Sale Grosso

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Sale Grosso
I Quaderni dall'Isola-SALEGROSSO
VII Quaderno dall'Isola
Come potremo chiedere il risarcimento per tutto il tempo speso per la burocrazia?
In Italia le forze oscure stanno preparando un incredibile Colpo. Corrodono la democrazia con la
collaborazione della demenza della Massa, mentre la vigoria alternativa, delusa, piange sulle proprie
bandiere rosse ammainate e ride davanti ai programmi che RAI 3 prepara per loro per sfottere i cattivi.
La nuova destra avanza facendo finta di moralizzare il paese, arrestando i politici corrotti.
Tutte le segretarie dell'imprenditore acclamano l'UOMO FORTE; la creazione di una razza di
MANAGER capaci di davvero ricchi una volta per sempre. Tutti gli altri valori vengono sistematicamente
calpestati, bastonati e derisi. Il denaro ha sostituito anche gli organi riproduttivi.
Scrivere a penna sulla pagina è come incidere, faticosamente, su una lastra di ferro con il bulino, scrivere
a macchina è come scivolare morbidamente sul bitume di Giudea prima di lasciare all'acido l'arduo
compito di corrodere, là dove serve, lo zinco. Scrivere con il computer è come scolpire il marmo con la
mente. Nel mondo silenzioso dell'elettronica ritorna lo scavo faticoso dello scalpello sulla lastra di
marmo.
Il mio film inizierà con le immagini di un trentenne che si rifà il letto.
Ha poca voglia, esce subito di casa…tenendo sottobraccio un libro i cui spigoli sono piegati a fisarmonica
per gli eccessivi trasporti.
Stipato nell'autobus, tenta a malapena di aprire il libro, ma essendo in piedi e in difficoltà di equilibrio,
rinuncia alla lettura. Con gli occhi ancora semichiusi, si guarda un po' attorno, ha noia di ciò che vede,
delle solite facce, ha noia del paesaggio fuori dal finestrino. In quel preciso istante sa solo invidiare chi se
ne sta comodo a casa sulla propria poltrona.
Entra in un bar, ordina un caffè, osserva attentamente la ragazza dietro al banco, con quale velocità,
precisione, funzionalità esercita il proprio mestiere: occhi bassi sulle ordinazioni, poche occhiate
topografiche di servizio ai clienti, mani dure ed elastiche, organizzate, educate alla sveltezza.
Lui si rallegra per aver assistito a questa rappresentazione inconsapevole, paga e se ne va.
Cammina in un parco incapsulato nella città, un organismo verde adiacente all'Ospedale Civile. Si siede
su una panchina, apre il suo libro, legge.
Attorno a lui, altre persone, la lunghezza dei viali e delle corsie pedonali distanzia le persone.
Solito andirivieni rallentato in quel luogo comune e misterioso, è un parco pubblico, navata verde di una
chiesa all'aperto.
Cammina sopra un ponte, per la strada del centro storico. Si ferma davanti a un'edicola, butta l'occhio su
qualche titolo, prosegue.
A casa, nel pomeriggio, accende la televisione, gira i canali: i venditori all'asta di gioielli, i cartoni
animati giapponesi.
Spegne la televisione e cade il silenzio.
Ritorna al suo libro, sdraiato sul divano, sottolinea alcune righe, poi si alza disturbato da una musichetta
insistente che proviene dal cortile, guarda dal vetro: un inquilino in braghette corte sta lavando la sua
splendida Croma; è l'autoradio va che è un piacere.
Esce nuovamente di casa, percorre a piedi uno dei circondari del quartiere, osserva pensieroso le case, il
traffico, qualche vetrina, poi entra in una tabaccheria e manovra l'espositore girevole delle cartoline, le
guarda attentamente con un insufficiente sorriso, osserva quelle cartoline impersonali delle donne nude al
mare, poi quelle che irridono il servizio di leva, poi quelle dei cani, alza la prima per vedere se sono tutte
uguali. Poi, si ferma su alcune cartoline dove c'è l'immagine di alcuni cherubini, anzi di due seduti di
spalle in un campo di fiori; lui e lei piccini in mezzo a quei fiori
gialli, alti, senza nome, cresciuti nei campi lasciati in abbandono.
