repubblica italiana - Tribunale di Varese
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Giudice di Pace di Varese, sentenza 18 ottobre 2010 (Giudice Anna Sfardini) MASSIMA E’ annullabile ex art. 1439 c.c. il contratto concluso dal consumatore con il professionista che, pur non essendolo, si qualifica come esercente una professione sanitaria, mediante una falsa rappresentazione della realtà sorretta da raggiri e malizie (Nel caso di specie, il giudice ha annullato il contratto concluso dalla consumatrice che, nell’intento di dimagrire, si era affidata alle cure di un soggetto che era emerso non essere un medico, pur essendosi di fatto qualificato come tale. Il trattamento aveva provocato seri danni alla salute della consumatrice) COMMENTO La sentenza pronunciata dal giudice di Pace di Varese, in data 18 ottobre 2010, a firma del giudice Anna Sfardini, ha ad oggetto un caso giudiziario non estraneo ai fatti di cronaca. Una signora con problemi di peso si rivolge ad un professionista “esperto in sistemi dimagranti” che, presentandosi con camice bianco e facendosi chiamare “dottore”, genera nella “paziente” l’erroneo convincimento di trovarsi di fronte ad un medico. La consumatrice stipula l’esoso contratto con il professionista, sicura di trarne un vantaggio personale e rassicurata dal “medico” circa l’assenza di effetti negativi sulla salute. Rassicurazione che, di lì a poco, frana sotto la spinta di seri problemi fisici che conducono la paziente in ospedale. Da qui un accertamento medico che riconosce la assoluta incompatibilità delle cure ricevute dalla signora con il suo stato di salute. Il giudice di Pace annulla il contratto ai sensi dell’art. 1439 c.c., con soluzione giurisprudenziale senz’altro condivisibile. Nell’alveo delle cause, previste dal codice civile, che legittimano la richiesta di caducazione – sub specie di domanda di annullamento – si rinvengono l’errore, il dolo e la violenza. Per dolo si intende il raggiro – posto in essere da un contraente (deceptor) - che altera la volontà contrattuale dell’altra parte (deceptus). E’ viziante solo quello cd. causam dans, ovvero quel dolo in mancanza del quale la vittima non avrebbe stipulato (dolo determinante ai fini del consenso). E’ il cd. DOLO-VIZIO. Il mero dolo incidente, invece, attiene al raggiro che incide solo sul contenuto del contratto, (la vittima avrebbe comunque contrattato ma a condizioni diverse). In siffatto caso, non c’è diritto all’annullamento: sorge, tuttavia, il diritto di credito al risarcimento. La disciplina è più severa rispetto all’errore: il dolo realizza un illecito, per cui all’annullamento può essere cumulata un’azione risarcitoria. Inoltre, a mente dell’art. 1439 c.c., quando i raggiri sono stati usati da un terzo il contratto è annullabile se essi erano noti al contraente che ne ha tratto vantaggio. Quanto, in modo più specifico, ai tratti che denotano il dolo – vizio, sin da data risalente (Cass. Sez. Un. 11-3-96, n. 1955) la giurisprudenza afferma che, norma dell’art. 1439 cod. civ., il dolo è causa di annullamento del contratto quando i raggiri usati siano stati tali che, senza di essi, l’altra parte non avrebbe prestato il proprio consenso per la conclusione del contratto, ossia, quando, determinando la volontà del contraente, abbiano ingenerato nel deceptus una rappresentazione alterata della realtà, provocando nel suo meccanismo volitivo un errore da considerarsi essenziale ai sensi dell’art. 1429 cod. civ. Ne consegue che a produrre l’annullamento del contratto non è sufficiente una qualunque influenza psicologica sull’altro contraente, ma sono necessari artifici o raggiri, o anche semplici menzogne che abbiano avuto comunque un’efficienza causale sulla determinazione volitiva della controparte e, quindi, sul consenso di quest’ultima. Il dolo in parola è