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RASSEGNA STAMPA lunedì 4 maggio 2015 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI RAZZISMO E IMMIGRAZIONE WELFARE E SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI CULTURA E SPETTACOLO ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da il Mattino del 03/05/15 Cinema documentario a Napoli, gli appuntamenti di maggio A maggio raddoppiano gli appuntamenti con il cinema documentario a cura di Arci Movie, Parallelo 41, COINOR e Università degli Studi di Napoli Federico II presso il cinema Astra di via Mezzocannone a Napoli. Dal 4 al 18 maggio, ogni lunedì, la terza edizione de ‘Il Mese del Documentario’, organizzata da Doc/it, amplierà l’offerta del cinema documentario a Napoli proponendo uno sguardo d’eccezione sul cinema del reale contemporaneo, sulle sue storie e sui suoi modi di raccontare, in collaborazione con ‘Astradoc – Viaggio del cinema del reale’. La manifestazione propone il meglio del documentario italiano con 70 proiezioni contemporaneamente in 14 città, in Italia e in Europa. Roma, L’Aquila, Bari, Milano, Napoli, Nola, Noto, Nuoro, Palermo, Trieste e per l’estero Berlino, Grenoble, Londra e Parigi. Un intero mese in cui saranno proiettati i cinque film finalisti che concorrono al Doc/it Professional Award per il miglior documentario dell’anno. Protagonista anche il pubblico di tutte le 14 città coinvolte che sceglierà il miglior documentario italiano dell’anno esprimendo il proprio voto alla fine di ciascuna proiezione. Il Mese del documetario è un'iniziativa di Doc/it - Associazione Documentaristi Italiani promossa insieme a 100 autori, con il sostegno del MiBACT – Direzione Generale Cinema e in collaborazione con il Centro Sperimentale di Cinematografia e la Casa del Cinema di Roma, gli Istituti di Cultura di Berlino, Londra e Parigi. Il primo appuntamento a Napoli presso il cinema Astra è previsto lunedì 4 maggio con il film STOP THE POUNDING HEART di Roberto Minervini (alle 19.30), che porta sullo schermo il delicato ritratto di Sara, primogenita di una numerosa famiglia di allevatori del Texas cresciuta secondo i precetti della Bibbia. Quello di Minervini è, più in generale, un film sull’esplorazione dell’adolescenza, della famiglia e dei valori sociali, dei ruoli di genere e della difficile convivenza fra giovinezza e religione nell’America rurale. Minervini, tra l’altro, è tra gli italiani attualmente in concorso a Cannes nella sezione ‘Un certain regard’ con il film LOUISIANA. A seguire (ore 21.00), SMOKINGS di Michele Fornasero che sarà presente in sala per incontrare il pubblico. Stile gangster movies racconta la sfida alle multinazionali del tabacco dei fratelli Messina, dall’inizio del loro business online nel 2000 alla fondazione nel 2013 di Yesmoke, unica fabbrica di sigarette in Italia, testimoniata da numerose interviste raccolte nei quattro anni di lavorazione, dall’ex Presidente dell’UE Romano Prodi all’economista Fariborz Ghadar. Le lotte dei fratelli Messina sono tuttora in divenire: nel novembre del 2014 sono stati arrestati con l’accusa di contrabbando di tabacchi lavorati ed evasione fiscale per 90 milioni di euro. Nella stessa serata di lunedì 4 maggio inoltre, sarà presentato al pubblico il videoclip ESAME del rapper napoletano Dope One (Ivan Rovati De Vita) tratto dal nuovo disco DOPERA prodotto dall’etichetta indipendente made in Naples Jesce Sole e realizzato dai giovani allievi del Progetto FILMaP – Centro di formazione e produzione a Ponticelli Dario Cotugno e Claudia D’Angelo. Dietro questa scelta c’è la volontà precisa da parte della produzione e dell’artista di dare la possibilità a giovani di poter esprimere il proprio talento e nello stesso tempo affacciarsi 2 nel mondo del lavoro grazie a nuove esperienze professionali piuttosto che rivolgersi a registi affermati. Il Progetto FILMaP, a cura di Arci Movie e sostenuto da Fondazione CON IL SUD, nell’ambito del bando “Progetti Speciali” e Innovativi 2010”, si pone l’obiettivo di costruire un centro di formazione e produzione cinematografica stabile nella periferia orientale della città. Saranno presenti l’artista, i giovani registi e la produttrice Fiorita Nardi. Gli appuntamenti proseguiranno lunedì 11 maggio con SACRO GRA di Gianfranco Rosi (ore 19.30), opera simbolo per gli amanti e i professionisti del settore per la sua storica vittoria del Leone d’Oro alla 70ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. A seguire, alle 21.00, THE STONE RIVER di Giovanni Donfrancesco, vincitore di numerosi premi tra cui il Globo d’Oro al miglior documentario. In un’inquietante e poetica trasposizione della storia degli abitanti di un piccolo paese del Vermont che offrono la loro voce ai tagliatori di pietra europei immigrati lì all’inizio del ventesimo secolo. E ancora, lunedì 18 maggio, ore 21,00, DAL PROFONDO di Valentina Pedicini che racconta la vita e le lotte di Patrizia, unica minatrice in Italia a scendere 500 metri sotto il livello del mare mostrando come a centinaia di metri sotto la terra si nasconda la vita. Presentato in anteprima al Festival Internazionale del Film di Roma 2013 ha vinto il premio come Miglior Documentario. Con la programmazione del ‘Mese del Documentario’, sempre al cinema Astra, proseguono anche gli appuntamenti del venerdì di ‘Astradoc – Viaggio nel cinema del reale’, la ormai consolidata rassegna sul cinema documentario d’autore con anteprime, testimonianze e incontri con gli autori che da gennaio offre al pubblico partenopeo una selezione dei migliori documentari napoletani, italiani e dal mondo. Venerdì 8 maggio serata speciale con il cinema di Joshua Oppenheimer per una doppia proiezione: THE ACT OF KILLING (105’) e THE LOOK OF SILENCE (99’), Gran premio della giuria a Venezia.71. Interverrà in sala Antonia Soriente - Docente di Lingua e letteratura indonesiana dell’Università di Napoli 'L'Orientale'. Venerdì 15 maggio serata tutta partenopea con il documentario INSTABILE (50’) di Alessandro Chetta sulla ‘leggendaria’ figura di Michele Del Grosso, impresario teatrale che gestisce lo storico TIN, il teatro sotterraneo in vico fico al Purgatorio, nel ventricolo millenario di Napoli. A seguire LA MALATTIA DEL DESIDERIO (52’) della giovane filmmakers, allieva di FILMaP- Atelier del Cinema del Reale, Claudia Brignone, ambientato nel quartiere Fuorigrotta dove, a parte lo stadio San Paolo, anzi esattamente sotto la curva A, sorge il ser.t: servizio per le tossicodipendenze. In questo quartiere, che la domenica si popola di tifosi, c'è un luogo che custodisce le storie di medici e pazienti. Il film dà voce a chi prova a uscire dalla “dipendenza”, definita dai medici “la malattia del desiderio”, per la quale ognuno sembra avere la sua terapia, anche se spesso si rivela soltanto un tentativo. Infine RUSTAM CASANOVA (52’) di Lorenzo Cioffi e Alessandro De Toni sull’artista Rustam Duloev, in arte “Casanova”, un personaggio dai mille volti, senza fissa dimora, a volte gigolò, altre padre di famiglia, ma soprattutto artista. Venerdì 22 maggio, Daniele Gaglianone sarà ospite di ‘Astradoc’ con il suo ultimo lavoro, presentato al TFF, QUI (120’), racconto in soggettiva di dieci valsusini che da 25 anni si oppongono con tenacia al progetto Tav Torino-Lione: cittadini qualsiasi che hanno scelto di lottare, ogni giorno. Dieci ritratti che raccontano la stessa amara scoperta: il tradimento della politica nazionale, accusata di aver abbandonato questa gente al loro destino, lasciandola sola a vedersela con la polizia antisommossa. Precede la proiezione del film, il cortometraggio di Massimiliano Pacifico CENTOQUATTORDICI (11’) sull'omicidio assurdo di una ragazza di 22 anni, Gelsomina 3 Verde, centoquattordicesima vittima della Camorra, finita per amore nella brutale lotta fra clan. La rassegna ‘Astradoc – Viaggio nel cinema del reale’ 2015 chiuderà in grande con una serata speciale venerdì 29 maggio: ospite d’eccezione Erri De Luca che accompagnerà in sala il film LA MUSICA PROVATA di Emanuela Sana (ore 18.00). Alle 20.30, sempre venerdì 29 maggio, l’attrice e regista Valentina Carnelutti, sarà presente in sala per presentare il suo pluripremiato cortometraggio RECUIEM (20’) e per finire, alle 21.00, IS THE MAN WHO IS TALL HAPPY di Michel Grondy che attraverso illustrazioni, fantasiose tecniche d’animazione e riprese in 16mm, anima una conversazione con Noam Chomsky, professore del MIT, libero pensatore e padre della linguistica moderna. http://www.ilmattino.it/napoli/cultura/cinema_documentario_a_napoli_gli_appuntamenti_di _maggio/notizie/1332024.shtml Da Redattore Sociale del 02/05/15 Carcere. La denuncia di Articolo 27: "Smantellato il teatro-università di Rebibbia" Trasferiti i detenuti attori della compagnia che aveva ispirato "Cesare deve morire". Marroni: "Scelta sbagliata, che rischia di scrivere la parola fine ad una grande esperienza umana ed artistica. Trasferiti anche detenuti iscritti all'università" Roma - "Nonostante le rassicurazioni del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria un ulteriore colpo arriva a quel sistema di attività ricreative e trattamentali che aveva fatto dell'alta sicurezza di Rebibbia nuovo complesso un esempio per le carceri di tutta Italia. Nelle ultime ore, infatti, è stata diffusa la notizia del trasferimento ad Asti, "per motivi di sfollamento", di un altro detenuto storico della sezione: Antonio Giannone, presidente del circolo interno Arci Uisp, attore e studente universitario. La notizia è stata confermata da Angiolo Marroni, già Garante dei detenuti del Lazio, oggi presidente della neonata associazione onlus Articolo 27, dedicata alla tutela dei diritti delle persone sottoposte a limitazioni della liberta' personale". Lo denuncia Articolo 27. Poi: "Nelle scorse settimane Marroni aveva denunciato lo sfollamento di 5 detenuti storici dell'alta sicurezza di Rebibbia fra i quali il capocomico della compagnia teatrale Liberi artisti associati, Antonio Frasca (trasferito a Parma, dove è tutt'ora recluso). L'esperienza della compagnia aveva ispirato il film "Cesare deve morire" dei fratelli Taviani, vincitore 3 anni fa dell'Orso d'oro al festival di Berlino, con i detenuti chiamati ad interpretare se stessi". Angiolo Marroni dice: "Un mese fa avevo denunciato quella che reputavo fosse una scelta sbagliata, che rischiava di scrivere la parola fine ad una grade esperienza umana ed artistica. Peraltro, sono stati trasferiti anche detenuti iscritti all'università. Una decisione poco comprensibile, visto che il ministero ha indicato l'alta sicurezza di Rebibbia come riferimento nazionale per i detenuti che intendono frequentare corsi universitari. L'intervento ufficiale dei vertici del Dap sembrava aver scongiurato questa minaccia, ma la mancata revoca dei trasferimenti gia' decisi e oggi lo sfollamento del presidente del circolo Arci ripropongono da capo la questione". Marroni contesta la logica dei trasferimenti: "Non sono contrario agli sfollamenti, purché fatti con raziocinio e nel rispetto dei diritti dei reclusi. Nel caso di specie, con il generico riferimento ad operazioni di messa in sicurezza si giustifica un'operazione senza 4 fondamento che, di fatto, scrive la parola fine ad un'esperienza trattamentale coraggiosa e ricca di risultati. Il nodo non e' solo spostare per motivi burocratici detenuti da una parte all'altra d'Italia per far quadrare i conti rispetto ai dettami di Strasburgo. Questi trasferimenti decapitano un sistema che funziona e vanno a punire persone detenute da tempo a Rebibbia nuovo complesso, che avevano fatto del teatro e dell'universita' una ragione di riscatto personale e sociale". 