10/04/2004 - Materiali per il Corso - KAFKA: UN

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10/04/2004 - Materiali per il Corso - KAFKA: UN
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040410SC_GC3.pdf
data
10/04/2004
Contesto
ENC
Relatore
G Contri
Liv. revisione
Pubblicazione
Lemmi
Canetti, Elias
Giudizio
Kafka, Franz
Legge paterna
Processo
Psicosi
Teoria
CORSO DI STUDIUM ENCICLOPEDIA 2003-2004
IDEA DI UNA UNIVERSITÀ
IL MONDO COME PSICOPATOLOGIA
10 APRILE 2004
Materiali per il Corso
GIULIA CONTRI
KAFKA: UN TRATTATISTA DELLA PSICOSI
Un sussidio per lavorare al Corso 2003-2004
Il Mondo come Psicopatologia
Ho già scritto del romanzo di Kafka Il processo come incentrato perentoriamente sulla teoria che un
tribunale superiore accuserebbe, processerebbe e condannerebbe con malevola determinazione, e per motivi
ignoti, un soggetto esente da colpa, e gli renderebbe impossibile qualsiasi salvezza.
Ora un prezioso testo di Elias Canetti, L’altro processo [1], mi ha dato l‟occasione di mettere a punto come
Kafka autore di Romanzi, Lettere, Racconti, Diari faccia di un presunto processo ad un presunto innocente
una questione di persecutorietà psicotica, e si faccia in prima persona trattatista delle ragioni di tale
persecutorietà.
L‟idea di Canetti è che Il processo romanzo sia il secondo momento di una messa sotto accusa
dell‟uomo Kafka, con giudizio inappellabile.
Il primo sarebbe quello delle Lettere a Felice, la donna con cui Kafka ebbe un
fidanzamento/carteggio durato cinque anni, e che tale fidanzamento ruppe per l‟impossibilità della sua
continuazione a seguito degli ostacoli frapposti da Kafka al rapporto.
Il processo cui Felice sottoporrebbe Kafka per tutta la durata della loro relazione è in pratica la
critica di lei a quegli ostacoli, ci suggerisce Canetti. Se infatti Kafka da un lato si pone come libero di
ricevere dalla donna un benefico alimento alla sua produttività letteraria, dall‟altra si dichiara necessitato a
giocarli, quegli ostacoli, subito dopo averlo ricevuto, il beneficio.
L‟ostacolo frapposto è quello della disdetta patologica del beneficio.
La mia tesi è che Kafka teorizzi di un processo accusatorio iniziale dell‟altro ai suoi danni, che in
senso necessitatamente causalistico lo esproprierebbe della capacità a „potere‟.
Citiamo qui in specifico dalla Lettera al padre, singolarmente significativa al proposito:
Il mio pensiero, in apparenza da te indipendente, era gravato a priori dal Tuo giudizio contrario; sopportare
questo peso fino allo svolgimento completo e definitivo del pensiero era quasi impossibile. (Lettera al padre,
Il Saggiatore, 1963)
Ne derivano per Kafka (con il corredo di angoscia e di senso di colpa che le accompagnano)
destituzione del pensiero e sottomissione all‟altro „usurpatore‟:
1
Il coraggio, la risoluzione, la sicurezza, la gioia, non resistevano fino alla fine se Tu eri contrario o se la Tua
opposizione poteva essere solamente prevista... Di fronte a te uno era completamente indifeso... tutto
quello che mi ingiungevi era senz’altro un comandamento divino... rimaneva per me il mezzo ideale per
giudicare il mondo.
