Andrea Tavernati E NIENTE INDIETRO
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Andrea Tavernati E NIENTE INDIETRO
Andrea Tavernati E NIENTE INDIETRO A Chiara e Chicca PARTE PRIMA Storie di queste parti Melò veneziano La luce attraverso le persiane non fa danzare quel pulviscolo così caratteristico delle albe nelle città padane. A Venezia la luce passa netta, con una tonalità diffusa e omogenea, come se, già filtrata per mille passaggi, avesse perso per strada ogni impurità e acquistato via via compattezza. È una diffusione lenta, con una separazione fra chiari e scuri senza cesure: i confini sono precisi e lineari, le campiture si distribuiscono dolcemente, in uno svelarsi che si compie nel momento in cui l’atmosfera alita sul corpo del dormiente, portandolo dal sonno alla veglia senza traumi. Sarà perché da queste parti tutto è morbido, ma anche il tempo sembra scorrere senza sussulti; è una questione di variazioni minime, sufficienti a regolare diversamente il calibro della visione individuale, messa a punto sui parametri di una marina limpidezza la quale, dopo il progressivo accendersi che mette in fibrillazione le forme, rimarrà uguale fino al tramonto. Un parto così rigoroso chiede che all’inizio ci sia l’intimità di una penombra, disposta a ritrarsi e venir dissipata non più di quanto lo sia il sonno, per chi troppo poco ha dormito: non immaginavo quanta intensità ci fosse nel “sentire”, nel chiuso di una stanza, l’alba solitaria a Venezia, così assorta in sé. Un risveglio opposto a quello del giorno successivo, nello stesso luogo, con il trillo implacabile della sveglia nel cuore di un buio ancora compatto, e lì in mezzo, lì davanti, il sorriso spiovente dagli occhi limpidi di Antonio, che mi faceva segno di stare tranquillo, a me che ero stato strappato di colpo dal sonno più profondo. E non aveva affatto sul volto, come sarebbe stato lecito aspettarsi, quella legittima domanda, implicita ma imperiosa: che ci fai qui? 7 Paola l’aveva avvisato della mia presenza e lui non mi aveva sorpreso a letto con lei, che dormiva tranquilla nella stanza a fianco, con il volume de L’uomo senza qualità aperto sul ventre. Ma che ci facevo, veramente, lì? Il giorno dopo me ne sarai andato quasi come un ladro, come un intruso che, per aver aperto la porta sbagliata, era finito a sbirciare l’intimità altrui. Nel mio ricordo tutto quel breve viaggio è ammantato da una sensazione di eccitata curiosità, a cominciare dalla partenza, ancora in un’alba di prima estate, con una promessa di calore che poi sarebbe diventata afa. Mi ero precipitato giù dal letto con larghissimo anticipo, avevo afferrato al volo la sacca con le mie cose, mi ero sparato uno dopo l’altro un quarto d’ora dei Pink Floyd e tutto il Quinto concerto brandeburghese, e via ad attraversare a piedi la città già luminosa, ma scarsa di uomini e suoni, puntando dritto alla casa di Paola, a due passi dalla stazione. Nella vasta piazza con la chiesa del Carmine, lo scalpiccio dei passi rimbombava sui ciottoli e sull’enorme facciata rossa dell’edificio. Poi una strettoia riempita dal tubare lento di piccioni invisibili, tu-tuuu, tu-tuuu, tu-tuuu, domanda ripetuta ostinatamente. Una perseveranza che aveva superato il mio residuo dormiveglia con il richiamo di una vecchia conoscenza percepita sulla sinistra: la ben nota massa grigia del liceo, da cui Paola e io eravamo usciti per l’ultima volta meno di un anno prima. Dopo esserci ignorati per tutte le superiori, a un mese dalla maturità lei era venuta al mio banco. Proprio lei, senza preavvisi e senza araldi, da sempre la più bella della classe e la più irraggiungibile, veniva da chi era forse – dell’intera classe – il più svanito e chiuso, senza storie e storia. E mi aveva chiesto se per la maturità volevo preparare con lei italiano. “Per-ché?”, “per-ché?”, si chiedevano i piccioni insieme a me. Perché proprio io. Certo, lo so bene: il fatto che fossi considerato il miglior scribacchino della scuola avrà giocato 8 un ruolo determinante. Eppure, nel momento in cui ho appoggiato lo zaino sulla sedia e l’ho guardata stupefatto, mi è sembrato di cogliere – dietro il lieve turbamento della dea che si rivolge alla fucina di Efesto perché ha bisogno di armi che normalmente aborrirebbe, divenute ora indispensabili – la certezza di aver scelto il compagno di studi più innocuo, quello che avrebbe avuto l’animo troppo avviluppato di sogni per provarci. Ma anche la curiosità, una punta di presunzione nell’aprire la porta di una timidezza che per tutti, per cinque anni, era rimasta ermeticamente chiusa. Così almeno avevo voluto leggere nei suoi occhi. Ecco la via secondaria che portava al Palazzo del tribunale, e poi il corso, la “vasca” tante volte percorsa in solitaria, alla ricerca di chissà cosa, un evento imprevedibile ed eccezionale. Finalmente lo slargo in fondo, l’apertura verso il viale della stazione e appena prima il palazzo di cinque piani in cui abitava Paola. C’era vento quella mattina. Mentre sollevavo i manici del suo borsone avrei voluto prendere al volo quella foglia verdissima che scricchiolando scivolava sul marciapiede, da un estremo all’altro del mio campo visivo: con l’ingenuità di un neofita nel delirio delle prime scoperte, ero impressionato anche dai dettagli che entravano nella mia storia, quella storia che per la prima volta aveva qualcosa da raccontare, o anche solo da raccontarsi. Chi ero mai io? Da dove venivo? Quale destino particolare mi aveva spinto in quella città, con quella famiglia, dentro quella scuola? Nient’altro che un caso del vento, una folata che mi aveva posato lì come avrebbe potuto in Africa, in America o chissà dove. Ma ora la foglia mi era complice, e nella corsa che la portava via mi sorrideva con il suo verde squillante. Intanto, incrociando lo sguardo di Paola, potevo accorgermi come nei suoi occhi ci fosse una certezza. Lei vedeva in me un tassello concreto della sua esistenza, io per lei significavo qualcosa, qualcosa di acquisito una volta e per sempre. Una persona alla quale si poteva chiedere andiamo? con un semplice 9 sguardo, senza aprire bocca. Perché in quei mesi prima della maturità, e dopo ancora, Paola aveva imparato a conoscermi, aveva scoperto che dietro il mio muro di marmo c’era davvero quel panorama di architetture che forse aveva da tempo intuito. E come in ogni essere umano, molto di più. A poco a poco, tra una pagina di Pirandello e una di Pavese, bazzicando tra Svevo e Calvino, si era accorta che anch’io, com’era poi inevitabile ma forse non scontato in quegli anni, avevo una galassia di pensieri, e delle passioni che portavano la mia mente a eroici furori. E questo anche se vestivo con assoluta noncuranza e non avevo aspirazioni che si potessero dire mondane, chiuso in una moralità vicina a un tumultuoso ascetismo. D’altro canto io avevo imparato a conoscerla oltre la sua bellezza. Avevo anzi scoperto, con stupore, che quanto più mi addentravo nelle occasioni dei suoi pensieri, delle sue risate, delle sue indignazioni e soprattutto nelle ragioni del suo passato, tanto più la forza della sua bellezza si smorzava in una quotidianità di variabili tagli di luce, di luoghi più o meno ariosi e solari, di occasioni pubbliche o private, di buonumore e lune storte, di trucco più o meno riuscito e così via, che forse ne diminuiva l’assolutezza ma certo ne aumentava il fascino. Man mano che mi perdevo nella sua anima, la Paola dei miei sogni scivolava sullo sfondo e quella vera si rifletteva in mille specchi, ognuno dei quali mi dava un’emozione diversa. In treno avevamo parlato, lasciandoci trasportare dal ritmo pacato del viaggio. Scorrevamo, senza molta logica, da un argomento all’altro. Negli anni precedenti lei aveva molto creduto nella “rivoluzione”, sebbene da un punto di vista filosofico, diciamo con un’adesione di simpatia. Più che altro sembrava che in quel clima di attesa di una catastrofe rinnovatrice, che allora si respirava ogni giorno, ci fosse una grande speranza, anche se sarebbe stato difficile dire esattamente in che cosa. E aveva anche perso degli amici a causa di furiose discussioni sull’argomento, sebbene non si fosse mai realmente schie10 rata con decisione. E ora, all’improvviso, sembrava fosse stato tutto un bluff. Io ero convinto che questa mancata rivoluzione l’avremmo scontata molto a lungo. La verità è che non riuscivo a credere in qualcosa che mi avrebbe portato di peso dentro la vita degli altri. Spauracchio del totalitarismo o, semplicemente, un comodo alibi. O forse c’era qualcosa di più profondo, qualcosa che non riuscivo a mettere bene a fuoco. Paola guardava fuori dal finestrino. Mi infilai le cuffie del walkman mentre passava il cartello della stazione di Vicenza: i Dire Straits più incazzosi, seguiti dal concerto in La minore di Schumann, una goduria timbrica. Paola poi si era appisolata e a Santa Lucia avevo dovuto svegliarla. La prima impressione del Canal Grande è poi l’impressione che “fa” per ciascuno e per sempre la sua Venezia, dato che su di esso Venezia espone tutto ciò che vuole sia visto e ricordato di sé. La mia è stata di trovarmi di fronte a una mirabolante espressione del post-moderno, impressione confermata poi tutte le volte che a Venezia ci sono tornato. Non che allora mi fossi espresso così, poiché nel 1980 il postmoderno arrivava in Italia per la prima volta, giusto alla Biennale di Venezia. Per me era un termine ancora sconosciuto. Ma tutto quel meraviglioso di epoche e stili diversi, armonizzato in stupefacente parata, suscitava in me una nervosa inquietudine, quasi un disagio, che oggi non saprei identificare se non appunto con quanto di inquietante, demistificante e anche falsamente illusorio ci sia nel post-moderno. Perché a Venezia prevale la dimensione teatrale ed effimera dell’architettura e ancora oggi, quando riattraverso il Canal Grande in vaporetto, mi stupisco che tutto sia rimasto uguale alla volta prima e che nel frattempo un’equipe di scenografi non abbia smontato quella sfilata di quinte ingegnose, per sostituirle con altre, altrettanto gratuite e fantasiose: una città fatta per non durare e che si ostina a essere da oltre un millennio e mezzo. Anche Paola sentiva tutto questo? Si era divertita a osservare sul mio volto lo stupore del turista al lento rivelarsi del 11 Ponte di Rialto oltre la curva del Canale, ma poi era rientrata nella coscienza di chi a Venezia aveva la frequenza obbligatoria in università e quindi ci viveva quotidianamente. Per fare un tratto un po’ lungo, a Venezia occorre prendere per forza il vaporetto, che sarebbe come l’autobus in un’altra città, solo che qui costa il triplo. E il Canale