testi aggiuntivi

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testi aggiuntivi
Letteratura italiana contemporanea a.a. 2012-2013
Prof. Lorenzo Carpanè
Testi letterari aggiuntivi
Francesco Petrarca
Rerum vulgarium fragmenta, XC
Erano i capei d'oro a l'aura sparsi
che 'n mille dolci nodi gli avolgea,
e 'l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch'or ne son sí scarsi;
e 'l viso di pietosi color' farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i' che l'ésca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di súbito arsi?
Non era l'andar suo cosa mortale,
ma d'angelica forma; et le parole
sonavan altro, che pur voce humana.
Uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch'i' vidi: et se non fosse or tale,
piagha per allentar d'arco non sana.
Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, IV, 30-32
30
Fa nove crespe a l'aura il crin disciolto,
che natura per sé rincrespa in onde;
stassi l'avaro sguardo in sé raccolto,
e i tesori d'amore e i suoi nasconde.
Dolce color di rose in quel bel volto
fra l'avorio si sparge e si confonde,
ma ne la bocca, onde esce aura amorosa,
sola rosseggia e semplice la rosa.
31
Mostra il bel petto le sue nevi ignude,
onde il foco d'Amor si nutre e desta.
Parte appar de le mamme acerbe e crude,
parte altrui ne ricopre invida vesta:
invida, ma s'a gli occhi il varco chiude,
l'amoroso pensier già non arresta,
ché non ben pago di bellezza esterna
ne gli occulti secreti anco s'interna.
32
Come per acqua o per cristallo intero
trapassa il raggio, e no 'l divide o parte,
per entro il chiuso manto osa il pensiero
sì penetrar ne la vietata parte.
Ivi si spazia, ivi contempla il vero
di tante meraviglie a parte a parte;
poscia al desio le narra e le descrive,
e ne fa le sue fiamme in lui più vive.
Giovanni Pascoli
Digitale purpurea, da Primi poemetti, 1897
I
Siedono. L'una guarda l'altra. L'una
esile e bionda, semplice di vesti
e di sguardi; ma l'altra, esile e bruna,
l'altra... I due occhi semplici e modesti
fissano gli altri due ch'ardono. "E mai
non ci tornasti?" "Mai!" "Non le vedesti
più?" "Non più, cara." "Io sì: ci ritornai;
e le rividi le mie bianche suore,
e li rivissi i dolci anni che sai;
quei piccoli anni così dolci al cuore..."
L'altra sorrise. "E di': non lo ricordi
quell'orto chiuso? i rovi con le more?
i ginepri tra cui zirlano i tordi?
i bussi amari? quel segreto canto
misterioso, con quel fiore, fior di...?"
"morte: sì, cara". "Ed era vero? Tanto
io ci credeva che non mai, Rachele,
sarei passata al triste fiore accanto.
Ché si diceva: il fiore ha come un miele
che inebria l'aria; un suo vapor che bagna
l'anima d'un oblìo dolce e crudele.
Oh! quel convento in mezzo alla montagna
cerulea!" Maria parla: una mano
posa su quella della sua compagna;
e l'una e l'altra guardano lontano.
II
Vedono. Sorge nell'azzurro intenso
del ciel di maggio il loro monastero,
pieno di litanie, pieno d'incenso.
Vedono; e si profuma il lor pensiero
d'odor di rose e di viole a ciocche,
di sentor d'innocenza e di mistero.
E negli orecchi ronzano, alle bocche
salgono melodie, dimenticate,
là, da tastiere appena appena tocche...
Oh! quale vi sorrise oggi, alle grate,
ospite caro? onde più rosse e liete
tornaste alle sonanti camerate
oggi: ed oggi, più alto, Ave, ripete,
Ave Maria, la vostra voce in coro;
e poi d'un tratto (perché mai?) piangete...
Piangono, un poco, nel tramonto d'oro,
senza perché. Quante fanciulle sono
nell'orto, bianco qua e là di loro!
Bianco e ciarliero. Ad or ad or, col suono
di vele al vento, vengono. Rimane
qualcuna, e legge in un suo libro buono.
In disparte da loro agili e sane,
una spiga di fiori, anzi di dita
spruzzolate di sangue, dita umane,
l'alito ignoto spande di sua vita.
III
"Maria!" "Rachele!" Un poco più le mani
si premono. In quell'ora hanno veduto
la fanciullezza, i cari anni lontani.