(Lettera al padre, p. 71-72)
Sottomissione che egli assume a programma di vita senza ascriversi a colpa questa assunzione, e passando
poi la vita a battersi – senza difendersi – contro il dominio dell‟altro su di lui, da lui in assoluto ipostatizzato
come diabolicamente intenzionato a spogliarlo della competenza a vivere secondo salute:
Così come sono, rappresento (a prescindere, s’intende, dalle fondamentali disposizioni e dall’influsso della
vita) il risultato della Tua educazione e della mia docilità... Tu mano che forgia e io materiale da forgiare... Tu
dicevi: “Non una parola di protesta”, e con ciò volevi ridurre le forze di opposizione in me che ti erano
sgradevoli. Ma questo intervento era troppo forte, io ero troppo ubbidiente: ammutolivo del tutto, mi
rannicchiavo lontano da te e osavo muovermi soltanto quando il Tuo potere non mi raggiungeva più. Ma Tu
ti ergevi davanti a me, e tutto ti sembrava ribellione, mentre era soltanto la conseguenza naturale della Tua
forza e della mia debolezza. (Lettera al padre, p. 76)
Io e Ottla (la sorella, ndr.)... ci troviamo insieme non per escogitare qualcosa contro di Te, ma per discutere a
più non posso, con umorismo, con serietà, con amore, con protervia, con ira, con sdegno, con devozione,
con sentimento di colpa, con tutte le forze della mente e del cuore, questo terribile processo pendente tra
Te e me, in tutti i particolari, da tutti i lati, sotto tutti i punti di vista, da vicino e da lontao; questo processo in
cui Tu ti affermi giudice, mentre per lo più (qui lascio la porta aperta a errori in cui naturalmente posso
incorrere) sei parte fragile e cieca quanto noi siamo. (Lettera al padre, p. 93-94)
Kafka è sordo a qualsiasi invito d‟altri: la fidanzata delle Lettere a Felice, per esempio; o l‟avvocato
difensore del Processo.
A rapportarsi in partnership con loro, libero dall‟idea di sudditanza al loro potere presuntivamente
esautorante quella capacità.
A considerare un errore quell‟assunzione programmatica di inettitudine alla libertà di ricavar profitto
in convinta autonomia – senza cioè disdirne il pensiero subito dopo esserselo riconosciuto – da lavoro
letterario, amicizie, affetti.
A sentire come amici, e non come nemici, coloro che, non per partito preso, ma alla ragion veduta di
un buon rapporto da costruire con lui, ne giudicano e ne respingono quella subalternità militata
all‟alienazione da questa autonomia.
Del carteggio noi abbiamo soltanto le lettere di Kafka: ma in esse arguiamo l‟invito della fidanzata a
Kafka a farsi positivo ricettore delle sue offerte di rapporto per le continue giustificazioni che Kafka porta
alla propria ostilità:
Sapesse, signorina, da quali capricci sono trattenuto! Una pioggia di nervosismi mi cade addosso
ininterrotta! Ciò che voglio ora, poco dopo non lo voglio più. Quando sono in cima alla scala non so in quale
condizione sarò entrando in casa. Debbo accumulare incertezze dentro di me prima che diventino una
piccola certezza o una lettera. (Lettere a Felice, I meridiani Mondadori, 28/9/1912, p. 3).
Per la mia maniera di vivere (prescindendo dal fatto che dacchè La osservo sono incomparabilmente più
sano di prima) ci sono spiegazioni, ma Lei non ne accetterebbe nessuna, specialmente perché tutto ciò che
vi è di sano (naturalmente non fumo, non prendo bevande alccoliche, non caffè, non tè, e in genere, volendo
riparare ad una mia mendace omissione, non mangio neanche cioccolata) io la distruggo da un pezzo non
dormendo abbastanza. Carissima signorina Felice, non mi ripudi per questo, non cerchi di migliorarmi in
queste cose, e mi sopporti amichevolmente... (Lettere a Felice, 7/11/1912, p. 42)
Non c‟è lettera che non contenga lagnanze, sottolinea Canetti, di mali fisici o di avversità insieme, allato
magari di rapporti che al momento sembrano riuscire:
La mia vita consiste ed è consistita..in tentativi di scrivere, per lo più mal riusciti. Ma se non scrivevo mi
trovavo già a terra, degno di esser spazzato fuori. Le mie forze sono state da sempre esigue e meschine...
una volta ho fatto l’elenco di tutte le cose che ho sacrificato allo scrivere e di ciò che per amore dello scrivere
mi veniva tolto...
Difatti sono l’uomo più magro che conosco...
2
Ora però ho allargato la mia vita aggiungendovi il pensiero di Lei... e questo è collegato con il mio scrivere.
Soltanto il moto ondoso dello scrivere mi determina... Lei è imparentata col mio scrivere. (Lettere a Felice,
1/11/1912, pp. 25-26).