5 INTERESSE ASSOCIAZIONE del 04/05/15, pag. 17 Terzo settore. Da dopodomani l’ottavo Festival dei professionisti della categoria Dalle Onlus agli enti pubblici il fundraising prende quota Organizzazioni pronte a investire nei rapporti con i donatori Ottanta relatori, 124 ore complessive di lavori, 60 fra incontri e workshop, 700 partecipanti: con questi numeri si ripropone, da dopodomani 6 maggio a venerdì 8, il Festival del fundraising italiano, evento annuale di riferimento per il variegato mondo di professionisti che, nell’ambito non profit ma anche presso enti pubblici, istituzioni scolastiche e sanitarie, si occupano dei rapporti con i donatori. L’appuntamento, giunto all’ottava edizione, conferma il proprio appeal, soprattutto perché, come ricorda Valerio Melandri, docente universitario, direttore scientifico del centro studi Philanthropy e ideatore della manifestazione, «il Festival nasce dall’esigenza di aggiornamento continuo degli addetti ai lavori e riesce a presentare un panorama completo, sia nazionale che internazionale, delle tecniche di raccolta fondi per ciascun ambito e modalità prescelta». Non a caso, il programma affianca momenti di dibattito a workshop squisitamente seminariali, proponendosi nel complesso come un’opportunità di formazione e aggiornamento. Tra le novità di quest’anno, oltre a un inedito talk show iniziale, anche un Forum dedicato alle piccole organizzazioni, nelle quali la funzione di fundraising è, per ovvie ragioni dimensionali, meno strutturata e professionalizzata. Ulteriori focus saranno dedicati alle fondazioni internazionali (si veda la scheda qui sotto), al crowdfunding e alle raccolte online per gli atenei. Senza dimenticare il Fundraising Award, riconoscimento promosso dall’Assif, sigla nazionale dei professionisti del settore, che anche quest’anno premierà i vincitori delle due categorie dei fundraiser e dei donatori. All’appuntamento la comunità degli addetti alle raccolte fondi si presenta con forti aspettative, sia per la crescente propensione delle organizzazioni a migliorare i rapporti con i donatori attraverso investimenti in risorse qualificate, sia per l’innegabile processo di consolidamento della professione in corso già da qualche anno. «Ormai - osserva Melandri - ben l’84% dei fundraiser è a retribuzione fissa, solo il 3% è pagato in percentuale sui fondi raccolti e il rimanente 13% beneficia di formule miste, ossia fisso più bonus in caso di raggiungimento degli obiettivi». Il recente “censimento” dei fundraiser (si veda Il Sole 24 Ore del 9 marzo scorso) ha stimato in circa 2mila i professionisti a tempo pieno, ma sul fronte delle raccolte sarebbero in realtà impegnati a diverso titolo non meno di 50mila persone, stima a dir poco prudenziale se si considera che le organizzazioni non profit censite dall’Istat sono oltre 300mila. 6 ESTERI del 04/05/15, pag. 16 «Tel Aviv non è Baltimora». L’ira anti polizia degli etiopi d’Israele DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME «Siamo neri, ma questa non può essere Baltimora». È infatti il pezzo di autostrada più trafficato attorno a Tel Aviv, il simbolo del legame della città con il resto del Paese. Quel legame che gli ebrei etiopi non sentono più o non hanno mai sentito. Gli slogan denunciano il razzismo dei poliziotti, chiedono l’intervento dei politici. Perché la comunità si sente esclusa, dalle scuole o dai posti di lavoro migliori. Esclusa e minacciata. Le proteste (la prima manifestazione è stata a Gerusalemme) sono cominciate dopo che settimana scorsa è stato diffuso un video girato da una camera di sicurezza: Damas Pakedeh, un soldato etiope in divisa, è fermo appoggiato alla sua bicicletta, un poliziotto gli ordina di spostarsi perché nella zona c’è un pacco sospetto. Quando il ragazzo non si muove, lo spinge e gli tira una ginocchiata. Il militare reagisce, non vuole restare a terra, prende una pietra, l’agente allunga la mano verso la pistola. Il poliziotto adesso è stato sospeso. Ma i leader della comunità sono sicuri che senza il filmato in carcere sarebbe finito il ragazzo: «È una pentola a pressione che sta esplodendo — spiega Inbal Bogale, una delle organizzatrici dei cortei —. La polizia incrimina i giovani etiopi senza ragione e rovina le loro vite. Con quella macchia non possono più trovare un lavoro decente, entrare nelle unità combattenti dell’esercito». Chiede che il poliziotto venga processato: «I violenti devono essere condannati». Le squadre antisommossa hanno permesso che i manifestanti occupassero l’autostrada per qualche ora. Gli agenti etiopi non sono stati schierati per evitare «che si sentissero in difficoltà» come ha detto uno dei comandanti. Verso il tramonto è arrivato l’ordine di sgombrare. I dimostranti lasciano l’autostrada, si spostano verso il centro e bloccano le vie attorno a piazza Rabin. Gli scontri cominciano nel quadrato delle manifestazioni pacifiste: lacrimogeni, granate assordanti, le cariche dei poliziotti a cavallo, l’assalto del corteo verso il palazzo del sindaco. Davide Frattini del 04/05/15, pag. 19 Raif Badawi è da tre anni in prigione per aver chiesto la separazione fra Stato e religione. Per lui si sono mobilitati politici, intellettuali e organizzazioni internazionali. Nella giornata mondiale per la libertà di stampa racconta: “Io, umiliato davanti alla folla come punizione per ciò che ho scritto” L’appello dal carcere del blogger perseguitato “Le frustate non fermeranno la mia lotta per i diritti” 7 RAIF BADAWI Pochi giorni dopo quell’esperienza, dovevo ricevere una notizia che avrebbe trasformato per me quel mondo di criminali in un vero paradiso: un paradiso con condizioni particolari, rispondenti ai miei personali criteri. Quando Enaf, la mia amatissima moglie, mi ha detto che un’importante casa editrice tedesca aveva raccolto e fatto tradurre i miei articoli per farne un libro, ho reagito dapprima con molto scetticismo. Sinceramente, devo dire che quando scrissi il mio primo blog non avrei mai immaginato di vedere un giorno i miei articoli raccolti e pubblicati in arabo — e men che meno in un’altra lingua! Cara lettrice, caro lettore: se siete arrivati fin qui, vuol dire che siete interessati a leggere quanto ho da dire. C’è veramente chi pensa che io abbia qualcosa da dire. Mentre per tanti altri sono semplicemente un uomo comune, uno che non merita di vedere i suoi blog tradotti e pubblicati in un libro. Quanto a me, mi vedo semplicemente come un uomo esile ma tenace, sopravvissuto miracolosamente a cinquanta colpi di frusta, subiti davanti a una folla giubilante che urlava Allahu akbar : tutto questo a causa dei miei articoli. Il tribunale mi aveva condannato a morte, vista la «gravità dell’apostasia e dell’offesa all’Islam» di cui ero incolpato. Poi la mia pena è stata commutata a 10 anni di carcere, mille frustate e una gravosa multa, di un milione di riyal. Oggi, nel momento in cui scrivo per voi queste righe, ho subito le frustate e scontato tre anni di carcere: mia moglie, sottoposta a pressioni sempre più forti, è stata costretta ad emigrare all’estero coi nostri tre figli. Tutte queste crudeli sofferenze sono state inflitte a me e alla mia famiglia per la sola colpa di aver espresso la mia opinione. © RIPRODUZIONE RISERVATA MI ERO assegnato il compito di proporre una nuova chiave di lettura del liberalismo in Arabia Saudita, per dare un contributo all’emancipazione della società nel mio Paese. Ho cercato di abbattere i muri dell’insipienza e la sacralità del clero, di diffondere un po’ di pluralismo e di rispetto per valori quali la libertà d’espressione, i diritti delle donne, delle minoranze e dei nullatenenti in Arabia Saudita: è stata questa la mia vita, fino al mio arresto nel 2012, quando sono finito in una cella, in mezzo a gente incarcerata per i crimini più diversi. Dagli assassini ai ladri, ai trafficanti di droga, fino ai pedofili, stupratori di bambini. La vita accanto a loro mi ha cambiato per molti aspetti, soprattutto sul piano puramente umano, cancellando molti dei miei precedenti stereotipi. Immaginate di trascorrere la vostra vita quotidiana, fin nei suoi minimi dettagli, in una stanza di appena venti metri quadrati, condivisi con altre trenta persone incolpate di ogni possibile atto criminale. In passato, prima di coricarmi avevo l’abitudine, probabilmente molto comune, di accertarmi che tutte le porte e finestre fossero ben chiuse, per timore dei delinquenti. Mentre ora vivo in mezzo a loro! Dormo, mangio, mi lavo, mi cambio, rido, piango, gioisco, mi arrabbio o grido … sempre in mezzo a loro, sotto i loro occhi. Dopo molti tentativi di abituarmi a vivere tra queste persone, ho fatto uno sforzo consapevole per vederle da un punto di vista diverso e solo dopo qualche tempo ho avuto la certezza che anche i criminali sanno ridere! Sì, anche loro amano, soffrono, e alcuni danno prova di una delicatezza, di una sensibilità umana così straordinaria che a volte soffro profondamente nel compararla a quella delle persone “normali” che un tempo mi erano vicine. Recentemente, entrando in uno dei gabinetti, lo trovai cosparso di carta igienica lurida, con le pareti inzaccherate, la porta sconnessa, pieno di sporcizia ovunque: uno spettacolo angoscioso. Ma tant’è: dovevo pur ritrovarmi in quel caos, gestire al meglio la situazione. Mentre mi concentravo a decifrare le centinaia di scritte che imbrattavano quelle pareti appiccicose, mi saltò agli occhi una frase: «Il secolarismo è la soluzione!» Fui sopraffatto da uno sconfinato stupore. Mi sfregai gli occhi per convincermi che quella scritta esisteva 8 davvero. Era come se in un misero locale notturno, in mezzo a un assembramento di squallide ragazze in vendita, entrasse improvvisamente, al tocco della mezzanotte, una bellissima dispensatrice d’amore, irradiando vita e gioia intorno a sé. Non saprei dire tutto ciò che in quel momento mi passò per la testa, né perché mi fosse venuta in mente quell’immagine. A quanto pare, in questo nuovo tipo di vita l’uso di un cesso diverso può cambiare il destino. Le idee sfrecciavano nella mia mente mentre procedevo all’incombenza per la quale ero lì. Sorridendo, incominciai a riflettere su chi potesse essere l’autore di quella scritta, in quel carcere stracolmo di migliaia di delinquenti, condannati per reati comuni. Quella breve frase, così bella, così diversa, mi aveva riempito di stupore e di gioia. Se mi era dato di leggere quelle parole tra centinaia di volgarità in tutti i dialetti arabi possibili e immaginabili, di cui erano gremite le luride pareti di quel gabinetto, voleva dire che in questo carcere c’era da qualche parte almeno una persona capace di capirmi. Qualcuno che comprendesse le ragioni per le quali avevo lottato ed ero stato rinchiuso qui. del 04/05/15, pag. 16 La sfida delle madri dei miliziani Isis «Il Califfo non avrà i nostri fragili figli» Marta Serafini «Perché?». Christianne Boudreau, 45 anni, canadese, di Calgary, da più di un anno vive con un interrogativo che le martella in testa. Suo figlio maggiore Damian è morto in Siria a soli 22 anni e ora un punto di domanda le si stringe intorno al collo, come un cappio che non la fa respirare e le toglie il sonno. È il novembre 2012 quando Damian le comunica che ha deciso di lasciare il Canada per andare in Egitto a studiare l’arabo. «A 17 anni aveva avuto un lungo periodo di depressione», racconta Christianne in una lunga conversazione su Skype. Uscito dall’ospedale il ragazzo sembra trovare un po’ di pace nell’Islam, si converte. «Siamo una famiglia cattolica ma lui cercava qualcosa di diverso. Ed io ero felice, perché finalmente lo vedevo stare bene di nuovo». Per un po’ le cose sembrano andare bene. Ma ad un certo punto Damian si trasferisce in un’altra parte di Calgary, e cambia moschea, trova un uomo che gli passa dei testi diversi dal Corano e si unisce a un gruppo di giovani. Christianne non immagina che suo figlio stia iniziando a radicalizzarsi. Nel frattempo i telegiornali trasmettono le immagini che arrivano dalla Siria. Persone torturate, uccise, stuprate. E per Damien la responsabilità è del regime di Assad. All’inizio del 2013 due agenti del Csis (i servizi canadesi) bussano alla porta della donna. «Mi dissero che stavano tenendo d’occhio Damian da due anni. E che lui aveva passato il confine tra la Siria e la Turchia, dopo aver trascorso un periodo in un campo di addestramento». Il mondo le crolla addosso. Damian non è andato a studiare l’arabo. Prima si è arruolato con Al Nusra, il fronte jihadista vicino ad Al Qaeda. Poi, nell’estate del 2013 è passato con Isis. Da quel momento Christianne trascorre le notti e i giorni seduta al computer nella stanza del figlio guardando i video di guerra su YouTube e cercando invano di scorgere il suo volto, solo per capire se sia vivo. Ogni tanto riesce anche a parlare con lui al telefono. «Ero terrorizzata, spesso cadeva la linea per le bombe». Si scambiano messaggi su Facebook. Lei cerca di convincerlo a tornare a casa. Lui risponde che vuole salvare il 9 mondo da Assad. E cerca anche di reclutare la sorella minore di 13 anni. «Una notte, erano le dieci del 14 gennaio 2014, ho ricevuto una telefonata di un giornalista». Su Twitter era comparso un elogio funebre in cui era citato Abu Tahla Al Canadi. Abu Tahla è Damian Clairmont. Ed è morto a 22 anni in combattimento ad Hrytan nei sobborghi di Aleppo, sotto la bandiera nera dello Stato Islamico, negli scontri con il Free Syrian Army. Oggi Christianne ha deciso di reagire e lottare contro Isis. «Durante tutto il periodo in cui Damian era vivo nessuno mi ha spiegato cosa dovevo dirgli per convincerlo a tornare». Dopo l’attentato di Ottawa il governo canadese ha deciso di seguire la linea dura e ha inasprito le leggi contro il terrorismo. Ma secondo Christianne la strada è un’altra, un network di madri di foreign fighters e ragazzi a rischio. «Un grande ombrello», lo chiama lei. «Mothers for Life» per il momento