'ATTIVITÀ DA PARTE DEL SOCIO
SUPERSTITE SOTTO FORMA DI IMPRESA INDIVIDUALE
Si pone un quesito in tema di scioglimento di società in nome collettivo per mancata ricostituzione
della pluralità dei soci nei sei mesi con continuazione dell'attività da parte del socio superstite sotto
forma di impresa individuale, il tutto in presenza di perdite.
In particolare, si chiede se sia possibile in tale situazione omettere la fase di liquidazione con
assegnazione dell'intera azienda comprensiva di tutti i rapporti attivi e passivi pendenti in capo al
socio superstite con contestuale confusione dei patrimoni ex sociale e personale nonché concorrenza
dei rispettivi creditori, ovvero sia necessario procedere alla liquidazione nominando l'organo
preposto.
***
1) La facoltatività del procedimento di liquidazione
È noto come secondo l’opinione prevalente, un formale procedimento di liquidazione della società
di persone, sciolta ma non ancora estinta - che, concettualmente, consta di quattro momenti,
rappresentati dalla redazione dell'inventario, dalla monetizzazione dei beni in natura e dei crediti
esigibili, dal pagamento dei creditori sociali e dall’eventuale distribuzione di residuo ai soci in via
proporzionale rispetto alla quota da essi posseduta - sia facoltativo e fungibile con forme
convenzionali di liquidazione.
La facoltatività della liquidazione viene argomentata dal permanere della garanzia costituita dalla
persistente responsabilità illimitata dei soci e si ritiene che la fungibilità del procedimento formale
sia possibile non solo qualora lo statuto preveda quale destinazione il patrimonio sociale debba
avere ma anche quando, pur in mancanza di ciò, i soci concordino nel procedere alla definizione
integrale dei rapporti preesistenti.
La giurisprudenza prevalente afferma, quindi, come “il procedimento di liquidazione nella società
di persone non è posto dalla legge in modo assoluto, costituendone una fase facoltativa
nell'interesse dei soci, i quali possono evitarla pervenendo all'estinzione dell'ente, attraverso una
divisione concordata, ovvero chiedendo al giudice la definizione dei reciproci rapporti di dare e
avere, anche secondo le modalità proprie per lo scioglimento della comunione ordinaria (Cass. 29
maggio 2003, n, 8599; nello stesso senso Cass. 3 marzo 2000, n. 2376, in Corr. Giur., 2000, 5,
583; Cass. 27 gennaio 1992, n. 860; Cass. 22 novembre 1980 n. 6212, in Riv. Not., 1981, 452,
secondo cui “nella società in nome collettivo il procedimento formale di liquidazione non è imposto
dalla legge in modo assoluto, ma costituisce una fase facoltativa nella vita della società. Nella
giurisprudenza di merito, Trib. Lodi, 15 luglio 2005, in Società, 2006, 1140, secondo cui i soci
possono liberamente determinare, prescindendo da formalismi particolari, oltre allo scioglimento,
anche le modalità della liquidazione, ove necessaria, per addivenire, attraverso la definizione dei
rapporti pendenti, all'estinzione della società, essendo la liquidazione stabilita nell'interesse dei soci
e non dei creditori sociali; conformemente Trib. Lucca 18 luglio 1988, in Società, 1989, 66; Trib.
Reggio Calabria 21 marzo 1990, in Società, 1990, 958. Nel senso, invece, dell'essenzialità del
procedimento Trib. Napoli 12 maggio 1993, in Società, 1993, 1487 e Cass. 4 aprile 1981 n. 1916,
in Giur. Comm., 1982, 28, secondo cui “il procedimento di liquidazione è necessario e
insopprimibile”).
È il caso di sottolineare come – nel discorrere di facoltatività – si fa riferimento al procedimento
formale di liquidazione, con la nomina appunto di un liquidatore: ma ciò non significa che si possa
soprassedere alla definizione dei rapporti giuridici facenti capo alla società in vista di una sua
cancellazione dal registro delle imprese.
***
2) Conseguenze immediate del venir meno della pluralità dei soci:
a) la prosecuzione dell’attività da parte della società (in liquidazione)
Viene in questione l’art. 2272 – dettato per la società semplice, ma che in virtù del richiamo di cui
all’art. 2308 s’applica anche alla s.n.c. - a tenore del quale “la società si scioglie: … 4) quando
viene a mancare la pluralità dei soci, se nel termine dei sei mesi questa non è ricostituita”.
Una volta decorso il termine semestrale previsto nell'art. 2272, n. 4, c.c., qualora il socio superstite
non provveda alla liquidazione possono darsi queste evenienze.