Memorie (l'una sa dell'altra al muto
premere) dolci, come è tristo e pio
il lontanar d'un ultimo saluto!
"Maria!" "Rachele!" Questa piange, "Addio!"
dice tra sé, poi volta la parola
grave a Maria, ma i neri occhi no: "Io,"
mormora, "sì: sentii quel fiore. Sola
ero con le cetonie verdi. Il vento
portava odor di rose e di viole a
ciocche. Nel cuore, il languido fermento
d'un sogno che notturno arse e che s'era
all'alba, nell'ignara anima, spento.
Maria, ricordo quella grave sera.
L'aria soffiava luce di baleni
silenziosi. M'inoltrai leggiera,
cauta, su per i molli terrapieni
erbosi. I piedi mi tenea la folta
erba. Sorridi? E dirmi sentia: Vieni!
Vieni! E fu molta la dolcezza! molta!
tanta, che, vedi... (l'altra lo stupore
alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta
con un suo lungo brivido...) si muore!"
Umberto Saba
A mia moglie
Tu sei come una giovane
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell'andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull'erba
pettoruta e superba.
È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio,
Così, se l'occhio, se il giudizio mio
non m'inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun'altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle,
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.
Tu sei come una gravida
giovenca;
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa;
che, se la lisci, il collo
volge, ove tinge un rosa
tenero la tua carne.
se l'incontri e muggire
l'odi, tanto è quel suono
lamentoso, che l'erba
strappi, per farle un dono.
È così che il mio dono
t'offro quando sei triste.
Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore.
Ai tuoi piedi una santa
sembra, che d'un fervore
indomabile arda,
e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore.
Quando in casa o per via
segue, a chi solo tenti
avvicinarsi, i denti
candidissimi scopre.
Ed il suo amore soffre
di gelosia.
Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l'angusta
gabbia ritta al vederti
s'alza,
e verso te gli orecchi
alti protende e fermi;
che la crusca e i radicchi
tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui.
Chi potrebbe quel cibo
ritoglierle? chi il pelo
che si strappa di dosso,
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire?
Chi mai farti soffrire?
Tu sei come la rondine
che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest'arte.
Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere:
questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un'altra primavera.
Tu sei come la provvida
formica. Di lei, quando
escono alla campagna,
parla al bimbo la nonna
che l'accompagna.
E così nella pecchia
ti ritrovo, ed in tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun'altra donna.
Eros
Sul breve palcoscenico una donna
fa, dopo il Cine, il suo numero.
Applausi, a scherno credo, ripetuti. In piedi,
dal loggione in un canto, un giovanetto,
mezzo spinto all'infuori, coi severi
occhi la guarda, che ogni tratto abbassa.
È fascino? È disgusto? È l'una e l'altra
cosa? Chi sa? Forse a sua madre pensa,
pensa se questo è l'amore. I lustrini,
sul gran corpo di lei, col gioco vario
delle luci l'abbagliano. E i severi
occhi riaperti, là più non li volge.
Solo ascolta la musica, leggera
musichetta da trivio, anche a me cara
talvolta, che per lui si è fatta, dentro
l'anima sua popolana ed altera,
una marcia guerriera
Paolo Buzzi
La sposa danese, da Versi liberi, 1913
Vedi la giovinetta
d’un biondo-bianco lino,
rosea, tenera, tutta occhi di mare,
che al canto, là, della mensa candidissima,
tra il fiammeggiar delle luci elettriche e dei fiori,
sotto due pupille latine che la spìano, si dona
in un continuo palpito pubblico di tortora al suo sposo.
Queste donne non curano gli occhi del paese
Che non le curano. Conta, loro,
se gli occhi degli stranieri le denudano?
Guardala e invidia un po’ questi oblii,
tu che obliar non sai neppure in sonno.
Ella è seduta in grembo al suo uomo e non pare.
Quella tovaglia ha il pallore mortale d’un lenzuolo
d’orgia.
Quegli occhi affondano nell’abisso dei sensi chiaro
di meduse.
Quelle labbra sorridono d’angelo e dicon parole
demoniache.
L’uomo è placido, serio, gigante, quasi sordomuto,
pupille su nevi lontane.