detto dolus malus per distinguerlo da altra figura comunemente nota come dolus bonus (es. la pubblicità): trattasi di quelle dichiarazioni precontrattuali con le quali una parte cerchi di rappresentare la realtà nel modo più favorevole ai propri interessi. Secondo l'interpretazione che si consolida all'epoca del diritto romano comune, il contratto non può essere annullato per gli artifizi e raggiri posti in essere da uno dei contraenti, se tali artifizi non siano astrattamente idonei a trarre in inganno una persona di media diligenza, un bonus paterfamilias, “il quale non è facile a spendere il proprio denaro” (come osserva la Dottrina). E’ anche configurabile un dolo cd. “omissivo”. Il dolo omissivo, causa d'annullamento del contratto a norma dell'art. 1439 cod. civ., può ravvisarsi quando l'inerzia della parte s'inserisca in un complesso comportamento, adeguatamente preordinato, con malizia o astuzia, a realizzare l'inganno perseguito; pertanto, il suo semplice silenzio, limitandosi a non contrastare la percezione della realtà alla quale sia pervenuto l'altro contraente, non costituisce causa invalidante del contratto. (Cass. II, sent. 5549 del 15-3-2005 rv. 57984). Secondo la Cassazione, quindi, occorre verificare, in concreto, che l'inganno non poteva essere neutralizzato dall'ingannato con l'uso della normale diligenza, in quanto il carattere particolarmente subdolo dei raggiri utilizzati rendeva inutile la media diligenza, e l'errore poteva essere evitato solo con l'ausilio di competenze e tecniche straordinarie (ex multis Cass. civ., sez. III, 27/10/2004, n. 20792). Ebbene, nel caso di specie, la mise en scène organizzata dall’esperto professionista non si è tradotta in un mero silenzio innocuo ma in un complesso di malizie e attenzioni tali da ingenerare nel consumatore la falsa rappresentazione dell’esistenza di un elemento essenziale del contratto: la qualità di medico, imprescindibile per ritenere “valide” sul piano clinico le dichiarazioni del venditore circa la cura somministrata. In effetti, sul piano qualificatorio, la condotta del “medico” può anche essere ritenuta “ingannevole”. Come noto, il d.lgs. 2 agosto 2007 n. 146 ha introdotto disposizioni correttive ed integrative del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo, a norma dell'articolo 7 della legge 29 luglio 2003, n. 229; abbr. Codice). Si tratta di un intervento reso necessario dalla introduzione della direttiva 2005/29/CE, dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno, che modifica la direttiva 84/450/CEE riguardante la pubblicità ingannevole (abrogata dalla direttiva 2006/114/CE), la direttiva 97/7/CE riguardante la protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza, la direttiva 98/27/CE riguardante le azioni inibitorie e la direttiva 2002/65/CE riguardante la commercializzazione a distanza dei servizi finanziari. La direttiva quadro fa seguito al libro verde del 2001 sulla protezione dei consumatori ed al libro verde pubblicato nel 2002. Oltre alle garanzie che essa fornisce al consumatore, la direttiva permette uno sviluppo migliore del commercio transfrontaliero nel mercato interno. Ebbene, nell’attuale Codice del consumo, è quindi tipizzato un ventaglio di clausola ritenute “ingannevoli” (sia consentito richiamare: BUFFONE, La violazione delle clausole contrattuali in Manuale del diritto delle obbligazioni, collana “Il diritto applicato”, diretta da G. CASSANO, a cura di L. VIOLA, Cedam, 2010). Quanto alle pratiche “attive”, è considerata ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso. Il Codice sceglie, in particolare, di introdurre una speciale ipotesi di pratica scorretta: è considerata scorretta “la pratica commerciale che, riguardando prodotti suscettibili di porre in pericolo la salute e la sicurezza dei consumatori, omette di darne