Certe volte mi pare davvero di pascermi, come uno spettro del tuo nome apportatore di felicità. (Lettere a
Felice, 11/11/1912, p. 51)
Ma:
Tutto procedeva così bene, ero tanto contento di poter godere in pace la felicità che tu sei per me... ma i
genitori non mirano ad altro che a tirarti giù verso di loro nel tempo passato, dal quale si vorrebbe emergere
trando il respiro... (Lettere a Felice 21/11/1912)
Non solo i genitori si intromettono negli affari privati di Kafka cercando di inquinare il rapporto con
Felice: è Felice stessa che egli sente ostile occupandosi anche di altri scrittori oltre a lui:
Sono geloso di tutte le persone della tua lettera...tu non devi leggere Schattenbilder... Nella tua lettera ci
sono anche altre persone, con tutte, con tutte vorrei attaccar lite... per allontanarle da te, perché tu ne sia
libera, per leggere soltanto lettere nelle quali parli unicamente di te... e beninteso! e beninteso! di me
(29/12/1912). p. 193
Ieri si parlava della Lasker-Schuler... Non posso soffrire le sue poesie... anche la sua prosa mi dà fastidio…
vedi, cara, devo guardarmi di parlare, nelle lettere che ti scrivo, di persone... sgradite... vogliono nascondemi
a te, cara, con la loro persona antipatica o indifferente. E tu, cara, vieni! Nessuno deve essere fra noi,
nessuno intorno a noi. (Lettere a Felice,12-13/2/1913, p. 286)
Come nemici egli pensa i suoi altri, a cominciare dalla donna, a seguito di un loro invito a lui a
correggersi nella direzione della soddisfazione: che egli interpreta come imputazione indebita di colpa per
quella sua incapacità. Li fissa allora nel ruolo di giudici intenzionalmente malevoli, che lo processano e lo
condannano senza remissione, ed esprime odio e repulsione nei lor confronti.
Alla donna Felice, anzitutto, che da una lettera di Kafka del 19 settembre del 1916 arguiamo aver
messo alle corde lo scrittore per la sua inconcludenza in amore:
Ora il tuo posto è vicino a me e non posso credere che in qualche fiaba si sia combattuto più e con maggior
disperazione per una donna di quanto io non abbia fatto per te fin dall’inizio... ma il legame con la mia
famiglia mi ostacola... permettimi di sostituirti interamente senza che tu in questo senso sostituisca me di
fronte alla famiglia tua. Dimmi, cara, questa sacrificio non ti è troppo grave?...
Il branco familiare mi distrae la vista... ogni legame che io non mi procuro o conquisto da me, sia pure contro
parti del mio io, è senza valore, m’intralcia il cammino, e io lo odio o poco manca. Io provengo dai miei
genitori, sono legato per sangue a loro... in fondo ne tengo più conto di quanto io stesso non sappia. Per un
verso perseguito anche ciò col mio odio: la vista del letto matrimoniale a casa mia, delle lenzuola usate, delle
camicie da notte piegate accuratamente mi può sconvolgere fino al vomito, ed è come se non fossi nato
definitivamente, ma continuassi a venire al mondo da questa vita torpida... con i piedi che vogliono correre e
ancora affondano nella prima informe poltiglia (Lettere a Felice,19/9/1916, pp. 775/777).
L‟inconcludenza in amore è legata al pensiero dello schifo per i rapporti sessuali
È un‟idea già presente nella lettera a Max Brod del 29 settembre del 1913:
Vorrei sprofondare nel silenzio e non uscirne più. Se almeno potessi liberarmi di quell’unica cosa, se almeno
non ci dovessi pensare continuamente... l’idea di un viaggio di nozze mi fa orrore, ogni coppia in viaggio di
nozze, sia che si metta in relazione con essa o no, mi appare ripugnante, e quando voglio provare nausea
basta che mi figuri di porre un braccio intorno ai fianchi di una donna. (Lettere, I meridiani Mondadori, pp.
144/145)
o in un‟altra della fine di gennaio 1921 in cui dice:
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Se l’aspirazione alla perfezione mi rende impossibile raggiungere la donna, dovrebbe rendermi impossibile
anche tutto il resto, il cibo, l’ufficio, ecc. Questa impossibilità esiste di fatto, l’impossibilità di mangiare ecc,
salvo che non dà così rudemente nell’occhio come l’impossibilità di prender moglie. (Lettere cit., p. 355)
Ancora da una lettera a Max Brod dei primi di febbraio del 1921:
Amare una donna e non essere assalito dall’angoscia, o almeno tener testa all’angoscia, e oltre a ciò avere
questa donna per moglie è per me una felicità così impossibile che (secondo la lotta di classe) la odio.
