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RASSEGNA STAMPA
lunedì 4 maggio 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
WELFARE E SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
CULTURA E SPETTACOLO
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da il Mattino del 03/05/15
Cinema documentario a Napoli, gli
appuntamenti di maggio
A maggio raddoppiano gli appuntamenti con il cinema documentario a
cura di Arci Movie, Parallelo 41, COINOR e Università degli Studi di
Napoli Federico II presso il cinema Astra di via Mezzocannone a Napoli.
Dal 4 al 18 maggio, ogni lunedì, la terza edizione de ‘Il Mese del Documentario’,
organizzata da Doc/it, amplierà l’offerta del cinema documentario a Napoli proponendo
uno sguardo d’eccezione sul cinema del reale contemporaneo, sulle sue storie e sui suoi
modi di raccontare, in collaborazione con ‘Astradoc – Viaggio del cinema del reale’. La
manifestazione propone il meglio del documentario italiano con 70 proiezioni
contemporaneamente in 14 città, in Italia e in Europa. Roma, L’Aquila, Bari, Milano,
Napoli, Nola, Noto, Nuoro, Palermo, Trieste e per l’estero Berlino, Grenoble, Londra e
Parigi.
Un intero mese in cui saranno proiettati i cinque film finalisti che concorrono al Doc/it
Professional Award per il miglior documentario dell’anno. Protagonista anche il pubblico di
tutte le 14 città coinvolte che sceglierà il miglior documentario italiano dell’anno
esprimendo il proprio voto alla fine di ciascuna proiezione. Il Mese del documetario è
un'iniziativa di Doc/it - Associazione Documentaristi Italiani promossa insieme a 100 autori,
con il sostegno del MiBACT – Direzione Generale Cinema e in collaborazione con il
Centro Sperimentale di Cinematografia e la Casa del Cinema di Roma, gli Istituti di Cultura
di Berlino, Londra e Parigi.
Il primo appuntamento a Napoli presso il cinema Astra è previsto lunedì 4 maggio con il
film STOP THE POUNDING HEART di Roberto Minervini (alle 19.30), che porta sullo
schermo il delicato ritratto di Sara, primogenita di una numerosa famiglia di allevatori del
Texas cresciuta secondo i precetti della Bibbia. Quello di Minervini è, più in generale, un
film sull’esplorazione dell’adolescenza, della famiglia e dei valori sociali, dei ruoli di genere
e della difficile convivenza fra giovinezza e religione nell’America rurale. Minervini, tra
l’altro, è tra gli italiani attualmente in concorso a Cannes nella sezione ‘Un certain regard’
con il film LOUISIANA.
A seguire (ore 21.00), SMOKINGS di Michele Fornasero che sarà presente in sala per
incontrare il pubblico. Stile gangster movies racconta la sfida alle multinazionali del
tabacco dei fratelli Messina, dall’inizio del loro business online nel 2000 alla fondazione nel
2013 di Yesmoke, unica fabbrica di sigarette in Italia, testimoniata da numerose interviste
raccolte nei quattro anni di lavorazione, dall’ex Presidente dell’UE Romano Prodi
all’economista Fariborz Ghadar. Le lotte dei fratelli Messina sono tuttora in divenire: nel
novembre del 2014 sono stati arrestati con l’accusa di contrabbando di tabacchi lavorati
ed evasione fiscale per 90 milioni di euro.
Nella stessa serata di lunedì 4 maggio inoltre, sarà presentato al pubblico il videoclip
ESAME del rapper napoletano Dope One (Ivan Rovati De Vita) tratto dal nuovo disco
DOPERA prodotto dall’etichetta indipendente made in Naples Jesce Sole e realizzato dai
giovani allievi del Progetto FILMaP – Centro di formazione e produzione a Ponticelli Dario Cotugno e Claudia D’Angelo.
Dietro questa scelta c’è la volontà precisa da parte della produzione e dell’artista di dare la
possibilità a giovani di poter esprimere il proprio talento e nello stesso tempo affacciarsi
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nel mondo del lavoro grazie a nuove esperienze professionali piuttosto che rivolgersi a
registi affermati. Il Progetto FILMaP, a cura di Arci Movie e sostenuto da Fondazione CON
IL SUD, nell’ambito del bando “Progetti Speciali” e Innovativi 2010”, si pone l’obiettivo di
costruire un centro di formazione e produzione cinematografica stabile nella periferia
orientale della città.
Saranno presenti l’artista, i giovani registi e la produttrice Fiorita Nardi.
Gli appuntamenti proseguiranno lunedì 11 maggio con SACRO GRA di Gianfranco Rosi
(ore 19.30), opera simbolo per gli amanti e i professionisti del settore per la sua storica
vittoria del Leone d’Oro alla 70ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. A
seguire, alle 21.00, THE STONE RIVER di Giovanni Donfrancesco, vincitore di numerosi
premi tra cui il Globo d’Oro al miglior documentario. In un’inquietante e poetica
trasposizione della storia degli abitanti di un piccolo paese del Vermont che offrono la loro
voce ai tagliatori di pietra europei immigrati lì all’inizio del ventesimo secolo.
E ancora, lunedì 18 maggio, ore 21,00, DAL PROFONDO di Valentina Pedicini che
racconta la vita e le lotte di Patrizia, unica minatrice in Italia a scendere 500 metri sotto il
livello del mare mostrando come a centinaia di metri sotto la terra si nasconda la vita.
Presentato in anteprima al Festival Internazionale del Film di Roma 2013 ha vinto il premio
come Miglior Documentario.
Con la programmazione del ‘Mese del Documentario’, sempre al cinema Astra,
proseguono anche gli appuntamenti del venerdì di ‘Astradoc – Viaggio nel cinema del
reale’, la ormai consolidata rassegna sul cinema documentario d’autore con anteprime,
testimonianze e incontri con gli autori che da gennaio offre al pubblico partenopeo una
selezione dei migliori documentari napoletani, italiani e dal mondo.
Venerdì 8 maggio serata speciale con il cinema di Joshua Oppenheimer per una doppia
proiezione: THE ACT OF KILLING (105’) e THE LOOK OF SILENCE (99’), Gran premio
della giuria a Venezia.71.
Interverrà in sala Antonia Soriente - Docente di Lingua e letteratura indonesiana
dell’Università di Napoli 'L'Orientale'.
Venerdì 15 maggio serata tutta partenopea con il documentario INSTABILE (50’) di
Alessandro Chetta sulla ‘leggendaria’ figura di Michele Del Grosso, impresario teatrale che
gestisce lo storico TIN, il teatro sotterraneo in vico fico al Purgatorio, nel ventricolo
millenario di Napoli.
A seguire LA MALATTIA DEL DESIDERIO (52’) della giovane filmmakers, allieva di
FILMaP- Atelier del Cinema del Reale, Claudia Brignone, ambientato nel quartiere
Fuorigrotta dove, a parte lo stadio San Paolo, anzi esattamente sotto la curva A, sorge il
ser.t: servizio per le tossicodipendenze. In questo quartiere, che la domenica si popola di
tifosi, c'è un luogo che custodisce le storie di medici e pazienti. Il film dà voce a chi prova a
uscire dalla “dipendenza”, definita dai medici “la malattia del desiderio”, per la quale
ognuno sembra avere la sua terapia, anche se spesso si rivela soltanto un tentativo.
Infine RUSTAM CASANOVA (52’) di Lorenzo Cioffi e Alessandro De Toni sull’artista
Rustam Duloev, in arte “Casanova”, un personaggio dai mille volti, senza fissa dimora, a
volte gigolò, altre padre di famiglia, ma soprattutto artista.
Venerdì 22 maggio, Daniele Gaglianone sarà ospite di ‘Astradoc’ con il suo ultimo lavoro,
presentato al TFF, QUI (120’), racconto in soggettiva di dieci valsusini che da 25 anni si
oppongono con tenacia al progetto Tav Torino-Lione: cittadini qualsiasi che hanno scelto
di lottare, ogni giorno. Dieci ritratti che raccontano la stessa amara scoperta: il tradimento
della politica nazionale, accusata di aver abbandonato questa gente al loro destino,
lasciandola sola a vedersela con la polizia antisommossa.
Precede la proiezione del film, il cortometraggio di Massimiliano Pacifico
CENTOQUATTORDICI (11’) sull'omicidio assurdo di una ragazza di 22 anni, Gelsomina
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Verde, centoquattordicesima vittima della Camorra, finita per amore nella brutale lotta fra
clan.
La rassegna ‘Astradoc – Viaggio nel cinema del reale’ 2015 chiuderà in grande con una
serata speciale venerdì 29 maggio: ospite d’eccezione Erri De Luca che accompagnerà in
sala il film LA MUSICA PROVATA di Emanuela Sana (ore 18.00).
Alle 20.30, sempre venerdì 29 maggio, l’attrice e regista Valentina Carnelutti, sarà
presente in sala per presentare il suo pluripremiato cortometraggio RECUIEM (20’) e per
finire, alle 21.00, IS THE MAN WHO IS TALL HAPPY di Michel Grondy che attraverso
illustrazioni, fantasiose tecniche d’animazione e riprese in 16mm, anima una
conversazione con Noam Chomsky, professore del MIT, libero pensatore e padre della
linguistica moderna.
http://www.ilmattino.it/napoli/cultura/cinema_documentario_a_napoli_gli_appuntamenti_di
_maggio/notizie/1332024.shtml
Da Redattore Sociale del 02/05/15
Carcere. La denuncia di Articolo 27:
"Smantellato il teatro-università di Rebibbia"
Trasferiti i detenuti attori della compagnia che aveva ispirato "Cesare
deve morire". Marroni: "Scelta sbagliata, che rischia di scrivere la
parola fine ad una grande esperienza umana ed artistica. Trasferiti
anche detenuti iscritti all'università"
Roma - "Nonostante le rassicurazioni del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria
un ulteriore colpo arriva a quel sistema di attività ricreative e trattamentali che aveva fatto
dell'alta sicurezza di Rebibbia nuovo complesso un esempio per le carceri di tutta Italia.
Nelle ultime ore, infatti, è stata diffusa la notizia del trasferimento ad Asti, "per motivi di
sfollamento", di un altro detenuto storico della sezione: Antonio Giannone, presidente del
circolo interno Arci Uisp, attore e studente universitario. La notizia è stata confermata da
Angiolo Marroni, già Garante dei detenuti del Lazio, oggi presidente della neonata
associazione onlus Articolo 27, dedicata alla tutela dei diritti delle persone sottoposte a
limitazioni della liberta' personale". Lo denuncia Articolo 27.
Poi: "Nelle scorse settimane Marroni aveva denunciato lo sfollamento di 5 detenuti storici
dell'alta sicurezza di Rebibbia fra i quali il capocomico della compagnia teatrale Liberi
artisti associati, Antonio Frasca (trasferito a Parma, dove è tutt'ora recluso). L'esperienza
della compagnia aveva ispirato il film "Cesare deve morire" dei fratelli Taviani, vincitore 3
anni fa dell'Orso d'oro al festival di Berlino, con i detenuti chiamati ad interpretare se
stessi".
Angiolo Marroni dice: "Un mese fa avevo denunciato quella che reputavo fosse una scelta
sbagliata, che rischiava di scrivere la parola fine ad una grade esperienza umana ed
artistica. Peraltro, sono stati trasferiti anche detenuti iscritti all'università. Una decisione
poco comprensibile, visto che il ministero ha indicato l'alta sicurezza di Rebibbia come
riferimento nazionale per i detenuti che intendono frequentare corsi universitari.
L'intervento ufficiale dei vertici del Dap sembrava aver scongiurato questa minaccia, ma la
mancata revoca dei trasferimenti gia' decisi e oggi lo sfollamento del presidente del circolo
Arci ripropongono da capo la questione".
Marroni contesta la logica dei trasferimenti: "Non sono contrario agli sfollamenti, purché
fatti con raziocinio e nel rispetto dei diritti dei reclusi. Nel caso di specie, con il generico
riferimento ad operazioni di messa in sicurezza si giustifica un'operazione senza
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fondamento che, di fatto, scrive la parola fine ad un'esperienza trattamentale coraggiosa e
ricca di risultati. Il nodo non e' solo spostare per motivi burocratici detenuti da una parte
all'altra d'Italia per far quadrare i conti rispetto ai dettami di Strasburgo. Questi
trasferimenti decapitano un sistema che funziona e vanno a punire persone detenute da
tempo a Rebibbia nuovo complesso, che avevano fatto del teatro e dell'universita' una
ragione di riscatto personale e sociale".
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 04/05/15, pag. 17
Terzo settore. Da dopodomani l’ottavo Festival dei professionisti della
categoria
Dalle Onlus agli enti pubblici il fundraising
prende quota
Organizzazioni pronte a investire nei rapporti con i donatori
Ottanta relatori, 124 ore complessive di lavori, 60 fra incontri e workshop, 700 partecipanti:
con questi numeri si ripropone, da dopodomani 6 maggio a venerdì 8, il Festival del
fundraising italiano, evento annuale di riferimento per il variegato mondo di professionisti
che, nell’ambito non profit ma anche presso enti pubblici, istituzioni scolastiche e sanitarie,
si occupano dei rapporti con i donatori. L’appuntamento, giunto all’ottava edizione,
conferma il proprio appeal, soprattutto perché, come ricorda Valerio Melandri, docente
universitario, direttore scientifico del centro studi Philanthropy e ideatore della
manifestazione, «il Festival nasce dall’esigenza di aggiornamento continuo degli addetti ai
lavori e riesce a presentare un panorama completo, sia nazionale che internazionale, delle
tecniche di raccolta fondi per ciascun ambito e modalità prescelta».