Acquista la cartolina e il francobollo, esce dal negozio, e scrive: “Ti penso e ti amo”, appoggiandosi al
muro vicino alla cassetta delle lettere, ma lo spazio dell'indirizzo resta vuoto. Infila la cartolina tra le
pagine del suo libro e se ne va.
A casa il frigorifero è semivuoto, nella dispensa trova una scatoletta di tonno, la apre, mangia in fretta
restando in piedi, poi si siede, spalma un avanzo di burro su fette di pane quasi raffermo e condisce il
tutto con del sugo confezionato. Beve acqua e vino, chiude le persiane di casa, innesca i due fermatapparelle contro i ladri, esce dopo aver girato la chiave per quattro volte nella serratura.
Se ne va in giro, in macchina, per la città di notte, piano piano, in coda nel parcheggio dietro la stazione,
sotto il cavalcavia, nel parking dei complessi bancari, vicino ai giardini, davanti alla Fiera, ovunque, per
osservare, guardare le prostitute, i transessuali.
Si ferma davanti a una ragazza dopo aver abbassato preventivamente il finestrino
- Quanto vuoi?
- Cinquantamila, risponde la ragazza chinandosi.
- E dove si va?
- In zona industriale. Risponde. Ma lui fa un gesto senza senso con la testa, tira dritto.
Ad ogni semaforo gli autisti soli, dall'abitacolo della propria auto, si scambiano furtive occhiate di tacita
partecipazione e di reciproco imbarazzo. A poco a poco il traffico si fa più rado, le ore passano. Lui si
ferma per cambiare dei soldi per il distributore automatico. Il giornalaio non cambia, nemmeno il
pizzaiolo notturno, che si attarda a racimolare con la raspa la pasta incollata al marmo.
Prova a chiedere se c'è qualche distributore aperto a una "transfuga" della via: niente. Alla fine, in un
locale in procinto di chiudere, una casiera gentile gli cambia le centomila lire.
Ora, i soldi per girare ci sono ancora. Riempie il serbatoio, trova due sbandati che hanno sbagliato a
infilare i soldi… Riparte. Il giro di puttane si è dimezzato, la polizia a quest'ora, le due di notte, si apposta
in certi luoghi e ferma “a caso” la gente per controlli.
Lui fa un ultimo giro nell'area senegalese africana, dove le donne hanno i seni che straripano dalle
camice. Ogni tanto improvvisano una danza di gruppo, più spesso si nascondono dietro ai cespugli del
viale, a volte vengono inseguite dalla polizia che le illumina con le torce delle pantere.
Le donne di marciapiede africane, quando devono pisciare lo fanno apertamente, ai lati della strada o
dietro la siepe. Quando arrivano dalla stazione hanno tutti fagotti di plastica in mano con dentro gli abiti
succinti per la professione, che si cambiano appartate nel fondo del parco o dietro le cabine telefoniche.
Poi, verso le due e mezza di notte, chiedono l'autostop e riprendono il treno. Non hanno il permesso di
soggiorno, e quindi ogni notte devono spostarsi dalla città di “residenza” al posto di lavoro: il viale che
scelgono per svolgere la loro atività. In definitiva, la loro casa reale è lo scompartimento del treno dove
amano truccarsi, cantare, essere nuovamente vive, parlare la propria lingua.
Eccolo, dopo vari giri attorno alle prostitute riesce a rimorchiarne una. E' una ragazza magra, è lei che ha
chiesto un passaggio per il rientro. Gli sguardi non sono più come prima, di attrazione, sorridenti, e le
mani non gesticolano più per chiamare i clienti; anche i seni appaiono ridimensionati.
Ecco una inaspettata richiesta:
-Portami a mangiare un panino, devi andare di qua.Lui rimane un attimo sconcertato. Poi esegue prontamente le indicazioni.
-Da dove vieni?
-Dal Ciad.