(Lettere cit., p. 363-364)
Ancora in una lettera a Max Brod, di metà aprile del 1921, parlando di M., Kafka afferma:
Non parlo dei tempi felici dell’infanzia, quando era ancora chiusa la porta dietro la quale il tribunale teneva
consiglio (il padre giurato che empiva tutte le porte ne è già uscito da un pezzo), ma in seguito accadeva che
il corpo di una ragazza su due mi attirasse, non invece il corpo di quella ragazza nella quale io (per questo?)
riponevo la mia speranza. Fintanto che lei mi scansava (F) o fintanto che eravamo d’accordo M) si trattava
soltanto di una minaccia lontana, ma non appena interveniva qualche inezia, tutto crollava. Evidentemente,
a causa della mia dignità, della mia superbia (il curvo ebreo occidentale, per quanto possa sembrare umile)
posso amare soltanto ciò che posso collocare tanto in alto sopra di me che mi diventa irraggiungibile.
Questo deve esere il nocciolo della questione (Lettere cit., p.380-381).
Di processi malevoli pare costellata la storia personale e letteraria di Kafka, ci fa notare Elias
Canetti.
Nelle Lettere a Felice infatti (da Canetti percorse e ripercorse alla ricerca di una per lui inspiegabile
instabilità di Kafka), abbiamo appena visto che la rottura del fidanzamento da parte della donna che accusa
Kafka di incapacità sentimentale e sessuale è da Kafka vissuta con l‟odio di chi giudica quella rottura come
esito di un intollerabile processo nei confronti suoi di uomo malato di incapacità a vivere, senza prospettive
di guarigione:
Io non considero questa malattia una tubercolosi, o perlomeno non la considero tale in primo luogo, vi
scorgo bensì il mio fallimento generale. Credevo di andare ancora avanti e non è andata. Il sangue non viene
dai polmoni ma da una ferita decisiva di un combattente.
Ora costui trova nella tubercolosi un aiuto enorme, come quello che un bambino trova nelle pieghe della
gonna di sua madre. La tubercolosi è un’arma...
Del resto ti comunico un segreto nel quale in questo momento non credo nemmeno io... che però deve
esser pur vero: io non guarirò mai. Appunto perché non è tubercolosi, che messa su una sedia a sdraio si
possa sanare, bensì un’arma la cui estrema necessità rimane fintanto che vivo.
Tu sei il mio tribunale umano...ma io non voglio rispondere ad un tribunale... (Lettere a Felice, 30/9/1917, pp.
806-807)
Nel Processo ogni pagina è percorsa fin dall‟inizio dalla dichiarazione di ignoranza da parte del
protagonista delle ragioni di un‟accusa pretestuosa messa in campo a carico suo di soggetto senza macchia
da un tribunale persecutore.
Nella Lettera al padre, come abbiamo accennato, Kafka a propria giustificazione ha teorizzato
ultimamente che dall‟inizio della sua storia individuale qualcuno, il genitore nel caso, gli avrebbe
deterministicamente reso impossibile una propria singolare costituzione di soggetto autonomo.
Qualche ulteriore passo ce ne conferma a questo punto l‟incrollabilità come legata al senso di colpa
fatto angoscia:
Da quando ho l’uso della ragione tanto mi tormenta il problema della sopravvivenza spirituale, che tutto il
resto mi è indifferente. Nei nostri ginnasi gli scolari ebrei sono sovente bizzarri... ma la mia indifferenza
gelida... infantilmente inerme, animalescamente soddisfatta... non l’ho mai trovata da nessuna parte; certo
nel mio caso era l’unica protezione contro il logorio dei nervi prodotto dalla paura e dal senso di colpa.
Mi preoccupavo soltanto di me stesso... ad esempio della mia salute...ma poichè non ero mai sicuro di nulla...
poichè non possedevo nulla che fosse unicamente mio, ... poichè in fondo ero un figlio diseredato, anche la
cosa a me più vicina, il mio corpo, mi sembrava incerto: crebbi molto in statura, ma non sapevo che farne, il
peso era troppo, il dorso mi si incurvò; osavo appena muovermi e far ginnastica, perciò rimasi debole; tutto
quello che ancora mi restava, la mia buona digestione, ad esempio, mi pareva un miracolo; questo mi bastò
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per perderla, e così la strada all’ipocondria fu spianata, finchè poi gli sforzi sovrumani per condurre in porto i
miei progetti matrimoniali... mi cagionarono delle emottisi...