Non a caso, il programma affianca momenti di dibattito a workshop squisitamente
seminariali, proponendosi nel complesso come un’opportunità di formazione e
aggiornamento. Tra le novità di quest’anno, oltre a un inedito talk show iniziale, anche un
Forum dedicato alle piccole organizzazioni, nelle quali la funzione di fundraising è, per
ovvie ragioni dimensionali, meno strutturata e professionalizzata. Ulteriori focus saranno
dedicati alle fondazioni internazionali (si veda la scheda qui sotto), al crowdfunding e alle
raccolte online per gli atenei. Senza dimenticare il Fundraising Award, riconoscimento
promosso dall’Assif, sigla nazionale dei professionisti del settore, che anche quest’anno
premierà i vincitori delle due categorie dei fundraiser e dei donatori.
All’appuntamento la comunità degli addetti alle raccolte fondi si presenta con forti
aspettative, sia per la crescente propensione delle organizzazioni a migliorare i rapporti
con i donatori attraverso investimenti in risorse qualificate, sia per l’innegabile processo di
consolidamento della professione in corso già da qualche anno.
«Ormai - osserva Melandri - ben l’84% dei fundraiser è a retribuzione fissa, solo il 3% è
pagato in percentuale sui fondi raccolti e il rimanente 13% beneficia di formule miste, ossia
fisso più bonus in caso di raggiungimento degli obiettivi».
Il recente “censimento” dei fundraiser (si veda Il Sole 24 Ore del 9 marzo scorso) ha
stimato in circa 2mila i professionisti a tempo pieno, ma sul fronte delle raccolte sarebbero
in realtà impegnati a diverso titolo non meno di 50mila persone, stima a dir poco
prudenziale se si considera che le organizzazioni non profit censite dall’Istat sono oltre
300mila.
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ESTERI
del 04/05/15, pag. 16
«Tel Aviv non è Baltimora». L’ira anti polizia
degli etiopi d’Israele
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME «Siamo neri, ma questa non può
essere Baltimora». È infatti il pezzo di autostrada più trafficato attorno a Tel Aviv, il
simbolo del legame della città con il resto del Paese. Quel legame che gli ebrei etiopi non
sentono più o non hanno mai sentito.
Gli slogan denunciano il razzismo dei poliziotti, chiedono l’intervento dei politici. Perché la
comunità si sente esclusa, dalle scuole o dai posti di lavoro migliori. Esclusa e minacciata.
Le proteste (la prima manifestazione è stata a Gerusalemme) sono cominciate dopo che
settimana scorsa è stato diffuso un video girato da una camera di sicurezza: Damas
Pakedeh, un soldato etiope in divisa, è fermo appoggiato alla sua bicicletta, un poliziotto
gli ordina di spostarsi perché nella zona c’è un pacco sospetto. Quando il ragazzo non si
muove, lo spinge e gli tira una ginocchiata. Il militare reagisce, non vuole restare a terra,
prende una pietra, l’agente allunga la mano verso la pistola.
Il poliziotto adesso è stato sospeso. Ma i leader della comunità sono sicuri che senza il
filmato in carcere sarebbe finito il ragazzo: «È una pentola a pressione che sta esplodendo
— spiega Inbal Bogale, una delle organizzatrici dei cortei —. La polizia incrimina i giovani
etiopi senza ragione e rovina le loro vite. Con quella macchia non possono più trovare un
lavoro decente, entrare nelle unità combattenti dell’esercito». Chiede che il poliziotto
venga processato: «I violenti devono essere condannati».
Le squadre antisommossa hanno permesso che i manifestanti occupassero l’autostrada
per qualche ora. Gli agenti etiopi non sono stati schierati per evitare «che si sentissero in
difficoltà» come ha detto uno dei comandanti. Verso il tramonto è arrivato l’ordine di
sgombrare. I dimostranti lasciano l’autostrada, si spostano verso il centro e bloccano le vie
attorno a piazza Rabin. Gli scontri cominciano nel quadrato delle manifestazioni pacifiste:
lacrimogeni, granate assordanti, le cariche dei poliziotti a cavallo, l’assalto del corteo verso
il palazzo del sindaco.
Davide Frattini
del 04/05/15, pag. 19
Raif Badawi è da tre anni in prigione per aver chiesto la separazione fra
Stato e religione. Per lui si sono mobilitati politici, intellettuali e
organizzazioni internazionali. Nella giornata mondiale per la libertà di
stampa racconta: “Io, umiliato davanti alla folla come punizione per ciò
che ho scritto”
L’appello dal carcere del blogger perseguitato
“Le frustate non fermeranno la mia lotta per i
diritti”
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RAIF BADAWI
Pochi giorni dopo quell’esperienza, dovevo ricevere una notizia che avrebbe trasformato
per me quel mondo di criminali in un vero paradiso: un paradiso con condizioni particolari,
rispondenti ai miei personali criteri. Quando Enaf, la mia amatissima moglie, mi ha detto
che un’importante casa editrice tedesca aveva raccolto e fatto tradurre i miei articoli per
farne un libro, ho reagito dapprima con molto scetticismo. Sinceramente, devo dire che
quando scrissi il mio primo blog non avrei mai immaginato di vedere un giorno i miei
articoli raccolti e pubblicati in arabo — e men che meno in un’altra lingua!
Cara lettrice, caro lettore: se siete arrivati fin qui, vuol dire che siete interessati a leggere
quanto ho da dire. C’è veramente chi pensa che io abbia qualcosa da dire. Mentre per
tanti altri sono semplicemente un uomo comune, uno che non merita di vedere i suoi blog
tradotti e pubblicati in un libro. Quanto a me, mi vedo semplicemente come un uomo esile
ma tenace, sopravvissuto miracolosamente a cinquanta colpi di frusta, subiti davanti a una
folla giubilante che urlava Allahu akbar : tutto questo a causa dei miei articoli.
Il tribunale mi aveva condannato a morte, vista la «gravità dell’apostasia e dell’offesa
all’Islam» di cui ero incolpato. Poi la mia pena è stata commutata a 10 anni di carcere,
mille frustate e una gravosa multa, di un milione di riyal. Oggi, nel momento in cui scrivo
per voi queste righe, ho subito le frustate e scontato tre anni di carcere: mia moglie,
sottoposta a pressioni sempre più forti, è stata costretta ad emigrare all’estero coi nostri
tre figli.
Tutte queste crudeli sofferenze sono state inflitte a me e alla mia famiglia per la sola colpa
di aver espresso la mia opinione.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
MI ERO assegnato il compito di proporre una nuova chiave di lettura del liberalismo in
Arabia Saudita, per dare un contributo all’emancipazione della società nel mio Paese. Ho
cercato di abbattere i muri dell’insipienza e la sacralità del clero, di diffondere un po’ di
pluralismo e di rispetto per valori quali la libertà d’espressione, i diritti delle donne, delle
minoranze e dei nullatenenti in Arabia Saudita: è stata questa la mia vita, fino al mio
arresto nel 2012, quando sono finito in una cella, in mezzo a gente incarcerata per i crimini
più diversi. Dagli assassini ai ladri, ai trafficanti di droga, fino ai pedofili, stupratori di
bambini. La vita accanto a loro mi ha cambiato per molti aspetti, soprattutto sul piano
puramente umano, cancellando molti dei miei precedenti stereotipi.
Immaginate di trascorrere la vostra vita quotidiana, fin nei suoi minimi dettagli, in una
stanza di appena venti metri quadrati, condivisi con altre trenta persone incolpate di ogni
possibile atto criminale.
In passato, prima di coricarmi avevo l’abitudine, probabilmente molto comune, di
accertarmi che tutte le porte e finestre fossero ben chiuse, per timore dei delinquenti.
Mentre ora vivo in mezzo a loro! Dormo, mangio, mi lavo, mi cambio, rido, piango, gioisco,
mi arrabbio o grido … sempre in mezzo a loro, sotto i loro occhi. Dopo molti tentativi di
abituarmi a vivere tra queste persone, ho fatto uno sforzo consapevole per vederle da un
punto di vista diverso e solo dopo qualche tempo ho avuto la certezza che anche i
criminali sanno ridere! Sì, anche loro amano, soffrono, e alcuni danno prova di una
delicatezza, di una sensibilità umana così straordinaria che a volte soffro profondamente
nel compararla a quella delle persone “normali” che un tempo mi erano vicine.
Recentemente, entrando in uno dei gabinetti, lo trovai cosparso di carta igienica lurida,
con le pareti inzaccherate, la porta sconnessa, pieno di sporcizia ovunque: uno spettacolo
angoscioso. Ma tant’è: dovevo pur ritrovarmi in quel caos, gestire al meglio la situazione.
Mentre mi concentravo a decifrare le centinaia di scritte che imbrattavano quelle pareti
appiccicose, mi saltò agli occhi una frase: «Il secolarismo è la soluzione!» Fui sopraffatto
da uno sconfinato stupore. Mi sfregai gli occhi per convincermi che quella scritta esisteva
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davvero. Era come se in un misero locale notturno, in mezzo a un assembramento di
squallide ragazze in vendita, entrasse improvvisamente, al tocco della mezzanotte, una
bellissima dispensatrice d’amore, irradiando vita e gioia intorno a sé.
Non saprei dire tutto ciò che in quel momento mi passò per la testa, né perché mi fosse
venuta in mente quell’immagine. A quanto pare, in questo nuovo tipo di vita l’uso di un
cesso diverso può cambiare il destino. Le idee sfrecciavano nella mia mente mentre
procedevo all’incombenza per la quale ero lì. Sorridendo, incominciai a riflettere su chi
potesse essere l’autore di quella scritta, in quel carcere stracolmo di migliaia di
delinquenti, condannati per reati comuni. Quella breve frase, così bella, così diversa, mi
aveva riempito di stupore e di gioia. Se mi era dato di leggere quelle parole tra centinaia di
volgarità in tutti i dialetti arabi possibili e immaginabili, di cui erano gremite le luride pareti
di quel gabinetto, voleva dire che in questo carcere c’era da qualche parte almeno una
persona capace di capirmi. Qualcuno che comprendesse le ragioni per le quali avevo
lottato ed ero stato rinchiuso qui.
del 04/05/15, pag. 16
La sfida delle madri dei miliziani Isis
«Il Califfo non avrà i nostri fragili figli»
Marta Serafini
«Perché?». Christianne Boudreau, 45 anni, canadese, di Calgary, da più di un anno vive
con un interrogativo che le martella in testa. Suo figlio maggiore Damian è morto in Siria a
soli 22 anni e ora un punto di domanda le si stringe intorno al collo, come un cappio che
non la fa respirare e le toglie il sonno.
È il novembre 2012 quando Damian le comunica che ha deciso di lasciare il Canada per
andare in Egitto a studiare l’arabo. «A 17 anni aveva avuto un lungo periodo di
depressione», racconta Christianne in una lunga conversazione su Skype. Uscito
dall’ospedale il ragazzo sembra trovare un po’ di pace nell’Islam, si converte. «Siamo una
famiglia cattolica ma lui cercava qualcosa di diverso. Ed io ero felice, perché finalmente lo
vedevo stare bene di nuovo».
Per un po’ le cose sembrano andare bene. Ma ad un certo punto Damian si trasferisce in
un’altra parte di Calgary, e cambia moschea, trova un uomo che gli passa dei testi diversi
dal Corano e si unisce a un gruppo di giovani. Christianne non immagina che suo figlio stia
iniziando a radicalizzarsi. Nel frattempo i telegiornali trasmettono le immagini che arrivano
dalla Siria. Persone torturate, uccise, stuprate. E per Damien la responsabilità è del
regime di Assad.
All’inizio del 2013 due agenti del Csis (i servizi canadesi) bussano alla porta della donna.
«Mi dissero che stavano tenendo d’occhio Damian da due anni. E che lui aveva passato il
confine tra la Siria e la Turchia, dopo aver trascorso un periodo in un campo di
addestramento». Il mondo le crolla addosso. Damian non è andato a studiare l’arabo.
Prima si è arruolato con Al Nusra, il fronte jihadista vicino ad Al Qaeda. Poi, nell’estate del
2013 è passato con Isis. Da quel momento Christianne trascorre le notti e i giorni seduta al
computer nella stanza del figlio guardando i video di guerra su YouTube e cercando
invano di scorgere il suo volto, solo per capire se sia vivo. Ogni tanto riesce anche a
parlare con lui al telefono.
«Ero terrorizzata, spesso cadeva la linea per le bombe». Si scambiano messaggi su
Facebook. Lei cerca di convincerlo a tornare a casa. Lui risponde che vuole salvare il
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mondo da Assad. E cerca anche di reclutare la sorella minore di 13 anni. «Una notte,
erano le dieci del 14 gennaio 2014, ho ricevuto una telefonata di un giornalista». Su
Twitter era comparso un elogio funebre in cui era citato Abu Tahla Al Canadi.
Abu Tahla è Damian Clairmont. Ed è morto a 22 anni in combattimento ad Hrytan nei
sobborghi di Aleppo, sotto la bandiera nera dello Stato Islamico, negli scontri con il Free
Syrian Army.
Oggi Christianne ha deciso di reagire e lottare contro Isis. «Durante tutto il periodo in cui
Damian era vivo nessuno mi ha spiegato cosa dovevo dirgli per convincerlo a tornare».
