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Superbia e invidia nell’‘Inferno’ dantesco
PIER ANGELO PEROTTI
Vercelli
[email protected]
RIASSUNTO:
In questo saggio si indagano le ragioni che hanno indotto Dante a non prevedere cerchi dell’Inferno riservati alla punizione di superbia e invidia – due dei
sette vizi “capitali” condannati dalla Chiesa –, mentre gli stessi due peccati sono
espiati nel Purgatorio; in compenso il poeta inserisce il peccato di ignavia, per
quanto i dannati per tale colpa siano posti al di fuori dai cerchi infernali, e accorpa
i rei di altri due distinti peccati “capitali”, ira e accidia – in qualche modo antitetici –, in un unico settore; inoltre, sia nella prima sia nella seconda cantica all’avarizia è aggiunto nello stesso luogo di pena il suo opposto, la prodigalità. Si
potrebbe ritenere che per Dante la superbia e l’invidia siano peccati per così dire
trasversali, che inducono chi ne è responsabile a commettere altre colpe, ossia che
sono per certi versi la causa di altri delitti.
PAROLE CHIAVE: peccati “capitali”, superbia, invidia, ignavia, egoismo.
ABSTRACT:
This essay deals with the reasons that led Dante not to plan circles in the Inferno reserved to the punishment of pride and envy – two of the seven deadly sins
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condemned by the Church –, whereas the same two sins are expiated in the Purgatorio; as counterbalance the poet inserts the sin of indolence, though the
damned for that sin are placed outside the infernal circles, and gathers the culprits
of another two distinct deadly sins, anger and sloth – somehow antithetical –, in
a single sector; besides, both in the first and in the second part of the Divine Comedy avarice is joined in the same punishment place with its opposite, prodigality.
One might think that, from Dante’s point of view, pride and envy are a kind of
transversal sins which induce those who are guilty to commit other sins, i.e. they
are somehow the cause of other crimes.
KEY WORDS: deadly sins, pride, envy, sloth, egoism.
1. I vizi o peccati “capitali” fanno la loro prima vaga comparsa nell’Etica Nicomachea di Aristotele, che li definisce «gli abiti del male».
Così come le virtù, i vizi derivano dall’iterazione di azioni che formano
in ogni soggetto che le compie una seconda natura, una sorta di “abito”
che inclina in una determinata direzione.
Ma la classificazione dei vizi “capitali” è di origine monastica: il primo
a mettere a punto una dottrina sui vizi capitali – di cui non v’è traccia né
nella Bibbia né presso i primi Padri della Chiesa – fu un eremita del IV
secolo, Evagrio Pontico, seguìto dal suo discepolo Giovanni Cassiano
(IV-V sec.). In origine i vizi “capitali” codificati dai due monaci erano
non sette ma otto: gola, lussuria, avarizia, ira, tristezza, accidia, vanagloria, superbia. Papa Gregorio Magno (590-604), trasferendo l’attenzione
dai monaci eremiti agli uomini comuni che vivono in mezzo a loro simili,
modificò l’impianto inizialmente regolato da Evagrio e Cassiano da ottonario a settenario, e tale ordinamento fu accolto e codificato nel XIII secolo da Tommaso d’Aquino, che nella Summa theologiae elencò i sette
vizi nella successione che ancora oggi conosciamo, classificata nel Catechismo della Chiesa Cattolica:
1. Superbia: è lo sfoggio della propria presunta superiorità rispetto agli
altri;1
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2. Avarizia: è la tendenza all’accumulo eccessivo ed ingiustificato di
ricchezze, da cui deriva la mancanza di generosità;
3. Lussuria: è la schiavitù al piacere, soprattutto sessuale;
4. Ira: è l’inclinazione alla collera;
5. Gola: è abbandonarsi ai piaceri del cibo e del bere e l’eccedervi;
6. Invidia: è il desiderio malsano di eguagliare o superare chi possiede
qualità, beni o situazioni migliori delle proprie, e l’odio nei suoi confronti;
7. Accidia: è l’ozio, la pigrizia, l’apatia, il disinteresse verso gli altri,
verso sé stessi e verso la vita.
La tristitia “tristezza” – sentimento indicante il non apprezzare le opere
che Dio ha compiuto per gli uomini – fu dunque conglobata nell’accidia
o con essa identificata, così come la vanagloria fu considerata un aspetto
della superbia, e nel “settenario” fu aggiunta l’invidia, per un totale appunto di sette, numero sacrale, com’è noto: anche il totale delle virtù è
sette: tre “teologali” (fede, speranza, carità) e quattro “cardinali” (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza).2
Da questi vizi discendono altri peccati ancor più gravi: per es. dall’avarizia, dalla gola o dall’invidia possono derivare l’omicidio, la rapina o il
furto; dalla superbia, dall’invidia o dall’accidia può derivare il suicidio;
etc.
Non essendo esperto in teologia, non so se si possano classificare per
gravità i sette peccati “capitali”, ma certamente è possibile graduare l’intensità di ciascuno, in rapporto al come e al quanto lo si commette; né conosco i criteri secondo i quali è stato stilato l’ordine tradizionale di essi.
Resta il fatto che secondo la Chiesa il peggiore dei sette peccati e l’origine di ogni male è la superbia, poiché con questo sentimento si tenderebbe a mettersi allo stesso livello di Dio, considerandolo quindi inferiore
a come è veramente.
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Presso i Greci la superbia, intesa in questo senso, rientrava nel concetto
di hýbris,3 che indica non soltanto “violenza, prepotenza, arroganza, insolenza, tracotanza, orgoglio, presunzione, eccesso, prevaricazione”, ma
appunto “superbia”, ossia sfida alla superiorità degli dèi, che perciò di
solito veniva severamente punita: numerosi sono gli esempi, nella mitologia greca, di personaggi che ne furono colpevoli, da Prometeo ad Agamennone, a Salmoneo, a non pochi personaggi delle tragedie greche.
Il peccato di cui si macchiò Lucifero, e poi Adamo ed Eva, è proprio
la superbia, che provocò la ribellione dell’uno e la disobbedienza degli
altri; e la sua gravità è tale che questo peccato “originale”, di cui si macchiarono i nostri progenitori, deve essere espiato dall’intera umanità, e fu
necessario il sacrificio di Dio stesso – nella persona del Cristo – per la redenzione di essa: ecco perché Lucifero – l’angelo ribelle diventato il “maligno”, il “principe dei demoni” – è collocato da Dante nel punto più
profondo dell’inferno, nel fiume Cocito ghiacciato, in quanto è il peggiore
fra i “traditori dei benefattori”: la superbia – ossia l’equipararsi a Dio –
lo ha inevitabilmente indotto, ribellandosi, a tradirlo, ancorché Egli avesse
dato vita alla sua creatura.