è stretto, il traffico di gondole, motoscafi e barche aumenta ogni giorno. Come si fa a dire quanto tempo ci metterai? «Più che seguire le lezioni in università, cerco di inseguirle!» diceva ridendo. «A proposito di ingegnarsi, ricordami che domani devo passare alla Fenice. Devo vedere se hanno bisogno di comparse per la prossima stagione...» Ci teneva a essere quanto più possibile indipendente, mantenendosi agli studi da sola, soprattutto da quando il padre si era risposato e i rapporti con “la Laura”, che gestiva un negozietto di artigianato proprio di fronte a casa loro, non erano buoni. Infine ecco il piccolo appartamento tra le calli, che aveva preso in affitto con un’altra studentessa, assente in quei giorni. Piccolo e disordinato, ma a due passi da San Marco. Mi mostrò dov’era il bagno e il divano-letto su cui avrei dormito. Poi mi disse che doveva uscire per cercare qualcuno che le desse certi appunti, libri o che so io. Risposi che volevo rinfrescarmi e poi andare a San Marco, ne ero troppo attratto. Ci demmo appuntamento in piazza, e uscì. Volevo chiederle come avremmo fatto a trovarci in mezzo a tutta quella gente, ma non feci in tempo. Eccomi solo nella sua tana. Gironzolai di qua e di là: la sala con il divano-letto, la cucina stretta e lunga, con quell’aria bohemienne, effetto di numerose cene pensate all’ultimo momento e cucinate in fretta. Infine, la stanza dove dormivano lei e l’altra ragazza, con due spazi ben distinti, ciascuno dei quali aveva il suo centro in uno dei letti addossati a opposte pareti, quasi che un confine invisibile separasse i “territori” che le due avevano caratterizzato con i segni della propria personalità. Così, sopra il letto di Paola, che avevo identificato alla prima occhiata, un grande foulard di seta nero – 12 con rose rosse a scacchiera – era teso tra due muri a tagliare tutto un angolo; pile ordinate di libri di filosofia e letteratura, tutti letti, riletti e sgualciti, stavano di guardia al di là della testata; un orso di peluche che proveniva dalla sua infanzia era appoggiato al cuscino; un piccolo impianto stereo di marca sconosciuta, con qualche disco e cassette varie, cantautori, musica etnica, qualcosa di classico (poca roba e nessun gusto definito) occupavano interamente il comodino; ai piedi del letto, ancora alcuni cuscini di foggia orientale e il tomo dell’ Uomo senza qualità; su una mensola a muro, un mucchietto di cosmetici di poco prezzo, boccette di profumo e parecchie foto sparpagliate. Alcune, che avevo già visto in passato, ritraevano sua madre, una donna bellissima morta parecchi anni prima. Una del suo primo ragazzo, il figlio di un notissimo imprenditore della nostra città. Sorrisi; un giorno mi aveva confidato: «A sedici anni è facile perdere la testa quando vedi le altre che muoiono d’invidia se dici anche stasera esco con. . . » E ricordai anche che i miei erano un po’ turbati dalla frequentazione con Paola. Una volta mi avevano detto che una loro conoscente l’aveva definita “una ragazza molto chiacchierata”. Naturalmente la cosa mi aveva fatto andare in bestia (si facessero gli affari loro, ‘sti provinciali di merda): chissà, magari i miei avevano anche sperato in cuor loro che ci fossi andato a letto, così mi sarei svegliato un po’. Poi c’era un altro gruppo di foto, più recente, delle ultime vacanze al mare: Paola sulla riva, Paola che fa il bagno, Paola in topless (wow!), Paola con un gruppo di amici, Paola con Antonio, il suo ragazzo attuale. Non l’ho mai visto, ma non può che essere lui, dagli atteggiamenti che ha con lei e dalla frequenza con cui compare. È un architetto che aveva conosciuto dopo la maturità e che ora stava facendo dei progetti di edilizia residenziale con uno studio importante, non so dove. Belloccio, ma niente di che. Rimisi a posto le foto con un lieve senso di sconforto: ero innamorato di Paola? Non lo sapevo. La mia dimestichezza con questo sentimento era così scarsa che mi riusciva diffi13 cile identificarlo. Però, pensavo di sì. Ebbene, diciamo che ne ero innamorato. Santiddio, innamorarsi a Venezia e per di più con una compagna di scuola! Uack! Berk! Bleah! Gliel’avrei detto? Assolutamente no, non se ne parlava neanche! Perché? Non so... Il fatto è che io ero il più extraterrestre della classe, quello che per cinque anni non aveva messo insieme nemmeno una storia, quello che le ragazze guardavano solo quando avevano in mente di farsi passare il compito in classe, quello a cui Paola sorrideva con la cortesia asettica che le strafighe elargiscono per magnanimità. Non potevo pretendere che la più bella, la più mitica di tutte... No, proprio no! Impossibile! In più adesso aveva un altro, e gli voleva bene, si vedeva da come ne parlava tutte le volte che ne parlava – ed erano tante. Fosse stato un anno prima, durante la maturità, quando lei stessa mi confessava che “non era mai stata così tanto tempo senza un ragazzo”, e se ne stupiva, perfino... Idiota! Quello sarebbe stato il momento! Ma allora ero persino meno sicuro di me, di lei, di tutto e la scuola era ancora lì, non era nemmeno finita, sebbene la forza gravitazionale del futuro fosse già fortissima. E rimarrai così, con questa cosa non detta, così importante? Sì! Non si può, non si può e basta! E se lei lo capisse da sola? Forse l’ha già capito, però non ne è certa e sta aspettando ... All’inferno! Mi ero incazzato con i miei stessi pensieri. Lasciai la stanza, chiusi alle mie spalle la porta e mi precipitai fuori, verso piazza San Marco. Sbucato all’improvviso nella luce della piazza da una via laterale all’altezza del campanile, rimasi sgomento di fronte al frastuono dell’immensa massa di mattoni rossi. Un battito ansioso come fosse l’unico campanile in questa città di campanili, più di quelli di Roma. Batte come dovesse battere tutte le ore del mondo a ogni ora, una gragnola insensata di colpi, sempre molti di più del necessario, che chissà che ore mai saranno in realtà, se uno non avesse un riscontro al 14 polso. Ma forse non è qui per segnare lo scorrere del tempo: è come l’asse terrestre di Venezia, l’albero al centro del paradiso terrestre lagunare che affonda le sue radici sotto il mare e tiene insieme quell’agglomerato di terre affioranti. Intorno al campanile sta avvolta tutta Venezia nelle sue spire di canali, come un intricato biscione a guardia di chissà quale segreto. C’è bisogno di qualcosa di solido, qualcosa di centrale, forte e sicuro per poterci costruire intorno un’intera città d’invenzione. Sentivo pulsare tutte le forze primitive di queste terre e acque, fuse come non mai; sentivo vibrare le energie di un bambino che ha navigato l’oriente e l’occidente e che pure non smette di stupirsi ai racconti di lontani mostri marini, di muovere il remo con quel movimento secco, ellittico dei gondolieri, di prendere a sassate le lucertole sui muri dell’arsenale… Deambulavo a vuoto tra i piccioni e la facciata di San Marco. Il viavai incessante di migliaia di turisti, insegne dei costumi e lingue di tutte le nazionalità, mi stordiva in una illusoria festa della totalità umana. Sentii una voce ben nota alle mie spalle: Paola mi aveva trovato davvero. Con la gioiosa leggerezza di chi aveva esaurito tutte le sue faccende e si disponeva a chiudere la giornata in assoluto relax, mi disse che voleva portarmi a fare una passeggiata per la città, perché la prima volta a Venezia è sempre un avvenimento un po’ speciale. Naturalmente la proposta mi causò un improvviso soprassalto di felicità, ma mi contenni, e limitandomi a rispondere che ne sarei stato molto lieto, tornai a guardare verso la Punta della Dogana. Là stava ancorato il Teatro del Mondo di Aldo Rossi, installazione realizzata per la Biennale e ormeggiata su una chiatta davanti alla Piazzetta. Un vero e proprio teatro di legno e acciaio alto venticinque metri e capace di contenere quattrocento spettatori, ma simile a un castello per bambini, fatto di blocchi lisci e squadrati come mattoni del Lego; beccheggiava lentamente irridendo la Torre della Dogana, che fronteggiava paonazzo di un sole sfrontato, acceso di lampi sulla cupola di zinco. Di lì a un anno sarebbe stato 15 smontato. Paola mi ascoltava mentre le descrivevo la struttura di cui avevo letto sui giornali. Era la prima persona che riuscivo a conquistare parlando di ciò che mi interessava. In seguito mi sarebbe capitato ben poche volte e non sempre con le persone che mi stavano più a cuore. Già di questo le ero immensamente grato. Continuando a guardarla di sottecchi, mi profondevo in descrizioni sempre più appassionate e funamboliche, spaziando dai tappeti arabi alla pittura di De Chirico. Conclusi che il modo migliore per capire ogni architettura sarebbe quello di poterla rovesciare e guardare dall’alto verso il basso, perché così la finalità del principio costruttivo sarebbe subito evidente. Insomma, proprio roba da nerd, per usare un’altra parola che allora non faceva parte del nostro vocabolario. Pure sembrava che lei non percepisse tutto ciò come ridicolo. E io, al ridicolo, ero sensibilissimo. Invece ricordò cosa sosteneva Antonio, che gli edifici sono come orologi meccanici: talvolta il movimento che li anima può non essere perfetto, ma se le fondamenta poggiano su una grande idea, la costruzione avrà tutto il fascino di una personalità viva e mutevole, che non si riesce mai a conoscere fino in fondo. E lei raramente aveva pensato alle implicazioni “filosofiche” dell’architettura finché, proprio su sollecitazione di Antonio, non aveva immaginato la mente come un labirinto in cui se si passa due volte per lo stesso corridoio non è detto che questo porti sempre dalla stessa parte. La guardai con accresciuta attenzione, cercando di sciogliere quel residuo enigmatico che forse mi impediva di prendere una decisione definitiva: il suo era un compiacimento per quello che io le andavo evocando, o gioiva solo di riflesso, perché le immagini che tratteggiavo con estro romantico erano sprazzi di ciò che occupava le giornate del suo Antonio? La scrutai, mentre sotto i portici di Palazzo Ducale lame di luce incendiavano questo o quel dettaglio del 16 suo volto. Ma né quel taglio d’occhi allungato, così inconfondibilmente orientale, né le labbra tumide e increspate in un sorriso ora pietrificato dietro l’inseguimento di chissà quale dolcissimo sogno, e nemmeno la linea del naso sottile, con una leggera ansa alla radice, mi rivelarono compiutamente il suo stato d’animo. Dopo qualche istante, però, quando si girò di scatto verso di me agitando la massa di capelli castani, ebbi l’impressione che fosse felice. Mi portò nell’intrico delle viuzze, dei campielli, dei ponti