notizia in modo da indurre i consumatori a trascurare le normali regole di prudenza e vigilanza”. A ben vedere, l’ipotesi sottoposta al giudice di Pace di Varese confluisce senz’altro nel ventaglio delle pratiche ingannevoli. Una notazione processuale: il giudice di Pace reputa che una CTU possa anche essere esclusa se il giudicante gode di cognizioni sufficienti per svolgere un giudizio tecnico. L’affermazione è corretta: va ricordato, infatti, che il giudice ha la possibilità di avvalersi, oltre che delle massime di esperienza - che ha il dovere di conoscere, siccome patrimonio comune del sapere laico - anche delle conoscenze tecniche e specialistiche di cui sia per avventura in possesso o delle quali acquisisca direttamente il possesso attraverso studi o ricerche personali (Cass. civ., sent. n. 3891 del 27/11/1974 - rv. 372434; sent. n. 3247 del 25/10/1972 - rv. 361052; sent. n. 11440 del 18-11-1997 rv 510056). In particolare, il giudice non ha alcun obbligo di nominare un consulente d'ufficio, ma può ben fare ricorso alle conoscenze specialistiche che abbia acquisito direttamente attraverso studi o ricerche personali (Cass. civ., sez. III, sentenza n. 14759 del 26 giugno 2007). Giudice di Pace di Varese, sentenza 18 ottobre 2010 (Giudice Anna Sfardini) MOTIVI Ai fini dell’accoglimento della domanda attorea di annullamento del contratto ex art 1439 CC, è necessario accertare se il comportamento del signor M integri gli estremi del dolo e se sia stato altresì determinante del consenso. Non v’è dubbio sulla circostanza che il dolo di cui all’art 1439 CC, possa concretarsi anche in comportamenti omissivi e reticenze, quando siano comunque idonei a creare una falsa rappresentazione della realtà, tale da indurre la controparte a contrarre, tali che senza di essi, la parte non avrebbe contrattato. Non v’è dubbio, vista la concordanza delle dichiarazioni rese, che la signora B abbia creduto e confidato nel fatto che il signor M fosse un dottore. Né vi è dubbio sul fatto che il M non solo non abbia provveduto a chiarire l’equivoco, ma al contrario, maliziosamente, ne abbia approfittato. La signora B è stata ingannata innanzi tutto dal camice bianco, dall’aver chiamato “dottore” il M senza il suo diniego, ma anche e soprattutto dalla sicurezza con cui il M esprimeva pareri di specifica competenza medica rassicurando la signora in merito alla compatibilità tra il suo stato di salute ed i trattamenti. Egli avrebbe dovuto, secondo la correttezza richiesta dalla circostanze, innanzi tutto dichiararsi un “non dottore”, e conseguentemente astenersi, senza gli idonei strumenti di scienza, a dare pareri medici e soprattutto invitare la signora a consultare il proprio cardiologo. Si ravvisa pertanto nel comportamento del M non semplicemente una mera inerzia nell’accettare la qualifica di medico, ma un’ulteriore attività di raggiro tale da determinare la formazione della volontà della sig. B, tratta deliberatamente in errore sull’innocuità della cura su di un soggetto cardiopatico. L’agire del M è stato fondamentale nel processo di formazione del consenso della signora B, la quale se avesse saputo di non trovarsi di fronte ad un medico avrebbe certamente rimandato, all’esito di un consulto con il proprio curante, la conclusione del contratto, vista anche l’onerosità dello stesso, tale da costringerla a chiedere un finanziamento, circostanza questa che dimostra senza ombra di dubbio la seria intenzione della sig. B di voler intraprendere e portare a termine la cura, qualora non glielo avessero impedito i malori riscontrati.. Il comportamento del M è ancora più grave se si considera che non solo egli ha, mediante omissioni sulla propria effettiva qualifica e mendaci assicurazioni sulla innocuità della cura, determinato al consenso la signora B, ma l’ha altresì esposta a pericolo