2. Nella Divina commedia i peccati “capitali” rientrano tra quelli puniti
nell’Inferno – nei cerchi degli incontinenti – e tra quelli espiati nel Purgatorio. In schema, seguendo l’ordine del Catechismo:
peccato
cerchio
Inferno
canto
superbia
avarizia (e
prodigalità)
lussuria
ira
–––
4°
–––
VII
2°
5°
gola
invidia
accidia
3°
–––
5°
V
VII-VIII
(cfr. accidia)
VI
–––
VII-VIII
(cfr. ira)
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Purgatorio
canto
anime purganti
dannati
girone
Pluto
1°
5°
X-XII
XIX-XXII
7°
3°
XXV-XXVII
XV-XVII
Oderisi da Gubbio
Ugo Ciappetta
(Capeto), Stazio
Guido Guinizelli
Marco Lombardo
6°
2°
4°
XXII-XXIV
XIII-XIV
XVII-XIX
Forese Donati
Sapìa
Abate in San Zeno
Paolo e Francesca
(Flegiàs), Filippo
Argenti
(Cerbero), Ciacco
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Invece nella struttura del poema abbiamo:
Inferno:
cerchio 2°, canto V: lussuria;
cerchio 3°, canto VI: gola;
cerchio 4°, canto VII: avarizia (e prodigalità);
cerchio 5°, canti VII-VIII: ira e accidia.
Purgatorio:
girone 1°, canti X-XII: superbia;
girone 2°, canti XIII-XIV: invidia;
girone 3°, canti XV-XVII: ira;
girone 4°, canti XVII-XIX: accidia;
girone 5°, canti XIX-XXII: avarizia (e prodigalità);
girone 6°, canti XXII-XXIV: gola;
girone 7°, canti XXV-XXVII: lussuria.
Ma sembra quantomeno bizzarro che Dante – il quale ha collocato il superbo per antonomasia, Lucifero, nella zona più bassa dell’inferno, indicandone la colpa in assoluto più grave (cfr. Inf. VII, 11-2: «là dove
Michele / fe’ la vendetta del superbo strupo»)4 – abbia omesso la superbia
(oltre all’invidia) tra i peccati puniti nell’Inferno, mentre a entrambi ha riservato un girone del Purgatorio, rispettivamente Purg. X-XII e XIIIXIV. Ancor più tale omissione stupisce, se si considera che la superbia è
ritenuta dalla Chiesa il più grave tra quelli “capitali” (cfr. supra, § 1).
Infatti la superbia sconfina non di rado nell’empietà, nella blasfemia o
nella sfida alla divinità, come dimostrano gli esempi mitologici e biblici,
alcuni dei quali ho ricordato al § 1. Analogamente l’invidia – che pure può
apparire, a prima vista, un peccato veniale, perché in fondo sembra danneggiare solo chi lo commette, spingendolo a tormentarsi nell’intimo – è
in realtà una colpa gravissima per le conseguenze che produce: essa (beninteso quando non è soltanto emulazione – il suo aspetto buono –, che
non è peccato, ma anzi è un pregio) può infatti indurre all’odio, alla ca157
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lunnia, al furto, perfino all’omicidio. Insomma, questa colpa è o può essere la madre dei peggiori crimini.
L’invidia è il peccato di chi soffre perché altri stanno bene, perché altri
sono o hanno più di lui; l’invidioso è colui che guarda di traverso (invidet) un altro uomo perché non sopporta che quello goda di qualche bene
da lui stesso non posseduto. Nella Bibbia l’invidia è il peccato di Lucifero
(oltre alla superbia: cfr. supra, § 1), il quale non tollera che l’uomo goda
di una vicinanza a Dio ormai a lui negata; di Caino che non sopporta che
Abele sia più amato da Dio; di Esaù nei confronti di Giacobbe, il fratello
favorito nella successione perché gli ha venduto il diritto di primogenitura; di Saul nei confronti di David, più amato di lui dal popolo d’Israele.
L’invidia è dunque un sentimento di malanimo, di odio nei confronti di
altri, in contrasto col precetto evangelico dell’amore verso il prossimo, e
frantuma la solidale fraternità che Dio pretende dagli uomini. Raramente
resta senza conseguenze: nel migliore dei casi semina sospetto e diffidenza, e spesso si traduce in conflittualità e violenza. Per invidia Caino
uccide Abele, Esaù semina la discordia in famiglia, Saul fa guerra a
David. L’invidia è, insomma, il peccato sociale per eccellenza, quello che
spezza i legami tra gli uomini, distrugge la pace, impedisce la serena convivenza.
Già nei Dieci comandamenti, sia nella versione dell’Antico Testamento
sia in quella della Chiesa cattolica,5 è implicitamente compresa l’invidia:
in alcuni di essi è previsto questo sentimento come causa di gravi peccati.
Nel settimo (“non rubare”) e negli ultimi due (“non desiderare la donna
d’altri” e “non desiderare la roba d’altri”) è indirettamente condannata
l’invidia, che può provocare il furto o almeno il desiderio dei beni altrui,
compreso il concupire la moglie di un altro, o il sedurla, o il sottrarla,
vale a dire l’adulterio. Ci si può dunque domandare perché il poeta sembri
avere, per così dire, derubricato i peccati di superbia e di invidia – entrambi non certo lievi, come ho ora osservato –, relegandone i colpevoli
nel purgatorio anziché nell’inferno. Potrebbe nascere il sospetto che questa indulgenza abbia una funzione, diciamo così, di auto-assoluzione del
poeta stesso, che non mancando certo d’ingegno ed essendone ben con158
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sapevole, peccava indubbiamente di superbia: a riprova di questa inclinazione del “divin poeta” possiamo ricordare – oltre al leone (dalla maggioranza dei commentatori inteso come allegoria o simbolo6 della superbia),
una delle tre fiere che all’uscita dalla «selva oscura» gli impediscono
l’ascesa al colle – la sua auto-ammissione tra i grandi poeti antichi, con
la frase «sì ch’io fui sesto tra cotanto senno» (Inf. IV, 102), nonché Inf.