Dopo l’attentato di Ottawa il governo canadese ha deciso di seguire la linea dura e ha
inasprito le leggi contro il terrorismo. Ma secondo Christianne la strada è un’altra, un
network di madri di foreign fighters e ragazzi a rischio. «Un grande ombrello», lo chiama
lei. «Mothers for Life» per il momento conta una dozzina di membri in tutto il mondo.
Donne che si parlano via chat, via mail. Ad aiutarle anche esperti internazionali di
radicalizzazione, come il tedesco Daniel Koehler. «Convincere i figli a tornare indietro è
davvero difficile: da un lato sanno che li aspetta la prigione, dall’altro hanno il terrore di
disertare per paura di essere giustiziati da Isis», confermano entrambi. Più «facile» allora
dissuadere i ragazzi dalla partenza e imparare a riconoscere i segnali. «Nella cultura
islamica la figura della madre è centrale, dobbiamo fare leva su questo. Isis usa la
religione in modo strumentale per fare breccia nella mente e nel cuore delle persone, noi
dobbiamo impedirglielo», conclude Christianne. Cui è rimasta una sola certezza: «Che
tutto ciò non ha nulla a che fare con Dio o con Allah».
del 04/05/15, pag. 25
LA TROIKA E I DIRITTI UMANI
LUCIANO GALLINO
LA gestione delle crisi nell’Unione Europea ha condotto a massicce violazioni di diritti
umani. Inoltre il modo in cui le crisi sono state gestite ha esposto una serie di buchi neri
quando si tratta di individuare le responsabilità per la violazione di diritti umani». Lo ha
scritto di recente una giurista del Centro per lo Studio dei Diritti umani della London School
of Economics, Margot E. Salomon. Il suo saggio è uno dei più approfonditi finora apparsi
sul tema, dopo quello del 2014 di Andreas Fischer-Lescano, docente a Brema (“Diritti
umani ai tempi delle politiche di austerità”). I tagli a sanità, pensioni, stipendi, diritti del
lavoro, istruzione, servizi pubblici imposti da Commissione Europea, Fmi e Bce a Grecia,
Spagna, Portogallo, Irlanda, Italia e altri paesi hanno inflitto gravi privazioni a milioni di
persone. È sempre più evidente che le istituzioni Ue e il Fmi non avevano il diritto di
compiere azioni del genere. Non soltanto: si può sostenere che compiendole hanno violato
dozzine di articoli di patti, trattati, carte e convenzioni sottoscritti da esse medesime, a
cominciare dal Trattato fondativo dell’Unione.
Vediamo qualche caso. Tra i diritti legalmente sanciti dalla Carta Sociale Europea
(versione riveduta del 1996) figurano i seguenti: «Tutti i lavoratori hanno diritto a un’equa
retribuzione che assicuri a loro e alle loro famiglie un livello di vita soddisfacente» (art. 4);
«I bambini e gli adolescenti hanno diritto a una speciale tutela contro i pericoli fisici e
morali cui sono esposti» (art. 7); «Ogni persona ha diritto di usufruire di tutte le misure che
le consentano di godere del migliore stato di salute ottenibile» (art. 11); «Tutti i lavoratori e
i loro aventi diritto hanno diritto alla sicurezza sociale» (art. 12); «Ogni persona sprovvista
di risorse sufficienti ha diritto all’assistenza sociale e medica» (art. 13); «Ogni persona
anziana ha diritto ad una protezione sociale» (art. 23); «Tutti i lavoratori hanno diritto ad
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una tutela in caso di licenziamento » (art, 24); «Ogni persona ha diritto alla protezione
dalla povertà e dall’emarginazione sociale» (art. 30).
Si potrebbe continuare citando articoli analoghi del Patto Internazionale sui Diritti
Economici, Sociali e Culturali (New York 1966); della Carta dei Diritti Fondamentali
dell’Unione Europea; di una mezza dozzina almeno di Convenzioni dell’Organizzazione
Internazionale del Lavoro, dal 1948 in avanti. Per finire magari con l’articolo 7 dello Statuto
di Roma della Corte penale internazionale, intitolato “Crimini contro l’umanità”, che al
comma “k” recita: «Altri atti inumani di carattere simile che causano intenzionalmente
grande sofferenza, o seria menomazione al corpo o alla salute mentale o fisica».
Allo scopo di portare la Commissione, la Bce e il Fmi davanti alla Corte di Giustizia
dell’Unione Europea, o alla Corte penale internazionale, e perché no qualche governo
europeo, affinché rispondano delle violazioni dei diritti umani delineate sopra, vi sarebbero
diversi punti critici da affrontare. I rapporti menzionati all’inizio scartano subito l’argomento
principe dei fautori dell’austerità: le ristrettezze inflitte alle popolazioni Ue sarebbero state
necessarie a causa della crisi finanziaria, l’urgenza di migliorare lo stato dei bilanci
pubblici, il dovere degli stati debitori di ripagare i creditori. Le violazioni dei diritti umani,
anche se comprovate, sarebbero quindi giustificate dalla situazione di emergenza, ovvero
dallo “stato di eccezione” in cui versa o versava l’intera Ue. Tuttavia, se si accetta questo
punto di vista, ha scritto un altro giurista (Paul Kirchhof), l’Europa intera, quale comunità
fondata sul primato della legge, sarebbe privata della sua ragion d’essere. L’effetto
sarebbe che nessun capo di Stato o ministro o membro del parlamento potrebbe
intraprendere azioni vincolanti che riguardassero i cittadini, poiché il loro mandato ha una
base legale: però la legge non esisterebbe più. Per cui il sistema legale europeo non può
cedere il passo dinanzi a un presunto stato di emergenza, conclude il rapporto di Brema,
ovvero non può che un sistema di competenze legali sia soppiantato da pratiche
considerazioni politiche.
Un secondo punto critico riguarda l’individuazione dei soggetti responsabili delle violazioni
dei diritti umani. Il principale strumento utilizzato nella Ue per imporre a un paese dure
politiche di austerità ha preso in genere forma di un “Memorandum di intesa” (sigla inglese
MoU), un documento che elenca in modo ossessivamente dettagliato le decurtazioni che
un paese deve effettuare alla propria spesa pubblica per potere ottenere determinate
concessioni dalla Troika. Su un piano affine ai MoU si collocano le lettere-diktat inviate da
istituzioni europee a stati membri. Sia nella formulazione che nell’esecuzione, i MoU e
affini sono opera di diversi soggetti, le cui rispettive responsabilità sarebbero da accertare.
Tra di essi non rientra la Troika, poiché non ha personalità giuridica. Vi rientrano invece gli
stati membri con i loro governi, il Fmi, la Bce, la Commissione Europea.
Si aggiunga che la responsabilità di tali soggetti nell’infliggere sofferenze a milioni di
cittadini, violando i diritti umani riconosciuti dalla stessa Ue, è aggravata dal fatto che le
politiche di austerità che hanno veicolato le violazioni si sono rivelate un fallimento totale.
Dopo cinque anni, nei paesi destinatari dei MoU e delle lettere stile militare della Bce la
disoccupazione è cresciuta a dismisura, la povertà assoluta e relativa anche, il Pil è
diminuito di decine di punti, la struttura industriale è stata compromessa — vedi il caso
Italia — e ad una intera generazione di giovani è stato rubato in gran parte il futuro. Per cui
le suddette politiche non possono venire invocate come circostanze attenuanti.
Se le istituzioni della Ue e i loro dirigenti fossero riconosciuti responsabili dall’una o
dall’altra Corte europea di violazione dei diritti umani e delle estese sofferenze che hanno
provocato, non correrebbero certo il rischio di serie penalità. Ma sarebbe quanto meno un
riconoscimento ufficiale di un fatto inaudito: milioni di vittime della crisi apertasi nel 2008
sono state chiamate, tramite le politiche di austerità, a pagare i danni della crisi da quelli
stessi che l’hanno provocata, a cominciare dai loro governanti nazionali e internazionali.
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INTERNI
del 04/05/15, pag. 6
Voto segreto e Aventino ma l’Italicum è al
traguardo Letta guida i ribelli del Pd
L’ex premier: legge simile al Porcellum, imitiamo Berlusconi Dissidenti
dem tra no e astensione. Fi, M5S e Sel orientati a uscire
CARMELO LOPAPA
ROMA .
La strada è spianata, l’Italicum diventerà legge questa sera. Matteo Renzi ha dormito
sonni tranquilli, anche l’ultimo pallottoliere riserverà pochi brividi sui numeri. Le uniche
incognite sono legate a quanti deputati della minoranza pd si spingeranno fino al voto
contrario (sulla carta sarebbero tra 80 e 90, ma solo 38 hanno negato la fiducia nei giorni
scorsi) e quale atteggiamento terranno le opposizioni.
Chiederanno o meno il voto segreto? Usciranno o no dall’aula? I gruppi di Fi, Lega, M5s e
Sel si riuniranno questa mattina per decidere appunto la strategia da seguire, per cercare
di mettere quanto meno in difficoltà il governo nell’atto finale. Ma sono poco più di
duecento deputati e ognuno la pensa in maniera difforme dall’altro. L’ipotesi più probabile,
raccontavano ieri sera dai vertici del gruppo forzista, il più consistente coi suoi 70
componenti, è che venga confermata la richiesta del voto segreto, accompagnata però
dall’abbandono dell’aula in serata quando si voterà la legge. Lo scopo è mettere a nudo le
contraddizioni interne al Pd: consentire alla minoranza di prendere le distanze nel segreto
dell’urna, nella speranza di veder lievitare i 38 dissidenti dem fino a 50 o addirittura 60. Ma
l’auspicio di Brunetta e altri di costringere Renzi ad approvarsi l’Italicum con una
maggioranza che non raggiunga la soglia minima di 316 (la metà più uno dell’aula) è un
miraggio. Intanto, perché non è detto che quei 38 che non hanno votato la fiducia si
spingano tutti fino al voto contrario contro. E poi, perché i numeri dicono altro: nella
votazione da prendere come riferimento, anche perché la più partecipata, quella della
prima fiducia di mercoledì scorso sull’articolo 1 dell’Italicum, sui 393 su cui può contare la
maggioranza (comprensiva di Ncd), a votare sì sono stati in 352, i 38 dissidenti pd hanno
preferito uscire dall’aula. I no sono stati 207 e un astenuto. Probabile che lo schema si
ripeta. Anche la minoranza pd questa mattinata si riunirà per decidere che fare e allora – è
la stima – altri dieci o venti di loro potrebbero decidere di non votare (o votare contro). In
quel caso i favorevoli scenderebbero a 340, magari 330. Ma è giusto un’ipotesi. Anche
perché Pier Luigi Bersani ha rimandato a stamattina appunto la scelta definitiva. Così
anche Rosy Bindi, Guglielmo Epifani. Lo stesso Gianni Cuperlo, ieri alla Festa dell’Unità di
Bologna si è limitato a escludere il suo voto favorevole, non altro: «Ma tutto avverrà alla
luce del sole, nessun agguato», promette. Stefano Fassina invece voterà contro e a
sorpresa anche Enrico Letta. Intervistato dall’Annunziato a “In 1/2ora”, l’ex premier
sostiene che l’Italicum è «parente stretto del Porcellum » e lui voterà no, «perché non
condivido il metodo, il percorso e i contenuti: nel 2015 criticammo duramente Berlusconi
per come si arrivò al Porcellum a colpi di maggioranza e oggi è stato fatto lo stesso». Un
altro duro oppositore interno come Alfredo D’Attorre prevede che «l’orientamento
prevalente » tra chi non ha votato come lui la fiducia è quello di «votare contro il
provvedimento ». Ma l’area riformista è composta anche da Dario Ginefra che invece vota
a favore nella speranza, dice, che poi il governo accetti di rivedere la riforma costituzionale
al Senato.
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Silvio Berlusconi, interessato poco o nulla all’Italicum, intenzionato però al referendum
abrogativo, dà già per scontato il sistema che porterà al ballottaggio tra le prime due liste.
Tanto che in una telefonata ai militanti di Taranto conferma il desiderio di lanciare i
repubblicani in stile Usa: «Votare questo o quel partitino è una cosa di una stupidità
inarrivabile, dobbiamo contrapporre una grande destra moderata a una sinistra che ha
saputo raccogliersi dentro il Partito democratico ». La grande incognita resta la Lega di
Salvini per nulla attratta dal listone unico, perché senza quella sarà assai difficile
raggiungere il ballottaggio e sfidare i dem di Renzi.
del 04/05/15, pag. 25
TRE QUESTIONI SULL’ITALICUM
PIERO IGNAZI
TROPPO tardi, troppo poco. È inutile e tardiva la battaglia della minoranza Pd
sull’Italicum. Non ha molto senso cercare di limitare i danni di una legge malfatta alla fine
di un lungo processo legislativo. Ormai è arrivata in dirittura d’arrivo. Solo che ci lascia in
eredità tre problemi: restringe le linee di comunicazione tra cittadini e classe politica,
concentra il potere nelle oligarchie di partito e mina quella stessa stabilità governativa che
vuole garantire.
La sentenza della Corte Costituzionale aveva offerto una ghiotta occasione per introdurre
un nuovo, efficiente e giusto sistema elettorale. Invece, il Pd, al quale spettava fare la
prima mossa, ha preferito stringere un accordo “strategico” con Forza Italia utilizzando il
viatico di una legge elettorale gradita ai berlusconiani. Il patto siglato da Renzi e
Berlusconi sull’Italicum è così assurto a una intangibile tavola della legge. Le critiche — e
le proposte alternative — dovevano essere fatte allora, contrapponendo ai propositi
proporzionalisti e premiali (questo il cuore, aritmico, dell’Italicum) una coerente visione
maggioritaria e uninominale sempre sbandierata dalla sinistra nelle sue varie incarnazioni,
dall’Ulivo al Pd. Ma, come candidamente confessò un negoziatore dell’Italicum, Berlusconi
non voleva i collegi uninominali, e allora… niente.