conta una dozzina di membri in tutto il mondo. Donne che si parlano via chat, via mail. Ad aiutarle anche esperti internazionali di radicalizzazione, come il tedesco Daniel Koehler. «Convincere i figli a tornare indietro è davvero difficile: da un lato sanno che li aspetta la prigione, dall’altro hanno il terrore di disertare per paura di essere giustiziati da Isis», confermano entrambi. Più «facile» allora dissuadere i ragazzi dalla partenza e imparare a riconoscere i segnali. «Nella cultura islamica la figura della madre è centrale, dobbiamo fare leva su questo. Isis usa la religione in modo strumentale per fare breccia nella mente e nel cuore delle persone, noi dobbiamo impedirglielo», conclude Christianne. Cui è rimasta una sola certezza: «Che tutto ciò non ha nulla a che fare con Dio o con Allah». del 04/05/15, pag. 25 LA TROIKA E I DIRITTI UMANI LUCIANO GALLINO LA gestione delle crisi nell’Unione Europea ha condotto a massicce violazioni di diritti umani. Inoltre il modo in cui le crisi sono state gestite ha esposto una serie di buchi neri quando si tratta di individuare le responsabilità per la violazione di diritti umani». Lo ha scritto di recente una giurista del Centro per lo Studio dei Diritti umani della London School of Economics, Margot E. Salomon. Il suo saggio è uno dei più approfonditi finora apparsi sul tema, dopo quello del 2014 di Andreas Fischer-Lescano, docente a Brema (“Diritti umani ai tempi delle politiche di austerità”). I tagli a sanità, pensioni, stipendi, diritti del lavoro, istruzione, servizi pubblici imposti da Commissione Europea, Fmi e Bce a Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Italia e altri paesi hanno inflitto gravi privazioni a milioni di persone. È sempre più evidente che le istituzioni Ue e il Fmi non avevano il diritto di compiere azioni del genere. Non soltanto: si può sostenere che compiendole hanno violato dozzine di articoli di patti, trattati, carte e convenzioni sottoscritti da esse medesime, a cominciare dal Trattato fondativo dell’Unione. Vediamo qualche caso. Tra i diritti legalmente sanciti dalla Carta Sociale Europea (versione riveduta del 1996) figurano i seguenti: «Tutti i lavoratori hanno diritto a un’equa retribuzione che assicuri a loro e alle loro famiglie un livello di vita soddisfacente» (art. 4); «I bambini e gli adolescenti hanno diritto a una speciale tutela contro i pericoli fisici e morali cui sono esposti» (art. 7); «Ogni persona ha diritto di usufruire di tutte le misure che le consentano di godere del migliore stato di salute ottenibile» (art. 11); «Tutti i lavoratori e i loro aventi diritto hanno diritto alla sicurezza sociale» (art. 12); «Ogni persona sprovvista di risorse sufficienti ha diritto all’assistenza sociale e medica» (art. 13); «Ogni persona anziana ha diritto ad una protezione sociale» (art. 23); «Tutti i lavoratori hanno diritto ad 10 una tutela in caso di licenziamento » (art, 24); «Ogni persona ha diritto alla protezione dalla povertà e dall’emarginazione sociale» (art. 30). Si potrebbe continuare citando articoli analoghi del Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali (New York 1966); della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea; di una mezza dozzina almeno di Convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, dal 1948 in avanti. Per finire magari con l’articolo 7 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, intitolato “Crimini contro l’umanità”, che al comma “k” recita: «Altri atti inumani di carattere simile che causano intenzionalmente grande sofferenza, o seria menomazione al corpo o alla salute mentale o fisica». Allo scopo di portare la Commissione, la Bce e il Fmi davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, o alla Corte penale internazionale, e perché no qualche governo europeo, affinché rispondano delle violazioni dei diritti umani delineate sopra, vi sarebbero diversi punti critici da affrontare. I rapporti menzionati all’inizio scartano subito l’argomento principe dei fautori dell’austerità: le ristrettezze inflitte alle popolazioni Ue sarebbero state necessarie a causa della crisi finanziaria, l’urgenza di migliorare lo stato dei bilanci pubblici, il dovere degli stati debitori di ripagare i creditori. Le violazioni dei diritti umani, anche se comprovate, sarebbero quindi giustificate dalla situazione di emergenza, ovvero dallo “stato di eccezione” in cui versa o versava l’intera Ue. Tuttavia, se si accetta questo punto di vista, ha scritto un altro giurista (Paul Kirchhof), l’Europa intera, quale comunità fondata sul primato della legge, sarebbe privata della sua ragion d’essere. L’effetto sarebbe che nessun capo di Stato o ministro o membro del parlamento potrebbe intraprendere azioni vincolanti che riguardassero i cittadini, poiché il loro mandato ha una base legale: però la legge non esisterebbe più. Per cui il sistema legale europeo non può cedere il passo dinanzi a un presunto stato di emergenza, conclude il rapporto di Brema, ovvero non può che un sistema di competenze legali sia soppiantato da pratiche considerazioni politiche. Un secondo punto critico riguarda l’individuazione dei soggetti responsabili delle violazioni dei diritti umani. Il principale strumento utilizzato nella Ue per imporre a un paese dure politiche di austerità ha preso in genere forma di un “Memorandum di intesa” (sigla inglese MoU), un documento che elenca in modo ossessivamente dettagliato le decurtazioni che un paese deve effettuare alla propria spesa pubblica per potere ottenere determinate concessioni dalla Troika. Su un piano affine ai MoU si collocano le lettere-diktat inviate da istituzioni europee a stati membri. Sia nella formulazione che nell’esecuzione, i MoU e affini sono opera di diversi soggetti, le cui rispettive responsabilità sarebbero da accertare. Tra di essi non rientra la Troika, poiché non ha personalità giuridica. Vi rientrano invece gli stati membri con i loro governi, il Fmi, la Bce, la Commissione Europea. Si aggiunga che la responsabilità di tali soggetti nell’infliggere sofferenze a milioni di cittadini, violando i diritti umani riconosciuti dalla stessa Ue, è aggravata dal fatto che le politiche di austerità che hanno veicolato le violazioni si sono rivelate un fallimento totale. Dopo cinque anni, nei paesi destinatari dei MoU e delle lettere stile militare della Bce la disoccupazione è cresciuta a dismisura, la povertà assoluta e relativa anche, il Pil è diminuito di decine di punti, la struttura industriale è stata compromessa — vedi il caso Italia — e ad una intera generazione di giovani è stato rubato in gran parte il futuro. Per cui le suddette politiche non possono venire invocate come circostanze attenuanti. Se le istituzioni della Ue e i loro dirigenti fossero riconosciuti responsabili dall’una o dall’altra Corte europea di violazione dei diritti umani e delle estese sofferenze che hanno provocato, non correrebbero certo il rischio di serie penalità. Ma sarebbe quanto meno un riconoscimento ufficiale di un fatto inaudito: milioni di vittime della crisi apertasi nel 2008 sono state chiamate, tramite le politiche di austerità, a pagare i danni della crisi da quelli stessi che l’hanno provocata, a cominciare dai loro governanti nazionali e internazionali. 11 INTERNI del 04/05/15, pag. 6 Voto segreto e Aventino ma l’Italicum è al traguardo Letta guida i ribelli del Pd L’ex premier: legge simile al Porcellum, imitiamo Berlusconi Dissidenti dem tra no e astensione. Fi, M5S e Sel orientati a uscire CARMELO LOPAPA ROMA . La strada è spianata, l’Italicum diventerà legge questa sera. Matteo Renzi ha dormito sonni tranquilli, anche l’ultimo pallottoliere riserverà pochi brividi sui numeri. Le uniche incognite sono legate a quanti deputati della minoranza pd si spingeranno fino al voto contrario (sulla carta sarebbero tra 80 e 90, ma solo 38 hanno negato la fiducia nei giorni scorsi) e quale atteggiamento terranno le opposizioni. Chiederanno o meno il voto segreto? Usciranno o no dall’aula? I gruppi di Fi, Lega, M5s e Sel si riuniranno questa mattina per decidere appunto la strategia da seguire, per cercare di mettere quanto meno in difficoltà il governo nell’atto finale. Ma sono poco più di duecento deputati e ognuno la pensa in maniera difforme dall’altro. L’ipotesi più probabile, raccontavano ieri sera dai vertici del gruppo forzista, il più consistente coi suoi 70 componenti, è che venga confermata la richiesta del voto segreto, accompagnata però dall’abbandono dell’aula in serata quando si voterà la legge. Lo scopo è mettere a nudo le contraddizioni interne al Pd: consentire alla minoranza di prendere le distanze nel segreto dell’urna, nella speranza di veder lievitare i 38 dissidenti dem fino a 50 o addirittura 60. Ma l’auspicio di Brunetta e altri di costringere Renzi ad approvarsi l’Italicum con una maggioranza che non raggiunga la soglia minima di 316 (la metà più uno dell’aula) è un miraggio. Intanto, perché non è detto che quei 38 che non hanno votato la fiducia si spingano tutti fino al voto contrario contro. E poi, perché i numeri dicono altro: nella votazione da prendere come riferimento, anche perché la più partecipata, quella della prima fiducia di mercoledì scorso sull’articolo 1 dell’Italicum, sui 393 su cui può contare la maggioranza (comprensiva di Ncd), a votare sì sono stati in 352, i 38 dissidenti pd hanno preferito uscire dall’aula. I no sono stati 207 e un astenuto. Probabile che lo schema si ripeta. Anche la minoranza pd questa mattinata si riunirà per decidere che fare e allora – è la stima – altri dieci o venti di loro potrebbero decidere di non votare (o votare contro). In quel caso i favorevoli scenderebbero a 340, magari 330. Ma è giusto un’ipotesi. Anche perché Pier Luigi Bersani ha rimandato a stamattina appunto la scelta definitiva. Così anche Rosy Bindi, Guglielmo Epifani. Lo stesso Gianni Cuperlo, ieri alla Festa dell’Unità di Bologna si è limitato a escludere il suo voto favorevole, non altro: «Ma tutto avverrà alla luce del sole, nessun agguato», promette. Stefano Fassina invece voterà contro e a sorpresa anche Enrico Letta. Intervistato dall’Annunziato a “In 1/2ora”, l’ex premier sostiene che l’Italicum è «parente stretto del Porcellum » e lui voterà no, «perché non condivido il metodo, il percorso e i contenuti: nel 2015 criticammo duramente Berlusconi per come si arrivò al Porcellum a colpi di maggioranza e oggi è stato fatto lo stesso». Un altro duro oppositore interno come Alfredo D’Attorre prevede che «l’orientamento prevalente » tra chi non ha votato come lui la fiducia è quello di «votare contro il provvedimento ». Ma l’area riformista è composta anche da Dario Ginefra che invece vota a favore nella speranza, dice, che poi il governo accetti di rivedere la riforma costituzionale al Senato. 12 Silvio Berlusconi, interessato poco o nulla all’Italicum, intenzionato però al referendum abrogativo, dà già per scontato il sistema che porterà al ballottaggio tra le prime due liste. Tanto che in una telefonata ai militanti di Taranto conferma il desiderio di lanciare i repubblicani in stile Usa: «Votare questo o quel partitino è una cosa di una stupidità inarrivabile, dobbiamo contrapporre una grande destra moderata a una sinistra che ha saputo raccogliersi dentro il Partito democratico ». La grande incognita resta la Lega di Salvini per nulla attratta dal listone unico, perché senza quella sarà assai difficile raggiungere il ballottaggio e sfidare i dem di Renzi. del 04/05/15, pag. 25 TRE QUESTIONI SULL’ITALICUM PIERO IGNAZI TROPPO tardi, troppo poco. È inutile e tardiva la battaglia della minoranza Pd sull’Italicum. Non ha molto senso cercare di limitare i danni di una legge malfatta alla fine di un lungo processo legislativo. Ormai è arrivata in dirittura d’arrivo. Solo che ci lascia in eredità tre problemi: restringe le linee di comunicazione tra cittadini e classe politica, concentra il potere nelle oligarchie di partito e mina quella stessa stabilità governativa che vuole garantire. La sentenza della Corte Costituzionale aveva offerto una ghiotta occasione per introdurre un nuovo, efficiente e giusto sistema elettorale. Invece, il Pd, al quale spettava fare la prima mossa, ha preferito stringere un accordo “strategico” con Forza Italia utilizzando il viatico di una legge elettorale gradita ai berlusconiani. Il patto siglato da Renzi e Berlusconi sull’Italicum è così assurto a una intangibile tavola della legge. Le critiche — e le proposte alternative — dovevano essere fatte allora, contrapponendo ai propositi proporzionalisti e premiali (questo il cuore, aritmico, dell’Italicum) una coerente visione maggioritaria e uninominale sempre sbandierata dalla sinistra nelle sue varie incarnazioni, dall’Ulivo al Pd. Ma, come candidamente confessò