XXV, 94-99, dove dichiara di considerare se stesso superiore a Lucano e
Ovidio, già nominati nel passo che ho citato in precedenza;7 o ciò che si
fa dire da Cavalcante de’ Cavalcanti (Inf. X, 58-59):
[...]: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno»;
o, ancora, le parole che Oderisi da Gubbio pronuncia come elogio di lui
(sempre che non si riferisca a qualcun altro, magari indeterminato) in
Purg. XI, 97-99:
così ha tolto l’uno all’altro Guido
la gloria della lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido,
appena temperate di modestia da quel «forse»; per non parlare degli aneddoti sull’argomento.8
Non possiamo invece affermare che fosse particolarmente soggetto
anche a sentimenti di invidia.9 Questo peccato, secondo logica, sembrerebbe da escludere per il poeta, perché il superbo, ritenendosi superiore
agli altri, non dovrebbe invidiare nessuno, che così riconoscerebbe implicitamente migliore di sé. Ma l’invidia, sentimento corrosivo e frustrante, non è necessariamente in contrasto con la superbia, se
consideriamo che il superbo (o presuntuoso), pretendendo di essere il
primo in ogni aspetto della vita, può credere di ravvisare in altri qualche
dote che non individua in sé. Nel caso specifico di Dante, non sembra
dato sapere se la sua presunta invidia fosse indirizzata ad avversari politici
o a poeti concorrenti (dato che queste sono le peculiarità più note della sua
vita), o a persone a lui eventualmente superiori per altre ragioni.
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3. Può infatti sembrare un paradosso, ma i superbi sono anche invidiosi,
e viceversa. Di primo acchito si potrebbe pensare che i due vizi siano antitetici: il superbo è sicuro della propria superiorità – come indica la stessa
etimologia del vocabolo –, e dunque parrebbe non avere motivo di invidiare altri, che evidentemente considera a sé inferiori; viceversa l’invidioso si sente inferiore a colui che invidia, e perciò non dovrebbe provare
superbia, vale a dire senso di superiorità rispetto all’altro, che invece reputa migliore di sé per qualche aspetto (più ricco, più bello, più potente,
etc.). In realtà, considerato che la superbia, come l’avarizia, non conosce
limiti, ossia induce a desiderare sempre di più, chi ne soffre è naturalmente portato a cercare un’importanza sempre maggiore, e dunque ad
ambire ai traguardi cui altri sono arrivati, oppure ad augurarsi (questa è
l’invidia “negativa”) che un altro peggiori la sua condizione, così da poterlo superare; allo stesso modo, essendo anche l’invidia sconfinata, l’invidioso, per tentare di placarla, è indotto a odiare l’invidiato10 e a
sopravvalutare se stesso o ad accusare un’entità superiore di favorire l’altro a detrimento di lui, che è convinto di meritare di più, cadendo così
anche nel peccato di superbia.
Un amalgama dei due peccati può essere ritenuto l’egoismo – che pure
non è annoverato tra i vizi “capitali” –, l’esatto opposto dell’amore o carità, che è il fondamento stesso del Cristianesimo. L’egoista è necessariamente superbo, perché convinto di non avere bisogno degli altri, di essere
autosufficiente; ma è anche invidioso, perché se crede di riconoscere in
un altro qualche dote o bene in misura maggiore di quanto egli possiede,
desidera con tutto se stesso di essergli in ciò superiore, o che l’altro subisca un peggioramento, per allettare il proprio ego smisurato.
Per altro verso, la superbia e l’invidia sono, se mi si passa il termine,
“trasversali”, perché chi le prova è portato a commettere altre colpe o senz’altro delitti. Tutti i peccati, quale più quale meno, sono originati, direttamente o indirettamente, dalla superbia o dall’invidia, che condizionano
il comportamento di chi ne è schiavo.
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Non certo per caso il poeta, introducendo Ciacco «a discorrere dei mali
di Firenze e affidandogli il compito di esprimere quello che è il suo personale giudizio sulle vicende politiche del comune» (Sapegno, in Alighieri
19943: 71) (Inf. VI, 40 ss.), gli fa mettere in evidenza l’invidia di cui rigurgita la loro città (vv. 49-51):
Ed elli a me: “La tua città, ch’è piena
d’invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena”,
e poco dopo gli mette in bocca il séguito dell’accusa contro le colpe dei
Fiorentini, che, oltre all’avarizia, sono appunto la superbia e l’invidia (vv.
73-75):
Giusti son due, e non vi sono intesi:
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’hanno i cuori accesi;
altrove Brunetto Latini, maestro di Dante, scaglia un’invettiva contro i
concittadini del poeta, imputando loro questi stessi peccati, ma esposti in
ordine esattamente inverso rispetto al passo precedente, probabilmente
per caso, o piuttosto per esigenze di rima (XV, 67-69):
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi
gent’è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.
Questa terna di vizi “capitali”, ripetuta in due diversi momenti della
cantica, ha indotto alcuni commentatori11 a ritenere la lonza, prima delle
tre fiere che rendono impossibile la salita di Dante al colle, l’allegoria o
il simbolo (cfr. supra, n. 6) dell’invidia, ancorché i commentatori antichi
e la maggior parte dei moderni siano concordi nel reputare che essa personifichi la lussuria;12 per le altre due l’opinione quasi generale è che la
lupa rappresenti l’avarizia, e il leone la superbia.
Ma non mancano altre interpretazioni: oltre alla peculiare opinione del
trecentesco Jacopo della Lana, che riconosceva nella lonza «piuttosto o in161
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sieme la vanagloria» (J. Della Lana 1866-67: 19; Alighieri 1939: 22), abbiamo quella politica – spesso non sostitutiva o sovrapposta, ma aggiuntiva rispetto a quella morale, considerato che «etica, politica e religione
facevano nella coscienza di Dante un tutto inscindibile» (Ragonese 19842:
859) –, secondo la quale la lonza, dato il suo «pel maculato» (I, 33), la sua
«gaetta pelle» (I, 42), indicherebbe le fazioni che laceravano Firenze ai
tempi di Dante (Del Lungo in Alighieri 1924: 13)13 (e la lupa sarebbe il
simbolo o l’allegoria della Roma papale, il leone della Francia). Secondo
il Ferretti (Ferretti 1950: 29) le tre fiere sarebbero l’allegoria di invidia,
avarizia e superbia – ma tutte riferite ai Fiorentini, come sembra confermato dalle parole di Ciacco e di Brunetto Latini (cfr. qui sopra) –, che
possono essere giudicate le colpe più fatali all’umanità ai suoi albori (l’invidia del serpente, la superbia di Adamo, l’avidità di Eva). Per qualche
dantista (Casella 1884: 9; Flamini 1904: 11; Singleton 1954: 12) le tre
fiere rappresenterebbero «le tre disposizion che ‘l ciel non vole» (Inf. XI,
81), ossia le tre categorie aristoteliche di peccati che corrispondono alle
zone dell’Inferno: incontinenza (lonza), violenza (leone) e frode (lupa);
alcuni studiosi (Pascoli 1900: 38,14 Pietrobono 1954: 143, Id. 1959: 15;
cfr. anche Del Lungo in Alighieri 1924: 13) hanno invertito l’allegoria
della lonza e della lupa, considerando la prima il simbolo della frode, l’ultima quello dell’incontinenza, per risolvere l’aporia della peggiore tra le
fiere che corrisponderebbe al peccato meno grave; etc.