Giovanni Giudici
Alla Beatrice, da O Beatrice, 1972
Beatrice sui tuoi seni io ci sto alla finestra
arrampicato su una scala di corda
affacciato dal fuori in posizione precaria
dentro i tuoi occhi celeste vetro
dentro i tuoi vizi capitali
dentro i tuoi tremori e mali
Beatrice sui tuoi seni io ci sto a spiare
ciò che fanno seduti intorno a un tavolo
i tuoi pensieri su sedie di paglia
ospiti appena arrivati o sul punto di partire
raccolti sotto la lampada gialla
uno che ride uno che ascolta e uno che parla
Beatrice dai tuoi seni io guardo dentro la casa
Dalla notte esteriore superstite luce
Nella selva selvaggia che a te conduce
Dalla padella alla brace
Estrema escursione termica che mi resta
Più fuoco per me tua minestra
Beatrice – costruttrice
Della mia beatitudine infelice
Beatrice dai tuoi seni io vengo a esplorare com’è
La stanza dove abitare
Se convenienti vi siano i servizi
E sufficiente l’ordine prima di entrare
Se il letto sia di giusta misura
Per l’amore secondo natura.
Beatrice dunque di essi non devi andare superba
Più che dell’erba il prato su cui ci sdraiamo
Potrebbero essere stracci non ostentarli
Per tesori da schiudere a viste meravigliate
I tuoi semplici beni di utilità strumentale
Mi servono da davanzale
Beatrice – dal verbo beare
nome comune singolare.
Patrizia Valduga
[Vieni, entra e coglimi, saggiami provami] da Medicamenta, 1982
Vieni, entra e coglimi, saggiami provami…
comprimimi discioglimi tormentami…
infiammami programmami rinnovami.
Accelera… rallenta… disorientami.
Cuocimi bollimi addentami… covami.
Poi fondimi e confondimi… spaventami…
nuocimi, perdimi e trovami, giovami.
Scovami… ardimi bruciami arroventami.
Stringimi e allentami, calami e aumentami.
Domami, sgominami poi sgomentami…
dissociami divorami… comprovami.
Legami annegami e infine annientami.
Addormentami e ancora entra… riprovami.
Incoronami. Eternami. Inargentami.
Da Cento quartine [1-15, 97-100], 1997.
1
Come sei bello quando sei eccitato!
Come hai gli occhi più neri… così neri:
due nere notti che stanno in agguato
sopra i miei sensi, sopra i miei pensieri.
2
“La porta del piacere… eccola, è qui.”
Quella del tuo, sicuramente, sì.
“Chi ti apre il cervello? dimmi, chi?”
Chi lo sa aprire… Piano… sì, così…
3
Ora lo sai: ho bisogno di parole.
Devi imparare a amarmi a modo mio.
E’ la mente malata che lo vuole:
parla, ti prego! parla, Cristoddio!
4
In questa stanza che non ha più uscita,
come stormisce il sangue, e al suo stormire
è il mio turno di vivere… di vita…
Io so che sai che cosa voglio dire.
5
So solo quello che mi basta a stento
per non sprecare i battiti del cuore,
perché sapere, sappilo, è un tormento:
è sempre chi più sa che ha più dolore.”
6
“Che ti pare così, di’ un po’, ti piace?”
Mi pare che mi squarci, dico. “Orpo!
E’ il desiderio che non trova pace
E va peregrinando sul tuo corpo.”
7
“Vuoi il cazzo? vuoi la lingua? vuoi le dita?
o vuoi un sessantanove laterale?”
Sei la mia sola garanzia di vita,
sei la mia malattia quasi mortale.
8
“E se ti dessi un po’ da fare, eh?
Ma devo proprio dirti tutto quanto?
L’orgasmo, credi che venga da sé?
Che te lo mandi lo Spirito Santo?”
9
Non desidero quello che possiedo.
Non fidarti di me! “E chi si fida?”
Senti il mio cuore… Scoppierà? “Non credo.”
Oh, tienimi con te, fammi da guida!
10
Dove sei stato tutti questi anni?
Non hai sentito che gridavo aiuto?
sotto i miei falsi amori e falsi affanni
donna incompiuta, o… uomo incompiuto?
11
Perché anche il piacere è come un peso
e la mente che è qui mi va anche via?
Su, spiegamelo tu. “Per chi mi hai preso?
per un docente di filosofia?”
12
Una sera ti dico: Mi hai scocciata!
e mi spoglio… Sta’ lì. Non mi toccare…
Mi siedo; apro le gambe, spudorata…
Voglio riuscire a farti un po’ incazzare.
13
Il terzo cielo? “E’ il cielo degli amanti.