Di nuovo silenzio…
-Devi andare sempre diritto.
-Ma dove andiamo?
-A mangiare un panino.
Lui è teso, guida lungo una grande strada buia e interminabile.
-Ma come non sai? Non sai dov'è?
-No, non so. Vai diritto, hai paura?
Lui, mentendo e pensando a chissà quale tranello risponde:
-No, no.
Ma ecco apparire, come per incanto, una luce rassicurante (si fa per dire). Incredibile! E' una roulotte, in
mezzo alla notte più profonda, una roulotte illuminata, attorniata dalla specie più incredibile di esseri
umani, una roulotte produttrice di hamburger.
-Ecco, io vado. Mi aspetti, vero? Mi aspetti?- lei chiede, con aria titubante e insicura.
-Si, si…
Lei esce e si mette in fila.
Lui sta in attesa, raggelato, temendo da un momento all'altro l'intervento della polizia. Ma quell'oasi nel
deserto della notte è imperturbabile.
Lei ritorna con il suo hamburger tra i denti:
-Puoi partire!
La macchina riparte, lei morde con appetito il panino, ma in un modo così dolce e vivo, arrotolandolo di
volta in volta in quella carta scricchiolante. Quando arrivano davanti alla stazione si salutano. Lei esce
raccogliendo il suo sacchetto di plastica con il cambio. Saluta appena: “Ciao!”, sbatte con forza la porta e
scompare tra le altre che occupano l' atrio della stazione.
Lui passa una notte infame, torna a casa, mette la testa nel televisore, si assopisce, poi tenta invano di
riprendere la lettura del suo libro. Va in bagno, ritorna, riaccende il televisore… Si trasporta in camera,
afferra un plaid che trova in una stanza matrimoniale in perfetto ordine, non dorme nemmeno nella
propria stanza, si slaccia soltanto la cintura e si rannicchia sul divano dopo aver lasciato la luce accesa.
Non dorme subito, ma alla fine viene catturato, nonostante tutto, dal sonno.
Si sveglia, guarda l'orologio che tiene ancora al polso. Dalle fessure della persiana entra il sole che fa a
pugni con la luce elettrica. Spegne la luce della stanza e si rimette a dormire.
Sta correndo in autostrada, da solo, fino a raggiungere un grosso complesso edilizio che si erge in mezzo
alla campagna: è un ospedale della città.
Attraversa i corridoi, sale le scale. Incontra sua madre, parlano tra loro, ed ecco il padre, uomo ormai
anziano seduto sulla sponda del letto, bendato ad un occhio. Si abbracciano, si baciano.
Una accurata visita medica all'occhio, l'oculista scruta il fondo della retina, poi pratica un'iniezione sul
bulbo oculare. Il paziente accusa l'attimo di dolore. E' suo padre, ricoverato in una clinica oculistica.
Assieme passeggiano lungo il corridoio. Si fermano davanti a una finestra.
-Ma fuori com'è, io vedo tutto bianco.
-Fuori è tutto chiaro, deserto, ci sono tutti campi, non c'è altro.
Sprofondo nella notte come in un pozzo, nella stessa notte in cui sta sprofondando mio padre, ma il suo
buio la chiamerò luminescenza.
-Cosa scrivi?- chiede il vecchio.
-Ah, niente- risponde il giovane- stavo…
-E il concorso, quando ce l'hai?- domanda il vecchio con cautela.
-Fra quattro giorni.
-Ah, allora facciamo a tempo a ripassare qualcosa assieme!
-Ah, si, certo, se vuoi, se te la senti.
-Ti farò delle linee generali per avere un'approssimazione…
Sopraggiunge la madre (sottovoce):
-Ho parlato con il professore, ha detto che ti faranno altre tre o quattro punture; poi, il controllo. Ho
portato questa.
Estrae dalla tasca un flacone pieno di pasticche di cioccolato.
Il padre lo afferra, si avvicina per guardare, subito raggiunto dalla moglie che lo aiuta.
