A Jean-Baptiste Grenouille, ad Harold, a Maude ea

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A Jean-Baptiste Grenouille, ad Harold, a Maude ea
A Jean-Baptiste Grenouille, ad Harold,
a Maude e a mio nonno.
Io mi sento da un lato
un genio incompreso,
dall’altro uno stupido
compreso perfettamente.
I
Tutti dicevano che non era possibile.
“È assurdo”.
Lo ripetevano in continuazione e mi davano del pazzo,
fatto sta che sono ormai al nono mese.
Ho la pancia gonfia come una mongolfiera, la pelle sopra lo stomaco tesa al limite.
Aspetto un bambino.
O una bambina.
Non sono riuscito a scoprirlo perché nessun dottore è
stato disposto a farmi un’ecografia; continuavano a dirmi
che le ecografie all’utero si fanno solo ed esclusivamente a
chi ha l’utero.
Io l’utero non ce l’ho, ma una cosa di cui sono certo è
che nella mia pancia c’è un bambino.
O una bambina.
Non so nemmeno se sia sano o meno, il mio bambino o
bambina che sia.
Credo però che si tratti di un maschietto, lo penso ormai
da nove mesi; è soltanto una sensazione, me ne rendo conto, però sono abbastanza suggestionato dal segreto di mia
nonna.
Lei lo chiamava “Il Segreto del Sesso degli Angeli”.
Prima di compiere diciotto anni ero certo che si trattasse di qualcosa di alchemico, magico e trascendentale: era
sempre riuscita a indovinare il sesso di un bambino sia nascituro che ancora da concepire, bastava che conoscesse
discretamente la coppia in questione o anche solo uno dei
due partner.
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Camilla Sernagiotto
Ci era sempre riuscita.
Tranne in un caso.
Quando compii diciotto anni, me lo tramandò nella cucina della sua casa al mare.
Stavo lavando i piatti con uno spazzolino prima di infilarli nella lavastoviglie (mio nonno aveva questa fissa, non
bastava sciacquarli e basta); quando mi disse cosa stava per
fare, io per prima cosa pensai: “Eh no! È tutta la vita che
aspetto di conoscere il segreto e ora lei me lo dice in cucina?! Mentre sto lavando i piatti?!”
Volevo un’atmosfera un po’ più mistica, un alone di
magia.
Eppure, appena scoprii come decretare il sesso di un
angelo, la cucina si rivelò adattissima: tutti questi anni a
credere che dietro il segreto si celassero calcoli, principi,
teoremi e sapienza stellare... per arrivare a scoprire che si
trattava di una buffonata, tipo quella della presa del tovagliolo: se una donna lo prende dall’alto aspetta un maschio,
se lo prende dal basso una femmina.
Ma come fa uno a prendere un tovagliolo dal basso?
Comunque, in base a ciò che mi rivelò mia nonna, io
aspetto senz’altro un maschietto.
Dall’inizio della gravidanza lo chiamo infatti Little Boy,
quando ci parlo.
E ci parlo di continuo.
Ho deciso dal primo giorno in cui mi sono accorto di
aspettare un bambino di non dargli un nome vero; temevo
di affezionarmici troppo e se l’avessi perso sarebbe stato
traumatico.
Ero terrorizzato dalla possibilità di un aborto naturale e
tutti mi ripetevano che ero pazzo.
“Un aborto di cosa?! Sei un uomo! Da dove vorresti
partorire o abortire?! Tu ce l’hai nella testa il tuo Little
Boy, altro che nella pancia!”
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Sushiettibile
Non volevano credermi, nessuno riusciva a farlo e nemmeno si sforzava di provarci; quando lo dissi a mia nonna,
lei mi rispose: “Io ho il cancro”. Morì poco dopo, ma credo
che in realtà non ce l’avesse mai avuto il cancro: era morta
per colpa di quello che le avevo detto, che aspettavo un
bambino.
A diciannove anni, per ripagarla del segreto che mi
aveva rivelato, le confidai che mi piacevano gli uomini.
Lei non parlò per otto giorni: il mio segreto fu più d’effetto del suo.
Si chiamava Enola, mia nonna.
E io pure.
Quando mia mamma era incinta, la nonna decretò che
si trattava sicuramente di una femmina; totalmente fiduciosi, i miei non si affidarono neppure a una ecografia e arredarono la mia futura cameretta con mobilio rosa, carta da
parati a cuoricini e orsacchiotti in tutù da ballerina, comprarono bambole e un asinello viola da mettere nella culla,
pensando che potessero fare compagnia alla loro bimba,
prossima a venire al mondo.