per la salute, nella consapevolezza di farlo. Non a caso, come riferito dalla teste P, veniva spesso verificato che la signora B stesse bene, ciò significa che si prendeva in considerazione l’ipotesi che potesse sentirsi male, visto che anche sulla scheda compilata volta per volta da tale addetta era evidenziata la cardiopatia della signora B, con una croce all’altezza del torace. Risulta anche sospetto il fatto che sia stato richiesto, ed ottenuto, anticipatamente il pagamento dell’intera cura, mentre una valutazione quanto meno corretta e professionale della situazione avrebbe suggerito l’effettuazione di alcune sedute di prova. La circostanza, addotta dalla convenuta, che altri clienti cardiopatici si siano sottoposti alle medesime cure dimagranti è assolutamente ininfluente, innanzi tutto per la varietà delle storie cliniche nonché perché nulla si sa delle loro vicende contrattuali con F. E’ invece determinante quanto si evince dal certificato (doc.4 fasc. attrice) dell’Ospedale di Circolo, unità di cardiologia, a firma della cardiologa dott.ssa C, intestato alla sig. B: “in relazione al quadro clinico ed alle terapie in corso risultano controindicate tutte le procedure che possano provocare ipotensione acuta per l’elevato rischio di eventi ischemici acuti. Sono pertanto assolutamente sconsigliati sauna, bagno turco, trattamenti che prevedono riscaldamento e/o bruschi cambi di temperatura.” Dall’esame delle schede compilate nel corso e ad esito dei trattamenti, (doc. 5 fasc. convenuta) nonché dalle dichiarazioni della teste P, che praticava i trattamenti, si evince che essi consistevano, tra l’altro, nell’uso di una sauna e di una coperta termica, risulta altresì che la B aveva una perdita ponderale di tra 0,8 e 1 chilogrammo per seduta. . Non ritiene il giudice la necessità di una CTU per concordare con il surriferito parere medico, stante la sua indiscussa qualità di peritus peritorum, che gli consente una valutazione anche sulla base delle proprie conoscenze e della propria esperienza. Il tal senso si è espresso il Tribunale di Varese oltre che, più volte, la Corte di Cassazione. E’ del resto facilmente intuibile che una perdita ponderale di circa un chilogrammo, nel tempo di circa un’ora, per merito prevalentemente di sollecitazioni termiche, non può avvenire senza uno stress a carico dell’apparato cardiocircolatorio, motivo per cui saune e quant’altro sono normalmente sconsigliati ai soggetti cardiopatici. Per tutto quanto sopra, il giudice, accertati i raggiri, ed il comportamento contrario ai più elementari principi di correttezza e buona fede nella conduzione della fase precontrattuale, dichiara l’annullamento del contratto intercorso tra le parti, ai sensi dell’art.1439 CC. Ordina conseguentemente la restituzione di tutte le somme ricevute dalla convenuta, pari ad € 3.850,00 oltre interessi dalla data dell’esborso al saldo. Le spese di lite Le spese di lite seguono la soccombenza ai sensi dell’art. 91 Cpc. Le spese dell’attrice sono integralmente poste a carico di parte convenuta e si liquidano come segue: € 1.200,00 per diritti, € 1200,00 per onorari, € 110,00 per anticipazioni, oltre 12,5% rimborso forfetario, 4% Cpa ed IVA se dovuta. P.Q.M. Il Giudice di Pace di Varese così provvede: - Accertato che il contratto concluso tra le parti è viziato da dolo, visto l’art. 1439 CC, annulla il contratto, e conseguentemente condanna la convenuta alla restituzione in favore dell’attrice, della somma di € 3.850,00 oltre interessi dalla data dell’esborso al saldo; - Pone le spese di lite dell’attrice a carico di parte convenuta soccombente nella misura che segue: € 1.200,00 per diritti, € 1200,00 per onorari, € 110,00 per anticipazioni, oltre rimborso forfetario 12,5%, 4% Cpa, IVA se dovuta. Dichiara la sentenza provvisoriamente esecutiva. Varese 18-10-10