microscopici, dei passaggi improbabili. Percorrendo fino in fondo un vicolo, ci trovammo a una ringhiera affacciata su un canale secondario; di là dall’acqua c’era un edificio con un ingresso coperto da un vasto baldacchino metallico, sotto il quale si stagliavano i pali di un approdo importante, dipinti di nero e con le sommità coperte da pigne metalliche, dorate, dalla solennità vagamente funebre. Mi spiegò che era quello che Luchino Visconti in “Senso” chiama “l’imbarcadero”, cioè il vero ingresso della Fenice. Nel Settecento i nobili entravano da qui. E veramente quel piccolo canale che all’altezza del teatro si divideva in due per andare a perdersi chissà dove, quell’acqua quasi ferma, quel lento sciabordio e la tranquilla luce del tramonto che inondava di rosso la parte più alta dei palazzi, lasciando totalmente in ombra l’approdo e il balconcino sul quale sostavamo, tutto evocava l’immagine di un arrivo silenzioso, alla spicciolata, lenti natanti scuri che uno a uno venivano giù dal Canal Grande e senza fretta lasciavano sui gradini il loro lieve peso umano. Uscieri in livrea e parrucca accoglievano gli spettatori, aiutavano le donne, le accompagnavano ai loro palchi. Un’atmosfera sospesa, magica, della quale in quell’angolo si poteva ancora cogliere un lontano riverbero, ma che un tempo era familiare alle pietre del teatro. A Venezia basta un niente per scatenare il sentimentalismo romantico che ci sonnecchia dentro... Il mattino dopo mi ero svegliato con l’idea di dover fare qualcosa per Paola; la visita alla Fenice mi aveva ricordato 17 che sperava in un ingaggio come comparsa. Ecco allora sorgermi l’idea, in breve divenuta dominante, di precederla al teatro e lasciarci il suo nome, evitandole la camminata. Che cosa mi aspettavo da questo gesto? Forse di farle capire che pensavo a lei, che per me era speciale, che per lei ero disposto a fare qualcosa. Ben poco, se vogliamo; ai suoi occhi avrebbe potuto anche essere una velleità insignificante ma per me, abituato a rapporti umani fondati sulla necessità, sull’interesse personale e sullo scambio di favori, era un segnale importante: significava che le mie paratie erano pronte a cedere di fronte a una diversa fase, quella in cui i sentimenti passano attraverso uno spalancamento incondizionato di tutti i forzieri dell’Io. Appena avevo aperto gli occhi, se non da prima, la convinzione che questo fosse il metodo affinché lei potesse pensare a me in un modo nuovo mi aveva già conquistato del tutto: mi attaccavo a questa speranza. Soprattutto, avevo trovato un’azione e uno scopo in cui riversare la mia inquietudine. Mi buttai giù dal letto, mentre Paola ancora dormiva, in silenzio mi vestii e uscii. Ripercorsi grossomodo il tragitto della sera precedente e solo poco prima di raggiungere il teatro spensi la Settima di Beethoven, che girava nel mio walkman. Aggirai l’edificio, sbucando sulla piazzetta con l’ingresso “a terra” e quindi scivolai lungo un vicolo sul fianco, cercando un ufficio informazioni o una biglietteria. Trovai una porticina dietro la quale c’era qualcosa che pareva l’uno e l’altra insieme. Per fortuna, era già aperto. Entrai e chiesi a una signora affondata in un gabbiotto di vetro. Rispose, gentilmente ma con fermezza, che di comparse non ce n’era più bisogno: il teatro ne aveva in esubero per tutta la stagione. Ebbi l’impressione che sul suo volto si disegnasse un lieve sorriso ironico, come se intuisse quanto patetica fosse la mia situazione e la incuriosisse questo ingenuo mattiniero dall’accento chiaramente non locale. La ringraziai e uscii. Poi mi fermai sul vicolo, spaesato. Ero già al mio capolinea. Non sapevo più cosa fare, non ero riuscito a renderle alcun servizio. Me ne tornai indietro 18 veloce e deluso. L’unica consolazione era che comunque avevo fatto un tentativo: questo, almeno, lei l’avrebbe notato. Paola si era appena alzata, ancora coperta dal solo accappatoio stava preparando il caffè per tutti e due. Assonnata, mi chiese distrattamente dove mai fossi andato. Le raccontai. Lei interruppe ciò che stava facendo e mi guardò. E dopo un attimo di silenzio (un attimo lunghissimo) mi sorrise di un sorriso strano, tra il beffardo e il lusingato, il sorriso di quella-che-capisce-e-compatisce, e mi disse: «Rispondono sempre così. Per poter ottenere qualcosa bisogna conoscere qualcuno in particolare. So come muovermi. Comunque, grazie.» All’improvviso mi sentii addosso tutto il peso della mia pochezza: non avevo niente di meglio per attirare la sua attenzione? Un tentativo ridicolo e nulla più, figlio della mia congenita imbranataggine. Furioso con me stesso, mi ritirai presso il divano-letto fingendo di sistemare le poche cose che mi servivano per uscire di nuovo. Cuffia sulle orecchie e Guccini che mi snocciolava una a una le sue osterie di fuori porta. Cosa volevo fare, competere con Antonio? Beh, allora avrei dovuto avere il coraggio di fare qualcosa di grandioso, giocarmici il tutto per tutto, all’inferno! Organizzarle una serata alla grande: prendere il locale più chic di Venezia e prenotarlo tutto, con l’orchestra il personale al completo il motoscafo che ci porta e ci aspetta, eccetera. Passare tutto il tempo della cena a raccontarle cose fantastiche, come saprei fare io nell’atmosfera e nelle circostanze giuste. E poi, al ritorno, il motoscafo che punta verso la laguna, via all’avventura, incontro a una nuova vita, che nessuno dei due aveva pensato fino a un attimo prima! Oppure il caso avrebbe potuto darmi un piccolo aiuto. Che so, lei sola in casa... mettiamo che un rapinatore si fa aprire e si mette a minacciarla con la pistola. Ecco che arrivo io, 19 quello non se ne accorge... certo, non sono un colosso, ma l’effetto sorpresa è determinante. Prendo un vaso... no, è un soprammobile... una statuetta del fauno della Casa del Fauno di Pompei e... sbeng! Lo sbatto là sul pavimento! Che uomo fantastico, solo io potevo salvarti, Paola! Ecco che mi sento nuovamente un pirla. Il peso di tutto il passato, l’obbligatorietà delle posizioni reciproche mi rende impotente. Sento il destino come se ce l’avessi inciso su una pietra che mi sta dentro e che mi fa male a ogni movimento. Sulla pietra sono scritti anche i sogni che una regola ferrea, postillata immediatamente dopo, impedisce di realizzare. Questa crudeltà primigenia, fonte di buona parte delle sofferenze interiori, è la sfida con cui un dio tragico ci ha segnati. Occorrerebbe avere il coraggio di spezzare la pietra con un moto di ribellione sacrilego, che uccida le immagini dei padri sedimentate nell’anima. Quelle di chi ha costruito i codici e fissato gli articoli di legge che reggono la città invisibile nascosta dentro di noi. Mi venne il pensiero di lasciare perdere e di andarmene subito, senza una spiegazione: la confusione e lo smarrimento ormai insopportabili. Pure qualcosa mi tratteneva. Quando, molti anni dopo, la sera del 29 gennaio 1996, vidi in televisione le immagini della Fenice in fiamme, riprovai la stessa nausea, lo stesso totale sconforto, attribuendoli banalmente al dispiacere per la perdita di un simbolo della cultura. Solo dopo qualche minuto capii che quelle sensazioni erano, invece, un ricordo vivissimo di quel passaggio critico di tanti anni prima. E dietro quel primo ricordo sorse immediatamente, da uno strato appena al di sotto, l’evocazione di quel mio primo viaggio, il padre (o la madre) di tutti i miei viaggi. Tornai da Paola. Le dissi che era mia intenzione visitare le Gallerie dell’Accademia quel giorno e poi forse la Scuola di San Rocco. Sarei ritornato a ora di cena, se non potevamo vederci prima da qualche parte. Per lei andava bene, doveva rimanere in università tutto il giorno, per parlare con un paio di professori e risolvere alcune pratiche amministrative. 20 «Ah» aggiunse, «mentre non c’eri ha telefonato Antonio: arriverà stanotte da Roma.» Dunque il mio tempo aveva un termine. Come un deus ex machina della migliore tradizione arrivava il castigamatti a metter fine ai miei languori. Inutile autocommiserarsi con tanto gusto, mio caro! L’orologio marcia anche sui sospiri e sui vagheggiamenti più accorati e ha già fissato il momento in cui, che piaccia o no, si sarà chiamati a darsi nuovamente un contegno. C’è un punto in cui l’appello della socialità è imprescrittibile, anche se la condizione di incertezza, l’eterna sospensione dell’irrisolto, ha un fascino che può risultare fatale. All’inizio non si decide perché si è semplicemente insicuri della posizione da prendere. Poi l’ambiguità dell’apertura ancora completa ipnotizza con un fascino malsano, e il dolore degli interrogativi senza risposta è compensato dalla dolcezza dell’irresponsabilità. È la leggerezza che permette di cogliere le situazioni dall’esterno e leggerne tutta l’immensa poesia, che il flusso del tempo cancellerà in pochi istanti. Perché Paola non mi guardava, mentre mi dava con nonchalance la più mortale delle notizie, ma era indaffarata intorno alle tazze nel lavandino? Aveva capito che così imponeva una svolta, necessaria ma temuta, alla mia vita? O perlomeno alle circostanze particolari di quel momento della mia vita? Intuiva il turbamento di uno scatto in avanti che lo scorrere stesso delle cose imponeva, togliendo me, e anche lei, da un idillio non detto, e forse solo sognato con i frammenti di ciò che sguardi, gesti e silenzi avrebbero potuto o meno significare? Mi gettai nell’intrico di vicoli e canali, vagando a lungo senza meta prima di prendere la direzione delle Gallerie dell’Accademia. Mi aggirai per le sale del museo avvertendo una turbolenza d’anima che mi sviava verso dettagli insignificanti, macchie di colore insopportabili, luci troppo vivide e spettrali, cornici tortuose e impolverate, custodi tramortiti, finestre chiuse per sempre, occhi dipinti ma profon21 di come bisturi, mattonelle lucide come macchie d’acqua, turisti-cavallette, turisti-archivio, turisti-estasi, turisti-ombra... La Sacra Conversazione del Bellini mi parve stoltamente enigmatica, la Tempesta di Giorgione piattamente buia, il ciclo di S. Orsola sguaiatamente chiassoso, la Cena in casa Emmaus di Tiziano una buffonata, le storie di S. Marco del Tintoretto una sceneggiata prebarocca. Mi rituffai nella trama di Venezia, beccheggiavo tra i flutti di fiumane dagli occhi a mandorla. Così, andando a tentoni, finii per ritrovarmi a Rialto: un improvviso slargo per prendere aria e luce. Ma anche qui migliaia di piedi e di lingue s’intersecavano tra la fermata del vaporetto e i negozietti sul ponte. Notai per la prima volta che l’acqua era stagnante e malsana, le alghe prosperavano in vasti banchi, inerti come colonie di parassiti. Le