un negoziatore dell’Italicum, Berlusconi non voleva i collegi uninominali, e allora… niente. Adesso, questa è la legge. Comunque, non è una legge nuova. E alcuni dei correttivi introdotti sono, come si dice in Veneto, un tacòn pèso del buso . I cardini su cui si regge l’impianto dell’Italicum sono tre, esattamente gli stessi su cui si reggeva il Porcellum: in ordine di importanza, la logica premiale, la logica proporzionale di lista, la logica oligarchica. Il premio di maggioranza è il primum mobile da cui discende tutto. In fondo, nel paese dei telequiz — e di politici nostalgici di quei tempi — non c’era nulla di più naturale che assegnare un bel premio di seggi al vincitore. L’illusione ingegneristica dei sostenitori dell’Italicum è che, grazie al bonus, il partito vincitore governerà sicuro e compatto per tutta la legislatura. Al di là di tutta una serie di questioni legate ai contrappesi istituzionali affievoliti, e quindi all’eccessiva concentrazione di potere (che, da liberali, bisogna temere per via delle inevitabili e insopprimibili “debolezze umane”), il partito unico al comando rischia invece di implodere in poco tempo. Chi conosce le dinamiche intra-partitiche sa bene che, in assenza di nemici esterni, la lotta politica si trasferisce all’interno dei partiti. Con effetti potenzialmente devastanti, fino alla scissione. L’incentivo a dividersi una volta che un partito ha conquistato la maggioranza e guida da solo il governo rimane intatto in un paese con una cultura politica frazionistica (e la cultura politica non cambia in due giorni). Una minoranza con un pacchetto di voti sufficiente a mettere in minoranza il governo detiene un potere di ricatto ben superiore a quello di un partito esterno che entra in coalizione. Non è un caso che l’Italia abbia il 13 record mondiale dei cambi di casacca in Parlamento. O pensiamo che questa “abitudine” cesserà d’un tratto per l’effetto magico dell’Italicum? Infine, il premio, che peraltro non esiste in nessuna democrazia matura (con la parziale eccezione della Grecia…), costituisce la forzatura necessaria e conseguente alla logica proporzionale di lista ereditata dal Porcellum. Questa forzatura discende dal rigetto del sistema maggioritario uninominale, un sistema dove i cittadini eleggono il “loro” rappresentante in un collegio. Con un annebbiamento fittissimo della ragion politica gli oppositori interni del Pd hanno sventolato la bandiera delle preferenze: così, per combattere un difetto — i deputati nominati — si inocula un virus ancora peggiore, quello delle preferenze, di cui ben conosciamo i guasti. Non è questa la strada per rimediare alla più grave carenza del nostro sistema politico che non è la governabilità, bensì il distacco dei cittadini dalle istituzioni e dai suoi rappresentanti: l’antipolitica, in una parola. Per facilitare un minimo di rispondenza tra elettori ed eletti, per ridurre la distanza tra ceto politico e cittadinanza, non c’è migliore soluzione che consentire ai cittadini di scegliere il proprio rappresentante direttamente in un collegio. Se il nostro problema è quello della disaffezione dalla politica, un sistema proporzionale premiale con liste bloccate va nella direzione sbagliata. La logica oligarchica delle liste bloccate decise dall’alto è comunque l’unica su cui si può ancora intervenire. Basterebbe adottare una norma ad hoc per obbligare i partiti a far scegliere i candidati alle elezioni ai propri iscritti e/o simpatizzanti. Le modalità possono essere le più varie: l’importante è che la scelta sia demandata alla base e sottratta alle alchimie e agli scambi opachi degli organi dirigenti. Poi, come in tutti i paesi, la dirigenza nazionale deve disporre di una adeguata libertà di manovra per collocare un certo numero di candidati in collegi sicuri. In conclusione, l’Italicum non interviene sui nodi del nostro sistema politico. Non restringe il fossato tra elettori ed eletti: anzi, rischia di allargarlo. Non assicura la governabilità: anzi rischia di incentivare la frammentazione dei partiti vincenti. Non rende più aperti e rispondenti i partiti: anzi, rischia di renderli più lontani ed autoreferenziali. del 04/05/15, pag. 2 Renzi contestato a Bologna “I fischi non mi fermano avanti su Italicum e scuola” Tre feriti negli scontri tra polizia e militanti dei centri sociali Il premier ai prof: “Senza il ddl saltano 100 mila assunzioni” SILVIA BIGNAMI ELEONORA CAPELLI BOLOGNA . Una domenica blindata a Bologna per il premier Matteo Renzi, che ha chiuso la Festa dell’Unità. Dentro al parco dove si teneva il comizio, 3mila persone con le bandiere del Pd, mentre fuori dai cancelli la polizia faceva partire una carica per allontanare i manifestanti di collettivi universitari e centri sociali. Alla fine degli scontri è rimasta sdraiata a terra una donna di 60 anni, poi ricoverata in ospedale per la frattura scomposta del braccio destro, che non faceva parte della protesta. Sono stati medicati in ospedale anche una ragazza di 23 anni, attivista del collettivo universitario Hobo, e un giovane di 21. Tre i fermati per resistenza a pubblico ufficiale. I manifestanti erano circa un centinaio, con striscioni contro il Jobs Act e la riforma della scuola, e davanti all’ingresso si sono trovati faccia a faccia con i poliziotti in tenuta antisommossa, in uno spazio già affollato per il mercato. Per 14 entrare nell’area del dibattito hanno cominciato a spingere, lanciare uova e acqua, sputando e cantando contro la polizia. Che poco dopo ha fatto partire la carica. Poco lontano c’era anche una pacifica protesta di insegnanti con pentole e cucchiai, e un piccolo drappello di docenti, circa una cinquantina, è riuscito a entrare e ha accompagnato il discorso di Renzi con qualche fischio. Tra loro sindacati di base e anche i rappresentanti del movimento della scuola che avevano già costretto il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini alla fuga la scorsa settimana, sempre dalla festa di Bologna. Renzi, però ha sfidato i fischi: «Mi hanno detto di non parlare della scuola, perché qui c’è chi contesta la nostra riforma, ma io non mi faccio spaventare da tre fischi. Noi “teniamo botta”, come si dice a Bologna, noi dobbiamo cambiare l’Italia». Anzi, proprio sulla scuola il premier apre per la prima volta con chiarezza a modifiche al suo disegno di legge: «Non è una riforma da prendere o lasciare. Ci sono alcuni aspetti in sui possiamo cambiarla e ci sono molte cose che cambieremo, non pretendiamo di avere la verità in tasca. Ma fischiando e urlando non restituiamo dignità sociale alla scuola». Parole che prendono forma dopo il comizio, quando Renzi si trattiene per oltre un’ora insieme a quattro delegati della protesta. Avanti tutta invece, sull’Italicum, la cui corsa si conclude oggi con la pattuglia dei no che rischia di allargarsi: «Non ci fermiamo a 100 metri dal traguardo». Tra questi ci sarà anche il voto «non favorevole» di Gianni Cuperlo, che però ieri Renzi ha ringraziato della presenza dal palco, dopo le polemiche per il mancato invito alla Festa dei big della minoranza: «Benvenuto a casa tua. Insieme faremo ripartire l’Unità entro la festa nazionale del Pd a Milano». Dunque entro settembre. del 04/05/15, pag. 1/11 Le periferie dei partiti in polvere di Aldo Cazzullo Al confronto del parco candidati alle prossime Amministrative, il campo di Agramante era coeso come una falange macedone. A sostegno di De Luca in Campania, per dire, ci sono gli amici di De Mita e quelli di Cosentino, i movimentisti di sinistra e il consigliere regionale di Storace, già pellegrino sulla tomba del Duce; se si considera che il candidato governatore rischia di essere sospeso appena eletto, si ha una vaga idea del disordine che regna nelle periferie del Pd; per tacere dello scontro in Liguria, dove la sinistra interna segue la corsa di Pastorino contro la renziana Paita come l’avanguardia del vagheggiato nuovo partito. Va detto però che a destra le divisioni sono ancora più profonde: dalla Puglia, dove Fitto fa le sue prove di scissione, al Veneto, dove Tosi già candidato premier della Lega si ritrova guastatore centrista. Il risultato è la polverizzazione dei partiti. Ed è la crisi del bipolarismo, finora definito da Berlusconi: prima si stava con o contro di lui; adesso si gioca tutti contro tutti, o tutti con il giocatore che ha la palla, come nelle partite da bambini. Il disgelo postberlusconiano ha creato una situazione liquida, in cui i naufraghi trasmigrano verso il vincitore annunciato, pronti a rimettersi in viaggio verso altri lidi alla prima crisi o sentenza del Tar. Un curioso paradosso, proprio ora che la nuova legge elettorale rafforza il ruolo dei partiti, conferendo il premio di maggioranza alla lista più votata senza consentire apparentamenti al ballottaggio, e affidando in larga parte la scelta dei deputati ancora alle segreterie romane. Pure la leadership di Renzi, che si impone con le buone o con le cattive in Parlamento, in periferia arriva diluita, e non riesce a impedire pasticci come l’industriale berlusconiano che vince le primarie del Pd ad Agrigento o il ritorno a Enna di Miro Crisafulli, che di sé disse: «Se fossi di Forza Italia sarei già a Guantanamo». 15 Il punto è che nessuna norma e nessun leader può trasformare la politica italiana in ciò che dovrebbe essere, e non è: la rappresentanza degli interessi e dei territori, attraverso la selezione dei migliori, che si mettono al servizio della comunità. Oggi, tranne rare eccezioni, l’ultima cosa che viene in mente a un imprenditore di successo, a un giovane di talento, a un intellettuale dal curriculum internazionale è fare politica, occuparsi della cosa pubblica, e appunto candidarsi alle elezioni. I partiti non hanno mai avuto — per legge — tanto potere, e non sono mai stati — nella realtà — così poveri: di iscritti, di sezioni, di giornali; di ideologie (il che può anche non essere grave), e soprattutto di idee (il che è gravissimo). Renzi ogni tanto parla di una legge che attui la Carta costituzionale e garantisca il «metodo democratico» della partecipazione previsto dall’articolo 49. La sua minoranza interna obietta che non è certo Renzi il più indicato a guidare una simile riforma. Ma anziché battersi per il ritorno delle preferenze, permeabili alle clientele quando non alle mafie, il Pd nelle sue varie componenti e quel che rimane del centrodestra avrebbero l’interesse a disciplinare le primarie per legge, e a mettere un po’ d’ordine in una politica dove lontano dal centro del potere nessuno sembra rappresentare altri che non se stesso. del 04/05/15, pag. 10 Milano, 20mila contro i violenti “Ripuliamo questo schifo la nostra Expo non se lo merita” Tute colorate in piazza con spugne e pennelli: “I teppisti non passeranno” Pisapia: no a delinquenti e utili idioti. L’appello a ricandidarsi: “Ripensaci” PIERO COLAPRICO MILANO . Nella sua lunga storia Milano è stata tante cose, ma una Milano «casalinga» non s’era mai vista. Non sino a ieri, quando a metà pomeriggio è sbocciata, praticamente dal nulla di Internet in diretta sulle strade del centro, una massa di sconosciuti. Tutti disposti, persino orgogliosi di darsi da fare con spugne, pagliette, panni, solventi, alcol, benzina su quei muri sporcati dai manifestanti di un Primo Maggio stravolto in violento No-Expo. Olio di gomito, e a cancellare «Ni oublie, ni pardone », slogan apparso due anni fa a Tolosa, dopo un omicidio fascista, sono due bambini di 11 e 9 anni. Le strade sanno parlare come e più delle persone. A cancellare «Riot» due sorelle, con una loro amica, che non è di Milano, ma: «I turisti che vengono per Expo non devono vedere questo schifo». A cancellare «Anticapitalista » c’è, con i compagni d’università, un giovane con barba alla Che Guevara: «Noi siamo dell’Uld della Cattolica, il primo collettivo di sinistra d’Italia, c’era Mario Capanna ai tempi. Ora noi, e a questo scempio della città non ci stiamo». Una modella slovacca e un barbuto che lavora una web agency stanno fianco a fianco con altri dieci a cercare di eliminare «Antifa», come Franco, 27 anni, tipografo: «Ero qui al corteo del Primo maggio, sono convintamente no Expo, e manco mi sono accorto dei disordini, noi siamo i primi danneggiati dai black bloc, adesso veniamo dipinti come delinquenti». Una veterinaria, un’orafa e il cuoco del Four Seasons (Quadrilatero della Moda) cercano di cancellare «Digos neanche il fascismo », mentre un web editore e una studentessa 16 sfregano con strofinacci su «Borghesi tutti appesi»: «Io — dice la ragazza — sono una studentessa fuori sede, però è come se avessero violentato la mia città, mi ribello ai bastardi che rovinano i diritti degli altri». A parlarci, sono tutti «positivi», persone che vogliono «darsi da fare» dentro questa «giornata- simbolo», sotto