La prima è che il socio continui di fatto ad amministrare - nonostante l'avvenuto scioglimento - la
società che quindi rimarrà unipersonale a tempo indeterminato, analogamente ad una società di
capitali. Non costituisce un deterrente la disciplina relativa al divieto di nuove operazioni per le
società in liquidazione prevista dagli artt. 2274 e 2279 c.c. Nelle società di persone, diversamente
che nelle società di capitali, il socio amministratore è già illimitatamente e solidalmente
responsabile per le obbligazioni contratte dalla società (MARGIOTTA, La trasformazione della
società in impresa individuale, in Società, 2005, 976 ss.). Infatti, in caso di mancata ricostituzione
della pluralità dei soci entro sei mesi, qualora il socio superstite continui l’attività sociale senza,
invece, dare avvio al procedimento di liquidazione, si apre la possibilità che la società continui a
tempo indeterminato con un unico socio (CAMPOBASSO,Diritto commerciale, 2. Diritto delle
società, Torino, 2002, 126).
Tale possibilità è ammessa in quanto, se il socio superstite non ricostituisce la pluralità entro il
termine di sei mesi, la società si scioglie (non interessa, a questo punto, stabilire se con effetto
retroattivo o meno) e dovrebbe aprirsi lo stato di liquidazione. Tuttavia, la continuazione della
attività di impresa sotto il nome della medesima società rappresenta una ipotesi di mancato
svolgimento della attività di liquidazione (ed invero, non appare possibile individuare nella
prosecuzione della attività di impresa una modalità, atipica, di liquidazione: così BOERO,Sulla
"trasformazione" di società di persone in impresa individuale, nota a Giudice del registro delle
imprese presso Trib. Torino, 22 ottobre 1993, decr., in Giur. comm., 1994, II, 266).
Dato che non si può ravvisare alcun interesse di soggetti diversi dal socio superstite allo
svolgimento della liquidazione, e che quindi siffatto interesse deve ritenersi da costoro, e da costui,
disponibile, la continuazione della attività di impresa da parte di una società in liquidazione da parte
dell'unico socio (superstite) della stessa non può che interpretarsi come espressione di una scelta
perfettamente ammissibile: sempre che, è chiaro, costui non si appropri, ancorché parzialmente (art.
2280. 1° comma c.c.), dei beni sociali, prima di avere estinto i debiti sociali (STELLA RICHTER
JR. – FERRI JR., Mancata ricostituzione della pluralità dei soci e continuazione dello svolgimento
dell’impresa, Studio CNN n. 774: Recentemente DI MARTINO, La ricostituzione della pluralità
dei soci nelle società di persone decorsi sei mesi ex art. 2272 n.4 c.c., in Studi e materiali, 2010,
721 ss.).
***
b) continuazione dell’attività da parte del socio superstite mediante trasformazione. Limiti
L’altra possibilità è che il socio continui l'attività sotto forma di impresa individuale.
È allo stato attuale della giurisprudenza sconsigliabile pervenire a tale continuazione in forza di una
trasformazione della società di persone in impresa individuale.
A fronte di una disciplina normativa e di una interpretazione assolutamente prevalente che, prima
della riforma, non lasciavano spazio alla possibilità di riconoscere natura trasformativa al passaggio
da società ad impresa individuale (sul punto, SARALE, Trasformazione e continuità
dell’impresa, Milano, 1996, 199; IBBA, La società a responsabilità limitata con unico socio,
Torino, 1995, 45), un simile utilizzo “atecnico” del termine “trasformazione” è piuttosto servito per
indicare fenomeni di continuazione, in senso economico, dell’impresa, caratterizzati da alcuni tratti
comuni: un soggetto societario che termina l’esercizio dell’attività imprenditoriale (quantomeno di
quella “gestoria”); un’attività imprenditoriale che contestualmente viene avviata individualmente da
uno dei soci; una destinazione del complesso aziendale societario, o di parte di esso, all’esercizio
dell’attività d’impresa individuale.
Prima della riforma il fenomeno è stato quindi diversamente ricostruito in dottrina e giurisprudenza:
si è parlato di cessione dell’azienda dalla società al socio (Giud. Reg.Impr., Torino, decreto
22/10/1993, in Giur.comm., 1994, II, 260, con nota di BOERO, Sulla “trasformazione” di società
di persone in impresa individuale. In senso critico, GRADASSI, “Trasformazione” di società di
persone in impresa individuale, in Notariato, 1996, 530) e di assegnazione dell’azienda al socio
(BOERO, op. cit., GRADASSI, op.cit.).