4. Restando nell’ambito dell’Inferno dantesco, possiamo azzardare alcune riflessioni. I peccatori in genere sono in qualche misura invidiosi e
superbi, perché la loro trasgressione della legge divina – peraltro codificata dalla Chiesa – è di per sé un atto di rifiuto dell’autorità di Dio (se non
la negazione della sua esistenza), quasi un mettersi al disopra, o almeno
al pari, di lui, una sorta di sfida alla sua volontà: il peccato di Lucifero per
gli angeli, e di Adamo ed Eva per gli uomini origina e comprende tutti gli
altri peccati.
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I superbi e gli invidiosi sono distribuiti tra buona parte dei cerchi infernali nei quali sono punite le colpe in qualche modo conseguenti alla superbia e all’invidia. Premesso che la qualifica di invidiosi che si può
attribuire ad alcuni personaggi dell’Inferno è opinabile, vediamo qualche
esempio piuttosto lampante di superbia e di invidia.
Nel 7° cerchio sono puniti i violenti – contro il prossimo (omicidi, tiranni etc.), contro sé stessi (suicidi), contro Dio (bestemmiatori, etc.) –,
tra i quali sono certamente soggetti a sentimenti di invidia e di superbia i
tiranni assetati di sangue e dei beni altrui, che espropriano i cittadini o li
mettono senz’altro a morte per invidia delle loro ricchezze o della loro
condizione esistenziale: la loro furia rapace, che li porta a spogliare i sudditi degli averi e della vita (Inf. XII, 100 ss.):
Or ci movemmo con la scorta fida
lungo la proda del bollor vermiglio,
dove i bolliti facieno alte strida.
Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e ‘l gran centauro disse: «E’ son tiranni
che dier nel sangue e ne l’aver di piglio»
non può avere altre cause che la superbia e l’invidia.
Altrettanto evidente l’origine del peccato dei ladri (7° bolgia dell’8°
cerchio), spinti ad appropriarsi illecitamente delle cose altrui certamente
dall’invidia per i beni di qualcuno, ma in qualche caso anche dalla superbia, che li induce ad arrogarsi il diritto di impossessarsi di sostanze non
loro: ricordiamo in particolare Vanni Fucci, reo di furto sacrilego, che nell’episodio dantesco conclude le sue parole con un gesto volgare e con una
bestemmia spavalda di sfida a Dio (XXV, 1-3):
Al fin de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro»,
tanto che il poeta commenta (vv. 13-15):
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Per tutt’i cerchi de lo ‘nferno scuri
non vidi spirto in Dio tanto superbo,
non quel che cadde a Tebe giù da’ muri.
Il personaggio indicato nell’ultimo verso è, non per caso, il bestemmiatore Capaneo (XIV, 43 ss.), la cui superbia – presa a paragone nel
passo ora citato – non si è spenta o attenuata neppure nel sabbione infuocato in cui è punito, per cui Dante domanda a Virgilio (vv. 46-48):
chi è quel grande che non par che curi
lo ‘ncendio e giace dispettoso e torto,
sì che la pioggia non par che ‘l marturi?
L’immagine di costui, uno dei sette re che assediarono Tebe, è bieca e
sprezzante, e la sua provocatoria ribellione a Zeus (qui Giove), la sua empietà non si placano a causa dei tormenti cui è soggetto, ma anzi orgogliosamente grida (v. 51): «Qual io fui vivo, tal son morto»; e proprio la sua
stessa rabbia, «con la quale, oltre al fuoco che lo affligge, si rode di sé medesimo» (Boccaccio), è la peggior punizione, secondo la provocazione
di Virgilio (vv. 63-66):
O Capaneo, in ciò che non s’ammorza
la tua superbia, se’ tu più punito:
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
sarebbe al tuo furor dolor compito.
Insomma, l’empietà, la blasfemia per cui è punito sono effetto, sembrano quasi accessorie della superbia di cui era gonfio e che – oltre all’ira
ancora incontrollata – tuttora lo tormenta (Sapegno in Alighieri 19943:
157):15 tutto questo corrobora quanto ho osservato supra, §§ 2-3, circa la
complementarità, in Dante ma non solo, di certi peccati.
La superbia è alla base, oltre che dell’empietà, anche dell’eresia, e Farinata degli Uberti ne è l’esempio più evidente, quasi il simbolo e l’icona.
Nell’immagine che ne fornisce Dante, il suo stesso atteggiamento e la sua
reazione alla pena eterna sono emblematici: sembra non importargli ciò
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che la giustizia divina gli ha riservato, e la sua postura, pur nell’arca infuocata, è sottolineata prima da Virgilio (Inf. X, 32-33):
Vedi là Farinata che s’è dritto:
da la cintola in sù tutto ‘l vedrai,
e subito dopo da Dante, pur suo avversario politico (vv. 35-36):
ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’avesse l’inferno a gran dispitto,
che insiste nel presentare il personaggio nella sua fisicità, che esprime
chiaramente la superbia (vv. 74-75):
non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa.
L’eretico è necessariamente superbo, dato che non si perita di “scegliere” (dal greco hairéō, ‘scegliere’) certe verità religiose a scapito di
altre, contrastando così la dottrina di Cristo e i dogmi e i precetti codificati
dalla Chiesa, che al Vangelo si rifà. Tra gli eretici sono inclusi gli epicurei,
non proprio correttamente, ma piuttosto in senso lato, perché non “sceglievano” una parte della dottrina della Chiesa rifiutandone un’altra, ma
negavano in toto l’immortalità dell’anima, uno dei fondamenti delle religioni in genere, e segnatamente del Cristianesimo (X, 13-15):
Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l’anima col corpo morta fanno.