fondamenta dei palazzi erano erose da secoli di sciabordio e parevano assottigliate, presto incapaci di reggere il peso delle pareti sovrastanti. I portoni sull’acqua apparivano sprangati da secoli, marci e maculati da muffe croniche; le finestre strozzate e buie. Gondole, motoscafi e vaporetti s’incrociavano a sciami, rischiando di continuo la collisione e riversando incessantemente succhi oleosi, borborigmi di motori, urla dialettali. Lasciai la balaustra sul Canale e ritornai nei meandri della città. Nei vicoli più stretti, gli angoli della strada erano percorsi da rigagnoli di un liquido non identificabile che ricordava la bile; a tratti venivo colpito da un forte tanfo. Spruzzi di una polvere diffusa, come scaglie squamose, mi imbiancavano i capelli: l’intonaco delle case lentamente si sgretolava. L’acqua vischiosa, putrida, penetrava fin negli angoli più impensabili, appariva all’improvviso attraverso squarci nelle murature, male silenzioso che si faceva largo tra i tessuti sani. Nelle piazzette crescevano talvolta stentati arbusti: era quanto rimaneva di una folta capigliatura di giardini, sotto l’assedio di migliaia di piccioni. Schiere di gatti si disputavano l’immondizia di enormi cassoni per la raccolta dei rifiuti, colmi all’inverosimile: litigavano per le interiora di non so quale animale, rovesciate dai tanti risto22 ranti vicini. I rari buchi tra un passaggio e l’altro delle mandrie umane rivelavano una pavimentazione cosparsa di residui organici e inorganici: plastiche non biodegradabili, scassati led di giochini elettronici, lattine, viscide carte oleate. E quando i corpi tornavano ad ammassarsi, rutilavano dinanzi ai miei occhi scarpette colorate, bottigliette di integratori, tranci di pizza consumati camminando, cappellini di improbabili educande con nastri verdi e gialli, inutili ombrelli alzati come segnali dalle guide, voci urlate in gerghi incomprensibili. E poi pelli di tutte le specie e colori: abbronzate, olivastre, bianchissime, butterate, luminose, barbate, d’avorio, rugose, rosee, grasse, di porcellana, tirate, maculate, cadenti, sudate, imbellettate, invecchiate... Capii che la mia immaginazione sovreccitata distorceva quel che osservavo, esaltando l’orrido che alberga sotterraneo in ogni situazione. Continuai a camminare a caso, finché scorsi nella penombra alla mia destra le vetrate opache di un vecchio cinema. È improbabile pensare a un cinema a Venezia. Salvo che in occasione del Festival, che peraltro ha poco a che vedere con la città, è l’ultimo luogo in cui ci si recherebbe. Per di più era un cinema porno. Spinto da un impulso immediato e complesso mi ci fiondai al volo. Pagai il biglietto evitando il più possibile lo sguardo, forse interrogativo, della cassiera. Nella sala buia ma tutt’altro che vuota, scelsi a tentoni un posto, il più isolato possibile e il più vicino a un’uscita – da prendere eventualmente di corsa. Una volta sicuro che nessuno aveva notato il mio arrivo (ma perché avrebbero dovuto?), cominciai a fissare lo schermo: una negra dalle forme procaci faceva sessantanove con una splendida, giovanissima bionda. I primissimi piani erano insistenti, mugolii e improvvise urla hi-fi riempivano con 120 watt di potenza tutta la sala. Sul momento era difficile non farsi prendere dalla scena, e nel giro di pochi secondi mi ritrovai eccitatissimo. Solo che soddisfare i propri desideri in un cinema porno è 23 davvero difficile. O per meglio dire, è facile per chi è capace di fregarsene completamente di quello che succede intorno. Per chi, come me, ha bisogno di una certa concentrata intimità, o almeno della certezza di non poter essere adocchiato da nessuno, è un disastro. Fatto è che il pubblico dei cinema porno, a differenza di quello delle proiezioni normali, si muove moltissimo. Qualcuno va in bagno, probabilmente a sfogare un’erezione troppo a lungo trattenuta, ma la maggioranza passeggia tra una fila e l’altra, lungo le scalinate e i corridoi, sempre in assoluto silenzio e sempre in perfetta solitudine. Questo via vai, contrassegnato da un ritmo quasi rituale ma per me incomprensibile, mi faceva pensare che da un momento all’altro qualcuno, transitando con passo felpato, si sarebbe accorto di me e, avvicinatosi di soppiatto, avrebbe trionfalmente indicato a tutti la mia mano colpevole. In realtà nessuno badava a me, ma avevo la sensazione di essere al centro della curiosità di tutti. In più, dopo un attimo di massima libido, un improvviso controcampo aveva portato a tutto schermo il fondoschiena della ragazza, mettendo in bell’evidenza, proprio al centro della natica sinistra, un piccolo foruncolo purulento. Una negligenza imperdonabile. Perché perfino in un film porno ci sono differenze che fanno una qualità diversa, e ci vogliono gli accorgimenti giusti per esaltare il trionfo della sensualità. Non è solo questione di astratti puntigli, mutuati da generi più nobili, quanto di trasposizione, in un verosimile che sublima la realtà, di un sesso ideale, essenzialmente onirico: una speranza di strepitoso, totalizzante appagamento corporeo, cui la maggior parte di noi, e specialmente chi frequenta questi cinema, non potrà mai aspirare in concreto. Perciò tutto deve essere perfetto, o quantomeno esemplare: l’aspetto degli attori; le luci, senza riflessi e senza spari; il doppiaggio, aderente ai movimenti labiali; gli arredamenti, non troppo anonimi. Ma soprattutto, mai e poi mai bisogna lasciar trapelare, nemmeno per un attimo, che intorno agli attori c’è un set cinematografico: un attrezzo di scena incautamente inquadrato o 24 un’ombra traditrice sono la fine di tutto il film. Allora la complicità tra regia, attori e pubblico, in equilibrio sul tenue filo dell’immaginazione, si infrange per sempre: il gioco, che tutti conoscevano, è stato dichiarato. E allora, “non vale più”. Il foruncolo, insomma, mi aveva un po’ smontato. Invece di rimanere concentrata sul film, la mente divagava. Complice anche quel luogo anonimo, che poteva essere ovunque. Fuori il flusso dei turisti continuava infinito e monotono, ma qui si viveva un momento assoluto, astratto dal tempo e dallo spazio. Il cinema come camera più segreta del tempio, ove si compiono gesti senza limiti. Io ero io, io e basta, alle prese con tutto l’oscuro che avevo dentro, con un groviglio di pulsioni irrisolte che mi teneva in bilico tra due abissi, quello dell’azione avventata, dell’abbandono all’impulso, e quello dell’implosione sull’interiorità (via della rinuncia eccetera). Fui richiamato da un improvviso cambio di scena. Adesso si vedevano una scattante gazzella dai capelli neri e corti, il corpo muscoloso, flessuoso ed elastico come quello di una ballerina, e uno pseudo-studente biondo-americano-palestrato, dotato in modo spettacolare, da chiedersi se ce ne sono davvero in giro così o se è tutta un’invenzione cinematografica. Chissà come faceva Paola, chissà se Antonio la appagava; magari era proprio questo uno dei motivi per cui stavano insieme. Certo, io sì che le avrei fatto provare piacere, tutto il piacere, e se solo ci fossimo arrivati, anche da questo lato sarei stato una bella scoperta per lei. Ah, non se l’aspetterebbe da me, sicuro, mai toccati questi argomenti, ma a letto lei non potrebbe essere una forza della natura? E una volta passato il limite, non si lascerebbe andare alla grande? Ci sono delle circostanze in cui ti rendi conto che da una decisione potrebbe dipendere l’intero corso della tua esistenza. E ne sei perfettamente cosciente proprio mentre queste circostanze si verificano: assisti a uno scontro di forze che renderà il momento un punto cruciale della tua storia individuale. Una certa occasione, o un immenso pericolo, ti 25 stanno passando davanti al naso, ma tu non sai coglierla al volo (la prima) o ci stai cascando in pieno come un allocco (il secondo). Avrei dovuto in qualche modo prolungare l’eccitazione, le emozioni del porno fino alla sera e presentarmi nella sua stanza nudo, senza dire una parola? Sono stato folgorato anche da questo pensiero. Ma proprio un attimo dopo che aveva fatto irruzione nel mio cervello, e prima che potessi fantasticarci sopra, ecco che improvvisamente, davanti a una scena qualsiasi, uno spettatore tre file davanti a me era esploso in una lunga, fragorosa risata, che aveva riempito tutta la sala, coprendo anche l’audio. Mi aspettavo, come immediata reazione, una valanga di proteste. Invece nessuno si era scomposto. Ebbi di colpo la sensazione di essere l’unico a prendere sul serio lo spettacolo che riempiva lo schermo: altro che trasposizione di un ideale! Per tutti gli altri, molto più evoluti di me, non era che un gioco quasi infantile, qualcosa che si poteva benissimo seguire con una forte propensione ironica e perfino ilare. Avrebbero tranquillamente sostituito falli e vagine in ostinata ostensione con le facce note e rassicuranti di Stanlio e Ollio. C’era come un darsi di gomito e si sapeva bene che in fondo era tutta una finta: gli attori apparivano instancabili grazie agli stacchi del montaggio e le smagliature delle ragazze si evitavano usando accortamente le inquadrature o lavorando di ritocco in post produzione; gli esasperati mugolii, gli ansimi e i ragli erano registrati da altri e aggiunti a parte in fase di doppiaggio, il massimo dell’interpretazione consisteva nel saper simulare che tutte quelle alternanze ritmiche fossero qualcosa in più di una dimostrazione di meccanica dei moti. Insomma, lì dentro ero proprio l’unico a essere completamente fuori posto e forse l’apparente tranquillità delle sagome oscure degli altri spettatori era dovuta al fatto che non erano per niente eccitati. Me ne andai senza indugio, quasi imbarazzato e con l’idea di dover chiedere scusa a qualcuno, come chi cerca a lungo i 26 volti dei compagni di viaggio, muovendosi di carrozza in carrozza e facendo spostare borse e passeggeri, prima di rendersi conto di aver sbagliato treno. Vagai ancora a lungo nel labirinto di Venezia, senza meta e con le idee molto confuse. Finalmente, ormai a sera, tornai da Paola. La trovai di buonissimo umore, mi preparò una cenetta semplice ma piacevole e passammo tutto il tempo a parlare del più e del meno, toccando i più svariati argomenti, dalle mie impressioni su Venezia ai suoi problemi universitari, giungendo ai rispettivi programmi per il futuro. Così si fece tardi. Eravamo stanchi e decidemmo di ritirarci, lei nella sua stanzetta e io nel mio divano-letto, a una decina di metri di distanza. Tutti e due sapevamo che nel cuore della notte sarebbe arrivato Antonio, ma nessuno dei due disse al proposito una sola parola. Nemmeno lei. Eppure il suo buonumore non