Adesso, questa è la legge. Comunque, non è una legge nuova. E alcuni dei correttivi
introdotti sono, come si dice in Veneto, un tacòn pèso del buso . I cardini su cui si regge
l’impianto dell’Italicum sono tre, esattamente gli stessi su cui si reggeva il Porcellum: in
ordine di importanza, la logica premiale, la logica proporzionale di lista, la logica
oligarchica. Il premio di maggioranza è il primum mobile da cui discende tutto. In fondo,
nel paese dei telequiz — e di politici nostalgici di quei tempi — non c’era nulla di più
naturale che assegnare un bel premio di seggi al vincitore.
L’illusione ingegneristica dei sostenitori dell’Italicum è che, grazie al bonus, il partito
vincitore governerà sicuro e compatto per tutta la legislatura. Al di là di tutta una serie di
questioni legate ai contrappesi istituzionali affievoliti, e quindi all’eccessiva concentrazione
di potere (che, da liberali, bisogna temere per via delle inevitabili e insopprimibili
“debolezze umane”), il partito unico al comando rischia invece di implodere in poco tempo.
Chi conosce le dinamiche intra-partitiche sa bene che, in assenza di nemici esterni, la lotta
politica si trasferisce all’interno dei partiti. Con effetti potenzialmente devastanti, fino alla
scissione. L’incentivo a dividersi una volta che un partito ha conquistato la maggioranza e
guida da solo il governo rimane intatto in un paese con una cultura politica frazionistica (e
la cultura politica non cambia in due giorni). Una minoranza con un pacchetto di voti
sufficiente a mettere in minoranza il governo detiene un potere di ricatto ben superiore a
quello di un partito esterno che entra in coalizione. Non è un caso che l’Italia abbia il
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record mondiale dei cambi di casacca in Parlamento. O pensiamo che questa “abitudine”
cesserà d’un tratto per l’effetto magico dell’Italicum?
Infine, il premio, che peraltro non esiste in nessuna democrazia matura (con la parziale
eccezione della Grecia…), costituisce la forzatura necessaria e conseguente alla logica
proporzionale di lista ereditata dal Porcellum. Questa forzatura discende dal rigetto del
sistema maggioritario uninominale, un sistema dove i cittadini eleggono il “loro”
rappresentante in un collegio. Con un annebbiamento fittissimo della ragion politica gli
oppositori interni del Pd hanno sventolato la bandiera delle preferenze: così, per
combattere un difetto — i deputati nominati — si inocula un virus ancora peggiore, quello
delle preferenze, di cui ben conosciamo i guasti.
Non è questa la strada per rimediare alla più grave carenza del nostro sistema politico che
non è la governabilità, bensì il distacco dei cittadini dalle istituzioni e dai suoi
rappresentanti: l’antipolitica, in una parola. Per facilitare un minimo di rispondenza tra
elettori ed eletti, per ridurre la distanza tra ceto politico e cittadinanza, non c’è migliore
soluzione che consentire ai cittadini di scegliere il proprio rappresentante direttamente in
un collegio. Se il nostro problema è quello della disaffezione dalla politica, un sistema
proporzionale premiale con liste bloccate va nella direzione sbagliata. La logica oligarchica
delle liste bloccate decise dall’alto è comunque l’unica su cui si può ancora intervenire.
Basterebbe adottare una norma ad hoc per obbligare i partiti a far scegliere i candidati alle
elezioni ai propri iscritti e/o simpatizzanti. Le modalità possono essere le più varie:
l’importante è che la scelta sia demandata alla base e sottratta alle alchimie e agli scambi
opachi degli organi dirigenti. Poi, come in tutti i paesi, la dirigenza nazionale deve disporre
di una adeguata libertà di manovra per collocare un certo numero di candidati in collegi
sicuri. In conclusione, l’Italicum non interviene sui nodi del nostro sistema politico. Non
restringe il fossato tra elettori ed eletti: anzi, rischia di allargarlo. Non assicura la
governabilità: anzi rischia di incentivare la frammentazione dei partiti vincenti. Non rende
più aperti e rispondenti i partiti: anzi, rischia di renderli più lontani ed autoreferenziali.
del 04/05/15, pag. 2
Renzi contestato a Bologna “I fischi non mi
fermano avanti su Italicum e scuola”
Tre feriti negli scontri tra polizia e militanti dei centri sociali Il premier ai
prof: “Senza il ddl saltano 100 mila assunzioni”
SILVIA BIGNAMI
ELEONORA CAPELLI
BOLOGNA .
Una domenica blindata a Bologna per il premier Matteo Renzi, che ha chiuso la Festa
dell’Unità. Dentro al parco dove si teneva il comizio, 3mila persone con le bandiere del Pd,
mentre fuori dai cancelli la polizia faceva partire una carica per allontanare i manifestanti di
collettivi universitari e centri sociali. Alla fine degli scontri è rimasta sdraiata a terra una
donna di 60 anni, poi ricoverata in ospedale per la frattura scomposta del braccio destro,
che non faceva parte della protesta. Sono stati medicati in ospedale anche una ragazza di
23 anni, attivista del collettivo universitario Hobo, e un giovane di 21. Tre i fermati per
resistenza a pubblico ufficiale. I manifestanti erano circa un centinaio, con striscioni contro
il Jobs Act e la riforma della scuola, e davanti all’ingresso si sono trovati faccia a faccia
con i poliziotti in tenuta antisommossa, in uno spazio già affollato per il mercato. Per
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entrare nell’area del dibattito hanno cominciato a spingere, lanciare uova e acqua,
sputando e cantando contro la polizia. Che poco dopo ha fatto partire la carica. Poco
lontano c’era anche una pacifica protesta di insegnanti con pentole e cucchiai, e un
piccolo drappello di docenti, circa una cinquantina, è riuscito a entrare e ha accompagnato
il discorso di Renzi con qualche fischio. Tra loro sindacati di base e anche i rappresentanti
del movimento della scuola che avevano già costretto il ministro dell’Istruzione Stefania
Giannini alla fuga la scorsa settimana, sempre dalla festa di Bologna. Renzi, però ha
sfidato i fischi: «Mi hanno detto di non parlare della scuola, perché qui c’è chi contesta la
nostra riforma, ma io non mi faccio spaventare da tre fischi. Noi “teniamo botta”, come si
dice a Bologna, noi dobbiamo cambiare l’Italia». Anzi, proprio sulla scuola il premier apre
per la prima volta con chiarezza a modifiche al suo disegno di legge: «Non è una riforma
da prendere o lasciare. Ci sono alcuni aspetti in sui possiamo cambiarla e ci sono molte
cose che cambieremo, non pretendiamo di avere la verità in tasca. Ma fischiando e
urlando non restituiamo dignità sociale alla scuola». Parole che prendono forma dopo il
comizio, quando Renzi si trattiene per oltre un’ora insieme a quattro delegati della
protesta. Avanti tutta invece, sull’Italicum, la cui corsa si conclude oggi con la pattuglia dei
no che rischia di allargarsi: «Non ci fermiamo a 100 metri dal traguardo». Tra questi ci
sarà anche il voto «non favorevole» di Gianni Cuperlo, che però ieri Renzi ha ringraziato
della presenza dal palco, dopo le polemiche per il mancato invito alla Festa dei big della
minoranza: «Benvenuto a casa tua. Insieme faremo ripartire l’Unità entro la festa
nazionale del Pd a Milano». Dunque entro settembre.
del 04/05/15, pag. 1/11
Le periferie dei partiti in polvere
di Aldo Cazzullo
Al confronto del parco candidati alle prossime Amministrative, il campo di Agramante era
coeso come una falange macedone. A sostegno di De Luca in Campania, per dire, ci sono
gli amici di De Mita e quelli di Cosentino, i movimentisti di sinistra e il consigliere regionale
di Storace, già pellegrino sulla tomba del Duce; se si considera che il candidato
governatore rischia di essere sospeso appena eletto, si ha una vaga idea del disordine
che regna nelle periferie del Pd; per tacere dello scontro in Liguria, dove la sinistra interna
segue la corsa di Pastorino contro la renziana Paita come l’avanguardia del vagheggiato
nuovo partito. Va detto però che a destra le divisioni sono ancora più profonde: dalla
Puglia, dove Fitto fa le sue prove di scissione, al Veneto, dove Tosi già candidato premier
della Lega si ritrova guastatore centrista.
Il risultato è la polverizzazione dei partiti. Ed è la crisi del bipolarismo, finora definito da
Berlusconi: prima si stava con o contro di lui; adesso si gioca tutti contro tutti, o tutti con il
giocatore che ha la palla, come nelle partite da bambini. Il disgelo postberlusconiano ha
creato una situazione liquida, in cui i naufraghi trasmigrano verso il vincitore annunciato,
pronti a rimettersi in viaggio verso altri lidi alla prima crisi o sentenza del Tar. Un curioso
paradosso, proprio ora che la nuova legge elettorale rafforza il ruolo dei partiti, conferendo
il premio di maggioranza alla lista più votata senza consentire apparentamenti al
ballottaggio, e affidando in larga parte la scelta dei deputati ancora alle segreterie romane.
Pure la leadership di Renzi, che si impone con le buone o con le cattive in Parlamento, in
periferia arriva diluita, e non riesce a impedire pasticci come l’industriale berlusconiano
che vince le primarie del Pd ad Agrigento o il ritorno a Enna di Miro Crisafulli, che di sé
disse: «Se fossi di Forza Italia sarei già a Guantanamo».
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Il punto è che nessuna norma e nessun leader può trasformare la politica italiana in ciò
che dovrebbe essere, e non è: la rappresentanza degli interessi e dei territori, attraverso la
selezione dei migliori, che si mettono al servizio della comunità. Oggi, tranne rare
eccezioni, l’ultima cosa che viene in mente a un imprenditore di successo, a un giovane di
talento, a un intellettuale dal curriculum internazionale è fare politica, occuparsi della cosa
pubblica, e appunto candidarsi alle elezioni. I partiti non hanno mai avuto — per legge —
tanto potere, e non sono mai stati — nella realtà — così poveri: di iscritti, di sezioni, di
giornali; di ideologie (il che può anche non essere grave), e soprattutto di idee (il che è
gravissimo). Renzi ogni tanto parla di una legge che attui la Carta costituzionale e
garantisca il «metodo democratico» della partecipazione previsto dall’articolo 49. La sua
minoranza interna obietta che non è certo Renzi il più indicato a guidare una simile
riforma. Ma anziché battersi per il ritorno delle preferenze, permeabili alle clientele quando
non alle mafie, il Pd nelle sue varie componenti e quel che rimane del centrodestra
avrebbero l’interesse a disciplinare le primarie per legge, e a mettere un po’ d’ordine in
una politica dove lontano dal centro del potere nessuno sembra rappresentare altri che
non se stesso.
del 04/05/15, pag. 10
Milano, 20mila contro i violenti “Ripuliamo
questo schifo la nostra Expo non se lo
merita”
Tute colorate in piazza con spugne e pennelli: “I teppisti non
passeranno” Pisapia: no a delinquenti e utili idioti. L’appello a
ricandidarsi: “Ripensaci”
PIERO COLAPRICO
MILANO .
Nella sua lunga storia Milano è stata tante cose, ma una Milano «casalinga» non s’era mai
vista. Non sino a ieri, quando a metà pomeriggio è sbocciata, praticamente dal nulla di
Internet in diretta sulle strade del centro, una massa di sconosciuti. Tutti disposti, persino
orgogliosi di darsi da fare con spugne, pagliette, panni, solventi, alcol, benzina su quei
muri sporcati dai manifestanti di un Primo Maggio stravolto in violento No-Expo. Olio di
gomito, e a cancellare «Ni oublie, ni pardone », slogan apparso due anni fa a Tolosa, dopo
un omicidio fascista, sono due bambini di 11 e 9 anni.
Le strade sanno parlare come e più delle persone. A cancellare «Riot» due sorelle, con
una loro amica, che non è di Milano, ma: «I turisti che vengono per Expo non devono
vedere questo schifo». A cancellare «Anticapitalista » c’è, con i compagni d’università, un
giovane con barba alla Che Guevara: «Noi siamo dell’Uld della Cattolica, il primo collettivo
di sinistra d’Italia, c’era Mario Capanna ai tempi. Ora noi, e a questo scempio della città
non ci stiamo». Una modella slovacca e un barbuto che lavora una web agency stanno
fianco a fianco con altri dieci a cercare di eliminare «Antifa», come Franco, 27 anni,
tipografo: «Ero qui al corteo del Primo maggio, sono convintamente no Expo, e manco mi
sono accorto dei disordini, noi siamo i primi danneggiati dai black bloc, adesso veniamo
dipinti come delinquenti».
Una veterinaria, un’orafa e il cuoco del Four Seasons (Quadrilatero della Moda) cercano di
cancellare «Digos neanche il fascismo », mentre un web editore e una studentessa
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sfregano con strofinacci su «Borghesi tutti appesi»: «Io — dice la ragazza — sono una
studentessa fuori sede, però è come se avessero violentato la mia città, mi ribello ai
bastardi che rovinano i diritti degli altri». A parlarci, sono tutti «positivi», persone che
vogliono «darsi da fare» dentro questa «giornata- simbolo», sotto l’ombrello della fortunata
parola d’ordine «Nessuno tocchi Milano», partita su Facebook, che ha fatto in fretta 7mila
seguaci, saliti ieri a ventimila.