Vediamo se mi fanno ancora effetto
le piccole pareti palpitanti…
Stringi le cosce, tienimelo stretto.”
14
“Quanto vale una notte come questa?
E’ già tanto se copro le mie spese.
“Finisce che ti viene il mal di testa
a furia di fantasticare offese…”
15
Allagata di me, perduta ancora,
disciolta assieme a te in sangue di cuore,
più dentro, più in profondo affondo ancora
e vengo ancora… al rallentatore…
[…]
97
Per tutti i giorni, amore, dell’amore:
l’uno nell’altra, fusi, per amore,
trasfusi l’uno nell’altra, per amore,
trasumanati, amore, nell’amore.
98
Parola, cosa mistica e profonda,
discendi indistruttibile nei cuori
come la luce rapida inonda
la nostra oscurità dei tuoi fulgori.
99
«Tu che ami soltanto la parola,
non temere l’amore corrisposto…
Prendimi il mento, baciami la gola…»
Non voglio più baciarti in nessun posto.
100
«Vuoi che tutto finisca e niente duri?»
che ognuno vada a fare i fatti suoi?
Stacco il telefono, chiudo gli scuri:
e che la notte ricominci! Vuoi?»
Carlo Emilio Gadda
Eros e Priapo, 1945 (Ia edizione, 1967) cap. II
«La causale del delitto», cioè i torbidi moventi che hanno costituito per la banda euforica
l’impulso primo verso una serie di azioni criminali, è una causale non esclusivamente ma
prevalentemente «erotica» (nel senso lato che, come avrete avvertito, io conferisco al
vocabolo) nel suo complesso: segna il prevalere di un cupo e scempio Eros sui motivi di
Logos. A una disàmina esterna, tutta la ventennale soperchieria è contraddistinta dai
caratteri estremi della scempietà, della criminalità puerile, della mancanza di senso e di
cultura storica: non diciamo del senso etico e religioso. Essa è una netta retrogressione da
quel notevole punto di sviluppo a cui la umanità era giunta (in sullo spegnersi dell’epoca
positivistica) verso una fase involutiva, bugiarda, nata da imparaticci, da frasi fatte, dalla
abitudine di passioni sceniche, da un ateismo sostanziale che vuole inorpellarsi di una
«spiritualità» e «religiosità» meramente verbali. Ora questa caratteristica denuncia
precisamente che il pragma della banda e del capintesta è un pragma bassamente
erotico, un basso prurito ossia una lubido di possesso, di comando, di esibizione, di cibo,
di femine, di vestiti, di denaro, di terre, di comodità e di ozî: non sublimata da nessun
movente etico-politico, da umanità o da carità vera, da nessun senso artistico e umanistico
e men che meno da un intervento di indagine critica. Si trattava per lo più di gingilloni, di
zuzzurullone, di senza-mestiere dotati soltanto d’un prurito e d’un appetito che
chiamavano virilità, che tentavano il corto-circuito della cariera attraverso la «politica»:
intendendo essi per politica i loro diportamenti camorristici. Esenti, a volte, da ogni
obbediente disciplina interiore, privi, a volte, d’ogni preparazione specifica come certi
ragazzacci abbandonati dell’oggi, non essendo (né potendo essere) né marinai né
agricultori né giuristi né commercianti né medici, disadorni financo del misero addobbo
d’un diplomuccio di scuola media, essi tentavano col dimolto bociare e con l’infilarsi un par
di stivali da cavalliere appiedato alle gambucce mence e stortine e con la facile agitazione
e gracidazione totalmente inutile alla compagine nazionale e ai fini del lavoro comune.
Tentavano di scavalcare nella «gerarchia», ma non nell’impegno e nella fatica e
nell’intelligenza dei fatti biologici, le persone preparate aventi sulle spalle anni di lavoro e
di sperimentato mestiere. Altre volte detenevano di già i primi titoli ed ufficî e patacche e
brevetti: e allora tentavano farsi più avanti con prestazioni verbose, poliziesche, con uno
zelo verboso e poliziesco. Erano i «corti-circuiti» dell’ascesa.