Sento l'odore elettrico della stazione di Milano di dieci anni fa, ma quel tempo è stato assassinato assieme
ai tuoi zoccoletti rosa-azzurri. Non so se ho poi così tanta voglia di esistere.
-Vedo ombre, ombre- dice il padre, mentre raccomanda alla moglie di conservare il cioccolato sul
comodino, a portata di mano.
E' di nuovo per strada, nel feudo della notte. Sempre i soliti giri, assidui, gli stessi, le stesse facce, lo
stesso mondo scomponibile come una scacchiera dalle facili mosse e dagli imprevisti prevedibili.
Il protagonista del mio film farà delle flatulenze.
Non so se avete capito cosa sto cercando di fare: sto tentando di incidere alcune linee orizzontali sul muro
duro dell'esistenza, come gli antichi egizi preparavano la pietra su cui imprimere con chiarezza le forme
della memoria.
Ma la chiarezza non è un anticoncezionale, anzi essa stessa è un veicolo di contagio tra la vita reale e la
sua rappresentazione.
Ecco che il mio protagonista; non può conoscere le esigenze della censura intellettuale. A che serve
un'opera d'arte se non comunica? Un po' di coraggio: spogliamoci dalle paure e cominciamo a trattare la
realtà da noi conosciuta, esploratori del silenzio, geografi dell' impermanenza.
Il mio protagonista avvicina una trans e provocatoriamente le chiede:
-Ma tu ce l'hai il pisello?
Lei, mostra giù i seni nudi incorniciati dalla pelliccia, si avvicina al finestrino del probabile cliente e lo
invita a infilare una mano dentro al perizoma.
-E quanto vuoi?
-Centomila a casa mia.
Carica la trans e finiscono in una cameretta dove c'è un grande specchio davanti a un letto matrimoniale
vellutato di raso.
-Spogliati!
-No, preferisco guardare. La trans si spoglia completamente e si sdraia sul letto. Chiede il denaro. Lui si
avvicina:
-Che bello possedere tutte e due le cose, eh?
-Bello per te, per voi è una variante, un'attrazione erotica, ma per me non tanto...
-Perché?
-Perché ogni volta che ti rivolgono lo sguardo o leggono il tuo nome sul passaporto, ti guardano,
sorridono.
-Ma no, ormai i tempi stanno cambiando.
-No, non cambiano.
-Ma tu, vieni mai con i clienti?
-No, solo con il mio ragazzo, raramente vengo con i clienti. Quando avrò abbastanza soldi mi opero.
-No, non farlo.
-Ma guarda che io sono una donna.
Pensate all'odore di carne bruciata che si sparse nell'aria quando il rogo dilanio' il genio dell'innocenza.
Chinate ad uncino, a malapena si reggono in piedi, le giovani ragazze che battono per potersi drogare
eccole, entrare nel lavoro.
Tutta questa parte va documentata.
Sembra che non vi sia al mondo nessun angolo dove si possa girare un metro di pellicola.
Il film dovrebbe alternare due momenti:
1- Il rapporto di un insegnante con il proprio pensiero che si rappresenta innanzi ad una ostica, stimolante,
maledetta platea, nella quale è costantemente presente il rumore di fondo dell'intolleranza al silenzio.
2- La solitudine e la ricerca di una frattura che paradossalmente laceri il silenzio: le strade di notte, la
fuga, l'uso della prostituzione.
Altre due linee si demarcano nelle prime: il giorno del buon costume, del figlio riconosciuto e
riconoscibile dalla famiglia, e la notte in cui si viene meno a tutto, la paura, l'abbandono.
In quel sottoscala illuminato in prossimità della banca, sotto i tre gradini che ti fanno scomparire, come
dei bambini a giocare con i propri piselli, barattando il gioco per i soldi.
Lui è a casa, legge il manuale d'istruzioni per lavare la biancheria, alcune cose le lava a mano, raspando
con sapone e tavola sopra alla vasca da bagno.