Pensiero unico? Macchè. «Mi sembra una pagina storica, come quella che avvenne a
Torino, con la marcia del 40mila operai che dissero basta scioperi, fateci lavorare», dice
Alfredo. È ristoratore della zona dell’Isola, giacca e maglioncino. Non ha pulito, ma «ho
fatto tutto il corteo perché i cittadini democratici devono alzare la voce, i violenti non
passeranno e il sindaco ha fatto benissimo a chiamarci in piazza prima del centrodestra».
Sull’altro lato del marciapiede in corso di Porta Ticinese — dov’erano partiti tre giorni fa i
black bloc, dove si conclude quest’incredibile «marcia delle spugnette» — c’è però
Alberto, impiegato, cappellino in testa e spatola in mano. Pulisce e pulisce un palo: «Della
politica frega niente, ormai, sono qui per reagire a chi danneggia cose che paghiamo tutti
noi cittadini, Milano sta solo dicendo alla gente di tutt’Italia di essere più civile, che siamo
tutti sulla stessa barca, almeno noi che lavoriamo ».
E poco lontano ecco anche Alice, sorridente studentessa di giurisprudenza, che sfrega il
cemento anche se la piazza si va svuotando: «Mi do da fare innanzitutto perché è ancora
sporco, e vogliamo finire. Siamo scout, siamo qui per amore della città, e per renderci utili.
Quello che mi spiace un po’ è stata la strumentalizzazione politica di un sentimento
popolare, con il comizio del sindaco Pisapia... «.
Comunque si voti, studenti, laureati, una «l’altro ieri», ma anche nonni e famiglie intere che
si fanno i selfie con i telefonini in questa domenica 3 maggio hanno preso il posto fisico di
chi il 1 maggio si era mascherato per incendiare, bastonare, distruggere. E questa voglia
di sgobbare per pulire case e negozi è così collettiva, condivisa, contagiosa, non finta
nemmeno per un istante, da costringere a pensare che no, non tutto è perduto dell’antica
storia di questa città che sarà a volte antipatica («La città di m...»), ma che nel corso dei
secoli ha accolto grazie alle industrie, agli ospedali all’avanguardia, alle università, alle
case editrici, alla Borsa, alle tv e ora il web, tutti quelli che avevano «voglia di lavorare».
Passa un giovane, calvo, un po’ curvo, vedendoci con il taccuino in mano esclama: «È
tutto bellissimo, vorrei che continuasse». Cioè? «Ci sta stando la scossa, e poi?»,
domanda, e corre via.
Anche il corteo, guidato dal sindaco Giuliano Pisapia, con la giunta, con il Pd che ha
mosso la sua macchina elettorale, sta correndo via veloce verso la Darsena, il vecchio
porto del Naviglio rinato appena una settimana fa, mentre lungo i muri restano in migliaia a
faticare. Come l’avvocato orgoglioso che chiede al figlio Jacopo: «Dì al signore, come ho
pulito la postazione della A2A?». O come Franco Castiello, del Nucleo di pronto intervento
del Comune: «Avercene così tutti i giorni, si strappano la spugna uno con l’altro e fanno a
gara a chi lavora meglio», dice paterno verso un gruppo di giovani in tuta.
A fianco di una docente universitaria, una signora paraplegica spruzza uno sgrassatore
sulla scritta No-Expo: «Sono qui — dice — per rabbia contro l’anarchico sulla sedia a
rotelle elettrica e il casco, lui era con quelli che hanno sporcato, io sto con questi che
puliscono». E Tommaso, toscano, a Milano da sette anni, anche lui con business nel web
(sarà una coincidenza, ma sono tanti quelli del «virtuale» ieri impegnati nel «manuale») è
della squadra che ha miracolato, in via Scaldasole, una parete sporca ben da prima del
passaggio della manifestazione: «Abbiamo fatto del bene in una città che a volte perde
coscienza sul fatto che deve essere più unita».
La sua è alla fin fine la sintesi perfetta per racchiudere l’essenza del discorso di Pisapia, il
sindaco che non si ricandiderà: «Siamo qui per festeggiare una città che ha saputo reagire
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a chi ha cercato di deturparla». Ce l’ha con «i delinquenti e gli utili idioti» del black bloc,
che però «non hanno rovinato la festa» di una Milano che a volte crede di essere una
locomotiva. E a volte ci riesce pure.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 04/05/15, pag. 21
Migranti, un’altra strage nel Canale di Sicilia
Dieci morti e seimila profughi soccorsi nel fine settimana, venti richieste
di aiuto dalle imbarcazioni Stipate in un barcone ottocento persone. Nei
centri di accoglienza dell’isola è scattata l’emergenza
ALESSANDRA ZINITI
PALERMO .
Non succedeva da mesi. Un barcone è persino riuscito ad arrivare indisturbato fino al
porto di Lampedusa, a “bucare” il via vai di soccorsi iniziato sabato mattina lungo il Canale
di Sicilia. Quasi seimila persone soccorse in 48 ore, una ventina tra barconi e gommoni,
dieci morti: alcuni di stenti, di sete, ustionati, trovati dai soccorritori sul fondo dei gommoni,
tra i piedi dei loro compagni sopravvissuti, altri annegati in mare nel disperato tentativo di
raggiungere un rimorchiatore.
Ogni soccorso nasconde una tragedia. È stata un’altra domenica di passione per le navi
della Guardia costiera e della Marina militare italiana, come al solito coadiuvate da
mercantili di passaggio e rimorchiatori delle piattaforme petrolifere. Una nave francese, la
Commandant Birot, ha invece sbarcato nel pomeriggio a Crotone 216 migranti di varie
nazionalità. «Mi vergogno perché l’Europa non fa ciò che dovrebbe e potrebbe fare per i
migranti. L’Ue deve sapere cosa state facendo qui e io mi farò portavoce», ha detto il
vicepresidente del Parlamento federale tedesco e leader dei Verdi, Claudia Roth, in Sicilia
da tre giorni in rappresentanza del Bundestag. Una nuova ondata di partenze dalla coste
libiche approfittando del meteo favorevole e centri di prima accoglienza siciliani di nuovi
pienissimi. Persino a Lampedusa, dove il centro è dall’anno scorso solo parzialmente
agibile e dove ormai la regia di smistamento dei profughi tende ad evitare l’arrivo di
migranti, ne sono stati sbarcati più di 500.
Una ventina i barconi che, nel giro di poche ore, hanno lanciato l’Sos con i telefoni
satellitari. Per le navi dei soccorsi è stata una corsa contro il tempo per evitare
l’affondamento di gommoni ormai semisgonfi e il ribaltamento di vecchi barconi stracarichi.
Solo in uno erano state stipate ottocento persone, come sul peschereccio ribaltatosi
quindici giorni fa con il suo carico di centinaia di migranti andati incontro a una morte
terribile rinchiusi nella stiva. E in un gommone, la nave Fiorillo ha tratto in salvo ben 397
persone. In due dei gommoni raggiunti dai soccorsi sono stati trovati i cadaveri di quattro
migranti, tre in uno, quattro nell’altro, probabilmente morti per gli stenti della traversata.
Tra i 105 profughi tutti dell’Africa subsahariana agganciati dal mercantile Prince 1 a 45
miglia a nord est di Tripoli l’equipaggio ha pietosamente composto i corpi di tre persone.
Altri quattro, ormai senza vita, erano tra i 73 soccorsi da un’altra imbarcazione privata, il
mercantile Zeran, a 35 miglia a nord est di Tripoli. E altre due persone erano in condizioni
gravissime, quasi disperate tanto che i marinai hanno tentato estreme manovre di
rianimazione.
Poche miglia più in là, in tre si sono lanciati da un gommone nel disperato tentativo di
raggiungere un rimorchiatore, ma i tre migranti non ce l’hanno fatta e all’equipaggio non è
rimasto che tirare a bordo i loro corpi tra le lacrime dei 78 compagni di viaggio incolumi. In
extremis, quasi davanti le coste libiche, la Finanza ha soccorso un barcone con 330
migranti tra cui diciotto bambini e sessanta donne. A terra, in Sicilia e in Calabria dove il
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ministero dell’Interno ha dato disposizioni di sbarcare i nuovi arrivati, è stato approntato il
dispositivo di primo soccorso e accoglienza, mentre Viminale e prefetture in queste ore
cercano freneticamente nuovi posti liberi in strutture dalla Sicilia alla Val d’Aosta.
del 04/05/15, pag. 21
Dalla Ue solo buone intenzioni
Ancora una volta l’Italia è sola
Fiorenza Sarzanini
La tregua è durata appena una settimana e adesso l’Italia è di nuovo in stato di massima
allerta. Perché in appena due giorni sono arrivati quasi 7.000 migranti e non ci sono
strutture in grado di ospitarli. Sono donne, bambini, uomini che chiedono asilo. Hanno
bisogno di aiuto, così come gli altri che certamente approderanno sulle nostre coste nei
prossimi giorni. Spinti a partire dalla bella stagione e da scafisti sempre più determinati ad
ottenere il massimo dal traffico di esseri umani. Questa mattina dal Viminale partirà una
nuova circolare ai prefetti per chiedere di trovare migliaia di posti, di mettere a disposizioni
stabili per alleggerire il carico delle regioni del Sud e distribuire gli stranieri su tutta la Penisola. Le elezioni amministra-tive sono ormai imminenti, questo certamente susciterà nuove
polemiche e scontri politici, ma la linea è stata tracciata e tutti dovranno farsi carico di chi
arriva. L’Italia, come era prevedibile, passata l’emozione per i 700 morti provocati
dall’ultimo naufragio nel Mediterraneo, si ritrova nuovamente sola. Le buone intenzioni dei
responsabili della politica dell’Unione Europea tali sono rimaste. Questa settimana
probabilmente arriveranno navi e risorse per potenziare l’operazione Triton, ma niente di
più. E poco importa che il pattugliamento del mare non serve a governare i flussi dei
migranti ma sol-tanto a subirli quando sono ormai a poche decine di miglia dalla costa.
Non sono previste iniziative serie per l’accoglienza e soprattutto per evitare altre tragedie.
L’Europa non è stata neppure in grado di pianificare un’azione seria per la distru-zione dei
barconi utilizzati dagli scafisti. È bene che l’Italia provveda in fretta. Le prossime settimane
rischia-no di essere segnate da deci-ne di migliaia di arrivi con il serio pericolo di dover
assis-tere ad altri incidenti, di dover contare nuove vittime. Bisogna fare il possibile per
scongiurarlo, consapevoli di non poter ricevere alcun sostegno vero dagli altri Stati della
Ue.
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WELFARE E SOCIETA’
del 04/05/15, pag. 7
Giovani europei, under 30 in cerca di riscatto
È l’Italia il paese più vecchio d’Europa: la presenza di giovani under 30 (tra i 15 e i 29 anni)
non solo è sotto la media, ma risulta la più bassa rispetto a quella in tutti gli altri 27 Stati
membri (circa il 15% della popolazione). L’età media è pari a 44,4 anni, preceduta solo dai
45,3 anni medi dei tedeschi, rispetto a una media europea di 41,9. A dirlo sono i dati
Eurostat elaborati nella quarta «Infodata del Lunedì» proprio nella Settimana europea
della gioventù che chiuderà il prossimo 10 maggio. L’identikit dei giovani europei passa
attraverso una serie di indicatori che raccontano lo stato di salute, le condizioni di vita, la
scolarizzazione, l’accesso al lavoro e il digital divide dei più piccoli. Tra le graduatorie
statistiche selezionate, gli under 30 residenti in Italia totalizzano diversi record. Innanzitutto
al nostro paese spetta lo scettro legato al “tasso di bamboccioni” (cioè giovani tra i 20 e i
29 anni che ancora vivono in casa con i genitori): solo l’11,3% risultano sposati o
conviventi, contro una media europea del 22,9 per cento. Guardando i ragazzi anche
attraverso la lente delle nuove tecnologie si incontrano delle sorprese: Italia e Bulgaria
sono gli Stati con la più bassa presenza di under 30 sui social network (pari al 73% contro
l’87% dell’Inghilterra e il 92% della Finlandia). Sotto la media Ue anche la percentuale di
accesso quotidiano a internet. Il tasso di abbandono scolastico, inoltre, segna uno scarto
di 5 punti percentuali rispetto al benchmark europeo (in Italia al 17%, contro l’11,9% Ue).
Gli under 30 in Italia sembrano assomigliare più ai giovani greci o spagnoli, meno agli
austriaci o ai tedeschi, in base alle condizioni di vita (si veda il rischio povertà). Unica
differenza: l’indebitamento delle famiglie in Grecia e la disoccupazione in Spagna
registrano dei picchi particolari. A procedere in modo anomalo, infine, sono i dati relativi
alla salute: in Bulgaria il tasso di mortalità degli under 30 tocca i 58 casi ogni 100mila
abitanti, in Romania 65; in controtendenza i giovani finlandesi che registrano un record
negativo di suicidi (21,2 ogni 100mila under 30).
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 04/05/15, pag. 23
Cinquanta ettari di cemento al giorno così il
Belpaese asfalta il suo futuro
Allarme dell’Ispra: basta costruire o sarà troppo tardi “Nel solo 2014
coperti 200 chilometri quadrati di suolo”
TOMASO MONTANARI
NEMMENO la grande crisi ha fermato l’unica impresa comune nella quale gli italiani delle
ultime generazioni sembrano essersi coalizzati: il consumo irreversibile del sacro suolo
della patria. Cioè il più evidente dei nostri vari suicidi collettivi.