Per parlare con la loro bambina attraverso la pancia di
mia mamma non usavano nomignoli o vezzeggiativi, né un
generico Little Girl; il nome era deciso fin dal primo mese:
Enola.
Quando la loro bimba nacque col pisello, decisero di
non cambiarlo perché mio padre credeva fosse un nome
così particolare da andare bene sia per un maschio che per
una femmina.
Mia mamma era d’accordo.
Enola. Andata.
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Camilla Sernagiotto
Può essere facile la vita di un bambino con quel nome?
No.
Il primo giorno di scuola tutti gli altri bambini continuavano a chiedermi: “Ma sei un maschio o una femmina?” E ridevano, mi spintonavano, mi sputavano perfino
addosso.
Seguitarono a tormentarmi con quella domanda fino a
che, esasperato, io non mi sbottonai i pantaloni, abbassai le
mutande e mostrai a tutti il pisello.
Dovevano capirlo vedendolo che ero un maschio.
La maestra convocò i miei genitori e raccontò loro l’accaduto; i miei erano imbarazzati.
Quel gesto non servì a nulla perché gli altri bambini,
anziché continuare a chiedermi se fossi maschio o femmina, incominciarono ad affermare che ero una bambina.
Ero confuso: mia nonna diceva che sarei stato una bambina, i miei compagni pure... lo ero?
Questo interrogativo mi tormentò fino alla seconda
media, quando scoprii una parola che sarebbe diventata la
risposta ai miei dubbi.
Gay.
Avevo un visino carino, capelli soffici, mi muovevo
con eleganza e la mia voce era dolce. Le dita affusolate, le
ginocchia senza croste da maschiaccio, vergini di mercuro
cromo.
Un ragazzo di terza media, durante l’intervallo di un
giovedì di novembre, vedendomi passare, urlò in corridoio:
“Enola è gay!”
Tutti scoppiarono a ridere, io corsi ai servizi, mi chiusi
in un cesso e provai a piangere, ma non ci riuscivo.
Cosa vuol dire gay?
Quando ne capii il significato, mi convinsi di esserlo e
mi andava bene così: ero gay.
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Il problema venne dopo, quando ogni residuo di femminilità sparì: al liceo ero diventato non solo un ragazzo,
ma perfino un bel ragazzo.
Piacevo molto alle mie compagne, che continuavano a
lanciarmi occhiate, sorrisi, sguardi maliziosi.
“Io sono gay!” avrei voluto gridare in corridoio durante un intervallo, però non lo feci mai.
Mi era tornato il dubbio; ora non si trattava di sapere se
ero maschio o femmina, perché ero un maschio a tutti gli
effetti.
Ora volevo sapere se ero omosessuale o no, ma come si
faceva a scoprirlo?
Provai allora a uscire con una ragazza, la più brutta
della mia sezione; pensavo: “Se baciandola mi piace, significa che sono eterosessuale”.
Avevo scelto la più brutta perché sapevo già allora che
gli omosessuali sono esteti, quindi una donna bella potrebbe piacere comunque in quanto bella; Serena, il mostro da
me usato come cavia, era invece un test perfetto di omosessualità e il risultato fu positivo.
Serena mi faceva schifo, ma non era questa la grande
scoperta, dal momento che Serena faceva schifo a tutti; la
grande rivelazione era che la donna non mi attraeva.
E l’uomo?
È dura a sedici anni trovare un ragazzo da baciare, se
anche tu sei un ragazzo.
Dopo due anni di botte, sputi e spintoni, però, ce la feci:
un ventenne amico di amici.
Andrea.
Ci accomunava il fatto di avere un nome che andava
bene sia a una femmina che a un maschio.
Ed eravamo gay, tutti e due.
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Camilla Sernagiotto
È stato il più grande amore della mia vita e io vorrei
tanto che fosse lui il padre del mio bambino, ma sinceramente non lo so chi è e non perché io sia andato con tanti
uomini! Affatto! Io non ho mai avuto nemmeno rapporti
veri con gli uomini, ma anche se ne avessi avuti non sarei
mai andato col primo che capitava.
È un pregiudizio troppo diffuso: gli omosessuali sono
come animali, non sono fedeli, vanno con tutti.
A parte alcuni che veramente vanno con tutti, senza distinzione alcuna, la maggior parte segue l’amore e io ero
innamorato di Andrea.