era forse il riflesso di questa piacevole attesa, e solo per discrezione non ne rimarcava la causa? Sospirai scoraggiato. A ogni passo avevo una domanda su di lei: in fondo la conoscevo ancora così poco, non ero per nulla sicuro delle sue reazioni e dei suoi sentimenti. Disse che prima di addormentarsi avrebbe letto un po’. Mi salutò ed entrò in camera, lasciando la luce accesa. Dopo qualche istante e una serie di indecifrabili, minimi rumori, incominciai a sentire il fruscio delle pagine dell’ Uomo senza qualità. Io ero lì nel mio divano-letto, in un angolo della sala disordinatissima, ambiente da studenti in affitto, casa di tutti e di nessuno. Ero lì con i secondi che mi scivolavano sulla pelle, ciascuno scandito dalla vecchia sveglia al mio fianco con un tonfo secco, come il cadere di un grande e pesante dado di legno. Perché aveva sottolineato che non si sarebbe addormentata subito? Era una notizia superflua. L’allusione a una possibilità, forse a un desiderio? L’aveva detto con quella stessa espressione. Qualche anno prima, a scuola, uno dei miei 27 compagni mi chiese a bruciapelo chi fosse per me la più bella della classe, mentre io ero svagato in tutt’altri pensieri. Esitai un attimo e poi dissi la verità, che per me al primo posto c’era senza dubbio Paola. Lui la chiamò e a voce altissima le ripeté quello che avevo detto. Paola si girò verso di me senza dire nulla, mi guardò per un lungo istante con un’espressione intensa, divertita, ma anche lusingata, compiaciuta. E gioiosa. Era un’espressione strana, che mi aveva colpito indelebilmente. Per la prima volta, e per caso, avevo stuzzicato la vanità di una donna. C’era di certo una grande civetteria, in quell’espressione, una notevole dose di formalismo, legata alle circostanze, ma anche una muta, autentica gratitudine. Molto tempo dopo, quando Paola mi avrebbe chiesto di preparare la maturità con lei, io fui folgorato per un istante dalla pazzesca idea che proprio il ricordo di quell’elogio l’avesse spinta a conoscermi meglio. Allora bastava veramente un piccolo spostamento nel comportamento delle persone perché entrassero nell’olimpo della mia mitologia personale, fondata su sogni costruiti a partire da piccoli gesti, sguardi, minuzie abbandonate con noncuranza, ma in grado di gettarmi in un oceano di fantasticherie. Adesso ero appeso a un angolo d’infinito: tenevo in mano un aggrovigliato fascio di futuri, dal quale alcuni fili si stagliavano netti con le loro catene di conseguenze, che portavano lontano. Solo una parete di mattoni separava le mie speranze dal loro oggetto e quindi dalle immagini e colonne sonore che ne sarebbero derivate, forse con un piccolissimo sforzo. Alzarmi e silenziosamente avvicinarmi all’ingresso della sua stanza. Lei che, stupita, con sguardo interrogativo e un po’ impaurito alza gli occhi dal libro. I miei sono penetranti e carichi di una volontà indefettibile. Varco la soglia e mi siedo senza fretta sul suo letto, ma non troppo vicino. Poi, dopo un lungo silenzio in cui i nostri sguardi si evitano accuratamente, comincio a dirle, pacato: «Tu sai di me. Sai da sempre tutto, come io so da sempre 28 tutto di te, anche se per cinque anni abbiamo camminato ognuno sul lato opposto di uno stesso muro. La direzione era la medesima, ma nessuno dei due lo sapeva. Se ci siamo incontrati è perché era nel copione della nostra vita (con più enfasi, in crescendo ). Ascolta questo silenzio. Non c’è tutto il senso dell’universo, tutta la magia di questo momento, nel silenzio? È lo stesso che accoglieva, sotto le luci della darsena, le galee che tornavano da oriente, i cui marinai vociferavano di lontani misteri fin sotto i portici di Palazzo Ducale – e il capitano, che approdava finalmente a casa contando uno a uno gli isolotti della laguna, dopo aver rasentato tutte le coste dalmate, per l’ultima volta guardava le stelle di un cielo troppo piccolo per la sua ansia, innamorata di nuove speranze di gloria. (Con risolutezza) Tu lo senti, come lo sento io. Bene, non c’è altro. Non c’è una regia che ci guida. Non ci è data altra scoperta in tutta la vita. Il resto è farneticazione quotidiana e, qua e là, un colpo di scena che non può essere compreso prima di svanire nell’aria. E dopo non resta forse che il nulla. (Lunga pausa, di nuovo pacato) Lasciarci trasportare delle convenzioni sarebbe un errore comune, e banale. Sta accadendo ora, adesso: un altro giorno sarà ormai il domani della nostra vita. (Con trasporto ) Non hai tu, non ho forse io l’ansia di vedere le cose con gli occhi di una malinconia dolcissima, quella dell’istante da prolungare, da prolungare il più possibile? Quel qualcosa che travolge e contiene tutto il tempo, che tutti aspettiamo e non arriva mai. La curva dei tuoi occhi è una inquadratura che vale come uno di questi attimi, che vale più dell’equazione di una legge eterna, che vale più di un sentimento, nel momento in cui si pensa eterno, che vale quanto un anno intero vissuto meravigliosamente. Da adesso non può più essere uguale, queste parole ci hanno cambiato perché hanno trasformato in vero ciò che era reale solo nei provini che ognuno di noi allestisce nella propria mente. Non serve più sperare in un’altra dimensione, ove il possibile si faccia carne, e forse estasi. (Definitivo) Scosta il velo che ci separa e non tornare più indietro.» 29 Io le tendo una mano. Lei si avvicina, mi getta le braccia al collo e ci baciamo a lungo, appassionatamente. Sì, così avrei dovuto fare! Ecco, la scena mi scorreva davanti agli occhi in ogni dettaglio. Bastava lasciarsi andare all’onda dell’emozione e credere fino in fondo alla propria parte. Il resto sarebbe venuto di conseguenza; ogni parola, ogni immagine avrebbe generato la successiva, senza più alcuno sforzo. Eppure qualcosa mi bloccava mentre, in pigiama, seduto sul divano-letto, giochicchiavo con l’orologio da polso. Un chiarore naturale campiva l’aria penetrando da tutte le fessure; il ticchettio sordo e pesante della vecchia sveglia proseguiva, ora quasi familiare; le copertine di alcuni libri appoggiati sul tavolo risaltavano nella penombra; un foulard ricadeva dalla spalliera di una sedia, mentre una misteriosa corrente d’aria l’agitava in silenzio; una mela solitaria si consumava in una bacinella di plastica affiancata a un’altra colma di erbe seccate, che a tratti diffondevano un profumo intenso; un tenue riflesso si posava sul vetro che copriva, alla parete, il poster di una madonna belliniana, rivelandone proprio la delicatissima linea dell’occhio sinistro; il caldo notturno, gradevole, s’insinuava nel contatto tra la mia mano e la superficie delle lenzuola. Tutti i dettagli contribuivano a fissare quegli istanti nel libro delle magie che transitavano lentamente in laguna. Avevo la netta sensazione che se solo avessi mosso un passo tutto sarebbe scomparso, i muri avrebbero lasciato trapelare il frastuono di una qualche discoteca e l’arcano sarebbe stato dileggiato, maledetto per sempre; mi sarei forse reso colpevole di una sorta di sacrilegio, ai danni delle mie stesse emozioni. Alzai di nuovo lo sguardo; la luce che usciva dalla camera di Paola era ancora là, come una voragine su un’altra dimensione, ma solo temporaneamente aperta, un’occasione che sapevo irripetibile. Di quando in quando si sentiva lo sfogliare delle pagine del libro. Per quanto avrebbe letto ancora? Quanto tempo mi rimaneva per scegliere se continuare 30 a essere ciò che ero, o tentare una nuova versione di me stesso? D’altronde, se lei era per me un labirinto di enigmi via via svelati, che cosa ero io per lei? Che ne sapevo di cosa davvero pensava di me, di quale spazio occupavo nella sua mente? Che cosa avrei provato se, entrando nella sua stanza, avessi letto nei suoi occhi solo stupore, uno straordinario e assoluto stupore? Quello di chi proprio non se l’aspetta e che in un solo attimo ti rivela in pieno che tutto ciò che avevi pensato, supposto, elaborato, è stato un enorme abbaglio e tu ti stai rivelando per la prima volta ai suoi occhi in una luce sorprendente e imbarazzante, e che addirittura la riempie di terrore. A voler considerare le cose con un minimo di distacco, era molto probabile che tutta la magia di quella notte, che io sentivo così distintamente, per lei non fosse che lo specchio scontato d’infinite altre notti, più o meno identiche, trascorse fra quelle mura veneziane, con appena la variante della mia presenza, del tutto secondaria. Con un moto di stizza inforcai il walkman, mandando a tutto volume la colonna sonora di Jesus Christ Superstar. Mi rimbombò all’improvviso nella testa, con la violenza di una scarica elettrica. “Al diavolo!” mi gridai dentro, scaraventando l’apparecchio. In che ruolo mi stavo calando, ora? Non ero nient’altro che un bambino iroso e isterico che si stava rifiutando di fare quella cosa difficile che andava fatta. Balzai in piedi e mi avvicinai quatto quatto alla porta della camera di Paola, senza affacciarmi sulla soglia. Lei non aveva sentito alcun rumore. Mi fermai. Ecco, adesso era tutto meraviglioso, era perfetto. La luce fluttuante, percorsa da rapide increspature, continuava a uscire dalla camera, portando con sé ombre dai contorni allusivi come i mutevoli disegni delle nuvole, forse echi dei gesti di Paola. Il calore del pavimento in cotto penetrava le piante dei piedi, ancorandomi in qualche modo a una sensazione di sole, di natura forte, di linfe profonde e terragne. Lei era lì, dentro quella luce, oltre quella porta aperta. Non la vedevo, non la sentivo. Nemmeno il suo respiro. Eppure percepivo il suo es31 serci, con l’istinto dell’attrazione; avrei potuto disegnare a mente il suo corpo disteso, le anse del lenzuolo appoggiato sulle sue curve. Avevo l’impressione di osservare tutto come da un punto di vista leggermente rialzato, come se fossi spettatore di una scena che non mi riguardava. A tratti il pensiero fuggiva verso direzioni secondarie, distratto da dettagli insignificanti, che mi stupivano con la loro esagerata evidenza: un righello in plastica trasparente abbandonato sul pavimento, le cannule argentate di un sonaglio appeso al centro dell’architrave... Ero lì. Non visto, vegliavo su di lei. Era ignara, o forse sapeva già che la poesia non si forma nelle azioni, ma nelle atmosfere che le circondano. Se si potesse mantenere all’infinito l’esistenza anche di uno solo di questi involucri meravigliosi, il mondo intero sarebbe riscattato. E quando si crea una di queste assolute sospensioni c’è come un unico liquido amniotico, impalpabile ma tangibile, che lega ogni attore sulla scena, cosa o persona che sia. Un pulviscolo caldo smorza i toni, la coscienza è un