Poi guarda gli annunci economici dei giornali prestando una particolare attenzione ai messaggi personali,
alle “relazioni sociali”, scruta con attenzione. Telefona ad una di queste signore che cercano amici,
compone il numero e scatta dall'altra parte una segreteria telefonica che indica via, luogo, pianerottolo,
dando tutte le indicazioni topologiche per orientarsi sino all'anonimo appartamento, addirittura precisando
che un eventuale silenzio al citofono segnala una persona, e quindi di ritornare a intervalli di dieci minuti.
Mia madre.
E' una tragica malinconia che mi accompagna da quando sono nato.
Di notte i suoni aumentano incredibilmente di volume.
Arrivano in taxi (lui annota in un suo taccuino), scendono e aspettano.
Ciò che resta è la lingua. Ad essa apparteniamo, lei è immortale. La parola VARGOT mi ha colto di
soprassalto, mentre appisolato in treno condividevo con il finestrino il paesaggio montano. VARGOT
(qualcosa) ti ha riportato in vita all'improvviso.
Il problema non è quello di far vedere la “bassa umanità” come un contorno pietistico e pittoresco che
cinge la città e tende al suo centro, ma è quello di capire la consistenza dei nodi del mondo. Mi spiego: la
cosiddetta emarginazione è una delle misure, dei parametri, delle oggettive condizioni in cui ci si viene a
trovare, e come tale non è materia per la stuzzicante tavolozza di un pittore verista, ma è una vera e
propria struttura del disagio.
Io intervengo quasi scientificamente dentro a questa struttura grazie ad un caso di intermediazione
(dovuta alla mia doppia identità) tra zona integrata e disintegrata. In poche parole, la “doppia vita” del
mio personaggio consente un entrare e uscire dalla norma.
Quindi, alla fine, i due universi sono messi in relazione da questo personaggio; un palombaro spaziale che
nuota muto nella città.
Professoressa n.1:
-Sai, mio marito…bla bla bla…
Professoressa n.2 (bionda, alta, abbronzata):
-Anch'io, sai…bla…bla…bla…
Dialogo svolto nella sala professori, in penombra, davanti ad una biblioteca cristallizzata, sottovetro. Le
teche, dove riposano in pace oggetti inutili per le esperienze di chimica, di fisica e di astronomia. Oggetti
di applicazione mummificati e ostentati, come per dire: “Qui si studia, qui si è studiato…”
Reliquari del ****, osserviamoli bene, con voluttuosa curiosità, stupiti, atterriti.
Il libro che legge viene utilizzato ai margini bianchi delle pagine come taccuino di appunti, del tutto
svincolati dal testo.
Ancora una volta la natura mi ha vinto.
Dei nomi devo fissare: come Anastasia, per esempio. Blocco delle inquadrature. Lui che si china verso
l'acqua, si siede su di una pietra e poi, di spalle, con innanzi la lunga strada del fiume, di profilo, chino
come il corso d'acqua.
Lui si addormenta, piano il sonno lo prende, la respirazione si fa più profonda, la **** ***** fiacca si
addormenta con lui e nel buio si sente solo la fenditura dell'affanno e nient'altro.
Ed ecco apparire nel sogno il volto di una dea, con una camicia da notte che si apre a V sul candido petto,
e i capelli più sottili di qualsiasi chioma di pino e la ***** in quel modello generoso di divinità femminile
olimpica. E' una donna che appare in un giardino mentre afferra un bambino, lo alza dalla culla, e lui, il
bambino, l'afferra, la morde, la ferisce.
Questo è il sogno sotterraneo.
Capisco tutto ciò che ti è capitato quando tutto ciò che è attorno si nega. La solitudine sorella, compagna.
Ha attraversato un lido e c'era un silenzio totale, perché la somma di ogni voce non si dava un
appuntamento in piazza. Così come il rumore muto delle stelle si limitava nei gesti.
Eruditi, asini e cavillosi, nulla sapete del silenzio delle cattedrali, vi accontentate di vincere le battaglie
dei concorsi, esaminatori spietati che ricacciano nella disperazione i trentacinquenni disoccupati. E
contano le virgole come il filatelico i dentini dei francobolli.
