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Al mio paese
di VIOLA GIANNELLI
Al mio paese
Al mio paese si è vivi fino ai dieci anni e dopo gli ottanta. Togli tutto quello che puoi trovare nelle città e
cosa ci resta? L’osteria della Francona dove uno può sentirsi al centro del mondo o nel suo buco di culo,
ma fa lo stesso perché lì c’è vita, la vita che non c’è altrove. Noi apuani della terra del marmo siamo
gente dura, resistente, in tutti i sensi anche politici, e per noi è difficile trovare un interlocutore migliore
di un bicchiere di rosso della casa che il più delle volte è così nero, denso, dall’odore di tempera e mosto
selvatico che i vecchi di qui lo appellano “sangue di bue” rigorosamente accompagnato con scodelle di
trippa fumante e pezzi di pasta fritta, detti sgabei, con tocchi di lardo di Colonnata, bianco, come il
marmo delle nostre cave. È un microcosmo di campagna quest’osteria con un manipolo di avventori
abituali amanti del vino nostrale, gente che ha le mani in pasta con la terra e a sua volta conosce le
asprezze della vita e del lavoro e si rifugia in quel covo del margine. Le galline vengono ancora a
razzolare sotto il tavolo, rigorosamente di marmo, mentre tu sei magari a bere un quartino di bianco, ma
non il Candia commerciale, no, quello aspro che fa quasi lacrimare come si conviene a un posto così che
arrivi a volere più per il contesto in cui lo mandi giù che per il suo gusto. E poi tanto c’è la Francona che
te lo rende più bevibile, quando, dopo essersi aggirata felina tra le panche, afferrato un pollastro tra le
mani e dopo essere sparita dietro il banco, premendo la povera bestiola tra il seno trasbordante, riemerge
dagli odori della cucina con un fumante e croccante pollo fritto, di quello che se non ti lecchi le dita godi
solo a metà, di quello per cui anche il bere diventa un interpunzione da fare senza troppa attenzione,
perché sono quei pezzetti di carne dorata a far da collante. E poi ci sono loro: Tonio, Batolo, Carlo,
Dario, i resistenti, quelli che accendono la vita quando in paese si respira il rumore del coma, loro che
hanno una foto di quando erano poco più che ventenni, la mia età, che svetta sul camino polveroso della
Franca, loro che sono arrivati fin lì bevendo e mangiando e poco altro. Tonio il cavatore che mi ha dato
il mio primo bicerin, il goccio di vino, a sette anni e da allora non ha mai smesso; Bartolo lo scultore
impastato di ghiaia e marmo che ha fatto sempre l’artista perché dice che “l’uomo non è uomo nel
lavoro, l’uomo è uomo nell’arte, nelle cose inutili che ti danno aria” e non ha mai saltato un giorno
all’osteria; Carlo che ancora seguita a cantare “Fischia il vento” sui monti e in piazza e bestemmia
contro Dio e i padroni all’idea che io me ne voglia andar via da questa terra e lo grida in carrarino stretto
il suo disappunto che quasi, quasi mi aspetto che mi voglia dare una coltellata prima o poi e infine Dario
a cui non si rifiuta mai di fargli compagnia nell’ultima bevuta, quando ti dice “Vieni qui che ti offro un
vinsanto con due cantucci della Franca” e mica puoi dire che hai mangiato già le sue tagliatelle al sugo
di lepre, il cinghiale con la polenta, le patate alla cenere, la torta di riso e tre bottiglie di vino, caffè e
ammazza caffè. No. È buona regola accettare. E allora ti porta fuori sotto braccio con il vento che dal
mare e dai monti fischia e ti taglia il respiro, ti mette in mano il bicchierino e ti fa “Te in questo paese ci
sei nato e cresciuto. Lo capirai, prima o poi che non è morto, non è da buttar via” poi alza il bicchiere e
intona “Ciar i è ciar, muss’lin a ni né, te ‘n t’l vo, te nemanc, al bev me”. (Chiaro è chiaro, moscerini
non ce n’è, te non lo vuoi, te neanche, lo bevo io). E io in piedi, là fuori, mentre fischia il vento e urla la
bufera, con in mano quel bicerin, smarrito tra gli smarriti, randagio tra i randagi, non posso far altro che
sentirmi l’ultimo anello di una catena di uomini, ma è strano, quanto maggiore è la distanza che sento,
tanto più cresce l’attaccamento e l’identificazione con loro.
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