Ora questa bassa prurigine non fu virilità conscia de’ suoi obblighi, ma improntitudine di
violenti disposti a tutto per tirare a casa una sovvenzione e per esibirsi stivaluti e armati di
coltello al corso: disposti a tutto e in primis a plaudire chi è «in alto» (cioè i ladroni prelati
dalla fortuna e dalla scaltrezza) e a far la spia e lo sbirro «a ’n collega mio». Cominciavano
ad agitarsi nel guf, che era il seminario, la pépinière delle spie: facevano la spia ai docenti
e ai compagni: fiduciari di gruppo, cioè ladruncoli e concussori e spie cantonali, a ventun
anni: federalastri a venticinque, prefetti a ventotto. Tutta la nazione è stata posta in mano
a codesta ragazzaglia: con il motivo del ritornello giovinezza giovinezza, primavera di
bellezza: come una claque di scalmanate mamillone che, naturalmente, all’intravedere
non dirò qualità «maschie» ma ornamenti fallici e vescicule seminali in quei ventitreenni
perdevano completamente le staffe: «Io sono fascista, io amo la mia Patria… » dicevano
con anima speranzosa fremente nell’attesa.
Ora tutto ciò è Eros, non Logos. Non nego alla femina il diritto ch’ella «prediliga li giovini,
come quelli che sono li più feroci» (Machiavelli, Il Principe) cioè i più aggressivi
sessualmente; ciò è suo diritto e anzi dirò suo dovere. Non nego che la Patria chieda alle
femine di adempiere al loro dovere verso la Patria che è, soprattutto, quello di lasciarsi
fottere. E con larghezza di vedute. Ma «li giovini» se li portino a letto e non pretendano
acclamarli prefetti e ministri alla direzione d’un paese. E poi la femina adempia ai suoi
obblighi e alle sue inclinazioni e non stia a romper le tasche con codesta ninfomania
politica, che è cosa ìnzita. La politica non è fatta per la vagina: per la vagina c’è il su’
tampone appositamente conformato per lei dall’Eterno Fattore e l’è il toccasana dei
toccasana; quando non è impestato, s’intende. Talune gorgheggiavano e nitrivano
gargarizzandosi istericamente di «Patria», talaltre di «’nghilterra deve scontare i suoi
delitti».
Questi accenni denunciano il mio pensiero: Eros nelle sue forme inconscie e animalesche,
ne’ suoi aspetti infimi, e non ne’ sublimati e ingentiliti, ha dominato la tragica scena.
Vent’anni. Logos è stato buttato via di scena dalla Bassaride perché inetto a colmare la di
lei pruriginosa necessità. Ma la funzione di Logos non è quella di satisfare alle vagine, ma
di predisporre l’andamento generale del laborioso incedere umano. Tutte le grandi e
operanti collettività della storia e direi della biologia non affidano la gestione del proprio
travaglio a’ giovani, ma a’ maturi ed esperti, o, se volete, meno immaturi o meno inesperti.
I nomi stessi «senatus» e «presbiterium» lo dicono. La signoria veneta e la repubblica
romana non erano governate da venticinquenni. Né li principi della Chiesa vestono la
porpora a diciott’anni: anche se il primo de’ due alti prelati Borromeo ha potuto vestirla a
ventuno per i buoni uffici della Gloriosa Memoria di Pio Quarto dei Medici di Marignano
(Pius Pontifex Quartus Medices Mediolanensis) che era fratello di sua madre: cioè
s’aiutarono, come avviene, di zio Papa e nepote: anche Giovanni di Lorenzo de’ Medici di
Toscana (Lorenzo di Piero il Gottoso) la vestì a 4 di età sua. La edilità, la prima del
«cursus honorum» era incarico di relativamente piccola responsabilità rispetto alla pretura
e al consolato susseguenti. La propretura e il proconsolato, cioè il diretto governo delle
provincie, erano affidati a maturi, anche se l’impazienza delle «nuove generazioni» cioè
delle nuove ondate di appetenti, poteva muovere una seria e dannosa concorrenza ai già
cotti dalla vita.
Il giovane ha da prepararsi nella disciplina (da «discere»: in latino «disciplina» significa
apprendimento teorico) e nella pratica (usus) («usus ac disciplina, quam a nobis
accepissent» – Cesare) famigliare e scolastica da prima, poi militare e civile; negli ufficî
specifici, nelle carriere scientifiche. Voi, lo vedo, mi dite, con animo attento a compiti ben
determinati e non con la bocca protesa verso generici slogans che queste cose sono
superflue da notare e ben sottintese al discorso: eppure il costume della cricca le ha
sistematicamente ignorate. Fare del giovine italiano una spia e uno sbirro, paroloni in
bocca e coltello alla cintola: e della spia e dello sbirro un prefetto e un ministro: paroloni in
bocca e coltello a la cintola, questa è stata, nella realtà, la pratica politica ed etica della
baldanzosa camorra.