Tutto questo non proveniva certo da eccesso di lavoro, come Tu Ti ostini a credere. Vi furono anni in cui io,
pur godendo di ottima salute, passai più tempo a poltrire sul sofà di quanto non facesti tu in tutta la Tua vita.
Quando Tu entravi e io scappavo indaffarato, era il più delle volte per andare a coricarmi in camera mia. La
mia produttività sia in ufficio che fuori, è sempre stata minima: se Tu Te ne rendessi conto, ne saresti
sgomento. Forse non sono pigro di natura, ma per me non c’era nulla da fare. Dove vivevo ero respinto,
condannato, sconfitto; e mi tentava sì l’idea di rifugiarmi altrove, ma quello non era un lavoro, si trattava
dell’impossibile, a cui le mie forze non bastavano, tranne che per qualche piccola eccezione (Lettera al padre,
cit., pp. 103-104).
Sconfitto, condannato, diseredato:
È di nuovo la vecchia lotta contro il vecchio gigante. È vero, lui non combatte, combatto io solo, lui non fa
che buttarsi su di me come un servo sul tavolo dell’osteria, incrocia le braccia, in alto, sul mio petto e preme
il mento sulle sue braccia. Potrò resistere a tanto peso? (Frammenti, in Confessioni e diari, Meridiani
Mondadori, p. 885)
Ero impotente di fronte a quel tale: lui sedeva traquillo di fronte a quel tavolo, guardandone il piano. Io gli
giravo intorno e sentivo che la sua presenza mi strozzava. Intorno a me girava un terzo individuo e sentiva
che la mia persenza lo strozzava. E così via, fino ai movimenti degli astri e oltre. Tutto e tutti si sentono
afferrare alla gola. (Frammenti, p. 918)
Con la percezione per lo meno che la persecuzione dell‟altro onnipotente segue alla rinuncia del
soggetto che si fa vittima:
Tu però Max, non devi credere che io soffra di mania di peresecuzione, so per esperienza che nessun posto
rimane vacante, e, se in sella non ci sto io, vuol dire, ma soltanto in questo caso, che ci sta il persecutore. (da
una lettera a Max Brod di fine gennaio 1921, in Lettere, cit., p. 358)
La conclusione è che i suoi altri dovrebbero tollerare a proprio danno la sua incapacità rinunciataria a
vivere in nome di una da lui conclamata propria incompetenza incolpevole.
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È vero, è Felice Bauer che rompe dopo cinque anni la relazione con Kafka: ma in pratica per la
dichiarata intolleranza di questi al rapporto con una donna, sentita non come una che lo „nutre‟
beneficamente, come in qualche raro momento Kafka ha riconosciuto, ma come colei che gli si vuole
imporre al di là del suo gradimento.
Ed è ancora il protagonista del Processo nella sostanza a rompere, questa volta, con l‟avvocato – che
lo difende da un‟accusa e da un senso di colpa secondo lui ignoti – perché il difensore pone come condizione
per la difesa che Joseph K. riconosca la propria incapacità di giudizio individuale circa proprie colpe nel
processo a suo carico, non interpreti la richiesta di tale riconoscimento come un‟imposizione impropria,
chieda in merito il suo aiuto esterno.
(nb.: si ricordi la mia ipotesi che l’avvocato di Joseph K. avrebbe le caratteristiche non solo di difensore
legale, ma possibilmente di analista. Cui nella realtà Kafka potrebbe essersi rivolto, disdicendolo poi.
Nella precedente comunicazione sul “Processo” avevo sostenuto al proposito, secondo Freud,: “Se senso di
colpa una colpa ci deve pur esser”’. Quella colpa che Kafka non ha mai voluto mettere in conto per sè onde
non sentirsi processato per colpa ignota. La colpa è sempre dell’altro, che processa ingiustificatamente).
Che sia lui colpevole di disdire a priori un possibile rapporto con donna e difensore Kafka non si
vuol mettere nelle condizioni di concepirlo una volta che si è assunto di pensare secondo la teoria assoluta
insindacabile dell‟altro persecutore che aliena la sua capacità costituzionale originaria, votandola al
fallimento fin da subito, senza possibilità di ricostituzione.