l’ombrello della fortunata parola d’ordine «Nessuno tocchi Milano», partita su Facebook, che ha fatto in fretta 7mila seguaci, saliti ieri a ventimila. Pensiero unico? Macchè. «Mi sembra una pagina storica, come quella che avvenne a Torino, con la marcia del 40mila operai che dissero basta scioperi, fateci lavorare», dice Alfredo. È ristoratore della zona dell’Isola, giacca e maglioncino. Non ha pulito, ma «ho fatto tutto il corteo perché i cittadini democratici devono alzare la voce, i violenti non passeranno e il sindaco ha fatto benissimo a chiamarci in piazza prima del centrodestra». Sull’altro lato del marciapiede in corso di Porta Ticinese — dov’erano partiti tre giorni fa i black bloc, dove si conclude quest’incredibile «marcia delle spugnette» — c’è però Alberto, impiegato, cappellino in testa e spatola in mano. Pulisce e pulisce un palo: «Della politica frega niente, ormai, sono qui per reagire a chi danneggia cose che paghiamo tutti noi cittadini, Milano sta solo dicendo alla gente di tutt’Italia di essere più civile, che siamo tutti sulla stessa barca, almeno noi che lavoriamo ». E poco lontano ecco anche Alice, sorridente studentessa di giurisprudenza, che sfrega il cemento anche se la piazza si va svuotando: «Mi do da fare innanzitutto perché è ancora sporco, e vogliamo finire. Siamo scout, siamo qui per amore della città, e per renderci utili. Quello che mi spiace un po’ è stata la strumentalizzazione politica di un sentimento popolare, con il comizio del sindaco Pisapia... «. Comunque si voti, studenti, laureati, una «l’altro ieri», ma anche nonni e famiglie intere che si fanno i selfie con i telefonini in questa domenica 3 maggio hanno preso il posto fisico di chi il 1 maggio si era mascherato per incendiare, bastonare, distruggere. E questa voglia di sgobbare per pulire case e negozi è così collettiva, condivisa, contagiosa, non finta nemmeno per un istante, da costringere a pensare che no, non tutto è perduto dell’antica storia di questa città che sarà a volte antipatica («La città di m...»), ma che nel corso dei secoli ha accolto grazie alle industrie, agli ospedali all’avanguardia, alle università, alle case editrici, alla Borsa, alle tv e ora il web, tutti quelli che avevano «voglia di lavorare». Passa un giovane, calvo, un po’ curvo, vedendoci con il taccuino in mano esclama: «È tutto bellissimo, vorrei che continuasse». Cioè? «Ci sta stando la scossa, e poi?», domanda, e corre via. Anche il corteo, guidato dal sindaco Giuliano Pisapia, con la giunta, con il Pd che ha mosso la sua macchina elettorale, sta correndo via veloce verso la Darsena, il vecchio porto del Naviglio rinato appena una settimana fa, mentre lungo i muri restano in migliaia a faticare. Come l’avvocato orgoglioso che chiede al figlio Jacopo: «Dì al signore, come ho pulito la postazione della A2A?». O come Franco Castiello, del Nucleo di pronto intervento del Comune: «Avercene così tutti i giorni, si strappano la spugna uno con l’altro e fanno a gara a chi lavora meglio», dice paterno verso un gruppo di giovani in tuta. A fianco di una docente universitaria, una signora paraplegica spruzza uno sgrassatore sulla scritta No-Expo: «Sono qui — dice — per rabbia contro l’anarchico sulla sedia a rotelle elettrica e il casco, lui era con quelli che hanno sporcato, io sto con questi che puliscono». E Tommaso, toscano, a Milano da sette anni, anche lui con business nel web (sarà una coincidenza, ma sono tanti quelli del «virtuale» ieri impegnati nel «manuale») è della squadra che ha miracolato, in via Scaldasole, una parete sporca ben da prima del passaggio della manifestazione: «Abbiamo fatto del bene in una città che a volte perde coscienza sul fatto che deve essere più unita». La sua è alla fin fine la sintesi perfetta per racchiudere l’essenza del discorso di Pisapia, il sindaco che non si ricandiderà: «Siamo qui per festeggiare una città che ha saputo reagire 17 a chi ha cercato di deturparla». Ce l’ha con «i delinquenti e gli utili idioti» del black bloc, che però «non hanno rovinato la festa» di una Milano che a volte crede di essere una locomotiva. E a volte ci riesce pure. 18 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 04/05/15, pag. 21 Migranti, un’altra strage nel Canale di Sicilia Dieci morti e seimila profughi soccorsi nel fine settimana, venti richieste di aiuto dalle imbarcazioni Stipate in un barcone ottocento persone. Nei centri di accoglienza dell’isola è scattata l’emergenza ALESSANDRA ZINITI PALERMO . Non succedeva da mesi. Un barcone è persino riuscito ad arrivare indisturbato fino al porto di Lampedusa, a “bucare” il via vai di soccorsi iniziato sabato mattina lungo il Canale di Sicilia. Quasi seimila persone soccorse in 48 ore, una ventina tra barconi e gommoni, dieci morti: alcuni di stenti, di sete, ustionati, trovati dai soccorritori sul fondo dei gommoni, tra i piedi dei loro compagni sopravvissuti, altri annegati in mare nel disperato tentativo di raggiungere un rimorchiatore. Ogni soccorso nasconde una tragedia. È stata un’altra domenica di passione per le navi della Guardia costiera e della Marina militare italiana, come al solito coadiuvate da mercantili di passaggio e rimorchiatori delle piattaforme petrolifere. Una nave francese, la Commandant Birot, ha invece sbarcato nel pomeriggio a Crotone 216 migranti di varie nazionalità. «Mi vergogno perché l’Europa non fa ciò che dovrebbe e potrebbe fare per i migranti. L’Ue deve sapere cosa state facendo qui e io mi farò portavoce», ha detto il vicepresidente del Parlamento federale tedesco e leader dei Verdi, Claudia Roth, in Sicilia da tre giorni in rappresentanza del Bundestag. Una nuova ondata di partenze dalla coste libiche approfittando del meteo favorevole e centri di prima accoglienza siciliani di nuovi pienissimi. Persino a Lampedusa, dove il centro è dall’anno scorso solo parzialmente agibile e dove ormai la regia di smistamento dei profughi tende ad evitare l’arrivo di migranti, ne sono stati sbarcati più di 500. Una ventina i barconi che, nel giro di poche ore, hanno lanciato l’Sos con i telefoni satellitari. Per le navi dei soccorsi è stata una corsa contro il tempo per evitare l’affondamento di gommoni ormai semisgonfi e il ribaltamento di vecchi barconi stracarichi. Solo in uno erano state stipate ottocento persone, come sul peschereccio ribaltatosi quindici giorni fa con il suo carico di centinaia di migranti andati incontro a una morte terribile rinchiusi nella stiva. E in un gommone, la nave Fiorillo ha tratto in salvo ben 397 persone. In due dei gommoni raggiunti dai soccorsi sono stati trovati i cadaveri di quattro migranti, tre in uno, quattro nell’altro, probabilmente morti per gli stenti della traversata. Tra i 105 profughi tutti dell’Africa subsahariana agganciati dal mercantile Prince 1 a 45 miglia a nord est di Tripoli l’equipaggio ha pietosamente composto i corpi di tre persone. Altri quattro, ormai senza vita, erano tra i 73 soccorsi da un’altra imbarcazione privata, il mercantile Zeran, a 35 miglia a nord est di Tripoli. E altre due persone erano in condizioni gravissime, quasi disperate tanto che i marinai hanno tentato estreme manovre di rianimazione. Poche miglia più in là, in tre si sono lanciati da un gommone nel disperato tentativo di raggiungere un rimorchiatore, ma i tre migranti non ce l’hanno fatta e all’equipaggio non è rimasto che tirare a bordo i loro corpi tra le lacrime dei 78 compagni di viaggio incolumi. In extremis, quasi davanti le coste libiche, la Finanza ha soccorso un barcone con 330 migranti tra cui diciotto bambini e sessanta donne. A terra, in Sicilia e in Calabria dove il 19 ministero dell’Interno ha dato disposizioni di sbarcare i nuovi arrivati, è stato approntato il dispositivo di primo soccorso e accoglienza, mentre Viminale e prefetture in queste ore cercano freneticamente nuovi posti liberi in strutture dalla Sicilia alla Val d’Aosta. del 04/05/15, pag. 21 Dalla Ue solo buone intenzioni Ancora una volta l’Italia è sola Fiorenza Sarzanini La tregua è durata appena una settimana e adesso l’Italia è di nuovo in stato di massima allerta. Perché in appena due giorni sono arrivati quasi 7.000 migranti e non ci sono strutture in grado di ospitarli. Sono donne, bambini, uomini che chiedono asilo. Hanno bisogno di aiuto, così come gli altri che certamente approderanno sulle nostre coste nei prossimi giorni. Spinti a partire dalla bella stagione e da scafisti sempre più determinati ad ottenere il massimo dal traffico di esseri umani. Questa mattina dal Viminale partirà una nuova circolare ai prefetti per chiedere di trovare migliaia di posti, di mettere a disposizioni stabili per alleggerire il carico delle regioni del Sud e distribuire gli stranieri su tutta la Penisola. Le elezioni amministra-tive sono ormai imminenti, questo certamente susciterà nuove polemiche e scontri politici, ma la linea è stata tracciata e tutti dovranno farsi carico di chi arriva. L’Italia, come era prevedibile, passata l’emozione per i 700 morti provocati dall’ultimo naufragio nel Mediterraneo, si ritrova nuovamente sola. Le buone intenzioni dei responsabili della politica dell’Unione Europea tali sono rimaste. Questa settimana probabilmente arriveranno navi e risorse per potenziare l’operazione Triton, ma niente di più. E poco importa che il pattugliamento del mare non serve a governare i flussi dei migranti ma sol-tanto a subirli quando sono ormai a poche decine di miglia dalla costa. Non sono previste iniziative serie per l’accoglienza e soprattutto per evitare altre tragedie. L’Europa non è stata neppure in grado di pianificare un’azione seria per la distru-zione dei barconi utilizzati dagli scafisti. È bene che l’Italia provveda in fretta. Le prossime settimane rischia-no di essere segnate da deci-ne di migliaia di arrivi con il serio pericolo di dover assis-tere ad altri incidenti, di dover contare nuove vittime. Bisogna fare il possibile per scongiurarlo, consapevoli di non poter ricevere alcun sostegno vero dagli altri Stati della Ue. 20 WELFARE E SOCIETA’ del 04/05/15, pag. 7 Giovani europei, under 30 in cerca di riscatto È l’Italia il paese più vecchio d’Europa: la presenza di giovani under 30 (tra i 15 e i 29 anni) non solo è sotto la media, ma risulta la più bassa rispetto a quella in tutti gli altri 27 Stati membri (circa il 15% della popolazione). L’età media è pari a 44,4 anni, preceduta solo dai 45,3 anni medi dei tedeschi, rispetto a una media europea di 41,9. A dirlo sono i dati Eurostat elaborati nella quarta «Infodata del Lunedì» proprio nella Settimana europea della gioventù che chiuderà il prossimo 10 maggio. L’identikit dei giovani europei passa attraverso una serie di indicatori che raccontano lo stato di salute, le condizioni di vita, la scolarizzazione, l’accesso al lavoro e il digital divide dei più piccoli. Tra le graduatorie statistiche selezionate, gli under 30 residenti in Italia totalizzano diversi record. Innanzitutto al nostro paese spetta lo scettro legato al “tasso di bamboccioni” (cioè giovani tra i 20 e i 29 anni che ancora vivono in casa con i genitori): solo l’11,3% risultano sposati o conviventi, contro una media europea del 22,9 per cento. Guardando i ragazzi anche attraverso la lente delle nuove tecnologie si incontrano delle sorprese: Italia e Bulgaria sono gli Stati con la più bassa presenza di under 30 sui social network (pari al 73% contro l’87% dell’Inghilterra e il 92% della Finlandia). Sotto la media Ue anche la percentuale di accesso quotidiano a internet. Il tasso di abbandono scolastico, inoltre, segna uno scarto di 5 punti percentuali rispetto al benchmark europeo (in Italia al 17%, contro l’11,9% Ue). Gli under 30 in Italia sembrano assomigliare più ai giovani greci o spagnoli, meno agli austriaci o ai tedeschi, in base alle condizioni di vita (si veda il rischio povertà). Unica differenza: l’indebitamento delle famiglie in Grecia e la disoccupazione in Spagna registrano dei picchi particolari. A procedere in modo anomalo, infine, sono i dati relativi alla salute: in Bulgaria il tasso di mortalità degli under 30 tocca i 58 casi ogni 100mila abitanti, in Romania 65; in controtendenza i giovani finlandesi che registrano un record negativo di suicidi (21,2 ogni 100mila under 30). 