Un coro e le immagini di tutte le deposizioni di Cristo e delle Pietà, mentre si estrae dall'abitacolo o dal
crepaccio, il corpo esanime, riverso, dolce, del figlio morto. Una mano afferra per i capelli il cialtrone.
Quando farò il mio film sulla città, la prima immagine sarà quella di un uomo riflesso sul vetro cupo della
finestra, in parte rischiarato dalla lampada azzurra da tavolo riflessa anch'essa nell'oscurità.
Mamma mia, quante cose: quaderni, poesie, sceneggiature. Mamma mia, che povero misero bagaglio.
Insufficiente alla poderosa gloria, addirittura controproducente al guadagno.
Sono un cane graffiante, già messo sotto più volte. Ostinatamente vivo. Trotterello all'ombra dei muri,
toccando con il pelo tutta la città.
Cosa resta al mortale se non l'inquietudine?
Chi fa esercizio di pedissequo equilibrio e passa la vita in perfetta stabilità è un genio del male.
Che cosa anima i pensieri , se non il dubbio?
Essere felici?
E' la più grande e crudele meschinità che abbia mai sentito. Essere felici per che cosa? Nel tentativo di
trascinare una vita sciatta con tutte quelle cosette che si addicono al buon ménage familiare? La vita è
rischio!
Non mi avrai né vivo né morto! Io sono si felice, ma soltanto quando riesco a comunicare ciò che sento
nel profondo.
Io non sono perso, siete persi voi, pensierini da poco che fanno calca per entrare nei negozi più ricchi
della mente.
Io non posso vivere felice “alla meno peggio”, io possiedo un'idea, ossia qualcosa di oscuro che è qui,
fermo, tra la gola e il cuore: un'apertura invisibile, la tana. Ciò che mi fa vivere è la precarietà, la mia
perenne passione tra la gola e il cuore che mi consente di entrare ed uscire liberamente.
L'unico alleggerimento è l'azione, non la contemplazione.
Il paciuco, invece, si bea di dormire nello specchio.
Quello che lui chiama immagine, io chiamo morte, ciò che lui chiama disgrazia, precarietà, povertà, io
chiamo vita.
Il suo benessere è la cosa più sciatta, noiosa e stupida che mi sia mai capitato di conoscere.
Come mai non mi hai aspettato, amore mio? Hai permesso che le arginate sponde abbandonassero il
fiume.
Chissà perché sono in questa zona, in questa zona c'è un regno che conosco.
Condannato a uno squallido appartamento, nella mediocrità di un 1° piano.
23 settembre 1992
Sono tempi durissimi, sotto tutti i punti di vista.
Ci si sbrana come bestie assassine. I rapporti umani affettivi e persino amorosi si strutturano non attorno
al sentimento, bensì in virtù di un saldo benessere economico.
Scopro adesso che una cimice, entrata dal mio finestrino giorni fa, ronza sul sedile destro. E' stremata, e
io avrei la crudele tentazione di schiacciarla. Ma il mio buon cuore l'ha graziata, meglio che agonizzi per i
fatti suoi, arrostita dal sole in questa bara di ferro.
Scrivo per un interlocutore che probabilmente non è ancora nato o che è troppo piccolo per leggere queste
pagine. Di certo non scrivo per i lupi che mi stanno accerchiando, ogni giorno di più.
Ormai è abbastanza chiaro che dovrò iniziare a pensare al modo in cui sparire, E' davvero una situazione
insostenibile.
I furbi, troppo furbi, continuano a campare gonfi di allegria e di gioie terrene.
Io non ho più voglia di niente e inizio a non avere più la forza di alzarmi. Peccato, in fondo ho trentadue
anni, ma non sono riuscito a combinare granché. Eppure, spero sempre in un miglioramento improvviso,
in un salto improvviso verso il cielo.
Non essere meschina, amica mia, non farti ricordare come…
Sono disperato, Gesù mio, dai un senso alla mia vita.
Ho spezzato ogni legame e li ho conservati tutti. Non so più che cosa fare.
Sento il peso dei giorni soffocanti, la tovaglia da scrollare e non averne voglia.