È questa la più impressionante tra le moltissime notizie contenute dal rapporto 2015 sul
consumo di suolo che dopodomani sarà reso pubblico dall’Istituto superiore per la
protezione e la ricerca ambientale, l’Ispra. Nel 2014 abbiamo “tombato” col cemento altri
duecento chilometri quadrati di suolo: ogni giorno perdiamo 55 ettari, ogni secondo ci
giochiamo tra i 6 e i 7 metri quadrati di futuro. In totale il suolo consumato in Italia è
arrivato a quota 21mila chilometri quadrati, cioè il 7 per cento del territorio.
Dai numeri dell’Ispra appare consolidata la tendenza per cui, dal 2008, il Nord Ovest
guadagna (cioè perde...) terreno rispetto al Nord Est. In altre parole, si costruisce di più
proprio nelle regioni che negli ultimi anni hanno pagato, per il cemento, il prezzo più alto in
termini di vite umane e di danni materiali: la Liguria, per esempio. I numeri del cemento
vanno, infatti, incrociati con quelli del brusco cambiamento climatico e del conseguente
aumento del rischio idraulico e geologico. In un convegno sul Cambiamento climatico,
rischio idrogeologico e pianificazione urbanistica tenutosi recentemente all’Università di
Firenze, il meteorologo Andrea Corigliano ha notato che «dei 74 eventi alluvionali totali
italiani che si sono verificati dal 1951, 55 si sono manifestati dopo il 1990 e ben 26 solo
negli ultimi quattro anni». In altre parole, gli effetti dell’immissione di anidride carbonica
nell’atmosfera (nel 2014 la più elevata degli ultimi 800 mila anni) si stanno sommando a
quelli del sigillamento del terreno: e la conseguenza sono le devastanti alluvioni urbane,
che tutto sono tranne che una catastrofe naturale .
Di naturale c’è davvero poco, in questa nostra folle corsa al cemento. I dati dell’Ispra
smentiscono, per l’ennesima volta, la presenza di un nesso causale tra edilizia e necessità
di abitazioni: in una spirale perversa le città perdono abitanti, ma guadagnano case, vuote
e sfitte. E se nel 2014 il suolo consumato per ogni cittadino italiano sembra, per la prima
volta, lievemente scendere, non è perché si costruisca di meno, ma è a causa della
ripresa demografica, dovuta in grandissima parte all’immigrazione. Come una specie di
terribile peccato originale, i “nuovi italiani” si addossano un consumo statistico di suolo
davvero impressionante: circa un chilometro quadro a testa!
E non si deve pensare che il Mezzogiorno sia esente dalla peste grigia del cemento. Dopo
Lombardia e Veneto si attestano immediatamente la Campania e la Puglia. Ed è
impressionante — ma non sorprendente — vedere che la regione del Crescent (il più
incredibile scempio edilizio della Penisola, che ha sfregiato la città e il paesaggio di
Salerno per volontà del sindaco Vincenzo De Luca, ora candidato alla presidenza della
regione) nel 2013 si è cementificata più di Toscana, Emilia Romagna, Lazio: con una
percentuale che si attesta tra il 7,8 e un mostruoso 10,2 per cento del territorio.
Di fronte a queste cifre, appaiono un balsamo le parole del nuovo ministro per le
Infrastrutture Graziano Delrio, il quale ha subito promesso che si costruiranno solo opere
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utili (ovvio? No, sarebbe rivoluzionario), e che si romperà con la legislazione d’emergenza
pro-cemento made in Maurizio Lupi. Ma c’è da fidarsi?
Il disegno di legge sulla “semplificazione” presentato dal presidente del consiglio Matteo
Renzi di concerto con la ministra Marianna Madia promette, al contrario, di aggravare le
conseguenze del micidiale Sblocca Italia, voluto da Lupi e fatto approvare da Renzi nello
scorso novembre. Si tratta di una legge delega che — se approvata — permetterà, tra
l’altro, al governo di estendere il micidiale meccanismo del silenzio-assenso (già
sostanzialmente dichiarato anticostituzionale nel 1986) anche «alle amministrazioni
preposte alla tutela ambientale, paesaggistico- territoriale, dei beni culturali e della salute
dei cittadini» (articolo 3). Facile immaginare cosa succederà, in un Paese che ha
smantellato e reso inefficienti le sue “magistrature del territorio”: saranno più veloci i
permessi alle opere inutili legate ad interessi privati. E che dire dell’articolo 2, che delega il
governo a introdurre il principio della decisione a maggioranza nelle conferenze dei
servizi? Gli interessi dell’ambiente e della salute dei cittadini saranno in maggioranza o,
come sempre, in minoranza?
La battaglia contro il cemento si perde prima nelle leggi corrotte, e poi sul territorio:
dipende dall’azione del governo Renzi ciò che leggeremo nel prossimo rapporto Ispra. O il
governo invertirà la rotta, o leggeremo che ci siamo suicidati ancora un po’. La
scommessa sarebbe facile: ma sul futuro dei nostri figli non si può scommettere.
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
del 04/05/15, pag. 13
Scuola, sì ai presidi manager Ma il 72% non
conosce la riforma
Il piano sui precari ha ampio consenso. Bocciati gli sgravi per le
paritarie
La riforma della scuola, battezzata «la Buona scuola», sta suscitando vivaci reazioni, non
diversamente dalle altre riforme proposte da governo. Una parte rilevante degli insegnanti
e del personale Ata (amministrativo, tecnico e ausiliario), infatti, ha reagito negativamente
e i sindacati della scuola hanno indetto uno sciopero per martedì 5 maggio.
Quanto ne sanno e cosa pensano gli italiani di questa riforma? Non ne sanno molto, non
tanto per lo scarso interesse verso la scuola che, al contrario, risulta molto elevato nella
popolazione, quanto per la difficoltà a seguire con attenzione le novità introdotte e le
conseguenze che ne derivano. Solo il 2% dichiara di conoscere la riforma in dettaglio
(probabilmente i diretti interessati) e il 26% ne conosce i principali punti. La maggioranza
assoluta (57%) sa solo che se ne sta discutendo e il 15% ignora del tutto l’argomento.
L’assunzione dei 100 mila precari già iscritti nelle graduatorie nazionali ad esaurimento o
vincitori all’ultimo concorso bandito nel luglio del 2012 suscita un largo consenso: circa
quattro intervistati su cinque (81%) esprime una valutazione positiva, mentre il 16% si
dichiara critico. Si tratta di un provvedimento che non elimina il precariato (sono esclusi,
per esempio, i precari d’istituto) ma viene comunque considerato un segnale importante
sul fronte occupazionale che da tempo risulta in testa alla graduatoria delle preoccupazioni
degli italiani.
La riforma prevede la concessione di un’ampia e inedita autonomia agli istituti,
assegnando nuovi poteri ai dirigenti scolastici i quali avranno la responsabilità della
definizione del piano triennale dell’offerta formativa (che definisce le strategie dell’azione
educativa), della scelta dei docenti da assumere e dell’assegnazione dei riconoscimenti
economici (gli scatti di merito) agli insegnanti giudicati migliori. Si tratta di un
provvedimento che incontra il favore della maggioranza degli intervistati (56%) ma suscita
critiche da parte di una importante minoranza (40%). Il dissenso prevale tra gli elettori
grillini, i residenti nelle regioni centro-meridionali e gli studenti. Tra i dipendenti pubblici si
registra una netta divisione: 51% i favorevoli e 49% i contrari.
Come si spiega questa contrarietà, minoritaria ma comunque rilevante, ad un
provvedimento che va nella direzione della tanto auspicata autonomia scolastica? I motivi
sono probabilmente da ricondurre alla preoccupazione per un eccesso di potere attribuito
ai dirigenti scolastici nella definizione delle scelte pedagogiche, organizzative e gestionali
(limitando i poteri degli organi collegiali) e nelle questioni riguardanti l’organico (assunzioni
e bonus economici legati al merito). Forse si tratta di una generica sfiducia per gli attuali
dirigenti scolastici, non ritenuti all’altezza delle nuove responsabilità.
Infine, riguardo alla possibilità per i genitori degli alunni iscritti a scuole private paritarie di
usufruire di detrazioni fiscali prevale la contrarietà: il 56% esprime un giudizio negativo
mentre il 42% si dichiara a favore. Le opinioni sono molto diversificare in relazione agli
orientamenti politici: il dissenso prevale tra gli astensionisti, i grillini e, in misura più
contenuta, tra gli elettori del Pd. Il consenso prevale tra i leghisti e tra gli elettori centristi.
Gli elettori di Forza Italia si dividono a metà. Il provvedimento rimanda ad una stagione
nella quale il dibattito sul finanziamento della scuola privata era molto acceso e fortemente
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connotato ideologicamente. Anche allora tra gli italiani prevaleva il dissenso, non solo per
ragioni politiche, ma perché le private sono considerate scuole riservate ai più abbienti
(che non necessitano di agevolazioni economiche) e, soprattutto, perché le risorse
assegnate alle scuole private sono considerate sottratte a quelle pubbliche che, come è
noto, non versano in condizioni floride. E, a questo proposito, l’aneddotica è
estremamente ricca: dalle preoccupanti condizioni degli edifici scolastici all’onere
dell’acquisto di materiale di pertinenza della scuola da parte delle famiglie.
Nel complesso prevale il consenso sulla riforma scolastica, ma la differenza tra favorevoli
e contrari è molto risicata: 42% contro 39% e un intervistato su cinque non si esprime. Il
dissenso prevale solo tra i grillini e gli astensionisti, le cui opinioni sono talora influenzate
dalla sfiducia generalizzata nei confronti del governo.
In generale, ai giudizi positivi sulla stabilizzazione di una larga parte dei precari e sulla
aumentata autonomia scolastica (pur con le riserve di cui si è detto), fa da contraltare la
contrarietà rispetto alle detrazioni fiscali per gli iscritti alle private. Quest’ultimo è un tema
sensibile che attenua il favore nei confronti della «Buona scuola».
del 04/05/15, pag. 6
Ai prof più poveri non basta la passione
Di Lorenzo Tosa
La “buona scuola” sono facce. Milioni di volti che ti passano accanto la mattina presto nel
traffico, una cartella portata in spalla da una mamma. È il liceo Colombo di Genova –
quello di Mazzini e De Andrè – a mezzanotte, stracolmo di ex studenti venuti ad ascoltare
il loro vecchio professore che declama il Notturno di Alcmane. Ma all’alba ce n’è un’altra
molto più prosaica, fatta di graduatorie, tetti che crollano, conti in rosso. E numeri. In
chiaroscuro.
Un milione di studenti in più
Sono lontani i tempi della “scuola-carrozzone” affollata di insegnanti (malpagati) e povera
di studenti. Oggi gli stipendi sono rimasti al palo, ma gli alunni crescono sempre di più:
sono 7 milioni e 900mila quelli censiti nell’ultimo anno scolastico, tra scuole dell’infanzia,
primarie e secondarie (1 milione in più rispetto al 2007-08), mentre nello stesso periodo i
docenti di ruolo sono calati dagli 840.000 di 7 anni fa agli attuali 600.839.
Un dato, questo, che non subisce più variazioni dal 2011, congelato da una norma di
legge dell’allora ministro Tremonti che obbliga il MIUR a non “sforare” il numero di posti
dell’anno scolastico 2011-12, per adeguarsi ai parametri europei. Risultato? Il rapporto
docenti-alunni è progressivamente salito fino a circa 1 a 11 (in linea con la media UE di 1
a 12). In realtà – come spiega Gianluigi Dotti, responsabile del Centro Studi di Gilda, il
sindacato nazionale degli insegnanti – le cifre raccontano solo una parte della storia, in un
Paese dove le difformità restano enormi. “Siamo di fronte al paradosso del pollo di
Trilussa. Non è il dato in sé che preoccupa, ma l’enorme frammentazione del territorio:
mentre nei paesini di montagna e dell’entroterra si fa fatica a mantenere un presidio, le
città esplodono con classi-pollaio da 30-35 alunni”.
Gli insegnanti più poveri d’Europa
È in queste condizioni che docenti, dirigenti e operatori scolastici si ritrovano a lavorare
tutti i giorni, tra continui tagli alle risorse e gli stipendi fermi ormai al 2009. “Ma già allora
eravamo in ritardo di due anni – ricorda Rino Di Meglio, segretario nazionale di Gilda –
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Dieci, quindici anni fa le risorse per intervenire c’erano e non sono state usate. Con la
crisi, la situazione è precipitata e oggi gli insegnanti sono definitivamente usciti dal ceto
medio”. Il confronto con l’Europa è impietoso. Una volta entrato in ruolo, un maestro
elementare italiano percepisce un reddito lordo di 23.048 euro, contro i 27.993 del collega
spagnolo, i 34.286 degli svedesi e addirittura i 40.142 dei tedeschi. Ma è a fine carriera
che la forbice si divarica del tutto. Se la busta paga d’ingresso in Italia e in Francia è più o
meno in linea, 40 anni dopo il maestro transalpino avrà staccato il nostro di oltre 11.000
euro (rapporto Eurydice 2013). Non va meglio ai professori di medie e superiori, il cui
potere d’acquisto negli ultimi sei anni si è ridotto addirittura del 15%. “Dopo 28 anni di
servizio, una laurea, un TFA (Il Tirocinio Formativo Attivo) e un concorso alle spalle, il mio
stipendio è fermo a 1.800 euro” racconta un professore di liceo, mentre in ingresso oggi
non si supera i 1.300 euro. Un’emorragia che non risparmia neppure i bidelli. Ogni anno,
nei licei e negli istituti superiori, il personale ausiliario perde per strada oltre 10.000 unità, a
fronte di 30.000 nuovi studenti iscritti (dati Anief). E i nuovi tagli sulla scuola nascosti nella
Legge di Stabilità appena approvata dal governo rischiano di veder cancellati altri 2.020
posti di lavoro ATA, pari a una riduzione nella spesa di personale intorno ai 50 milioni di
euro, a partire dall’anno scolastico 2015/16. “In alcune scuole chiamano imprese di pulizie
esterne, perché lo Stato non ha risorse per assumere” racconta Franca, operatrice
scolastica, il cui ultimo scatto d’anzianità risale al 2005. “La retribuzione di un bidello oggi
in alcuni casi non arriva ai 1.000 euro – precisa Di Meglio – Siamo a livello di sussidio di
disoccupazione”.