La stessa punizione dei dannati, «coricati nelle tombe come morti» (Porena in Alighieri 19592:104)16 è un significativo contrappasso, perché essi,
che consideravano l’anima mortale come il corpo, «suo cimitero da questa
parte hanno» (Giacalone in Alighieri 19682: 145),17 dove giace appunto la
loro anima come se fosse morta; e la loro opinione che corpo e anima
siano inscindibili – unito al reputarsi padroni sia del proprio corpo sia
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della propria anima – è un chiaro indice di sottovalutazione o di spregio
del Creatore, ossia di superbia.
5. Nel 5° cerchio dell’Inferno (palude Stigia) sono accomunate anche
iracondia e superbia, poiché le due colpe sono alquanto affini. Chi è convinto di essere superiore è più propenso ad adirarsi e ad attaccare gli altri.
I superbi non sono menzionati da Dante, eppure sono riconoscibili tra gli
iracondi: non per caso Virgilio, quando parla di Filippo Argenti, afferma
(Inf. VIII, 46-48):
Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s’è l’ombra sua qui furiosa [il corsivo è mio].
Dunque, ponendo gli iracondi nel 5° cerchio, Dante vi colloca idealmente anche i superbi, perché il superbo, sentendosi migliore degli altri,
è spesso pronto ad adirarsi con loro.
È evidente che dalla superbia e dall’ira ha origine la violenza – contro
il prossimo, contro sé stessi, contro Dio o la natura (in qualche modo coincidenti)18 –, e perciò i violenti sono necessariamente superbi, perché nel
loro orgoglio abnorme non hanno rispetto né per Dio, cui non riconoscono
la dovuta superiorità, né per la propria persona, di cui si sentono padroni
assoluti, né tanto meno per gli altri, che considerano inferiori a sé. Una
combinazione di due aspetti della violenza – contro un uomo e contro
Dio – che ha origine dalla superbia è rappresentata dal caso di Guido di
Montfort, vicario per la Toscana di Carlo I d’Angiò – dal poeta neppure
citato per nome, ma indicato come «colui [che] fesse in grembo a Dio /
lo cor che ‘n su Tamisi ancor si cola» (Inf. XII, 119-120) –, il quale, per
vendicare la morte di suo padre Simone, fatto uccidere dal re Edoardo I
d’Inghilterra, pugnalò (1272) in una chiesa di Viterbo il cugino del re,
Arrigo, il cui cuore fu collocato, secondo il cronista Giovanni Villani
(Cron. VII, 39), «in una coppa d’oro [...] su una colonna in capo del ponte
di Londra sopra il fiume Tamigi». Il luogo in cui l’uccisione fu perpetrata,
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una chiesa, ne fa un delitto sacrilego, e dunque – ripeto – duplice, ispirato
da un istinto di violenza e da una forma di empietà, indubbiamente dettati
dalla superbia, che in questo caso, manifestandosi con la vendetta, significa equipararsi o sostituirsi a Dio, senza riguardo alla sua parola: infatti
nella Bibbia si legge: «mea est ultio» (Deut. 32, 35).
6. Veniamo a un punto nodale di questo studio. Il personaggio greco
che nella Divina commedia meglio incarna la curiositas, e che è l’emblema della sete di conoscenza portata ai suoi limiti estremi, anche a costo
della vita, è certamente Ulisse. Già nell’Odissea (libro XII) egli aveva
sfidato – senza però trascurare le opportune precauzioni, facendosi assicurare all’albero della nave – le sirene ascoltandone il canto, per desiderio
di conoscere una cosa ignota agli altri uomini. Del resto Dante, nell’incipit
del Convivio (I, 1), citando Aristotele (Met. I, 1) aveva scritto: «tutti li
uomini naturalmente desiderano di sapere», ascrivendo dunque anche a se
stesso la medesima sete di sapere che avrebbe attribuito a Ulisse.
Com’è noto, nell’8° bolgia di Malebolge (“frodolenti contro chi non si
fida”), tra i “consiglieri di frode”, sono puniti Ulisse e Diomede, uniti in
una sola fiamma a due «corni». Ma delle tre colpe che sembrano accomunare i due eroi nella stessa fiamma, in quanto entrambi responsabili di
esse (Inf. XXVI, 58-63):
e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.
Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deidamìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta,
l’unica che davvero li associa è il furto del Palladio, «violento insieme e
sacrilego e frodolento» (Sapegno in Alighieri 19943: 294), mentre delle
altre due trame fu colpevole il solo Ulisse: ecco perché il «corno della
fiamma antica» in cui si trova il Laerziade è «maggiore». Se si esclude la
profanazione conseguente al ratto del Palladio – dovuta non tanto alla sot167
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trazione in sé, quanto piuttosto all’averlo trafugato con le mani lorde del
sangue delle guardie uccise19 –, Ulisse non è reo di sacrilegio, ma solo di
frode: e infatti Dante lo punisce per questo peccato, e sembra non addebitargli ulteriori colpe.
Tuttavia, il racconto, per bocca dello stesso eroe, dell’ultima avventura
in mare, alla ricerca dell’ignoto – una specie di anticipazione del viaggio
di Colombo – lascia intendere un àgan, un nimis, un eccesso, che sconfina
nella violazione di un decreto divino, e dunque nell’hýbris, vale a dire
nella superbia contro gli dèi. Secondo Dante, Ulisse se ne macchiò, oltrepassando (XXVI, 107-109)
quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi,
acciò che l’uom più oltre non si metta,
ossia le “colonne d’Ercole”, i limiti fissati dagli dèi per gli uomini, che
egli è ben conscio di forzare colpevolmente.