Di fronte ai suoi altri via via incontrati, donna o difensore che siano, quella teoria gli rende
impraticabile il beneficio dell‟apporto altrui, a cominciare da quello insito nel richiamo a correggere l‟errore
della concezione causalistica assunta.
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Per fissare l‟altro nella posizione di alienante, il soggetto Kafka deve continuare ad assumersi, senza
volerlo sapere, un‟incapacità che egli ha deciso una volta per tutte che è l‟altro ad attribuirgli senza via di
scampo per lui.
L‟altro diabolicamente responsabile della sua inerzia insuperabile (la cosa è riferita qui alla sua
condizione di scrittore), come risulta da una lettera a Max Brod del 7 luglio del 1922:
Sto qui seduto nella comoda posizione dello scrittore, aperto a tutte le cose belle, e devo stare a guardare
inerte (perché cosa posso fare se non scrivere?) come il mio io reale, questo povero io inerme (l’esistenza
dello scrittore è un argomento contro l’anima perché evidentemente l’anima ha abbandonato l’io reale, è
diventata solo scrittore, non ha saputo andare più in là. Possibile che la separazione dall’io possa debilitare
talmente l’anima?)... sia pizzicato dal diavolo, bastonato e quasi triturato.
(in Lettere, cit., p. 460).
Con domanda, che occhieggia qua e là, su se stesso come imputabile della propria mancata
iniziativa, senza che ciò diventi motivo di ripresa dell‟ iniziativa stessa, come si evince dalla stessa lettera:
Perché potrei vivere e non vivo?.. Mediante lo scrivere non mi sono riscattato. Durante tutta la mia vita sono
morto... ma io stesso non posso continuare a vivere dato che non sono vissuto, sono rimasto argilla, della
scintilla non ho fatto un fuoco, ma l’ho usata solo per illuminare il mio cadavere. (Lettere, cit. p. 459)
L‟altro del resto non è mai giudicato nella sua miseria di incompetente: quella ad esempio del rozzo
padre macellaio insensibile alle istanze del figlio bambino, da cui il raffinato intellettuale praghese Kafka
avrebbe in teoria potuto prendere le distanze con grande facilità. La Lettera al padre invece si pone come
un‟invettiva impotente contro un potere tirannico inscalfibile – anche se in qualche raro momento di lucidità
colto come debolezza (qui relativamente al rapporto con l‟altro sesso) :
... vedendo che persino Tu avevi da lottare nella vita coniugale, mentre con i figli avevi addirittura fallito la
prova, non mi rivolgevo esplicitamente la domanda, né esplicitamente mi davo la risposta, se allora anche io
potevo osare sposarmi.
Altrimenti un normale ragionamento mi avrebbe aiutato ad additarmi altri uomini da Te diversi... che pure si
sono sposati senza restarne distrutti; e questo è già molto e mi sarebbe bastato. Ma io non formulai mai
questa domanda, bensì la vissi fin dall’infanzia. (Lettera al padre cit., p. 118)
Ipostatizzato teoricamente questo altro nella posizione di giudice malevolo, e ipostatizzatosi il
soggetto Kafka come sua vittima sacrificale necessitata, non c‟è più spazio per il giudizio. Per rifare cioè il
processo su un possibile inganno perpetrato ai danni del proprio pensiero normativo da un altro
incompetente. Sulla propria assunzione relativa di incompetenza a seguito di quell‟inganno. Sulla possibile
riassunzione di competenza a fine processo.
Ma questo processo Kafka non lo vuole rifare.
Allora c‟è solo lo spazio per la guerra preventiva contro un altro programmaticamente cattivo, al cui
potere alienante è impossibile sfuggire.
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A differenza dell‟elaborazione filosofica, che pretende di porsi come costruzione teorica pura, senza
ammissione di resti nefasti per il soggetto che se ne fa portatore, l‟autore di racconti o romanzi Kafka
mantiene quello spazio di affermazione – confessione del mal/essere che dall‟assunzione di espropriazione
deriva.