Dopo la riforma, la qualificazione normativa, come trasformazione societaria, del passaggio da
società di capitali a comunione di azienda (art. 2500-septies c.c.) viene interpretata, dalla dottrina
prevalente, come un implicito riconoscimento della possibilità di trasformare la società di capitali
unipersonale in impresa individuale in forza del ricorso alla applicazione analogica della norma
(MALTONI, La trasformazione delle società, Milano, 2005, 229 ss.; MALTONI – TRADII, La
trasformazione eterogenea da società di capitali in comunione di azienda e
viceversa,in Notariato, 2004, 153; GUERRERA, La nuova disciplina delle trasformazioni: profili
generali,in Vita not., 2004, 740; TASSANI, La “trasformazione” di società di persone in impresa
individuale: profili fiscali, in “Gli effetti della riforma delle società di capitali sulla disciplina
delle società di persone”, Milano, 2006, 215 ss.; più prudente BASILAVECCHIA, Applicazione
dell'imposta di registro in caso di "trasformazione" di società di persone in ditta individuale,
inStudi e materiali. Quaderni semestrali, 2/2005, 1424 ss.; PINARDI, La nuova trasformazione:
profili applicativi, in Notariato, 2005, 80; esclude, invece, la legittimità della trasformazione della
società di capitali in impresa individuale, in forza dei problemi che essa genererebbe sul piano della
confusione dei patrimoni e delle tutele dei creditori sociali che concorrerebbero con i creditori
dell’imprenditore persona fisica, SANTOSUOSSO, La trasformazione eterogenea: la disciplina
generale, in FONDAZIONE ITALIANA PER IL NOTARIATO, Le operazioni straordinarie:
questioni di interesse notarile e soluzioni applicative, Milano, 2007, 236).
In particolare:
- se è vero che siffatta “trasformazione” si realizza nel segno di una discontinuità soggettiva e
appare finanche idonea a dar luogo ad una soluzione alternativa alla liquidazione dell’ente con
assegnazione del complesso aziendale, e, quindi, in definitiva, ad una alterazione della garanzia
patrimoniale del ceto creditorio,
- è anche vero che il meccanismo di tutela dell’opposizione dei creditori, approntato dall’art. 2500nonies (la trasformazione eterogenea ha effetto dopo sessanta giorni dall'ultimo degli adempimenti
pubblicitari previsti dall’art. 2500, salvo che consti il consenso dei creditori o il pagamento dei
creditori che non hanno dato il consenso. I creditori possono, nel suddetto termine di sessanta
giorni, fare opposizione) costituisce un valido strumento per garantire l’equilibrio dei contrapposti
interessi (MALTONI, La trasformazione delle società, cit., 230 ss.).
Sulla praticabilità di tale soluzione, tuttavia, pesano negativamente due recenti pronunce:
- Corte d’Appello di Torino, 14 luglio 2010, secondo cui “La trasformazione eterogenea introdotta
con la riforma del diritto societario, la quale consente la trasformazione di società di capitali in enti
diversi e viceversa, è attuabile esclusivamente nelle ipotesi espressamente previste dall'articolo
2500 septies, codice civile, ipotesi che non possono essere estese in via analogica ad altre
fattispecie. Non può quindi ritenersi ammissibile la trasformazione di una società di persone in
un'impresa individuale, alla quale osta, oltre al richiamato dato normativo, la diversa natura della
persona giuridica e della persona fisica, così come varie pronunce giurisprudenziali avevano
rilevato in epoca precedente alla riforma”.
- Trib. Piacenza 2 dicembre 2011, secondo cui “Non è configurabile, dopo la riforma del diritto
societario, la trasformazione eterogenea atipica da società di capitali in impresa individuale”.
In alternativa, la società in nome collettivo in scioglimento perché ridotta ad un solo socio (ma non
ancora cancellata) potrebbe essere trasformata in s.r.l. unipersonale (eventualmente con capitale
inferiore ai 10.000 euro ai sensi dell’art. 2463, comma 4, c.c.).
E non v’è dubbio che tale trasformazione sia pienamente legittima, in quanto essa è espressamente
contemplata dal legislatore (art. 2500-ter, c.c.), garantisce i creditori perché permane la
responsabilità illimitata (art. 2500-quinquies, c.c.) e può certamente esser prospettata al fine di
evitare più che lo scioglimento, in questo caso, l’estinzione della società personale ridotta ad un
unico socio.
Il problema, in questo caso, è il rispetto del comma 2 dell’art. 2500-ter, c.c.
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c) continuazione dell’attività da parte del socio superstite previa cancellazione della società. Limiti
La soluzione prospettata nel quesito – continuazione dell’attività susseguente all’assegnazione
dell’azienda – implica invece la previa cancellazione della società.
Perché però possa darsi assegnazione dell'intera azienda comprensiva di tutti i rapporti attivi e
passivi pendenti in capo al socio superstite, è necessario dapprima procedere, anche in assenza di un
formale procedimento di liquidazione, alla definizione dei rapporti con i terzi.