21 BENI COMUNI/AMBIENTE del 04/05/15, pag. 23 Cinquanta ettari di cemento al giorno così il Belpaese asfalta il suo futuro Allarme dell’Ispra: basta costruire o sarà troppo tardi “Nel solo 2014 coperti 200 chilometri quadrati di suolo” TOMASO MONTANARI NEMMENO la grande crisi ha fermato l’unica impresa comune nella quale gli italiani delle ultime generazioni sembrano essersi coalizzati: il consumo irreversibile del sacro suolo della patria. Cioè il più evidente dei nostri vari suicidi collettivi. È questa la più impressionante tra le moltissime notizie contenute dal rapporto 2015 sul consumo di suolo che dopodomani sarà reso pubblico dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, l’Ispra. Nel 2014 abbiamo “tombato” col cemento altri duecento chilometri quadrati di suolo: ogni giorno perdiamo 55 ettari, ogni secondo ci giochiamo tra i 6 e i 7 metri quadrati di futuro. In totale il suolo consumato in Italia è arrivato a quota 21mila chilometri quadrati, cioè il 7 per cento del territorio. Dai numeri dell’Ispra appare consolidata la tendenza per cui, dal 2008, il Nord Ovest guadagna (cioè perde...) terreno rispetto al Nord Est. In altre parole, si costruisce di più proprio nelle regioni che negli ultimi anni hanno pagato, per il cemento, il prezzo più alto in termini di vite umane e di danni materiali: la Liguria, per esempio. I numeri del cemento vanno, infatti, incrociati con quelli del brusco cambiamento climatico e del conseguente aumento del rischio idraulico e geologico. In un convegno sul Cambiamento climatico, rischio idrogeologico e pianificazione urbanistica tenutosi recentemente all’Università di Firenze, il meteorologo Andrea Corigliano ha notato che «dei 74 eventi alluvionali totali italiani che si sono verificati dal 1951, 55 si sono manifestati dopo il 1990 e ben 26 solo negli ultimi quattro anni». In altre parole, gli effetti dell’immissione di anidride carbonica nell’atmosfera (nel 2014 la più elevata degli ultimi 800 mila anni) si stanno sommando a quelli del sigillamento del terreno: e la conseguenza sono le devastanti alluvioni urbane, che tutto sono tranne che una catastrofe naturale . Di naturale c’è davvero poco, in questa nostra folle corsa al cemento. I dati dell’Ispra smentiscono, per l’ennesima volta, la presenza di un nesso causale tra edilizia e necessità di abitazioni: in una spirale perversa le città perdono abitanti, ma guadagnano case, vuote e sfitte. E se nel 2014 il suolo consumato per ogni cittadino italiano sembra, per la prima volta, lievemente scendere, non è perché si costruisca di meno, ma è a causa della ripresa demografica, dovuta in grandissima parte all’immigrazione. Come una specie di terribile peccato originale, i “nuovi italiani” si addossano un consumo statistico di suolo davvero impressionante: circa un chilometro quadro a testa! E non si deve pensare che il Mezzogiorno sia esente dalla peste grigia del cemento. Dopo Lombardia e Veneto si attestano immediatamente la Campania e la Puglia. Ed è impressionante — ma non sorprendente — vedere che la regione del Crescent (il più incredibile scempio edilizio della Penisola, che ha sfregiato la città e il paesaggio di Salerno per volontà del sindaco Vincenzo De Luca, ora candidato alla presidenza della regione) nel 2013 si è cementificata più di Toscana, Emilia Romagna, Lazio: con una percentuale che si attesta tra il 7,8 e un mostruoso 10,2 per cento del territorio. Di fronte a queste cifre, appaiono un balsamo le parole del nuovo ministro per le Infrastrutture Graziano Delrio, il quale ha subito promesso che si costruiranno solo opere 22 utili (ovvio? No, sarebbe rivoluzionario), e che si romperà con la legislazione d’emergenza pro-cemento made in Maurizio Lupi. Ma c’è da fidarsi? Il disegno di legge sulla “semplificazione” presentato dal presidente del consiglio Matteo Renzi di concerto con la ministra Marianna Madia promette, al contrario, di aggravare le conseguenze del micidiale Sblocca Italia, voluto da Lupi e fatto approvare da Renzi nello scorso novembre. Si tratta di una legge delega che — se approvata — permetterà, tra l’altro, al governo di estendere il micidiale meccanismo del silenzio-assenso (già sostanzialmente dichiarato anticostituzionale nel 1986) anche «alle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico- territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini» (articolo 3). Facile immaginare cosa succederà, in un Paese che ha smantellato e reso inefficienti le sue “magistrature del territorio”: saranno più veloci i permessi alle opere inutili legate ad interessi privati. E che dire dell’articolo 2, che delega il governo a introdurre il principio della decisione a maggioranza nelle conferenze dei servizi? Gli interessi dell’ambiente e della salute dei cittadini saranno in maggioranza o, come sempre, in minoranza? La battaglia contro il cemento si perde prima nelle leggi corrotte, e poi sul territorio: dipende dall’azione del governo Renzi ciò che leggeremo nel prossimo rapporto Ispra. O il governo invertirà la rotta, o leggeremo che ci siamo suicidati ancora un po’. La scommessa sarebbe facile: ma sul futuro dei nostri figli non si può scommettere. 23 SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI del 04/05/15, pag. 13 Scuola, sì ai presidi manager Ma il 72% non conosce la riforma Il piano sui precari ha ampio consenso. Bocciati gli sgravi per le paritarie La riforma della scuola, battezzata «la Buona scuola», sta suscitando vivaci reazioni, non diversamente dalle altre riforme proposte da governo. Una parte rilevante degli insegnanti e del personale Ata (amministrativo, tecnico e ausiliario), infatti, ha reagito negativamente e i sindacati della scuola hanno indetto uno sciopero per martedì 5 maggio. Quanto ne sanno e cosa pensano gli italiani di questa riforma? Non ne sanno molto, non tanto per lo scarso interesse verso la scuola che, al contrario, risulta molto elevato nella popolazione, quanto per la difficoltà a seguire con attenzione le novità introdotte e le conseguenze che ne derivano. Solo il 2% dichiara di conoscere la riforma in dettaglio (probabilmente i diretti interessati) e il 26% ne conosce i principali punti. La maggioranza assoluta (57%) sa solo che se ne sta discutendo e il 15% ignora del tutto l’argomento. L’assunzione dei 100 mila precari già iscritti nelle graduatorie nazionali ad esaurimento o vincitori all’ultimo concorso bandito nel luglio del 2012 suscita un largo consenso: circa quattro intervistati su cinque (81%) esprime una valutazione positiva, mentre il 16% si dichiara critico. Si tratta di un provvedimento che non elimina il precariato (sono esclusi, per esempio, i precari d’istituto) ma viene comunque considerato un segnale importante sul fronte occupazionale che da tempo risulta in testa alla graduatoria delle preoccupazioni degli italiani. La riforma prevede la concessione di un’ampia e inedita autonomia agli istituti, assegnando nuovi poteri ai dirigenti scolastici i quali avranno la responsabilità della definizione del piano triennale dell’offerta formativa (che definisce le strategie dell’azione educativa), della scelta dei docenti da assumere e dell’assegnazione dei riconoscimenti economici (gli scatti di merito) agli insegnanti giudicati migliori. Si tratta di un provvedimento che incontra il favore della maggioranza degli intervistati (56%) ma suscita critiche da parte di una importante minoranza (40%). Il dissenso prevale tra gli elettori grillini, i residenti nelle regioni centro-meridionali e gli studenti. Tra i dipendenti pubblici si registra una netta divisione: 51% i favorevoli e 49% i contrari. Come si spiega questa contrarietà, minoritaria ma comunque rilevante, ad un provvedimento che va nella direzione della tanto auspicata autonomia scolastica? I motivi sono probabilmente da ricondurre alla preoccupazione per un eccesso di potere attribuito ai dirigenti scolastici nella definizione delle scelte pedagogiche, organizzative e gestionali (limitando i poteri degli organi collegiali) e nelle questioni riguardanti l’organico (assunzioni e bonus economici legati al merito). Forse si tratta di una generica sfiducia per gli attuali dirigenti scolastici, non ritenuti all’altezza delle nuove responsabilità. Infine, riguardo alla possibilità per i genitori degli alunni iscritti a scuole private paritarie di usufruire di detrazioni fiscali prevale la contrarietà: il 56% esprime un giudizio negativo mentre il 42% si dichiara a favore. Le opinioni sono molto diversificare in relazione agli orientamenti politici: il dissenso prevale tra gli astensionisti, i grillini e, in misura più contenuta, tra gli elettori del Pd. Il consenso prevale tra i leghisti e tra gli elettori centristi. Gli elettori di Forza Italia si dividono a metà. Il provvedimento rimanda ad una stagione nella quale il dibattito sul finanziamento della scuola privata era molto acceso e fortemente 24 connotato ideologicamente. Anche allora tra gli italiani prevaleva il dissenso, non solo per ragioni politiche, ma perché le private sono considerate scuole riservate ai più abbienti (che non necessitano di agevolazioni economiche) e, soprattutto, perché le risorse assegnate alle scuole private sono considerate sottratte a quelle pubbliche che, come è noto, non versano in condizioni floride. E, a questo proposito, l’aneddotica è estremamente ricca: dalle preoccupanti condizioni degli edifici scolastici all’onere dell’acquisto di materiale di pertinenza della scuola da parte delle famiglie. Nel complesso prevale il consenso sulla riforma scolastica, ma la differenza tra favorevoli e contrari è molto risicata: 42% contro 39% e un intervistato su cinque non si esprime. Il dissenso prevale solo tra i grillini e gli astensionisti, le cui opinioni sono talora influenzate dalla sfiducia generalizzata nei confronti del governo. In generale, ai giudizi positivi sulla stabilizzazione di una larga parte dei precari e sulla aumentata autonomia scolastica (pur con le riserve di cui si è detto), fa da contraltare la contrarietà rispetto alle detrazioni fiscali per gli iscritti alle private. Quest’ultimo è un tema sensibile che attenua il favore nei confronti della «Buona scuola». del 04/05/15, pag. 6 Ai prof più poveri non basta la passione Di Lorenzo Tosa La “buona scuola” sono facce. Milioni di volti che ti passano accanto la mattina presto nel traffico, una cartella portata in spalla da una mamma. È il liceo Colombo di Genova – quello di Mazzini e De Andrè – a mezzanotte, stracolmo di ex studenti venuti ad ascoltare il loro vecchio professore che declama il Notturno di Alcmane. Ma all’alba ce n’è un’altra molto più prosaica, fatta di graduatorie, tetti che crollano, conti in rosso. E numeri. In chiaroscuro. Un milione di studenti in più Sono lontani i tempi della “scuola-carrozzone” affollata di insegnanti (malpagati) e povera di studenti. Oggi gli stipendi sono rimasti al palo, ma gli alunni crescono sempre di più: sono 7 milioni e 900mila quelli censiti nell’ultimo anno scolastico, tra scuole dell’infanzia, primarie e secondarie (1 milione in più rispetto al 2007-08), mentre nello stesso periodo i docenti di ruolo sono calati dagli 840.000 di 7 anni fa agli attuali 600.839. Un dato, questo, che non subisce più variazioni dal 2011, congelato da una norma di legge dell’allora ministro Tremonti che obbliga il MIUR a non “sforare” il numero di posti dell’anno scolastico 2011-12, per adeguarsi ai parametri europei. Risultato? Il rapporto docenti-alunni è progressivamente salito fino a circa 1 a 11 (in linea con la media UE di 1 a 12). In realtà – come spiega Gianluigi Dotti, responsabile del Centro Studi di Gilda, il sindacato nazionale degli insegnanti – le cifre raccontano solo una parte della storia, in un Paese dove le difformità restano enormi. “Siamo di fronte al paradosso del pollo di Trilussa. Non è il dato in sé che preoccupa, ma l’enorme frammentazione del territorio: mentre nei paesini di montagna e dell’entroterra si fa fatica a mantenere un presidio, le città esplodono con classi-pollaio da 30-35 alunni”. Gli insegnanti più poveri d’Europa È in queste condizioni che docenti, dirigenti e operatori scolastici si ritrovano a lavorare tutti i giorni, tra continui tagli alle risorse e gli stipendi fermi ormai al 2009. “Ma già allora eravamo in ritardo di due anni – ricorda Rino Di Meglio, segretario nazionale di Gilda – 25 Dieci, quindici anni fa le risorse per intervenire c’erano e non sono state usate. Con la crisi, la situazione è precipitata e oggi gli insegnanti sono definitivamente usciti dal ceto medio”. Il confronto con l’Europa è impietoso. Una volta entrato in ruolo, un maestro elementare italiano percepisce un reddito lordo di 23.048 euro, contro i 27.993 del collega spagnolo, i 34.286 degli svedesi e addirittura i 40.142 dei tedeschi. Ma è a fine carriera che la forbice si divarica del tutto. Se la busta paga d’ingresso in Italia e in Francia è più o meno in linea, 40 anni dopo il maestro transalpino avrà staccato il nostro di oltre 11.000 euro (rapporto Eurydice 2013). Non va meglio ai professori di medie e superiori, il cui potere d’acquisto negli ultimi sei anni si è ridotto addirittura del 15%. “Dopo 28 anni di servizio, una laurea, un TFA (Il Tirocinio Formativo Attivo) e un concorso alle spalle, il mio stipendio è fermo a 1.800 euro” racconta