Dante, combattuto tra l’umana condivisione della brama di sapere dell’eroe greco – e dunque provando una sorta di clemenza per questo peccato originato dalla superbia, di cui egli stesso si sentiva colpevole –,
contigua all’empietà, e l’obbligo, come giudice, di punire Ulisse, lo condanna all’inferno, ma per un’altra colpa, altrettanto o forse più grave, la
frode che sconfina nel sacrilegio (cfr. qui sopra). La punizione per la superbia che lo portò a superare i confini geografici imposti dalla legge divina è la morte per naufragio («infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso»,
XXVI, 142), quella per la frode e l’empietà ad essa in qualche modo collegata è il fuoco eterno; ma si può anche osservare che il peccato di superbia – comune a entrambi i comportamenti – è per così dire assorbito
dagli altri, analogamente ad altri casi presenti in questa cantica. Si pensi
agli esempi emblematici di Didone e di Cleopatra, entrambe considerate
dal poeta lussuriose, e l’una e l’altra suicida, ma con qualche differenza:
la “lussuria” della prima è limitata a non aver rispettato il giuramento di
fedeltà al marito, per quanto ormai morto, come leggiamo in Virgilio,
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Aen. 4, 552: non servata fides cineri promissa Sychaeo, parole parafrasate,
o piuttosto tradotte quasi ad verbum, dal suo più grande “discepolo”,
Dante (Inf. V, 61-2):
L’altra è colei che s’ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo»;
invece Cleopatra sedusse prima Cesare, poi Antonio, e infine tentò di irretire Ottaviano, per cercare di conservare il regno d’Egitto – una vera e
propria forma di meretricio –. Per quanto attiene al suicidio, entrambe si
diedero la morte per non diventare preda di un uomo (Didone di Iarba,
Cleopatra20 di Ottaviano) che le avrebbe ridotte alla schiavitù o a qualcosa
di molto simile; ma per la prima ci fu anche la componente della disperazione dovuta all’abbandono da parte di Enea (con l’elemento eziologico
delle guerre puniche),21 e dunque un comportamento meno spregevole.22
A queste analogie se ne aggiunge un’altra non adeguatamente messa in rilievo: il poeta condanna entrambe come lussuriose, e non in quanto suicide – come ci si aspetterebbe, dato che il suicidio è, credo, enormemente
più grave della lussuria –, forse perché, come scrissi altrove (PEROTTI
2001-2002 e 2006), «quello è conseguenza di questa, e quindi da Dante
viene punita la causa piuttosto che l’effetto».
Non basta: il suicidio di entrambe queste donne è evidentemente l’effetto del tentativo esasperato di salvaguardare il proprio ego, ossia di una
forma di superbia, e dunque in questi casi si fondono ben tre colpe, la cui
gravità non è facile graduare. Naturalmente Dante ha dovuto operare una
scelta circa la collocazione di queste due donne – non diversamente da
altri “pluripeccatori” citati nella cantica – in uno o nell’altro cerchio dell’inferno. Non sempre è agevole stabilire i criteri che hanno guidato tale
scelta del poeta: in genere si può ipotizzare, con ampio beneficio d’inventario, che la collocazione di ciascun dannato in un particolare cerchio
sia il risultato di un contemperamento tra il suo giudizio di gravità delle
varie colpe e il numero dei peccatori degni di condanna alle diverse pene.
Nella fattispecie, se egli avesse collocato i superbi in un luogo specifico,
dato che – come abbiamo poc’anzi notato – la superbia è la causa o la
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concausa di altri peccati (se non di tutti), questo luogo sarebbe sovraffollato a discapito degli altri cerchi, che sarebbero pressoché deserti.
7. Se per la Chiesa il vizio “capitale” più grave è la superbia (cfr. supra,
§ 1), si può presumere che invece per Dante la peggiore delle colpe fosse
l’ignavia, tant’è vero che i responsabili di essa non sono neppure ammessi
tra i dannati, ma, oltre che severamente puniti, sono confinati nel “vestibolo”, fuori dell’inferno vero e proprio, e dunque nettamente distinti da
tutti gli altri peccatori, perché «alcuna gloria i rei avrebber d’elli» (Inf. III,
42).
A prima vista, all’ignavia sembra affine l’accidia: sono entrambi peccati di omissione, che consistono nel non agire quando sarebbe necessario,
essendo basati sull’inerzia, sull’indolenza, sull’indifferenza, sulla neghittosità. Ma se si analizza con maggiore acribia, la differenza è di non poco
conto: l’accidia è essenzialmente la negligenza nell’operare il bene, senza
peraltro commettere il male, mentre l’ignavia è la vile rinuncia a prendere
posizione in qualcosa, magari a rischio della propria vita, dei beni, della
sicurezza, anche solo della tranquillità – fisica o esistenziale – o dell’agiatezza: così sembra intendere il poeta, che nell’inferno oppone l’accidia
all’ira, collocandone i peccatori nello stesso 5° cerchio – ma separandoli,
nel purgatorio, in due distinti gironi –, e invece gli ignavi, da soli, fuori
dei cerchi. È evidente che Dante, impegnato, come fu, nella vita pubblica
attiva – impegno che pagò con l’esilio –, convinto com’era che l’uomo
debba partecipare direttamente all’azione politica nell’interesse della società, provasse una particolare avversione per questa categoria di peccatori, che considerava responsabili della degenerazione morale e civile
della società umana (nonché, almeno in parte, delle proprie sventure), e
forse la causa principale del male sulla terra.
Benché l’ignavia non rientri tra i peccati “capitali”, oltre agli accidiosi
– la cui colpa è invece prevista dalla Chiesa –, anche gli ignavi hanno la
loro punizione nell’Inferno dantesco, e anzi, per loro alla pena si aggiunge
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il disprezzo, manifestato dalle celebri parole che Dante fa pronunciare da
Virgilio (Inf. III, 49-51):
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa.
Forse Dante li esclude dall’inferno vero e proprio anche perché – in
aggiunta alla ragione esposta qui sopra – il loro peccato non è compreso
tra quelli inclusi nel Catechismo cattolico, mentre l’accidia è contemplata,
ripeto, tra i vizi “capitali”.
Insomma, mentre nel Purgatorio ai peccati “capitali” sono dedicati regolarmente sette gironi – uno per ciascuno, con l’aggiunta, in quello degli
avari (5°), dei colpevoli del vizio opposto, i prodighi –, nell’Inferno i cerchi occupati dai condannati per vizi “capitali” sono soltanto quattro (dal
2° al 5°), ma le colpe punite sono in pratica cinque, perché ira e accidia,
considerate opposte, sono riunite in un unico cerchio, il 5°. E se è normale
che avari e prodighi siano raggruppati in un solo cerchio (così come, nel
Purgatorio, in un unico girone) – considerato che nella classificazione
canonica dei peccati “capitali” la prodigalità non è nominata –, è alquanto
curioso che nell’Inferno gli iracondi e gli accidiosi, ben distinti nella codificazione della Chiesa, siano accorpati, quantunque non vi siano presentati esempi di accidiosi, che invece troviamo nel Purgatorio (Abate in
San Zeno).23 A giustificazione di questa bizzarria, si potrebbe presumere
che il poeta, non essendogli noti dei personaggi di un certo rilievo gravemente accidiosi (ossia meritevoli dell’inferno), abbia inteso sì condannare
il peccato di accidia – peraltro riconosciuto dalla Chiesa –, ma abbia lasciato
indeterminata l’esemplificazione del peccato; a meno di immaginare che,
dato il genere di colpa – forma attenuata dell’ignavia –, egli abbia seguito
un criterio in certo modo simile a quello che ha usato per gli ignavi, cioè
«non ha ragionato» di questi dannati, anzi li ha affatto ignorati, perché
anch’essi indegni di menzione, quasi a dire che all’accidia è forse preferibile l’ira.