fluido stato universale e diventa possibile una piena consapevolezza, per chi ha voglia e sappia percepire l’immagine del momento – assolutamente indelebile. Mentre mi crogiolavo fra queste sensazioni, la luce nella stanza si spense. Sentii Paola che riponeva il libro e si sistemava sotto le coperte. Rimasi al buio. Uno scatto in avanti era avvenuto, con l’inesorabilità di una legge necessaria. Rimasi immobile, aggrappato alla visione svanita. Dapprima mi affrettai a pensare che queste piccole novità non significavano nulla. Che cosa mi impediva di agire ugualmente? Una luce in meno e un rumore di tessuti smossi? Non potevano essere anche questi dei segnali? Paola mi invitava a darmi una mossa, il suo tempo di attesa era finito: se volevo combinare qualcosa, che lo facessi subito, oppure la smettessi per sempre di offrirle speranze senza coraggio. Ma potevano anche essere i segni che confermavano i miei 32 timori: per lei il programma di questa serata prevedeva soltanto la lettura di qualche pagina e poi un sonno precoce. O forse erano addirittura allusioni ironiche, irridenti a una perdita del “tempo giusto” che conclamava la mia irrisolta personalità: per fare veramente ciò che avevo vagheggiato non avrei dovuto perdermi in tanti estenuanti languori, ma far prevalere le voglie del corpo e muovermi subito, senza pensieri, con un solo obiettivo. E al diavolo il dopo, al diavolo anche lei. Mi piaceva, e tanto bastava. Ma per agire così, bisogna prima essere così. E il punto è che io non volevo soltanto andare a letto con lei, anche se forse era l’unica cosa che avrei potuto ottenere, se fossi stato diverso da quel che ero. Cercavo in lei l’amore assoluto, ma sì, diciamolo pure, l’amore eterno e romantico, quello che era rimasto solo nelle canzoni dei vecchi, le canzoni da sottoprodotto culturale che i cantautori impegnati avevano spazzato via: le chiedevo di sognare il mio stesso sogno e di farlo durare all’infinito. Una bazzecola. Quest’amore che era nato e viveva solo dentro me, poteva avere un senso solo attenendosi strettamente alla sfera del sublime, dell’idillio. Lo spegnersi della luce, il disporsi di Paola al sonno, erano mutazioni che completavano il quadro precedente, rendendolo astratto e degno di una tela di Vermeer. Che cosa avrebbe potuto offrire in più il seguito – o un seguito, qualunque esso fosse? Avrebbe introdotto per forza di cose un elemento sconvolgente, un irrompere nella camera di Paola, un investirla con tutta la mia prosopopea esagitata che, qualora lei non fosse stata lì ad attendermi, sarebbe stata una vera e propria violenza. Qualora lei, invece, si fosse rivelata in mia attesa, avrebbe comunque fondato il nostro rapporto su una piccola, squallida commedia di volontà dissimulate e sentimenti nascosti ad arte. Il sogno sarebbe scaduto a scaramuccia fra potenziali amanti, con il tira e molla del “te la do o non te la do, ma comunque deve parer di no”, e “io ti voglio scopar e te lo devo far capir, ma senza esagerar”. Banalizzazione a retorica della conquista e del lasciarsi conquistare, sottomissione alle convenzioni del sociale e al 33 manuale millenario di avvicinamento al sesso. E alla fine non “essere innamorati” ma, al massimo, “amarsi” – che è cosa ben diversa. Certo, niente di assoluto ed eterno. Quell’istante, quando non era ancora successo nulla, era invece assoluto ed eterno. Perché non era ancora successo nulla. E proprio per questo non avrebbe dovuto succedere nulla. Trassi un profondo sospiro. Mi guardai nuovamente intorno. Sì, il piccolo appartamento era ancora assorto in quell’atmosfera impalpabile e mitica, lieve e meravigliosa. E lo era solo per me, io ero l’unico spettatore privilegiato di tanta poesia. A Venezia non avrei potuto chiedere niente di più, e forse nemmeno alla vita. Le cose erano andate così. Loro avevano deciso e io avevo deciso con loro, come cosa fra le cose. L’insieme aveva prevalso sulle singolarità. Non avrei mai varcato quella porta: se l’avessi fatto avrei rovinato tutto. Avrei perso tutto. Che era molto di più di quanto mi potessi aspettare. La fondazione di una persistenza come ricordo, di un evento-chiave che ha distillato il senso di una storia, destinato a ritornare spontaneo e ossessivo negli anni; ricordo che fonda l’individuo, marchiandone per sempre la personalità e forse aggiunge qualcosa che il mondo prima non aveva, perché il rapporto tra le cose e l’uomo consapevole del loro comporsi nella realtà, è ben più della semplice somma di questi fattori. Aspettai ancora un poco, riluttante a separarmi da ciò che sapevo irripetibile. Poi, vinto dalle emozioni e dalla stanchezza, ritornai in silenzio al divano-letto e in breve mi addormentai, pervaso da una strana sensazione di quiete e quasi di soddisfazione. Non mi rimanevano speranze irrisolte o desideri repressi: mi sentivo finalmente realizzato e gioiosamente in pace con Paola, con tutto il mondo e con me stesso, soprattutto. Dopo qualche ora fui svegliato di soprassalto dal violento trillo della sveglia e vidi per la prima volta la faccia di Antonio, a pochi centimetri dalla mia. Mi fece cenno di non preoccuparmi e di continuare pure a dormire: per quanto 34 fosse entrato con circospezione nella stanza buia, aveva urtato il maledetto e difettoso marchingegno, che si era messo a urlare pazzamente. Io lo guardai per qualche istante. Era proprio come nelle foto. Nel dormiveglia mi sovvenne in un flash tutto quanto era (o meglio, non era) successo. Mi stupii, rendendomi conto che in quei momenti mi ero completamente dimenticato del suo imminente arrivo, per cui la sua figura mi giungeva ora come quella di un intruso. Ma furono solo pochi attimi, e subito mi riaddormentai. Solo il mattino dopo, guardandomi intorno, constatai che in quella stanza non c’erano altri posti letto. Perciò Antonio aveva dormito con Paola. Trascorsi la giornata evitando accuratamente di passare anche una sola ora con loro. Inventai al riguardo diverse scuse assurde: una mostra che chiudeva proprio quel giorno e che dovevo visitare nell’orario di minimo affollamento, il quale, guarda caso, coincideva proprio con quello in cui non avrebbero potuto raggiungermi; l’incontro con un amico inesistente, che non vedevo da anni e che per combinazione proprio quel giorno avrebbe sostato a Venezia; la ricerca, ovviamente infruttuosa, di un ipotetico libro indispensabile ai miei studi che avrei forse potuto trovare a Venezia. Mi riempii di cose da fare e luoghi da vedere, in modo da non avere il tempo di pensare a Paola, alla notte precedente e a Paola e Antonio insieme. Persi molte ore nel cercare qualche regalo da portare ai miei. Passai in rassegna, a volume altissimo, tutte le TDK che mi ero portato. Considerai con attenzione il problema del traffico acquatico della città, chiedendomi se non fosse possibile realizzare una metropolitana lagunare che consentisse di smaltire il flusso dei turisti facendoli muovere sotto Venezia. Ma quando, a sera, Antonio mi propose di andare ad ascoltare un concerto gratuito di musica da camera, che si teneva nella vecchia chiesa di San Simeon Piccolo, quasi di fronte alla stazione di S. Lucia, non potei esimermi dall’accettare. 35 Speravo che le note avrebbero contribuito a tenere la mia mente lontana dalle sue inquietudini. Come era prevedibile, mi illudevo. Non appena fummo seduti sotto l’alta cupola che copriva lo spazio centrale dell’edificio, e gli strumenti cominciarono a intessere la fitta trama del quartetto n. 5 di Bela Bartok, il mio sforzo di concentrazione risultò subito disperato. Non che Paola e Antonio facessero nulla di particolare. Anzi, nell’ora precedente al concerto si erano prodigati affinché non mi sentissi il classico “terzo incomodo”, e anche dopo essersi seduti avevano mantenuto il massimo contegno. Era la loro compresenza che eccitava la mia immaginazione, sicché mi pareva di cogliere continuamente, con la coda dell’occhio, una minuta trama di gesti accennati, sguardi fugaci, sussurri impercettibili: il tessuto connettivo della loro complicità, che peraltro sarebbe stato naturale, in due amanti. Ma certo ciò dipendeva dalla mia attenzione morbosa che, incerta se dar credito a ciò che le pareva di scorgere, intanto accresceva il mio imbarazzo, facendomi sentire sempre più come qualcosa di superfluo, uno che ormai era decisamente fuori posto e costringeva gli altri a schermirsi. Feci appello a tutte le mie forze per riportare l’interesse verso la musica, ma ogni volta che ci riuscivo era come la momentanea riemersione da un’apnea. Subito qualcosa, una sensazione, un’idea di moto o un rumore improbabile, suscitava un nuovo ribollire interiore, che mi sommergeva tappandomi le orecchie. Di pari passo cresceva dentro l’indignazione contro l’incapacità di dominare i miei sentimenti, in circostanze in cui, oltretutto, non avevo alcun diritto di prevaricare i loro. Il fatto è che quella notte, anche se non era successo nulla, era successo qualcosa. E la causa di questo qualcosa era pur sempre Paola. Perciò avevo la sensazione che, fra me e lei, un rapporto fosse cominciato. Un rapporto molto esclusivo e addirittura segreto, fondato su un momento di bellezza assoluta. Ciò faceva naturalmente a pugni non solo con l’atteggiamento che lei “si permetteva” di tenere con Antonio, ma anche con la sua semplice presenza. Che il momento magico 36 fosse stato percepito solo da me, era un dettaglio trascurabile. C’era stato, e tanto (mi) bastava. Nel bel mezzo di questa tempesta interiore mi venne il dubbio che qualcosa di essa fosse trapelato attraverso il mio atteggiamento o il mio aspetto. Allora mi voltai piano verso Paola, come se avessi dovuto chiederle qualcosa privo di importanza. Notai, con mio sommo stupore, che Paola piangeva silenziosamente, con la testa appoggiata sulla spalla di Antonio. Per quale motivo? Cosa l’aveva turbata all’improvviso? Quale pensiero, notizia o emozione? Era qualche novità che Antonio si era riservato di comunicarle quel giorno, in mia assenza? O era successo qualcosa proprio lì, di fianco a me, nonostante la mia sospettosa nevrastenia? Come avrei potuto saperne di più? Se gliene avessi chiesto la ragione, di certo mi avrebbe risposto in modo evasivo. Rimasi titubante per qualche momento, poi decisi di rimandare a dopo le eventuali spiegazioni e tornai a guardare il palco con i musicisti. Tuttavia fu sufficiente perché mi rendessi conto di quanto la sua vita vera, quella delle sue vicende più intime, delle sue traversie interiori, si svolgesse lontano da me. Avevo avuto la ventura di percorrere insieme a lei un breve tratto di strada e per questo pretendevo di essere l’uomo della sua