“La vecchia scuola”
Di fronte a dati del genere, l’opinione pubblica si è spesso divisa. Per alcuni, i lavoratori
della scuola sono stati abbandonati dallo Stato. C’è chi, invece, non ha dubbi: “Giusto
così, lavorano troppo poco”. Eppure, a guardar bene, l’orario settimanale di un professore
di liceo (le classiche 18 ore) in Europa è inferiore solo a Ungheria (20), Danimarca e
Spagna (19) e di gran lunga superiore alle 16,3 di media nell’area UE. Lo spread si allarga
nelle scuole primarie: in Italia sono 22 le ore di lezioni frontali previste, contro le 19,6
medie europee (fonte Eurydice). Le statistiche non tengono, ovviamente, in
considerazione le ore spese dal corpo insegnanti in attività didattiche parallele, tra
correzione dei compiti, preparazione di esami e lezioni, colloqui con le famiglie, scrutini,
programmazione e impegni collegiali vari. Secondo un calcolo dell’Istituto Comprensivo
Quintino di Vona di Milano, l’attività reale sfiora le 40 ore settimanali, per un totale annuo
di 1.759 ore. Crescono le ore e cresce anche l’età media dei docenti, oggi intorno ai 50-51
anni, la più in alta in Europa. Al nostro Paese tocca un altro primato decisamente poco
invidiabile. Secondo il rapporto “Educational at a Glance 2013”, la scuola italiana ha il 62%
di insegnanti over 50: più del doppio rispetto a Regno Unito (28%) e Spagna (30%) e
nettamente sopra la media Ocse (36%). È lo scontrino più salato del blocco alle
assunzioni, ma anche della riforma Fornero che ha innalzato l’età pensionabile, arrestando
di fatto il turn-over tra pensionati e neo-assunti.
Quell’esercito di 400mila precari
La coperta è troppo corta. E, alla fine, a farne le spese – come spesso capita – è chi
ancora attende di entrare: l’esercito dei 400mila precari della scuola. Di questi, poco meno
della metà sono stabilmente occupati ma privi di un contratto a tempo indeterminato e
relative tutele. Ogni anno, il 30 giugno, la scuola li licenzia, per poi riassumerli il settembre
successivo. “Puoi andare avanti così anche dieci, vent’anni, una vita intera, senza mai
essere assunta” si sfoga Livia, mamma e maestra elementare precaria. Una dei 150mila
docenti “di fatto” che il ministro dell’Istruzione Giannini ha promesso di assumere entro il
2015. In attesa dell’annunciata stabilizzazione, la scuola fa i conti con i tagli orizzontali alle
risorse che negli ultimi anni hanno spolpato l’istruzione pubblica. A cominciare dalla
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Riforma Gelmini del 2010. “Una non riforma – la definisce Di Meglio – Si è limitata a
tagliare orari e organici, ma di azioni concrete neanche l’ombra”. E il governo Renzi si
prepara a seguire il solco tracciato: si calcola che i tagli alla scuola contenuti nell’ultima
Legge di Stabilità abbiano superato i 600 milioni di euro, a fronte di investimenti scarsi o
assenti. A tenere in piedi la scuola sono, soprattutto, i genitori che pagano di tasca propria
le funzioni minime primarie che lo Stato non riesce a garantire: carta igienica, gessetti, ma
oramai anche attrezzature, laboratori, corsi di recupero. “All’inizio era nato come contributo
volontario – sottolinea Fabrizio Azzolini, presdidente dell’AGE (Associazione Italiana
Genitori) – Oggi è diventata una tassa, senza la quale la scuola chiuderebbe domani”. La
crisi la scopri ancora una volta nei numeri. “Per una scuola di 2.000 studenti, da Roma
arrivano circa 50.000 euro all’anno, mentre le famiglie ne investono almeno 6 volte tanto”
calcola il prof. Dotti di Gilda. E aggiunge. “In certi istituti alberghieri i genitori sono arrivati
persino a comprare il cibo per le ricette”.
Metafora perfetta di una scuola su cui per anni hanno mangiato in tanti. E ora sono
rimaste le briciole.
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CULTURA E SPETTACOLO
del 04/05/15, pag. 17
Gli organizzatori del “Pen Club” spiegano le ragioni che li hanno portati
a preferire il settimanale francese colpito a gennaio dalla furia degli
integralisti islamici Un riconoscimento che ha diviso scrittori e
intellettuali
“Può anche dar fastidio ma la satira è un
diritto ecco perché premiamo il coraggio di
Charlie”
SUZANNE NOSSELMAY
ANDREW SOLOMON
UN’ORGANIZZAZIONE che si fa paladina dei dissidenti deve necessariamente aprire loro
le sue fila. La settimana scorsa la sezione americana del Pen è stata bersaglio di critiche
da parte di molti autori, tra cui alcuni suoi membri, per la decisione di assegnare il premio
per il coraggio nella libertà di espressione a Charlie Hebdo , il settimanale satirico
francese, vittima nel gennaio scorso di un attacco omicida. L’accesa polemica sorta in
merito testimonia quanta importanza abbiano i gruppi che hanno a cuore la libertà di
espressione e come in una società aperta persone di buona volontà che condividono gli
stessi valori possano avere divergenze di interpretazione sui principi.
La censura è tradizionalmente in primis appannaggio dei governi, tuttavia la libertà di
espressione è anche nel mirino di vigilantes, individui che tentano di limitarla ricorrendo
alle minacce e alla violenza. Negli ultimi mesi si è fatto fuoco nella sede di Charlie Hebdo
e in occasione di un evento sulla libertà di espressione a Copenaghen; due blogger atei
del Bangladesh sono stati ammazzati a colpi di mannaia, uno era naturalizzato americano;
un vignettista politico australiano ha ricevuto minacce di morte da parte di jihadisti; a un
attivista pakistano hanno sparato. Questi attacchi sfrontati mirano a tacitare con il terrore
l’opinione pubblica mondiale su argomenti che, seppur sacri per alcuni, riguardano molti
altri e non devono essere sottratti al dibattito. La lista delle problematiche a livello
americano e globale di cui il Pen si fa carico è lunga, ma questo aspetto assume
particolare urgenza a fronte dell’ondata di omicidi.
Jonathan Swift, Rabelais, Voltaire, Alexander Pope, Mark Twain, Stanley Kubrick, hanno
offeso con la loro satira e sono stati per questo bersaglio di aspre critiche; Daumier finì in
carcere per una caricatura del sovrano francese raffigurato come un mostro obeso. La
satira si presta spesso ad essere costruita come incitamento all’odio, soprattutto a un
primo sguardo. Molte voci dell’America contemporanea sbeffeggiano le fragilità allo scopo
di smascherarle — basta pensare a Joan Rivers, Richard Pryor, Eddie Murphy, Louis C.
K., “South Park” o “The Colbert Report.”
I disegnatori di Charlie Hebdo erano consapevoli del pericolo di fare satira avente per
bersaglio oggetti di culto. Il loro valore sta nel coraggio indomito con cui pattugliano i
distretti più estremi della libertà di espressione. Se è vero che molti mettono in discussione
la difesa di quel territorio remoto per via del fanatismo che può nascondervisi in agguato,
Charlie Hebdo ne è stata vigile sentinella, mantenendolo aperto a tutti, in caso sorga
anche per noi un domani la necessità di sfidare tabù rischiando il sacrilegio. Se non ci
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fosse nessuno a sorvegliare le province di confine saremmo tutti costretti ad abitare un
territorio di espressione sempre più ridotto.
Sei autori straordinari — Peter Carey, Teju Cole, Rachel Kushner, Michael Ondaatje,
Francine Prose e Taiye Selasi — ci hanno scritto che rinunceranno a partecipare martedì
al gala di premiazione per un senso di disagio. Molti altri grandi scrittori — tra cui Paul
Auster, Adam Gopnik, Siri Hustvedt, Porochista Khakpour, Alain Mabanckou, Azar Nafisi,
Salma Rushdie, Simon Schama e Art Spiegelman — si sono espressi (chi in pubblico, chi
in privato) a favore della nostra scelta. Ci siamo proposti di evitare di cadere in uno
schema binario riduttivo, la questione è sfaccettata e tutti gli autori hanno espresso
posizioni convincenti sotto il profilo morale.
Assegnando questo premio, il Pen non ratifica il contenuto o la qualità delle vignette,
sostiene solo che a nostro giudizio non costituiscono incitamento all’odio. Noi non ci
chiediamo se le vignette meritino un premio ai meriti letterari, ma se escludano o meno
Charlie Hebdo da un meritato premio al coraggio. Stéphane Charbonnier, il direttore di
Charlie Hebdo ucciso nell’attacco, diceva che il suo obiettivo era “banalizzare” tutte le aree
di dibattito in cui è troppo insidioso addentrarsi. Sosteneva che come generazioni di satira
hanno fatto sì che il cattolicesimo si possa liberamente ridicolizzare — e quindi
legittimamente mettere in discussione — lo stesso risultato si possa ottenere con l’Islam e
altri soggetti.
Sos Racisme ha definito Charlie Hebdo «il maggior settimanale antirazzista francese». Le
Monde sostiene che delle 523 copertine di Charlie Hebdo uscite dal 2005 al 2015 solo
sette mettono alla berlina l’Islam (dieci ironizzano su varie religioni). Le vignette si
oppongono ai tentativi degli estremisti religiosi di ridisegnare i confini della libertà di
espressione usando la violenza. Il pregiudizio anti musulmano in Occidente è un problema
grave, come lo è il fondamentalismo, l’islamismo o quant’altro. Alimentandosi a vicenda,
questi mali costituiscono una minaccia per le libertà civili e lacerano il tessuto sociale. Ma
un’attestazione o un premio riferito a uno dei problemi non significa negazione o
acquiescenza rispetto all’altro. La dolorosa assenza di un diffuso rispetto nei confronti dei
musulmani in Francia non sminuisce il coraggio di Charlie Hebdo nella difesa del diritto di
mancare di rispetto.
del 04/05/15, pag. 32
1943-45, il sangue degli innocenti
Da Marzabotto a Vicovaro, la mappa delle stragi compiute dalle forze
armate naziste
Corrado Stajano
Si potrebbe definire un’enciclopedia dell’orrore, un trattato di criminologia militare, la storia
sociale di una dittatura del Novecento, un saggio di antropologia della violenza, un
pallottoliere della morte questo gran libro dello storico Carlo Gentile sulla tragedia del
nazismo nella seconda guerra mondiale. Si intitola I crimini di guerra tedeschi in Italia
(1943-1945) , l’ha pubblicato Einaudi. È un libro totale, definitivo nel raccontare le stragi
che insanguinarono il nostro Paese dall’armistizio alla Liberazione. Anche se la bibliografia
esistente è sterminata e spesso seria.
Gentile, che insegna all’Università di Colonia ed è stato perito in alcuni dei principali
processi sulle stragi celebrati in Italia, ha lavorato per molti anni a questo libro scritto con
una minuzia persino ossessiva su quanto accadde in quel tempo crudele. Per la sua
ricerca ha letto, studiato, usato tutte le possibili fonti, gli archivi tedeschi, i fondi della
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Wehrmacht, delle SS, della polizia, della Hitlerjugend, della Luftwaffe, ha analizzato i
materiali alleati, le commissioni d’inchiesta del dopoguerra, ha consultato gli atti dei
processi dei tribunali tedeschi e soprattutto quelli delle procure militari italiane, ha
ascoltato i sopravvissuti, ha visto le carte degli archivi nostrani, da quello Centrale dello
Stato a quelli degli Istituti della Resistenza e dei Comuni, ha visto i documenti nascosti nei
più o meno segreti «armadi della vergogna», ha studiato gli stati di servizio degli ufficiali
tedeschi, gli schedari delle decorazioni, le piastrine di riconoscimento dei soldati, gli
elenchi dei caduti, con i nomi degli assassini e dei reparti in cui hanno servito, compagnie,
battaglioni, reggimenti, divisioni, corpi d’armata, armate.
Forse è andato a vedere i cimiteri dei carnefici e le tombe delle vittime, vecchi, donne,
bambini «arsi vivi nel rogo dei casali», dispersi «nei poveri cimiteri di montagna»
(Calamandrei). Leggendo questo libro viene da pensare al lavoro anche doloroso dello
storico che non sia un trovarobe o un leggicarte indifferente. La lingua (il libro è tradotto
dal tedesco, in Germania uscì con polemiche tre anni fa) è piatta ma talvolta si avverte un
sussulto nel racconto rigoroso di fatti sanguinanti.
Il saggio spiega ancora una volta che cosa è la guerra, con la sua ferocia e la sua gratuità.