Dico Kafka, e non i personaggi delle sue opere, perché esiste in Kafka, come riconoscono più critici
– da Canetti ad Adorno a Fortini – uno stretto legame tra opera e vita, si dice; tra produzione letteraria ed
elaborazione privata di pensiero, possiamo precisare. Epistolari, diari, confessioni, al modo stesso di romanzi
e racconti, testimoniano di quel legame e fanno di Kafka il trattatista del soggetto alienato al volere dell‟altro
e delle ragioni che egli adduce per la propria sottomissione.
Per l‟urgenza e la necessità di farne oggetto del discorso Kafka rinnova rivoluzionandola la forma
del romanzo. Il romanzo diventa luogo ormai – Kafka è stato l‟antesignano in questo di Musil, Svevo,
Pirandello, Camus, Sartre ecc. – della logica dell‟assolutismo teorico del pensiero dell‟incompetenza
normativa e dell‟inabilità (l‟inettitudine) a vivere secondo salute assunta a programma di vita dalla psicosi.
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Il dramma di Kafka è la non riuscita del pensiero di farsi obbediente al comando dell‟altro, che pure
egli invoca come „tiranno‟. Sia per l‟impossibilità di questa obbedienza in sé, in quanto il pensiero non
rinuncia mai del tutto alla propria sovranità. Sia per il fatto che l‟altro – il padre, la donna o l‟avvocato
difensore – non accetta di farsi mettere nel posto di questo dominatore che non è, e gli rimanda
continuamente, in pratica, la questione dell‟erroneità del suo modo da sottomesso/ribelle (che odia l‟altro cui
dice di sottomettersi) in quanto poco conveniente ad ambedue i partners del rapporto.
L‟altro che lo invita a rivedersi come incapace di funzionare secondo principio di piacere è quello
che lo mette in contraddizione con il se stesso capace di benessere quando lavora come scrittore; quando sa
conquistarsi degli amici; quando sa farsi stimare per la sua produzione letteraria.
Invece di mettersi in causa come insoddisfatto che può rifare il processo alla propria insoddisfazione
guardando la realtà come fonte di beneficio, Kafka risponde rafforzando la propria teoria secondo la quale,
se oggi egli non sa costruirsi una vita propria è perché suo padre lo avrebbe sempre osteggiato nei suoi moti
e sempre considerato un „niente‟; se non sa legarsi a Felice, è perché lei gli sarebbe stata ostile non
dedicando la sua attenzione solo a lui come scrittore e pretendendo da lui la vita umiliante del matrimonio e
della famiglia; se non sa difendersi nella causa che ha in corso nel Processo, è perché l‟avvocato difensore
gli è nemico in quanto vorrebbe imporre al suo protagonista Joseph. K. di riconoscere una propria colpa nel
procedimento a suo carico.
Tutti costoro sono persecutori intenzionati ad accusarlo, processarlo, condannarlo in quanto si
sottraggono alla – e gli segnalano la – erronea immagine paranoica che Kafka ha di loro. Immagine riassunta
in quella di una potenza infernale che distrugge della lettera a Max Brod sempre del 7 luglio 1922:
Mentre questa notte nell’insonnia continuavo ad agitare tutto ciò tra le tempie doloranti, mi resi conto... su
quale terrreno labile o addirittura non esistente io viva, sopra una tenebra dalla quale l’oscura potenza sbuca
a volontà, e senza badare al mio balbettamento distrugge la mia vita. Lo scrivere mi sostiene, ma non
sarebbe più esatto dire che sostiene questo tipo di vita?. Naturalmente con ciò non voglio dire che la mia vita
sia migliore se non scrivo. Anzi in tal caso è molto peggiore e del tutto insopportabile e deve sfociare nella
pazzia... Che dire dello scrivere? Lo scrivere è una dolce, meravigliosa ricompensa, ma di che cosa?.. la
ricompensa per un servizio del diavolo. Questa discesa alle potenze della tenebra, questo scatenamento di
spiriti legati per natura, i problematici amplessi e tutto quanto può avvenire laggiù, di cui qua sopra non si sa
nulla quando si scrivono racconti alla luce del sole; Forse esiste anche qualche altro modo di scrivere, ma io
conosco soltanto questo. E il suo lato diabolico mi sembra molto chiaro. È la vanità e la smania di godere che
svolazzano continuamente intorno alla propria persona o anche intorno a un’estranea (ilmoto si moltiplica
poi, diventa un sistema solare della vanità) e la gode (Lettere, cit. p. 458)
Secondo Canetti Kafka non accettò mai la „sentenza‟ di rottura del fidanzamento che Felice avrebbe
pronunciato contro di lui: „Portare avanti questo processo non è compito di nessun‟altra persona se non la
mia‟. Nessun ascolto in Kafka delle ragioni di chiccessia: “Non esiste tribunale esterno che Kafka intenda
accettare”, conclude Canetti (p. 97).