vita. Ridicola fanfaronata! Quel suo pianto così dignitoso, di cui evidentemente Antonio conosceva bene tutte le cause, maturava forse da giorni ma io, preso dal mio delirio, non avevo saputo intuirne l’urgenza, perdendo l’unica occasione per fare breccia nella barriera delle sue emozioni. Preoccupato fino all’esasperazione di trovare il modo di comunicarle quello che avveniva entro di me, non mi ero accorto di quello che – intanto – stava accadendo dentro di lei. Nemmeno per un istante, in quei giorni, mi ero messo in una disposizione di puro ascolto. Eppure sarebbe stato il modo più immediato per capire di cosa aveva bisogno e cosa forse da me si aspettava. Non potevo che darmi dell’idiota. Era così ovvio! Addirittura naturale per una persona che ama veramente. C’era perfino da dubitare che il mio fosse autentico amore e 37 non una banale sbandata, un’infatuazione dovuta alla mia cronica insoddisfazione sessuale e all’attenzione che, per la prima volta, una bella donna mi aveva dedicato. Il pianto di Paola. Era dunque questa l’immagine inattesa che siglava la mia puntata a Venezia, che mi rimetteva in un solo istante al mio posto. Misurava la distanza che ci separava, le storie così differenti che ognuno dei due si trascinava dietro le spalle; fantasmi capaci di generare stati d’animo e azioni incomprensibili, per l’altro. Di più: storie che si svolgevano nel presente, sotto i nostri occhi, ma senza che ognuno dei due fosse in grado di intendere quelle dell’altro. Io, trascinato dalle esaltazioni e dai malumori dovuti all’evolversi del mio amore impossibile; lei, angustiata da chissà quali preoccupazioni e certamente felice di un altro amore. Con che diritto avrei dovuto conoscere le cause di quel pianto? No. Doveva rimanere un mistero. Giustamente. Certo in mia presenza avrebbe potuto trattenersi, tutto sommato, come aveva fatto nei giorni precedenti. Lì, a un passo da lei, era evidente che me ne sarei accorto e che solo per discrezione facevo finta di nulla. Ma la presenza di Antonio l’aveva privata del precedente contegno. Sì, era Antonio la causa di questo mutamento: lui era qualcuno con cui poteva confidarsi, con cui poteva lasciarsi andare. E il fatto che per lei la mia presenza fosse declassata a un ruolo subalterno, mi rendeva anche meno considerabile come testimone dei suoi momenti di debolezza. Che li notassi io non era più grave di quanto sarebbe stato se, invece di un conoscente, fossi stato un passante occasionale. Proprio ora che non contavo più nulla, che era già come se non ci fossi più, paradossalmente mostrava squarci della sua intimità che prima si sarebbe ben guardata dal rivelarmi. E in fondo era possibile che in quei giorni io fossi stato per lei, senza volerlo, una sorta di surrogato platonico di Antonio, e in quanto tale capace di alleviare le sue angosce. Avere qualcuno accanto, parlare di argomenti ameni e innocui, fissare occasioni d’incontro: tutto le era servito a contenere il peso 38 di una solitudine che viceversa si sarebbe popolata di chissà quali tristezze. In effetti mi aveva stupito la facilità con cui mi aveva invitato a Venezia, in casa sua e nonostante fosse sola. In qualche momento di sconforto mi era perfino venuto il dubbio che si fosse trattato di una proposta avventata, reazione istintiva al mio confessare di non avere mai visitato la Serenissima: una di quelle cose che si dicono per pura cortesia, con la certezza preventiva di ottenere una risposta negativa. Il suo pianto ora mi proponeva un’interpretazione diversa: nessuno spiraglio a ipotetiche avventure erotiche, nessuna concessione al germoglio di una possibile “storia”, soltanto una muta – ma intimamente accorata – richiesta di aiuto. Per qualcosa che non potevo sapere. Per una realtà che doveva sfuggirmi. Non fosse stato così, forse questo aiuto non glielo avrei mai dato. E adesso era arrivato Antonio. Adesso poteva sfogarsi nel pianto. In quell’esatto istante mi venne spontaneo pensare che il mattino dopo me ne sarei andato. Se mi era stato affidato un compito, l’avevo anche assolto. Circa quelle che erano le mie speranze, non c’era più nulla da dire. Quanto alle bellezze di Venezia, per una prima visita ne avevo viste a sufficienza. Il suono inconfondibile del fagotto mi riscosse dalla stupita acquisizione di questa palese necessità: una partenza immediata. Senza che me ne fossi accorto, il programma del concerto era stato sviluppato fino alle deliziose armonie dell’ottetto di Hindemith. Era proprio finita. Non mi voltai più verso Paola fino alla conclusione dell’ultimo accordo. Senza ulteriori distrazioni, riuscii a seguire perfettamente l’evolversi del resto del brano. La mattina dopo feci in quattro e quattr’otto i bagagli e, adducendo l’arrivo a casa di certi parenti lontani e la necessità di riprendere gli studi per un esame imminente, mi congedai dai miei ospiti. Al momento dei saluti, già con la sacca su una spalla e un piede sulla porta, strinsi la mano ad Antonio e poi, trattenendo il respiro, guardai per un istante 39 Paola negli occhi. C’era tutto quello che avevo immaginato, sperato e temuto: la gratitudine per i momenti piacevoli passati insieme; la complicità allusiva a pensieri e sensazioni che erano stati solo nostri; il congedo formale e un po’ affettato nei confronti della persona con cui abbiamo avuto, per un breve periodo, rapporti di reciproca utilità; il sincero compiacimento per aver imparato a conoscere meglio un compagno di scuola; il sollievo di fronte alla discrezione perspicace che mi aveva suggerito di levare le tende; la gioia infantile per gli spazi di libertà con Antonio che la mia partenza le prospettava. E anche un confuso rimpianto per il tempo che stava passando, quello della nostra giovinezza e quello, forse, di una possibilità perduta, di un futuro diverso, un’avventura azzardata che avrebbe potuto imporre alle nostre vite una svolta rivoluzionaria (impossibile? Era davvero un’utopia? Chi avrebbe potuto dirlo...). Era certo, ora: quella era stata la mia grande occasione con Paola, l’unico momento in cui avrei potuto gettare i dadi e tentare la sorte. L’esito sarebbe stato comunque incerto, ma gettare i dadi spettava solo a me. Non avrei mai più avuto un’altra opportunità. Eppure, grazie alle misteriose alchimie con cui il tempo regola gli influssi della realtà su di noi, e di noi sulla realtà, non solo tramite le nostre azioni ma anche mediante il nostro modo d’interpretarla, io me ne tornavo con qualcosa di ancora più prezioso. Me ne tornavo cambiato e, in un certo senso, “più grande”. Potevo testimoniare finalmente che uno dei sogni più diffusi dell’umanità può davvero concretizzarsi: nell’arco di un tempo brevissimo il nostro viaggio mortale può riservarci, senza preavviso, una così densa concentrazione di sollecitazioni e stati d’animo sorprendenti, che tutto il futuro ne resta illuminato e solo per questi momenti di vorticosa accelerazione, e la loro incerta attesa, la vita intera assume un significato e vale la pena di essere vissuta. E adesso, sapendo che Paola aveva sentito proprio quanto avevo sentito io, potevo solo augurarmi che anche per lei il nostro breve viaggio a Venezia potesse tramutarsi in un ricordo fondante, magari in un modo comple40 tamente diverso dal mio, ma comunque il ricordo di un momento che diventa anche un emblema del proprio essere, da cui non si può più prescindere. Un punto, insomma, da cui ripartire per superare se stessi, magari dimenticandosene. Non volli che mi accompagnassero alla stazione. Saltai sul primo treno in partenza e, con una paranoica colonna sonora di Blues Brothers e Nona di Dvorak, ritornai al quotidiano trantran della mia famiglia. 41 L’estraneo Terzo piano, numero 46 di via Ignazio di Loyola. Andrea si avvicinò alla finestra. Era l’alba, rossa e fulminea. Si preparò; aprì il suo seggiolino pieghevole, controllò che la visuale fosse libera in entrambe le direzioni e quindi attese. La prima a passare, verso le 7.30, fu una malandatissima Opel Kadett, con solo il guidatore. Motore andato, un baccano d’inferno. Ancora in giro con un catorcio simile? Alle 8.25 una vecchia avanzò lenta lenta, curva sulla schiena, probabilmente arteriosclerotica. Una che al mondo non aveva più nulla da dare. Meglio così. Era poco frequentata la via Ignazio di Loyola, sicuro, ma portava proprio alla centralissima piazza Carlo Marx, là in fondo: qualcuno tentava sempre. Alle 10.07 ecco un motocarro carico di bottiglie d’acqua. Perché certa gente si ostinava a fare il proprio lavoro, nonostante tutto? Alle 11.36 un poliziotto sgattaiolò rapidissimo da un marciapiede all’altro. Ci mancò poco che Andrea lo perdesse. A mezzogiorno e mezzo, come sempre, si concesse la pausa pranzo. E come sempre, esitò un momento sulla foto di Rita, la sua ragazza; sospirò, guardandola. Pensò che doveva rimanere lì fino a sera, ed era il decimo giorno di fila, e che – appena rientrato – Lorenzo aveva l’abitudine di prenderlo per il culo: «Strusciati per bene a quella foto, tu! Vita comoda! Santi in paradiso!» Menate. Ma tre sere prima non l’aveva più trovato, Lorenzo. Non ce l’aveva fatta, gli avevano detto. Fottuto anche lui. E amen. Alle 13.45 riprese il servizio, ma fino alle 15.20 non ci fu 43 che il vuoto. A quell’ora Andrea individuò in lontananza una giovane madre, con il bambino in braccio. Non darsi il tempo di pensare, e subito dopo dimenticare. Così gli avevano insegnato per questi casi. Alle 16.30 in punto, infine, vide alla finestra di là dalla strada due figure in caki armeggiare con il lanciagranate. Ebbe il tempo di inquadrarli nel mirino telescopico e sorprendersi privo di stupore: se l’aspettava. Doveva arrivare qualcuno per far fuori il cecchino di via Ignazio di Loyola. Poi fu un botto violentissimo che cancellò tutto. Ci sperava, in fondo, in un tramonto così rosso. E fulmineo... Gliel’avevano detto, alla famiglia Toràn, che il loro appartamento al numero 46 di via Ignazio di Loyola aveva subito dei gravi danni durante i combattimenti. Perciò quando lo trovarono un disastro, riprendendone il possesso, non dissero una parola. Solo la vasta breccia nel muro, dov’era la finestra della camera di Filip, il figlio diciottenne, era già stata riparata. Chissà poi da chi. Aggirandosi costernato tra i resti irriconoscibili di quelle che una volta erano le sue cose, Filip adocchiò un’immagine schiacciata fra due mattoni. Un’immagine che non gli apparteneva. Era la foto in bianco e nero di una ragazza più o meno della sua età. Una bella ragazza sorridente, che in qualche momento spensierato della sua vita ammiccava all’ignoto fotografo, con un gesto di divertita complicità. Incuriosito, Filip osservò più attentamente quella foto e notò una macchia sul suo lato sinistro, come di una goccia ormai asciugata. In origine era stata sangue, ma Filip immaginò che fosse una lacrima. E immaginò che qualcuno, l’estraneo che aveva usurpato in quei mesi la sua camera, avesse lì ricordato e sognato quella ragazza, avesse sofferto per un suo intimo, profondo sentimento. E allora, ancora con la foto in mano, rivolse un silenzioso saluto a quel misterioso innamorato e pensò che se aveva provato la nostalgia dell’amore in quella stanza, gli dispiaceva meno che l’avesse sottratta alle sue fantasie d’adolescente. 