un professore di liceo, mentre in ingresso oggi non si supera i 1.300 euro. Un’emorragia che non risparmia neppure i bidelli. Ogni anno, nei licei e negli istituti superiori, il personale ausiliario perde per strada oltre 10.000 unità, a fronte di 30.000 nuovi studenti iscritti (dati Anief). E i nuovi tagli sulla scuola nascosti nella Legge di Stabilità appena approvata dal governo rischiano di veder cancellati altri 2.020 posti di lavoro ATA, pari a una riduzione nella spesa di personale intorno ai 50 milioni di euro, a partire dall’anno scolastico 2015/16. “In alcune scuole chiamano imprese di pulizie esterne, perché lo Stato non ha risorse per assumere” racconta Franca, operatrice scolastica, il cui ultimo scatto d’anzianità risale al 2005. “La retribuzione di un bidello oggi in alcuni casi non arriva ai 1.000 euro – precisa Di Meglio – Siamo a livello di sussidio di disoccupazione”. “La vecchia scuola” Di fronte a dati del genere, l’opinione pubblica si è spesso divisa. Per alcuni, i lavoratori della scuola sono stati abbandonati dallo Stato. C’è chi, invece, non ha dubbi: “Giusto così, lavorano troppo poco”. Eppure, a guardar bene, l’orario settimanale di un professore di liceo (le classiche 18 ore) in Europa è inferiore solo a Ungheria (20), Danimarca e Spagna (19) e di gran lunga superiore alle 16,3 di media nell’area UE. Lo spread si allarga nelle scuole primarie: in Italia sono 22 le ore di lezioni frontali previste, contro le 19,6 medie europee (fonte Eurydice). Le statistiche non tengono, ovviamente, in considerazione le ore spese dal corpo insegnanti in attività didattiche parallele, tra correzione dei compiti, preparazione di esami e lezioni, colloqui con le famiglie, scrutini, programmazione e impegni collegiali vari. Secondo un calcolo dell’Istituto Comprensivo Quintino di Vona di Milano, l’attività reale sfiora le 40 ore settimanali, per un totale annuo di 1.759 ore. Crescono le ore e cresce anche l’età media dei docenti, oggi intorno ai 50-51 anni, la più in alta in Europa. Al nostro Paese tocca un altro primato decisamente poco invidiabile. Secondo il rapporto “Educational at a Glance 2013”, la scuola italiana ha il 62% di insegnanti over 50: più del doppio rispetto a Regno Unito (28%) e Spagna (30%) e nettamente sopra la media Ocse (36%). È lo scontrino più salato del blocco alle assunzioni, ma anche della riforma Fornero che ha innalzato l’età pensionabile, arrestando di fatto il turn-over tra pensionati e neo-assunti. Quell’esercito di 400mila precari La coperta è troppo corta. E, alla fine, a farne le spese – come spesso capita – è chi ancora attende di entrare: l’esercito dei 400mila precari della scuola. Di questi, poco meno della metà sono stabilmente occupati ma privi di un contratto a tempo indeterminato e relative tutele. Ogni anno, il 30 giugno, la scuola li licenzia, per poi riassumerli il settembre successivo. “Puoi andare avanti così anche dieci, vent’anni, una vita intera, senza mai essere assunta” si sfoga Livia, mamma e maestra elementare precaria. Una dei 150mila docenti “di fatto” che il ministro dell’Istruzione Giannini ha promesso di assumere entro il 2015. In attesa dell’annunciata stabilizzazione, la scuola fa i conti con i tagli orizzontali alle risorse che negli ultimi anni hanno spolpato l’istruzione pubblica. A cominciare dalla 26 Riforma Gelmini del 2010. “Una non riforma – la definisce Di Meglio – Si è limitata a tagliare orari e organici, ma di azioni concrete neanche l’ombra”. E il governo Renzi si prepara a seguire il solco tracciato: si calcola che i tagli alla scuola contenuti nell’ultima Legge di Stabilità abbiano superato i 600 milioni di euro, a fronte di investimenti scarsi o assenti. A tenere in piedi la scuola sono, soprattutto, i genitori che pagano di tasca propria le funzioni minime primarie che lo Stato non riesce a garantire: carta igienica, gessetti, ma oramai anche attrezzature, laboratori, corsi di recupero. “All’inizio era nato come contributo volontario – sottolinea Fabrizio Azzolini, presdidente dell’AGE (Associazione Italiana Genitori) – Oggi è diventata una tassa, senza la quale la scuola chiuderebbe domani”. La crisi la scopri ancora una volta nei numeri. “Per una scuola di 2.000 studenti, da Roma arrivano circa 50.000 euro all’anno, mentre le famiglie ne investono almeno 6 volte tanto” calcola il prof. Dotti di Gilda. E aggiunge. “In certi istituti alberghieri i genitori sono arrivati persino a comprare il cibo per le ricette”. Metafora perfetta di una scuola su cui per anni hanno mangiato in tanti. E ora sono rimaste le briciole. 27 CULTURA E SPETTACOLO del 04/05/15, pag. 17 Gli organizzatori del “Pen Club” spiegano le ragioni che li hanno portati a preferire il settimanale francese colpito a gennaio dalla furia degli integralisti islamici Un riconoscimento che ha diviso scrittori e intellettuali “Può anche dar fastidio ma la satira è un diritto ecco perché premiamo il coraggio di Charlie” SUZANNE NOSSELMAY ANDREW SOLOMON UN’ORGANIZZAZIONE che si fa paladina dei dissidenti deve necessariamente aprire loro le sue fila. La settimana scorsa la sezione americana del Pen è stata bersaglio di critiche da parte di molti autori, tra cui alcuni suoi membri, per la decisione di assegnare il premio per il coraggio nella libertà di espressione a Charlie Hebdo , il settimanale satirico francese, vittima nel gennaio scorso di un attacco omicida. L’accesa polemica sorta in merito testimonia quanta importanza abbiano i gruppi che hanno a cuore la libertà di espressione e come in una società aperta persone di buona volontà che condividono gli stessi valori possano avere divergenze di interpretazione sui principi. La censura è tradizionalmente in primis appannaggio dei governi, tuttavia la libertà di espressione è anche nel mirino di vigilantes, individui che tentano di limitarla ricorrendo alle minacce e alla violenza. Negli ultimi mesi si è fatto fuoco nella sede di Charlie Hebdo e in occasione di un evento sulla libertà di espressione a Copenaghen; due blogger atei del Bangladesh sono stati ammazzati a colpi di mannaia, uno era naturalizzato americano; un vignettista politico australiano ha ricevuto minacce di morte da parte di jihadisti; a un attivista pakistano hanno sparato. Questi attacchi sfrontati mirano a tacitare con il terrore l’opinione pubblica mondiale su argomenti che, seppur sacri per alcuni, riguardano molti altri e non devono essere sottratti al dibattito. La lista delle problematiche a livello americano e globale di cui il Pen si fa carico è lunga, ma questo aspetto assume particolare urgenza a fronte dell’ondata di omicidi. Jonathan Swift, Rabelais, Voltaire, Alexander Pope, Mark Twain, Stanley Kubrick, hanno offeso con la loro satira e sono stati per questo bersaglio di aspre critiche; Daumier finì in carcere per una caricatura del sovrano francese raffigurato come un mostro obeso. La satira si presta spesso ad essere costruita come incitamento all’odio, soprattutto a un primo sguardo. Molte voci dell’America contemporanea sbeffeggiano le fragilità allo scopo di smascherarle — basta pensare a Joan Rivers, Richard Pryor, Eddie Murphy, Louis C. K., “South Park” o “The Colbert Report.” I disegnatori di Charlie Hebdo erano consapevoli del pericolo di fare satira avente per bersaglio oggetti di culto. Il loro valore sta nel coraggio indomito con cui pattugliano i distretti più estremi della libertà di espressione. Se è vero che molti mettono in discussione la difesa di quel territorio remoto per via del fanatismo che può nascondervisi in agguato, Charlie Hebdo ne è stata vigile sentinella, mantenendolo aperto a tutti, in caso sorga anche per noi un domani la necessità di sfidare tabù rischiando il sacrilegio. Se non ci 28 fosse nessuno a sorvegliare le province di confine saremmo tutti costretti ad abitare un territorio di espressione sempre più ridotto. Sei autori straordinari — Peter Carey, Teju Cole, Rachel Kushner, Michael Ondaatje, Francine Prose e Taiye Selasi — ci hanno scritto che rinunceranno a partecipare martedì al gala di premiazione per un senso di disagio. Molti altri grandi scrittori — tra cui Paul Auster, Adam Gopnik, Siri Hustvedt, Porochista Khakpour, Alain Mabanckou, Azar Nafisi, Salma Rushdie, Simon Schama e Art Spiegelman — si sono espressi (chi in pubblico, chi in privato) a favore della nostra scelta. Ci siamo proposti di evitare di cadere in uno schema binario riduttivo, la questione è sfaccettata e tutti gli autori hanno espresso posizioni convincenti sotto il profilo morale. Assegnando questo premio, il Pen non ratifica il contenuto o la qualità delle vignette, sostiene solo che a nostro giudizio non costituiscono incitamento all’odio. Noi non ci chiediamo se le vignette meritino un premio ai meriti letterari, ma se escludano o meno Charlie Hebdo da un meritato premio al coraggio. Stéphane Charbonnier, il direttore di Charlie Hebdo ucciso nell’attacco, diceva che il suo obiettivo era “banalizzare” tutte le aree di dibattito in cui è troppo insidioso addentrarsi. Sosteneva che come generazioni di satira hanno fatto sì che il cattolicesimo si possa liberamente ridicolizzare — e quindi legittimamente mettere in discussione — lo stesso risultato si possa ottenere con l’Islam e altri soggetti. Sos Racisme ha definito Charlie Hebdo «il maggior settimanale antirazzista francese». Le Monde sostiene che delle 523 copertine di Charlie Hebdo uscite dal 2005 al 2015 solo sette mettono alla berlina l’Islam (dieci ironizzano su varie religioni). Le vignette si oppongono ai tentativi degli estremisti religiosi di ridisegnare i confini della libertà di espressione usando la violenza. Il pregiudizio anti musulmano in Occidente è un problema grave, come lo è il fondamentalismo, l’islamismo o quant’altro. Alimentandosi a vicenda, questi mali costituiscono una minaccia per le libertà civili e lacerano il tessuto sociale. Ma un’attestazione o un premio riferito a uno dei problemi non significa negazione o acquiescenza rispetto all’altro. La dolorosa assenza di un diffuso rispetto nei confronti dei musulmani in Francia non sminuisce il coraggio di Charlie Hebdo nella difesa del diritto di mancare di rispetto. del 04/05/15, pag. 32 1943-45, il sangue degli innocenti Da Marzabotto a Vicovaro, la mappa delle stragi compiute dalle forze armate naziste Corrado Stajano Si potrebbe definire un’enciclopedia dell’orrore, un trattato di criminologia militare, la storia sociale di una dittatura del Novecento, un saggio di antropologia della violenza, un pallottoliere della morte questo gran libro dello storico Carlo Gentile sulla tragedia del nazismo nella seconda guerra mondiale. Si intitola I crimini di guerra tedeschi in Italia (1943-1945) , l’ha pubblicato Einaudi. È un libro totale, definitivo nel raccontare le stragi che insanguinarono il nostro Paese dall’armistizio alla Liberazione. Anche se la bibliografia esistente è sterminata e spesso seria. Gentile, che insegna all’Università di Colonia ed è stato perito in alcuni dei principali processi sulle stragi celebrati in Italia, ha lavorato per molti anni a questo libro scritto con una minuzia persino ossessiva su quanto accadde in quel tempo crudele. Per la sua ricerca ha letto, studiato, usato tutte le possibili fonti, gli archivi tedeschi, i fondi della 29 Wehrmacht, delle SS, della polizia, della Hitlerjugend, della Luftwaffe, ha analizzato i materiali alleati, le commissioni d’inchiesta del dopoguerra, ha consultato gli atti dei processi dei tribunali tedeschi e soprattutto quelli delle procure militari italiane, ha ascoltato i sopravvissuti, ha visto le carte degli archivi nostrani, da quello Centrale dello Stato a quelli degli Istituti della Resistenza e dei Comuni, ha visto i documenti nascosti nei più o meno segreti «armadi della vergogna», ha studiato gli stati di servizio degli ufficiali tedeschi, gli schedari delle decorazioni, le piastrine di riconoscimento dei soldati, gli elenchi dei caduti, con i nomi degli assassini e dei reparti in cui hanno servito, compagnie, battaglioni, reggimenti, divisioni, corpi d’armata, armate. Forse è andato a vedere i cimiteri dei carnefici e le tombe delle vittime, vecchi, donne, bambini «arsi vivi nel rogo dei casali», dispersi «nei poveri cimiteri di montagna» (Calamandrei). Leggendo questo libro viene da pensare al lavoro anche doloroso dello storico che non sia un trovarobe o un leggicarte indifferente. La lingua (il libro è tradotto dal tedesco, in Germania uscì con polemiche tre anni fa) è piatta ma talvolta si avverte un sussulto nel racconto rigoroso di fatti sanguinanti. Il saggio spiega ancora una volta che cosa è la guerra, con la sua ferocia e la sua gratuità. Spiega come fu temuto dai nazisti il movimento partigiano italiano, giudicato di grande importanza dai vertici