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8. Dunque la superbia e l’invidia – peccati “capitali” secondo la Chiesa –
non sono puniti nell’Inferno dantesco, mentre i rei delle stesse colpe ne
pagano il fio nel Purgatorio; tuttavia, segnatamente la superbia è riconoscibile come colpa accessoria, spalmata trasversalmente tra vari altri
peccati, se non proprio tutti.
È altresì interessante rilevare che Dante aggiunge ai peccati “ufficiali”
l’ignavia, pur lasciandone i colpevoli fuori dai cerchi infernali. In pratica,
dei sette vizi “capitali” riconosciuti nel Catechismo cattolico ne sono palesemente puniti nella prima cantica della Divina commedia soltanto cinque – mentre tutti e sette sono espiati nel Purgatorio –, ma tra i dannati
dell’Inferno dantesco sono compresi gli ignavi, per quanto nettamente separati dagli altri peccatori, e dunque risulterebbe un totale di sei.
Un’ultima considerazione. L’egoismo – certamente una colpa grave
per il cristiano, perché è l’esatto opposto della carità ovvero amore, che
è alla base del rivoluzionario messaggio di Gesù Cristo – non è compreso
tra i peccati “capitali” condannati dalla Chiesa (forse perché, come ho notato supra, § 3, è una sorta di sintesi di superbia e di invidia, oltre che di
altre colpe), e dunque non è annoverato neppure tra i peccati puniti da
Dante, anche perché si tratta di una colpa che, pur assai grave, è per così
dire aleatoria e soggettiva; ma neppure l’ignavia è elencata nel Catechismo tra i vizi “capitali” (a meno di considerarla un’aggravante dell’accidia), eppure il poeta le ha dedicato uno spazio significativo non tanto per
l’estensione, quanto per il valore emblematico della colpa, con ogni probabilità per le ragioni che abbiamo esposto al § 7.
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NOTE
1
Ricordiamone la definizione di Bernardo di Clairvaux, epist. 42 (1963: 119):
«Superbia est appetitus propriae excellentiae», e si veda ciò che, a proposito della
superbia, è detto nella Bibbia (Sir. 10, 7 ss.).
2
Tra gli studi più recenti sull’argomento cfr. Casagrande - Vecchio (1994),
Eaed. (2000), Galimberti (2003).
3
Nella tragedia greca, l’hýbris è un evento del passato che influenza negativamente i fatti presenti. È una “colpa” dovuta a un’azione che viola leggi divine
immutabili, ed è la causa per cui, anche a distanza di molto tempo, i personaggi
o i loro discendenti sono indotti a commettere crimini o a subire azioni malvagie.
Al termine hýbris viene spesso associato, come diretta conseguenza, quello di
némesis, che vale tra l’altro “vendetta degli dèi”, e che dunque si riferisce alla punizione giustamente inflitta dalla divinità a chi si macchia di tracotanza.
4
Cfr. Anonimo Fiorentino 1866: 43: «Chiamalo strupo, però che qualunque
sforza una vergine è detto questo peccato strupo; così Lucifero volle sforzare e
ledere la deità del cielo, la quale è incorrotta et immaculata»; anche Parodi 1957:
242-243 e 347.
5
L’ordine del Decalogo e la definizione dei comandamenti differisce nel Catechismo della Chiesa cattolica rispetto alla Bibbia (Es. 20, 2-17), dove, in particolare, «non rubare» occupa l’ottavo posto, e «non desiderare la donna d’altri»
e «non desiderare la roba d’altri» sono conglobati nel decimo: «Non desiderare
la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo
schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo».
6
Scrive infatti Giacalone in Alighieri 19682: 7: «È bene, qui, precisare subito
che si tratta di un simbolo e non di un’allegoria».
7
Cfr. Scartazzini in Alighieri 1874: 33: «Dante era conscio del proprio valore»; Steiner in Alighieri 1940: 248: «qui mostra di ritenersi superiore ai due ultimi»; Porena in Alighieri 19592: 230: «[...]; nello spirito, il vanto dei fatti narrati
è un vanto della propria fantasia e della propria arte superiore a quella dei due
poeti latini in episodi del genere: Lucano e Ovidio possono andare a riporsi!»; Sapegno in Alighieri 19943: 285: «il vanto di Dante, letteralmente inteso, si riferisce
soltanto alla superiorità dell’invenzione da lui elaborata rispetto a quelle di Lu-
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cano e di Ovidio: [...].È legittimo tuttavia riconoscervi anche una affermazione
consapevole di superiorità poetica [...]»; Giacalone in Alighieri (19682: 61): «[...],
ma forse, più esattamente, vuol precisare la consapevolezza di D. di essere
l’unico poeta nuovo degno di stare alla pari dei grandi classici»; etc.; vd. anche
Curtius (1956: 200).
8
Ricordo solo quello secondo cui, dovendo il comune di Firenze mandare una
missione diplomatica a Roma, ed essendo stato chiesto a Dante di far parte della
delegazione, egli avrebbe risposto: «Se vado, chi resta?; e se resto, chi va?».
9
Dante stesso si dichiara poco incline all’invidia – ma non del tutto esente da
essa – in Purg. XIII, 133-135: «“Li occhi”, diss’io, “mi fieno ancor qui tolti, / ma
picciol tempo, ché poca è l’offesa / fatta per esser con invidia vòlti”». Si veda la
chiosa di Benvenuto da Imola (1887), ad loc.: «Quasi dicat: in vita mea ego
parum volvi oculos invide ad respiciendum prosperitates hominum [...]; ego fui
semper modicum invidus, ideo faciliter et cito purgabor hic».
10
Cfr. Conv. IV, 13, 13: «E quanto odio è quello che ciascuno al possessore
de la ricchezza porta, o per invidia o per desiderio di prendere quella possessione!
Certo tanto è, che molte volte contra la debita pietade lo figlio a la morte del
padre intende».