44 La madre L’inseguirsi indifferente dei giorni e delle notti o la fatica dello studio, la stasi delle ore ombrose d’ansia, il brulicare delle pigrizie, scontate in una vita immobile tra gli stessi luoghi e volti. Tutto ciò non le avrebbe spezzato la certezza che la morte avrebbe preso sua madre. Non sapeva, Alice, quando. Ma ora ne era certa. Quell’unica ossessione che le trapassava il capo simile a febbre martellante, le aveva appesantito ogni pensiero. E quasi volontariamente allontanando da sé ogni altro interesse, disperdeva la maggior parte del suo tempo ricordando il soave mito di lei bambina e di una premurosa dea-madre. Il tempo immenso, dilatato nello spazio di una tavola infinitamente imbandita, animava i ritratti dipinti di bisnonni e avi lungo le pareti della sala. Rituali presenze, testimoni impassibili forse di un evento cruciale dimenticato chissà come in qualche piega della tovaglia. La madre rifulgeva armoniosa per linee e sguardi cristallini, esprimendo tuttavia nervosismo nel pulire una pera, il cui lento roteare orientava su di sé il disporsi delle vivande, nemmeno l’umile pera fosse il centro di una qualche consacrazione, e la madre l’inarrivabile sacerdotessa. L’occhio accigliato del vecchio Amedeo Artini, trapassato vent’anni prima e ora debitamente appeso in cornice dietro il capotavola, la scrutava con lieve disgusto. «Alice, non farti pregare, mangia la frutta. Sei grande.» Alice perdeva spesso il filo del pranzo, perché intenta a osservare il cesto di fronte (faccione d’arance capelli d’uva occhi di ciliegia naso a banana bocca a prugna), oppure perché fuggiva in fantastiche storie campestri che intrecciava 45 mentalmente con il fratello del nonno: un orgoglioso dodicenne in abiti da caccia campeggiante sulla parete. “Alice non farti pregare” non era rimprovero, ordine, ma affermazione, impassibile come gli occhi materni. «Una partenza…» continuava la madre ragionando ad alta voce, «è un’eventualità che nella vita di una famiglia prima o poi si verifica. Lo si sa, tutti lo sanno da sempre. Forse la si aspetta come il rinnovarsi di una tradizione, con la sua scadenza non proprio fissa, ma immancabile. Un Natale, insomma. Allora perché rattristarsi? Pietro ha scelto la sua strada e noi non possiamo che accettarlo. Ormai è un uomo.» Saggiava l’aria con larghi giri di parole mentre completava lentamente il terzo giro di buccia senza levare gli occhi. Né pareva che lo stesso Pietro, trovandosi lì presente, avrebbe potuto aggiungere nulla. Alice non sapeva se avrebbe mai più rivisto il dolce fratello maggiore. «Vado a vivere da solo, in città» le aveva detto lui poco prima in quella stessa sala, la tavola già imbandita. «Mamma non vuole, naturalmente, ma lei del resto del mondo non sa che farsene. Le basta che tutto resti eternamente uguale.» Sapeva che voleva dire, la piccola. Sapeva che queste parole non le avrebbe più dimenticate. Dalla sua tela, ammiccando ai piatti con i formaggi e le tenere carni sugose, il fratello del nonno forse alludeva in silenzio ai cicli delle stagioni, che puntualmente rinnovano i cibi in tavola. Nella cornice a fianco, un vecchio in abiti cardinalizi se ne andava passeggiando, le mani dietro la schiena, lo sguardo amaro per terra. «Meglio uno stacco netto...» continuava la madre, «di una lunga sospensione irrisolta. Ci vuole una buona dose d’incoscienza, e Pietro certamente ce l’ha. Eppure deve staccarsi dalle sue radici. E forse c’è anche un momento in cui deve maledire la pianta che l’ha generato.» Ma già Alice non ascoltava più: un melo cui, in un angolo buio della parete, il presunto capostipite della famiglia s’ap46 poggiava con aria burbera (forse rabbioso per la sua stessa identità, rimasta incerta) le ricordava un altro melo, nel giardino, sotto le cui foglie pochi giorni prima aveva parlato con il fratello. «Dipende dalle temperature, dal calore del sole. Ci sono zone predisposte a fare il vino rosso e altre a fare il vino bianco. Si può tentare, ma i risultati di solito non sono buoni. Ci sono condizioni alle quali occorre adattarsi, se si vogliono ottenere i risultati migliori. Allora è facile pensare che sia così per tutte le cose. Ma qui una volta, molto tempo fa, c’era il mare, e se anche ci fosse stato un essere umano, al massimo avrebbe potuto fare il pescatore, non certo il contadino. Voglio dire: le cose cambiano. Anche quelle che sembrano destinate all’eternità, quando arriva il momento diventano altro, oppure scompaiono. A quel punto non resta che riconoscersi nelle proprie azioni: io sono così. Ho bisogno di sentirmi responsabile di quello che faccio. Che cosa, non è poi così importante…» Alice lo guardava negli occhi, imbronciata, tenendo in mano una mela già per metà mangiata: «Mamma non vuole che tu te ne vada.» «Qui è come se tutto lavorasse al posto mio. Dal sole che sorge ogni mattina, puntuale sullo stesso paesaggio, alla casa che sembra funzionare da sola, senza sforzo.» «Perché? Non stai bene qui con noi?» «Sì, questo è il punto: se rimanessi potrei convincermi che non c’è niente d’importante al di là delle tavole imbandite, dei saloni con i grandi ritratti alle pareti e i mobili che la mamma sorveglia minuziosamente.» «Ma qui c’è ancora tanto da fare. E poi ci sono io! Non andartene!» diceva Alice quasi frignando. Pietro sorrideva e il suo sorriso era così pieno di consapevolezza, di gioia e di risoluzione che faceva paura. In quegli attimi Alice percepiva tutta la sua lontananza e la sua solitudine, e confusamente capiva che solo dentro se stesso lui si ritrovava, senza spazi per niente e nessuno. Forse anche Pietro se ne rendeva conto e ne rimaneva 47 turbato. Allora cambiava tono e cominciava a buttarla sul ridere, a divagare e scherzare. Cominciava a parlarle come si parla a una bambina. Sentiva il peso di quanto doveva rifiutare per costruire se stesso e dover lasciare anche lei, la più innocente, lo faceva sentire impotente e meschino. «Lo so molto bene, ma...» e qui si alzò e caricando la voce in tono comicamente esasperato, si mise a correre giù per il lieve pendio con le braccia aperte, come ali d’aeroplano, «sono così lontano da questa terra che non mi resta che spiccare il volo! Vroammm !» Alice gli andò dietro, faticando a tenere il passo. Pietro si fermò sulla sponda del torrente nel fondo della valletta, che segnava il limite dei secolari possedimenti della famiglia Artini. Guardava verso il sole cadente. Nella sua infelicità era felice: di fronte al tramonto infuocato parlava di cose lontane, fantastiche. E Alice capì ciò che il fratello voleva dirle, e ciò che il fratello non le stava dicendo: che stava terminando il suo mondo, lentamente, dolcemente; che erano finiti i giochi dell’infanzia e che un’ineluttabile forza strana, né buona né cattiva, li stava separando con un amaro sorriso... Un sussulto, un cambiamento nell’aria della sala la destò da questo sogno nostalgico: nel silenzio tutti gli occhi, vivi e dipinti, si erano rivolti alla madre, che quasi senza rumore era scivolata dal tavolo alla finestra per allontanare delicatamente, con un soffio, una stupenda farfalla posatasi sui tendaggi. In quel momento Alice ebbe la certezza che la madre avesse iniziato a morire. E da lì in avanti vide nella madre solo il lento cadere nell’oscurità, un decadimento né fisico né morale, eppure evidente, ai suoi occhi. Quando, molti anni dopo, la mandarono a chiamare, sentì quasi un sollevarsi del petto, come se il peso di una lunga angoscia si fosse infine dissolto. La madre era seduta a capotavola, rigida e solenne. La testa 48 era appena reclinata su una spalla, lo sguardo perso sulla stessa tavola sontuosamente imbandita che di persona continuava a curare con meticolosità. Senza un motivo, dacché era rimasta sola. Con un gesto estremo del braccio sinistro si era aggrappata a un cesto d’uva che, rovesciatosi, aveva lasciato rotolare in terra il proprio contenuto. Un ictus, le diceva il medico, una morte istantanea, indolore. Ma Alice guardava altro, l’attenzione catturata da un dettaglio. Un caldo raggio di luce estiva, penetrando dalla finestra, illuminava in pieno un punto del ritratto del fratello del nonno in abiti da caccia: a terra, accanto al suo piede destro, una piccola, stupenda, variopinta piuma d’uccello. Mai, prima di allora, l’aveva notata. 49 continua... Il nostro progetto La Factory editoriale I Sognatori (avviata formalmente nella tarda primavera del 201 3) costituisce un modello evoluto di casa editrice, fondato sul concetto di cooperazione e aiuto reciproco. Se in una casa editrice tradizionale l’editore svolge il suo lavoro col solo supporto di una redazione interna e ogni scrittore pensa a sé – spesso senza conoscere gli altri autori e relativi libri, nella Factory l’editore e gli scrittori sfumano i ruoli e collaborano tra loro in perfetta sinergia. Pur nel rispetto delle competenze specifiche (l’editore si assume ogni obbligo di natura economica, per esempio) e dell’individualità, il singolo si impegna per il gruppo ed è a sua volta consapevole di ricevere aiuto dal gruppo. Editore, autori e collaboratori discutono assieme, decidono assieme, agiscono assieme. Non esiste nulla di simile in Italia, proprio per questo il progetto viene seguito con curiosità da migliaia di persone fin dall’inizio. Entusiasmo e dinamismo si pongono come base per due obiettivi: rinnovare lo scenario stantio dell’editoria nazionale e combattere l’indifferenza che circonda libri e autori di gran valore, attraverso un approccio che vuole mediare imprenditorialità moderna e recupero di un associazionismo “dal basso” che altrove è ormai ridotto a banale parodia. Sito: www. casadeisognatori. com Facebook: I Sognatori - Factory Editoriale Twitter: I Sognatori Factory @CasaSognatori Blog autori: lastranafamiglia.wordpress. com © 2015 I sognatori, Lecce ISBN 978-88-95068-60-2 Vietata la riproduzione totale o parziale dell'opera senza previo consenso dell'Editore. Ogni riferimento a fatti o persone esistenti è da intendersi come frutto del caso.