Viene in questione il principio sancito dall’art. 2280 c.c. che stabilisce il divieto di procedere a
ripartizioni finché non siano pagati i creditori della società o non siano accantonate le somme
necessarie per pagarli, che la dottrina ritiene inderogabile in quanto posto a tutela dei creditori
sociali che devono essere prioritariamente soddisfatti (COTTINO, Diritto commerciale, I, 2, 4ª ed.,
Padova, 2000, 253; FERRI, Le società, in Tratt. Vassalli, Torino, 1987,
321; CAMELI, Liquidazione convenzionale di società personali e divisione della cosa comune,
in Giust. Civ., 2004, 5, 1345; CAMPOBASSO, Diritto Commerciale, II, Diritto delle società,
Torino, 2002, 129 ss.; MONTALENTI, Negozio di liquidazione di società personale e clausole di
revisione: interessi tutelati e disciplina applicabile, in Giur. comm., 1982, II, 808).
Invero, secondo un orientamento giurisprudenziale più risalente, la previsione dell’art. 2280, ed il
principio da esso sancito, andrebbero ricondotti esclusivamente nell’alveo del formale
procedimento di liquidazione (Cass. 27 gennaio 1992, n. 860; Cass. 5 gennaio 1967, n. 22; Cass. 9
ottobre 1969 n. 3239; Cass. 22 ottobre 1970 n. 2099): secondo tali pronunce, nelle società di
persone (così come in quelle di fatto ed irregolari), in cui le ragioni dei creditori sono garantite dal
regime di responsabilità illimitata dei soci, il divieto fatto ai liquidatori di ripartire fra i soci, anche
solo parzialmente, i beni sociali (art. 2280 c.c.) finché non siano stati pagati i creditori sociali o non
siano state accantonate per il pagamento dei debiti non ancora scaduti le somme necessarie, non è
imposto dalla legge in modo assoluto; il procedimento di liquidazione, infatti, può essere omesso
nel caso in cui lo statuto stabilisca quale destinazione debba avere il patrimonio sociale, ovvero
quando, in mancanza di apposito patto, i soci siano d'accordo nel procedere alla definizione
integrale dei loro rapporti preesistenti.
Tuttavia, nella giurisprudenza più recente si afferma come il divieto opererebbe a prescindere
dall’apertura di un formale procedimento di liquidazione: la legge vuole che i creditori sociali siano
prioritariamente soddisfatti, e non già meramente garantiti dal patrimonio della società ed ammette
quale unica alternativa al pagamento, l'accantonamento formale delle somme liquide nella
contabilità sociale. A nulla vale per eludere il dettato di legge penalmente sanzionato, richiamarsi
alla garanzia generica offerta dal capitale iscritto o alla successiva liquidazione con piena
soddisfazione dei creditori (Cass. 31 agosto 2005, n. 17585, in Società, 2006, 854. Trib. Milano, 2
settembre 2003, in Giur. It., 2004, 105).
Pertanto, nella società di persone, i soci (o l'unico socio rimasto), pur potendo adottare il modo di
liquidazione che ritengono più opportuno, devono in ogni caso provvedere a soddisfare i creditori
sociali prima di procedere alla ripartizione del patrimonio sociale (residuo)
(MACCARRONE, Estinzione della società di persone e continuazione dell’attività imprenditoriale
da parte del socio superstite, in Riv. not., 1996, 843 ss.).
In tale prospettiva si è affermato come «la necessità del procedimento di liquidazione consegue
anche dall'essere da esso coinvolti non solo gli interessi dei soci, ma anche gli interessi dei terzi.
Ciò che è facoltativo è solo l'osservanza della disciplina legale, potendo i soci determinare una
convenzionale, non procedere alla nomina dei liquidatori, ma definire i rapporti essi stessi mediante
accordo diretto alla cessazione ed alla succitata definizione con libere modalità...» (Trib. Napoli, 12
maggio 1993, in Società, 1993, 1487).
A riprova della fondatezza di tale rilievo si può aggiungere come parrebbe del tutto incongruente
ritenere applicabile il divieto di ripartizione laddove si segua la via della liquidazione formale ed
escluderne invece l’applicabilità laddove i soci vi provvedano convenzionalmente: anche perché
nell’uno come nell’altro caso opererebbe comunque la garanzia della persistente responsabilità
illimitata dei soci. Pertanto l’esigenza della preventiva soddisfazione dei creditori va salvaguardata
tanto laddove si opti per la liquidazione formale, quanto laddove si proceda convenzionalmente.
In altre parole, l’assegnazione dell’azienda – necessaria per la prosecuzione dell’attività da parte del
socio superstite - presuppone o il soddisfacimento dei creditori o l’accantonamento di somme
necessarie per pagarli.
Antonio Ruotolo e Daniela Boggiali