11
Ricordo che la maggior parte dei dantisti associa la lonza alla lussuria (cfr.
infra, n. 12); ma alcuni avanzano il sospetto che essa sia l’allegoria dell’invidia:
per es., già nel Cinquecento Castelvetro (1886), ad loc.: «Nondimeno non gli dispiacque tanto l’invidia [...] quanto la superbia e l’avarizia, per ciò che l’invidia
ha coperta di bontà, avendo altri invidia spezialmente a color che sono eccellenti
per virtù e per bontà [...], similmente la superbia non lo contrasta tanto quanto
l’avarizia, parendogli che la superbia sia compagna della magnanimità»; diversi
nell’Ottocento, tra i quali Cipolla (1895: 103) nel secolo scorso, il più autorevole
sostenitore di questa interpretazione fu D’Ovidio (1931); tra i più recenti ricordiamo Gorni (2002); etc.
12
A cominciare dal Boccaccio (1965: 73): «Le quali [scil. fiere], quantunque
a molti e diversi vizi adattare si potessono, nondimeno qui, secondo la sentenzia
di tutti, par che si debbano intendere per questi, cioè per la lonza il vizio della lussuria e per lo leone il vizio della superbia e per la lupa il vizio dell’avarizia»; Ottimo (1827-29) ad loc.; etc.; nel XV sec. per es. C. Landino (1481) e (1536) ad
loc.: «Vuol Virgilio per Enea dimostrar che l’uomo possa arrivare al sommo bene,
e pone tre essere i principali incommodi i quali impediscono che non possiamo
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conseguire il nostro fine; dei quali il primo è la lussuria [...]: leonza è il piacere,
lupa è l’utile, leone è l’onore»; in epoche più recenti per es. Scartazzini in Alighieri (1874: 3), che, per avvalorare la sua interpretazione, cita e commenta confronti con un passo del Giardino di consolazione (cap. 8) del notaio duecentesco
Bono Giamboni: «Di questo vizio nasce cechità di mente, poca fermezza (= leggiera), subitezza (= e presta molto). [...]. La lussuria macchia l’anima, e il corpo
isconcia (= di pel maculato era coperta), la borsa vuota, toglie Iddio, offende il
prossimo e l’anima trae all’inferno (= impediva tanto il mio cammino, Che io
fui per ritornar più volte vòlto)»; Casini in Alighieri 19226, 18891: 11; ID., 1921:
9; Torraca in Alighieri 1915: 10; Mazzoni 1967: 9; Porena in Alighieri 19592:
16-17; Sapegno in Alighieri 19943: 8-9; Giacalone in Alighieri 19682: 7-9; etc. Per
una bibliografia – ancorché necessariamente incompleta e non aggiornata – sull’argomento, cfr. G. Ragonese 1970: 861.
13
Secondo l’autore, nella lonza va vista la «guelfa, astuta, ingegnosa Firenze»
dei tempi del poeta; etc.
14
Ora in Id. 1952, dove gli studi sulle fiere si trovano alle pp. 250-266; 390444; 1153-1173.
15
Introduzione al canto XIV: «All’ira folle del dannato si contrappone, con
pari rilievo, la giusta ira di Virgilio; la superbia del greco si rivela per quello che
essa è ormai, la rabbia impotente del vinto, e proprio in essa è il suo maggior castigo, anzi la sola pena adeguata alla sua follia».
16
Nota finale 1 al canto X.
17
N. a X, 13: «cimitero: è il termine esatto per indicare il vero contrappasso
degli eretici»; si veda anche l’esegesi dello Steiner in Alighieri 1940: 91: «Suo
cimitero: in questa parola è la ragione stessa della pena, che non è che un’applicazione rigorosa della dottrina di costoro che furono morti in vita, in quanto dissentirono dalla dottrina di Cristo. Questo può dirsi di tutti, ma più rigorosamente
degli epicurei, i quali, praticando la opinione che l’anima muoia col corpo e che
quindi tutto finisca nel sepolcro, hanno in queste arche infocate la pena perfettamente e ironicamente corrispondente alla loro dottrina. Hanno cioè, ma in modo
ben più amaro, quello che avevano creduto che dovesse essere di loro, dopo la
morte».
18
Cfr. la celebre frase «Deus sive natura» di B. Spinoza, il quale – oltre quattro
secoli dopo Dante – illustrò questo concetto sostenendo che, essendo unica la
sostanza, Dio e le cose che da lui necessariamente derivano sono la stessa realtà,
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pur considerata sotto due diversi aspetti. Se Dio e la natura coincidono, non c’è
differenza tra Dio e tutte le cose, il che equivale a dire che al di fuori di Dio non
esiste nulla che possa in qualche modo costituirne un limite.
19
Come troviamo precisato da Virgilio, Aen. 2, 165 ss.: «fatale adgressi sacrato
avellere templo / Palladium caesis summae custodibus arcis / corripuere sacram
effigiem manibusque cruentis / virgineas ausi divae contingere vittas».
20
Al suicidio di Cleopatra si accenna in Par. 6, 76-78: «Piangene ancor la
trista Cleopatra, / che, fuggendoli innanzi, dal colubro / la morte prese subitana
e atra».
21
Per questo aspetto cfr. i miei articoli Perotti 2005, Perotti 2006, Perotti 2007.
22
Non per caso, nella canzone Così nel mio parlar voglio esser aspro (dalle
Rime petrose), vv. 36-38, Dante aveva attribuito ad Amore la causa del suicidio
di Didone: «E’ m’ha percosso in terra, e stammi sopra / con quella spada ond’elli
ancise Dido, / Amore [...]».
23
Qualcosa di simile accade per avari e prodighi: nell’Inferno non sono nominati personaggi puniti per questi peccati (omissione giustificata da Virgilio con
le parole: «la sconoscente vita che i fé sozzi / ad ogne conoscenza or li fa bruni»
[VII, 54]), ma nel cerchio relativo incontriamo soltanto il dio greco della ricchezza, Pluto – chiamato dalla guida di Dante «maladetto lupo» (Inf. VII, 8) –,
qui «simbolo di quella brama di ricchezza, che è la maggior nemica della felicità
umana e dell’ordine sociale» (Sapegno in Alighieri 19943: 77, introd. al canto
VII): certamente Dante aveva in mente l’invettiva virgiliana quid non mortalia
pectora cogis, / auri sacra fames! (Aen. 3, 56-57). Invece nel Purgatorio è ricordato un esempio di avarizia (Ugo Ciappetta [Capeto], Purg. XX, 40 ss.) e uno di
prodigalità (Stazio, Purg. XXII, 27 ss.).
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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ALIGHIERI, D. (1915): La Divina Commedia, nuovamente commentata da
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dal Codice francofortese arci-ß, a c. di F. Schmidt-Knatz, Frankfurt
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