militari tedeschi che per combatterlo misero in piedi massicce strutture, uno stato maggiore operativo delle SS e comandi regionali per la lotta alle bande. La Wehrmacht e le SS furono preda della «psicosi del partigiano»: i soldati si sentivano assediati e minacciati, condizione che accresceva il potere e la forza degli uomini della montagna, ma rendeva ancora più indifesi gli abitanti dei paesi considerati dai nazisti potenziali nemici della loro guerra di annientamento. E questo serve anche a smentire i negazionisti e i minimizzatori della Resistenza. Il libro di Gentile è utile anche per far capire a chi abbia ancora dubbi quale fu lo spirito della violenza nazista. Le armate che operarono in Italia — quasi 600 mila uomini — violarono ogni regola dell’onor militare che in guerra potrebbe persino esistere anche al di là della legge, la Convenzione dell’Aja del 1907, quella di Ginevra del 1929, il codice penale militare di guerra. Quel che commisero i nazisti fu atroce. Incendiarono villaggi, uccisero persone che non avevano alcun rapporto con il mondo della Resistenza: «Il numero spaventosamente alto di donne, adolescenti e bambini tra le vittime delle stragi evidenzia il carattere fondamentalmente criminale di molte delle uccisioni commesse dai soldati della Wehrmacht e della Waffen-SS» scrive Gentile. Lo schema della violenza non muta. Il rastrellamento segue come ritorsione a un’azione partigiana e fa parte della strategia dei comandi nazisti che poi, il più delle volte, inventano giustificazioni fallaci. Terra bruciata, case perquisite, saccheggiate, incendiate, donne stuprate dai soldati sotto gli occhi assenti o compiaciuti degli ufficiali, uomini uccisi con la normalità di un gesto ovvio. Ci furono in quegli anni vendette per azioni partigiane, ci furono non poche stragi di innocenti che non c’entravano assolutamente nulla con le azioni di guerra senza alcuna verifica dei comandi sui possibili coinvolgimenti di poveri contadini legati con fil di ferro al collo ai pali delle viti o ai tronchi degli alberi e falciati dalle mitragliatrici. «In nessun paese occidentale si verificarono eccessi paragonabili a quelli commessi in Italia» scrive Gentile. Il libro racconta per filo e per segno come avvennero le grandi stragi, Marzabotto, per esempio: il maresciallo Kesselring, dopo il massacro, inviò le sue congratulazioni per «la buona riuscita dell’operazione antibande» (Gentile si occupa poco dei feldmarescialli e dei vertici militari nazisti che dopo la guerra se la cavarono a buon mercato: Karl Wolff, il generale comandante delle SS, negli anni Settanta del secolo scorso, viveva tranquillamente a Darmstadt e concedeva interviste ai giornalisti della Rai-tv. Duecentomila lire d’epoca ognuna). 30 Si conoscono i nomi delle grandi stragi: con Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema e anche Boves, Meina, Civitella in Val di Chiana, la Certosa di Farneta, ma non si ha notizia o quasi delle infinite stragi che insanguinarono la penisola: al Sud dopo l’8 settembre 1943, in Italia centrale dopo la liberazione di Roma, in Toscana, soprattutto, nell’estate-autunno del 1944 quando, come sempre accade, l’esercito tedesco in ritirata sentì l’onta della sconfitta e si incrudelì ancora di più. Il libro di Gentile è una mappa preziosa e dolente degli infiniti plotoni di esecuzione che uccisero innocenti nelle piccole città e nei villaggi, tra le case messe a fuoco: Capistrello, Filetto di Camerda, Onna, San Paolo dei Cavalieri, Vallucciole, Borgiola Foscalina, Vicovaro, Roccalbegna, Forno, Montemignaio, Guardistallo, Padule di Fucecchio. E innumerevoli altri nomi di luoghi di cui non si ha più memoria. Sotto il microscopio dello storico sono soprattutto le due divisioni che più di tutte le formazioni naziste si macchiarono di delitti e di stragi: la 16ª SS Panzer-Grenadier Division «Reichsführer-SS» e la Fallschirm-Panzer Division «Hermann Göring». Perché tanta ferocia? Erano corpi speciali, formati da giovani ideologizzati, cresciuti nelle organizzazioni naziste, spesso reduci dall’esperienza mortale della guerra nell’Est Europa dove la Wehrmacht e le SS furono protagoniste di raccapriccianti azioni di sterminio di massa. Le stragi, anche in Italia, ubbidivano a una rigorosa regia militare. È sufficiente per farlo capire il fatto che le modalità delle azioni sanguinarie sono identiche. I repubblichini, «i ragazzi di Salò» — 160.000 uomini — sono un po’ trascurati da Gentile. Spesso affiorano qua e là, subalterni, non certo dalla parte dei loro compatrioti. Non vogliono esser da meno dei modelli nazisti e qualche volta, riescono a essere sinistramente più feroci. I crimini di guerra tedeschi in Italia, libro di grande importanza scientifica e anche umana, offre un contributo essenziale per la storia di quei terribili anni. Una registrazione ben documentata di eventi da non dimenticare mai . 31 ECONOMIA E LAVORO del 04/05/15, pag. 9 Consulta sulle pensioni, conto a 13 miliardi Il governo studia come ridurre l’impatto della sentenza della Corte costituzionale escludendo comunque gli assegni più ricchi Ma la decisione apre un conflitto tra le leggi italiane e i trattati europei, un confronto che potrebbe finire alla Corte di Lussemburgo FEDERICO FUBINI ROMA . Non è la prima volta e non sarà l’ultima. Logica del diritto, sostenibilità economica e convivenza europea sono già entrate in conflitto prima e lo faranno di nuovo. In questo l’Italia non è sola, anche le se prime stime in commissione bilancio della Camera rivelano un problema, all’apparenza, insolubile: secondo calcoli ancora da confermare, sarebbe fra gli 11 e i 13 miliardi l’aggravio per lo Stato della bocciatura in Corte costituzionale del decreto sulle pensioni di dicembre 2011. Ciò che per la legge sembra ovvio, per il bilancio pubblico è quasi impossibile e per l’area euro è qualcosa di già vissuto in passato. Un anno e mezzo fa la Corte costituzionale portoghese bloccò alcune misure del piano di salvataggio del Paese. In Germania nel febbraio 2014 i giudici posti a tutela della Legge fondamentale fecero capire che la Banca centrale europea era in conflitto l’ordinamento tedesco. E venerdì scorso la Consulta di Roma ha annullato una norma approvata a larga maggioranza in parlamento per permettere all’Italia di rispettare un trattato sottoscritto dal Paese: quello sulla partecipazione all’euro e il rispetto delle sue regole. Il governo del dicembre 2011, guidato da Mario Monti, congelò per due anni gli scatti su tutte le pensioni dai 1450 euro in su in modo da ridurre il deficit, rendere il debito più sostenibile, garantire la continuità degli impegni dello Stato. Oggi gli equilibri del Paese sono più stabili di tre anni e mezzo fa. Ma il conflitto fra interpretazione della Costituzione italiana, regole europee e risorse è più acuto che mai. Lo è al tal punto che, in ambienti del governo, sta emergendo una tentazione: chiedere un rinvio del caso alla Corte di giustizia europea, per chiarire se la sentenza della Consulta italiana sia coerente con gli impegni di bilancio firmati a Bruxelles. Il nuovo Patto di stabilità (il “Six Pack” e il “Two Pack”) sono inclusi nel Trattato, dunque hanno rango costituzionale e il diritto europeo fa premio su quello nazionale. Il governo italiano potrebbe chiedere alla Corte di Lussemburgo se la sentenza dei giudici di Roma sia compatibile con essi. In realtà è difficile che alla fine il governo prenda questa strada. Sarebbe la prima volta che un premier si rivolge alla giustizia europea contro la sua stessa Corte costituzionale e probabilmente Matteo Renzi vorrà evitare una mossa così destabilizzante. Più agevole per Palazzo Chigi e il ministero dell’Economia cercare di attenuare e circoscrivere, per ora, l’impatto dei rimborsi richiesti. In passato la Corte aveva indicato che un blocco temporaneo degli adeguamenti all’inflazione delle pensioni almeno otto volte sopra il minimo (da circa 4.000 euro in avanti) non viola Costituzione. Per gli assegni più alti è verosimile che per ora non scatti alcun pagamento, ma i risparmi sarebbero poca cosa rispetto all’ammanco di bilancio aperto dalla sentenza. Secondo i giudici la pensione è salario differito, dunque ridurla equivale a espropriare quanto l’ex lavoratore ha accantonato. Poco importa alla Consulta, in termini legali, che 32 nella pratica molti di quei benefici siano molto sopra ai contributi effettivamente versati. Quei pensionati si sono ritirati con il sistema retributivo, cioè con versamenti parametrati agli ultimi salari e non ai veri contributi. In sostanza, la logica economica racconta una storia diversa da quella del diritto. Nel 2014 l’Italia aveva il livello di spesa sociale più alto dell’Ocse, il club delle 33 democrazie avanzate, ad eccezione di Francia, Finlandia, Belgio e Danimarca. Eppure questo Paese ha la struttura di welfare più inefficace e distorta d’Europa. La spesa per le famiglie resta fra le più basse, malgrado il collasso delle nascite in questi anni. Gli assegni contro la crescente povertà, in proporzione, risultano superiori solo a quelli di Messico, Grecia e Turchia. Appena il 5% del welfare italiano è distribuito sulla base di valutazioni dei bisogni reali delle famiglie, il resto viene divorato quasi tutto dalle pensioni. Grazie alla Consulta questo squilibrio sarà ancora più stridente da ora in poi. Tanto che i giudici costituzionali potrebbero ottenere un risultato che non avevano previsto: indurre una ripensamento della previdenza in nome di un welfare più moderno dopo le prossime elezioni. Prima o poi, con questa o un’altra legge, si terranno. del 04/05/15, pag. 15 Piano povertà, sostegno al reddito per 6 mesi Scatterà sotto la soglia di 8 mila euro. Previsto un patto tra cittadino e lo Stato: l’aiuto all’inclusione legato all’impegno di iscrivere i figli a scuola, cercare un’occupazione o dedicarsi ai lavori socialmente utili ROMA Ci aveva già provato Enrico Letta, con un progetto pilota predisposto dal ministro Enrico Giovannini. Si chiamava Sia, sostegno per l’inclusione attiva e riguardava tutti coloro che vivono sotto la soglia di povertà, o per mancanza di reddito, o per reddito insufficiente. Ora ci sta lavorando il ministro Giuliano Poletti e sembra che l’acronimo sia sempre lo stesso, la differenza è che Renzi vorrebbe trasformare il progetto in un piano su larga scala, un misura di sostegno per tutti coloro che non arrivano a percepire 8 mila euro di reddito annui. Ieri il capo del governo ha accennato al progetto: «Con una seria politica degli investimenti ci giochiamo la ripartenza economica e potremo affrontare l’emergenza che mi sconvolge il cuore: poco più di un milione di bambini e ragazzi che stanno sotto la soglia della povertà». Non ha detto di più, ma ha legato ogni scelta di politica espansiva alle decisioni che arriveranno da Bruxelles: quelle sui margini di manovra che l’Italia ha già chiesto, e su cui attende risposte; e forse anche quelle nuove che potrebbe avanzare, se il «buco» provocato dalla recente sentenza della Consulta sulla rivalutazione bloccata delle pensioni non venisse tamponato in altro modo. Di sicuro la sentenza della Corte ha impresso al piano che Renzi persegue una battuta d’arresto: la misura a cui sta pensando l’esecutivo, sulla scia dell’impianto del precedente governo, prevede non un generico ammortizzatore sociale ma una sorta di «patto» fra Stato e cittadino, sia esso povero perché ha un reddito molto basso, o perché ha perso il lavoro, o ancora perché sono cambiate le condizioni familiari (per esempio separazione). Un «patto» che verrebbe stipulato ogni 18 mesi, che prevederebbe un’integrazione al reddito della durata massina di 180 giorni, e che in cambio chiederebbe al beneficiario uno sforzo di inclusione sociale con una fascia di opzioni diverse (impegnarsi per trovare un lavoro, mandare i figli a scuola, fare lavori socialmente utili: alcuni possibili esempi), uno sforzo in grado di definire la misura come non assistenziale ma inclusiva. 33 Per la copertura servono diversi miliardi di euro: da 2 a 7 fu la stima del precedente governo, a seconda della forchetta dei destinatari e della misura del sostegno economico erogato dallo Stato. Secondo le stime più ottimistiche, sono invece almeno 3 i miliardi che lo Stato deve trovare per far fronte alla sentenza della Consulta, che ha giudicato incostituzionale il blocco della rivalutazione delle pensioni del governo Monti. Insomma il piano di Renzi, e di Poletti, è di colpo diventato più complesso. Ieri Renzi ha citato Bruxelles e ha detto che nel «prossimo anno e mezzo» ci giochiamo la ripresa economica: come dire che il governo ha molte riforme da varare, ma forse ha bisogno di qualche decimale in più di deficit, e dunque del via libera della Commissione, per procedere. 34