Tuttociò è turpe Eros, non Logos: è corsa precipite verso una preda di polli e di
luganeghini, appesi in fondo al palo sul mare, al molo come nella sagra del Forte dei
Marmi, con capitombolo a panciarotta nel mare. Così nella tragica sagra nostra non si
verifica un meditato e premeditato guardare alle fortune fraterne che si richiede a chi
opera in sommo della «gerarchia»: sguardo che, negli spiriti più alti, è sempre commisto
d’una certa generosa tristezza, direi d’una materna e carezzante malinconia, come il
presciente sguardo delle Madonne verso la Croce futura. E il futuro non è fatto di
imparaticci istrombazzati a vanvera o di appagate libidini, ma è una laboriosa, dolorosa
creazione del nostro spirito che si macera e si sublima nelle buone opere.
E chi comanda o richiede il sacrificio agli altri, ha da sacrificarsi per primo: se non nel
senso letterale di offrirsi primìpilo allo strale nemico, almeno però nel senso di costruire e
vivere dentro di sé l’angoscia, lo sforzo, la verità vera della battaglia. Il solo generale
ammissibile è colui che suda sangue. L’inspirazione di chi chiede altrui la vita per buttarla
nelle sue scipionate del cacchio, alla conquista dell’inesistente petrolio e del roseo fiore
del carcadè, io non ammetto lui la possa toglier su come fece il Pirgopolinice dagli
spettacoli e dalle fanfare: l’inspirazione per il comando viene da una dolorosa e perspicace
contemplazione del «minor male possibile». Non sono le rubeste cosce de’ giovini, per
quanto un po’ pelose, che sfilano con le guide di plotone lungo la riga bianca di Via
dell’Impero «in allineamento perfetto» (fotografi e cineoperatori appostati) a dover
inspirare la politica d’una nazione che vive difficilmente la sua recente unità nazionale e le
sue costose e indigeste «conquiste», vaso di terracotta destinato da Dio a viaggiare in
compagnia di vasi di ferro. Questo inspirarsi alle cosce, ai calzoncini corti, a’ bei deretani
mantegneschi degli òmini e de’ cavalli, è Eros ginnico e pittorico e se tu vuoi
mantegnesco, non Logos politico. Amo il Mantegna degli Eremitani e ammiro il suo
crudele vigore (pittorico) e i suoi esecutori di giustizia, ma non provocherei una guerra per
procurarmi la soddisfazione sadica ed omoerotica di buttarvi a morire i figli di quelle… a
cui si è largito il premio nuziale perché facessono figli: figli, figli, figli, tanti figli, infiniti figli,
da mandarli a morire nella guerra, guerra, guerra, guerra, contro i «delitti delitti delitti della
Inghilterra Inghilterra Inghilterra Inghilterra». Eros arriva al regno di demenza. Eros è ben
brutto quando il minimo cavatappi gli sguazza nel liquor.
E basti questo a significare la ragionevolezza psicologica e storica d’un asserto. Una
lubido, una foja pittorica e teatrale ha condotto l’Italia al sacrificio durante il catastrofico
ventennio, non una ratio, un
, una coscienza etica, uno spirito religioso. Religione
non è l’accomodarsi col Papa per l’averne o sperarne licenza o assistenza alle sbirrerie e
alle ladrerie, non è il battezzare le navi da guerra con l’asperges, non è il berciare da i’
balcone «la santità della famiglia» per poi sparapanzarsi adultero ai tardi indugi di un
sonnolento tramonto. «Religio, religiones» (scrupoli o perplessità che ci «rilègano» al
mistero) muovono a meditare sui destini umani e sulle fortune civili: non sono pratica che
si esaurisce nell’inquadrare cappellani militari e vescovi castrensi da tenerli pronti e buoni
per il dì della strage, nel comandare la Messa al campo, il presentat’arm al Santissimo co’
fucili mitragliatori, nell’invocare Cristo a benedire il siluro. No. Religione è una profonda
attitudine a meditare sui destini umani e a servire la causa infinita che alcuni eletti (non io)
hanno sortito da Dio. È un sommettersi a quel misterioso ignoto cioè non sempre
razionalmente consapevole che sospettiamo essere, nella deserta luce della vanità, la
presenza invisibile di Dio. Questa presenza di troppo supera l’arbitrio di taluni birri o delle
loro spie dissiminate fra il pòppolo.