Spiega come fu temuto dai nazisti il movimento partigiano italiano, giudicato di grande
importanza dai vertici militari tedeschi che per combatterlo misero in piedi massicce
strutture, uno stato maggiore operativo delle SS e comandi regionali per la lotta alle
bande. La Wehrmacht e le SS furono preda della «psicosi del partigiano»: i soldati si
sentivano assediati e minacciati, condizione che accresceva il potere e la forza degli
uomini della montagna, ma rendeva ancora più indifesi gli abitanti dei paesi considerati dai
nazisti potenziali nemici della loro guerra di annientamento. E questo serve anche a
smentire i negazionisti e i minimizzatori della Resistenza. Il libro di Gentile è utile anche
per far capire a chi abbia ancora dubbi quale fu lo spirito della violenza nazista. Le armate
che operarono in Italia — quasi 600 mila uomini — violarono ogni regola dell’onor militare
che in guerra potrebbe persino esistere anche al di là della legge, la Convenzione dell’Aja
del 1907, quella di Ginevra del 1929, il codice penale militare di guerra.
Quel che commisero i nazisti fu atroce. Incendiarono villaggi, uccisero persone che non
avevano alcun rapporto con il mondo della Resistenza: «Il numero spaventosamente alto
di donne, adolescenti e bambini tra le vittime delle stragi evidenzia il carattere
fondamentalmente criminale di molte delle uccisioni commesse dai soldati della
Wehrmacht e della Waffen-SS» scrive Gentile.
Lo schema della violenza non muta. Il rastrellamento segue come ritorsione a un’azione
partigiana e fa parte della strategia dei comandi nazisti che poi, il più delle volte, inventano
giustificazioni fallaci. Terra bruciata, case perquisite, saccheggiate, incendiate, donne
stuprate dai soldati sotto gli occhi assenti o compiaciuti degli ufficiali, uomini uccisi con la
normalità di un gesto ovvio. Ci furono in quegli anni vendette per azioni partigiane, ci
furono non poche stragi di innocenti che non c’entravano assolutamente nulla con le azioni
di guerra senza alcuna verifica dei comandi sui possibili coinvolgimenti di poveri contadini
legati con fil di ferro al collo ai pali delle viti o ai tronchi degli alberi e falciati dalle
mitragliatrici. «In nessun paese occidentale si verificarono eccessi paragonabili a quelli
commessi in Italia» scrive Gentile.
Il libro racconta per filo e per segno come avvennero le grandi stragi, Marzabotto, per
esempio: il maresciallo Kesselring, dopo il massacro, inviò le sue congratulazioni per «la
buona riuscita dell’operazione antibande» (Gentile si occupa poco dei feldmarescialli e dei
vertici militari nazisti che dopo la guerra se la cavarono a buon mercato: Karl Wolff, il
generale comandante delle SS, negli anni Settanta del secolo scorso, viveva
tranquillamente a Darmstadt e concedeva interviste ai giornalisti della Rai-tv.
Duecentomila lire d’epoca ognuna).
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Si conoscono i nomi delle grandi stragi: con Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema e anche
Boves, Meina, Civitella in Val di Chiana, la Certosa di Farneta, ma non si ha notizia o
quasi delle infinite stragi che insanguinarono la penisola: al Sud dopo l’8 settembre 1943,
in Italia centrale dopo la liberazione di Roma, in Toscana, soprattutto, nell’estate-autunno
del 1944 quando, come sempre accade, l’esercito tedesco in ritirata sentì l’onta della
sconfitta e si incrudelì ancora di più. Il libro di Gentile è una mappa preziosa e dolente
degli infiniti plotoni di esecuzione che uccisero innocenti nelle piccole città e nei villaggi, tra
le case messe a fuoco: Capistrello, Filetto di Camerda, Onna, San Paolo dei Cavalieri,
Vallucciole, Borgiola Foscalina, Vicovaro, Roccalbegna, Forno, Montemignaio,
Guardistallo, Padule di Fucecchio. E innumerevoli altri nomi di luoghi di cui non si ha più
memoria.
Sotto il microscopio dello storico sono soprattutto le due divisioni che più di tutte le
formazioni naziste si macchiarono di delitti e di stragi: la 16ª SS Panzer-Grenadier Division
«Reichsführer-SS» e la Fallschirm-Panzer Division «Hermann Göring». Perché tanta
ferocia? Erano corpi speciali, formati da giovani ideologizzati, cresciuti nelle organizzazioni
naziste, spesso reduci dall’esperienza mortale della guerra nell’Est Europa dove la
Wehrmacht e le SS furono protagoniste di raccapriccianti azioni di sterminio di massa. Le
stragi, anche in Italia, ubbidivano a una rigorosa regia militare. È sufficiente per farlo
capire il fatto che le modalità delle azioni sanguinarie sono identiche.
I repubblichini, «i ragazzi di Salò» — 160.000 uomini — sono un po’ trascurati da Gentile.
Spesso affiorano qua e là, subalterni, non certo dalla parte dei loro compatrioti. Non
vogliono esser da meno dei modelli nazisti e qualche volta, riescono a essere
sinistramente più feroci.
I crimini di guerra tedeschi in Italia, libro di grande importanza scientifica e anche umana,
offre un contributo essenziale per la storia di quei terribili anni. Una registrazione ben
documentata di eventi da non dimenticare mai .
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ECONOMIA E LAVORO
del 04/05/15, pag. 9
Consulta sulle pensioni, conto a 13 miliardi
Il governo studia come ridurre l’impatto della sentenza della Corte
costituzionale escludendo comunque gli assegni più ricchi Ma la
decisione apre un conflitto tra le leggi italiane e i trattati europei, un
confronto che potrebbe finire alla Corte di Lussemburgo
FEDERICO FUBINI
ROMA .
Non è la prima volta e non sarà l’ultima. Logica del diritto, sostenibilità economica e
convivenza europea sono già entrate in conflitto prima e lo faranno di nuovo. In questo
l’Italia non è sola, anche le se prime stime in commissione bilancio della Camera rivelano
un problema, all’apparenza, insolubile: secondo calcoli ancora da confermare, sarebbe fra
gli 11 e i 13 miliardi l’aggravio per lo Stato della bocciatura in Corte costituzionale del
decreto sulle pensioni di dicembre 2011.
Ciò che per la legge sembra ovvio, per il bilancio pubblico è quasi impossibile e per l’area
euro è qualcosa di già vissuto in passato. Un anno e mezzo fa la Corte costituzionale
portoghese bloccò alcune misure del piano di salvataggio del Paese. In Germania nel
febbraio 2014 i giudici posti a tutela della Legge fondamentale fecero capire che la Banca
centrale europea era in conflitto l’ordinamento tedesco. E venerdì scorso la Consulta di
Roma ha annullato una norma approvata a larga maggioranza in parlamento per
permettere all’Italia di rispettare un trattato sottoscritto dal Paese: quello sulla
partecipazione all’euro e il rispetto delle sue regole. Il governo del dicembre 2011, guidato
da Mario Monti, congelò per due anni gli scatti su tutte le pensioni dai 1450 euro in su in
modo da ridurre il deficit, rendere il debito più sostenibile, garantire la continuità degli
impegni dello Stato.
Oggi gli equilibri del Paese sono più stabili di tre anni e mezzo fa. Ma il conflitto fra
interpretazione della Costituzione italiana, regole europee e risorse è più acuto che mai.
Lo è al tal punto che, in ambienti del governo, sta emergendo una tentazione: chiedere un
rinvio del caso alla Corte di giustizia europea, per chiarire se la sentenza della Consulta
italiana sia coerente con gli impegni di bilancio firmati a Bruxelles. Il nuovo Patto di
stabilità (il “Six Pack” e il “Two Pack”) sono inclusi nel Trattato, dunque hanno rango
costituzionale e il diritto europeo fa premio su quello nazionale. Il governo italiano
potrebbe chiedere alla Corte di Lussemburgo se la sentenza dei giudici di Roma sia
compatibile con essi.
In realtà è difficile che alla fine il governo prenda questa strada. Sarebbe la prima volta
che un premier si rivolge alla giustizia europea contro la sua stessa Corte costituzionale e
probabilmente Matteo Renzi vorrà evitare una mossa così destabilizzante. Più agevole per
Palazzo Chigi e il ministero dell’Economia cercare di attenuare e circoscrivere, per ora,
l’impatto dei rimborsi richiesti. In passato la Corte aveva indicato che un blocco
temporaneo degli adeguamenti all’inflazione delle pensioni almeno otto volte sopra il
minimo (da circa 4.000 euro in avanti) non viola Costituzione. Per gli assegni più alti è
verosimile che per ora non scatti alcun pagamento, ma i risparmi sarebbero poca cosa
rispetto all’ammanco di bilancio aperto dalla sentenza.
Secondo i giudici la pensione è salario differito, dunque ridurla equivale a espropriare
quanto l’ex lavoratore ha accantonato. Poco importa alla Consulta, in termini legali, che
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nella pratica molti di quei benefici siano molto sopra ai contributi effettivamente versati.
Quei pensionati si sono ritirati con il sistema retributivo, cioè con versamenti parametrati
agli ultimi salari e non ai veri contributi.
In sostanza, la logica economica racconta una storia diversa da quella del diritto. Nel 2014
l’Italia aveva il livello di spesa sociale più alto dell’Ocse, il club delle 33 democrazie
avanzate, ad eccezione di Francia, Finlandia, Belgio e Danimarca. Eppure questo Paese
ha la struttura di welfare più inefficace e distorta d’Europa. La spesa per le famiglie resta
fra le più basse, malgrado il collasso delle nascite in questi anni. Gli assegni contro la
crescente povertà, in proporzione, risultano superiori solo a quelli di Messico, Grecia e
Turchia. Appena il 5% del welfare italiano è distribuito sulla base di valutazioni dei bisogni
reali delle famiglie, il resto viene divorato quasi tutto dalle pensioni. Grazie alla Consulta
questo squilibrio sarà ancora più stridente da ora in poi. Tanto che i giudici costituzionali
potrebbero ottenere un risultato che non avevano previsto: indurre una ripensamento della
previdenza in nome di un welfare più moderno dopo le prossime elezioni. Prima o poi, con
questa o un’altra legge, si terranno.
del 04/05/15, pag. 15
Piano povertà, sostegno al reddito per 6 mesi
Scatterà sotto la soglia di 8 mila euro. Previsto un patto tra cittadino e lo
Stato: l’aiuto all’inclusione legato all’impegno di iscrivere i figli a
scuola, cercare un’occupazione o dedicarsi ai lavori socialmente utili
ROMA Ci aveva già provato Enrico Letta, con un progetto pilota predisposto dal ministro
Enrico Giovannini. Si chiamava Sia, sostegno per l’inclusione attiva e riguardava tutti
coloro che vivono sotto la soglia di povertà, o per mancanza di reddito, o per reddito
insufficiente. Ora ci sta lavorando il ministro Giuliano Poletti e sembra che l’acronimo sia
sempre lo stesso, la differenza è che Renzi vorrebbe trasformare il progetto in un piano su
larga scala, un misura di sostegno per tutti coloro che non arrivano a percepire 8 mila euro
di reddito annui.
Ieri il capo del governo ha accennato al progetto: «Con una seria politica degli investimenti
ci giochiamo la ripartenza economica e potremo affrontare l’emergenza che mi sconvolge
il cuore: poco più di un milione di bambini e ragazzi che stanno sotto la soglia della
povertà». Non ha detto di più, ma ha legato ogni scelta di politica espansiva alle decisioni
che arriveranno da Bruxelles: quelle sui margini di manovra che l’Italia ha già chiesto, e su
cui attende risposte; e forse anche quelle nuove che potrebbe avanzare, se il «buco»
provocato dalla recente sentenza della Consulta sulla rivalutazione bloccata delle pensioni
non venisse tamponato in altro modo.
Di sicuro la sentenza della Corte ha impresso al piano che Renzi persegue una battuta
d’arresto: la misura a cui sta pensando l’esecutivo, sulla scia dell’impianto del precedente
governo, prevede non un generico ammortizzatore sociale ma una sorta di «patto» fra
Stato e cittadino, sia esso povero perché ha un reddito molto basso, o perché ha perso il
lavoro, o ancora perché sono cambiate le condizioni familiari (per esempio separazione).
Un «patto» che verrebbe stipulato ogni 18 mesi, che prevederebbe un’integrazione al
reddito della durata massina di 180 giorni, e che in cambio chiederebbe al beneficiario uno
sforzo di inclusione sociale con una fascia di opzioni diverse (impegnarsi per trovare un
lavoro, mandare i figli a scuola, fare lavori socialmente utili: alcuni possibili esempi), uno
sforzo in grado di definire la misura come non assistenziale ma inclusiva.
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Per la copertura servono diversi miliardi di euro: da 2 a 7 fu la stima del precedente
governo, a seconda della forchetta dei destinatari e della misura del sostegno economico
erogato dallo Stato. Secondo le stime più ottimistiche, sono invece almeno 3 i miliardi che
lo Stato deve trovare per far fronte alla sentenza della Consulta, che ha giudicato
incostituzionale il blocco della rivalutazione delle pensioni del governo Monti. Insomma il
piano di Renzi, e di Poletti, è di colpo diventato più complesso. Ieri Renzi ha citato
Bruxelles e ha detto che nel «prossimo anno e mezzo» ci giochiamo la ripresa economica:
come dire che il governo ha molte riforme da varare, ma forse ha bisogno di qualche
decimale in più di deficit, e dunque del via libera della Commissione, per procedere.
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