Lo sono tuttora.
Purtroppo lui non è il papà del mio Little Boy, perché il
padre non c’è: io penso che si tratti di una sorta di partenogenesi al maschile oppure di un miracolo, di un’immacolata concezione.
Sono stato sbattuto fuori da decine di chiese per colpa
di quanto ho appena detto e ne ho girate veramente tante,
rivolgendomi a preti e suore per spiegar loro la mia situazione con il maggior tatto possibile.
Però non c’è tatto che tenga se quello che vuoi dire a un
parroco è che sei un uomo incinto di quello che tu credi essere una specie di nuovo messia.
Un frocio che si sente la Vergine Maria...
Neppure la più strippata delle checche potrebbe pensarlo.
Io non ero una checca.
E nemmeno la Madonna.
Eppure so che ciò che porto dentro è un dono all’umanità, qualcosa di magico e prodigioso che cambierà il
mondo.
Un dono di Dio.
Un prete un po’ invasato e di mentalità medievale, una
volta ascoltato il mio discorso di presentazione, ha gridato
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che io portavo in grembo non il figlio di Dio, bensì quello
di Satana.
Fu l’unico ad ammettere che dentro avessi un figlio.
Mi sentivo sollevato.
II
Al mio Little Boy vorrei dare un nome esotico, possibilmente qualcosa di giapponese o che suoni tale, perché io
ho una vera fissa con tutto quel che è Giappone e, di certo,
la sto trasmettendo anche a lui, con tutto il sushi che gli
passo.
Il sushi mi fa impazzire perché è crudo; adoro tutto ciò
che non è cotto perché sembra ancora un po’ vivo.
La salsiccia cruda mi piace tantissimo, ne mangerei chilometri.
Il carpaccio con il limone sopra.
Anche senza limone.
La bistecca al sangue.
Ho scoperto però che la carne cruda aumenta l’aggressività e fa venire l’epatite.
Io per fortuna l’epatite non ce l’ho e nemmeno l’Aids,
che tutti credono sia una malattia da omosessuali, ma non
è vero.
Meno male che non ho l’Aids, altrimenti il mio Little
Boy sarebbe sieropositivo e come potrei spiegarlo al Vaticano che il mio messia è sieropositivo? Sarebbe un problema in più.
A me del Giappone piace il lato austero, non quello
kitsch, colorato e fluorescente.
Il sushi è l’emblema dell’austerità giapponese: pesce
crudo avvolto da foglioline d’alghe.
Di più semplice ci sarebbe giusto un po’ di plancton che
galleggia nel latte.
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Forse non ha senso quello che ho appena detto, ma
credo sia colpa della gravidanza, che a volte mi fa straparlare.
Vorrei sfatare il mito delle voglie; ci voleva proprio un
uomo incinto per scoprire che era solo una leggenda inventata dalle donne stesse per giustificare quella voglia di
abbuffarsi che reprimono per tutta la vita, sfogandola solo
in quei novi mesi durante i quali tutto è concesso.
La stessa cosa vale per le nausee: mai venuta una.
Alle donne vengono perché, con la scusa di queste voglie, mangiano di tutto e in quantità impensabili, dopodiché è ovvio che vomitino anche l’anima.
Gli uomini sono sempre stati disposti a credere a tutte
queste storie delle proprie mogli e le assecondano sempre,
anche se forse sanno perfettamente che si tratta di cose non
vere.
Però gli uomini non hanno abbastanza immaginazione
da pensare a come sarebbe avere un bambino dentro il proprio corpo, quindi credono praticamente a tutto.
Io ho la grande fortuna non solo di poter immaginare
quali sensazioni si provino ad aspettare un bambino, ma
proprio di provarle quelle sensazioni incredibili.
Mi dispiace però non poter partorire naturalmente, come è ovvio che sia; un dottore è disposto a farmi un parto
cesareo, anche se lui non l’ha chiamato proprio così.
Questo dottore ha parlato di una gastroscopia: crede che
la mia pancia gonfia sia dovuta a una gastrite acuta, a una
colite o perfino a un tumore, me l’ha detto proprio fuori dai
denti.
Della gravidanza non ne ha voluto sapere, mi ripeteva:
“Semmai è una gravidanza isterica e dovrebbe farsi vedere
da uno psichiatra!”
Chissà come ci rimarrà quando, infilandomi una sonda
nello stomaco, scoprirà il mio bambino!
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