Questo però non vuol dire per lui difendersi di fronte ad amici e parenti che parteggiano per Felice
nella riunione dedicata in famiglia alla conclusione della vicenda.
Anche nel Processo il protagonista non si difende: licenzia l‟avvocato, si consegna vittima silente ai
suoi carnefici, e finisce scannato “come un cane”. Nessuno è chiamato in causa a giudicare della bontà della
soluzione sacrificale prescelta.
Il giudizio non è di gradimento di quanto funziona nei rapporti. È desolatamente a difesa di
fallimento e angoscia come quotidiano regime di vita.
Pure in presenza di un sentito richiamo, da parte di possibili partners, a far funzionare soddisfacentemente in
partnership i rapporti.
E a fronte di una non adesione alla chiamata in correità con la teoria dell‟insoddisfazione di donna e
difensore, legale e della salute: «La posizione di superiorità di Kafka rispetto alla psicoanalisi”, dice Canetti
sempre in L’altro processo (p. 119), non è stato di aiuto a Kafka nei confronti di “una delle sue immutabili
caratteristiche, quella di non imparare mai nulla dagli errori» (p. 149).
Nel caso, in specie, dico io, di non aver voluto come partner nel giudizio su possibili errori assunti a
norma di vita un analista. Cui confessare l‟errore. E con cui trovare la via per correggerlo.
Ma Kafka fa della difesa del fallimento precoce della propria individuale competenza normativa al profitto
nei rapporti, il suo programma.
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È Canetti che denuncia che “i disturbi” (le pietre, dico io) K. li pone sulla strada del buon
funzionamento dei suoi rapporti con Felice da cui ad ogni buon conto cava, per sua stessa ammissione,
„nutrimento‟ – nel momento stesso in cui quel nutrimento, facendolo „partecipe della forza di lei‟, è “fonte di
energia” per lui (pp. 24, 25, 26); lo fa rendere in modo assolutamente produttivo; gli permette, ad esempio, di
scrivere in breve tempo un testo unico come La metamorfosi.
Una lettera a Felice del 3 gennaio 1912, al di là di tutti i mal di testa, le insonnie, le ipersensibilità ai
rumori e alle presenze umane sgradite di cui è costelalto il carteggio in esame, ne è testimonianza:
Allorchè nel mio organismo fu chiaro che lo scrivere è il lato più fertile della mia natura, ogni cosa vi si
concentrò lasciando deserte tutte le facoltà intese alle gioie del sesso, del mangiare, del bere, della
riflessione filosofica e soprattutto della musica. Io dimagrai in tutte queste dirazioni. Ed era necessario,
perché nel loro complesso questa forze erano così esigue che soltanto raccolte potevano passabilmente
servire allo scopo di scrivere (Lettere a Felice, cit.).
Ancor prima, in una nota di Diario del 22 novembre 1911 Kafka annotava:
Con un corpo così non si può raggiungere niente. Il mio corpo è troppo lungo per la sua debolezza, non
possiede il minimo grasso per produrre un benefico calore, per conservare il fuoco interno, alcun grasso di
cui lo spirito possa nutrirsi oltre il bisogno quotidiano senza danneggiare l’insieme. Come può il cuore
debole, che in questi ultimi tempi mi ha dato frequenti fitte, spingere il sangue in tutta la lunghezza di
queste gambe? (Confessioni e diari, cit., 22/11/1911, p. 266).
Il deserto egli lo vorrebbe imporre alla donna, la quale suscita la sua invidia per la sua salute e per
una tranquilla capacità di nutrirsi, come abiamo accennato, anche di opere di autori diversi da Kafka. Di
fronte agli scoppi di gelosia di lui, ella non sta all‟invito a far fuori l‟universo di tutti gli altri scrittori cui si
interessa.
La ripulsa rinfocola l‟odio di Kafka verso la donna. Cui rinfaccia, per quella ripulsa, di giocare una
strategia di dominio nei suoi confronti: „l‟imposizione‟ di altri scrittori come significativi ne sarebbe una
prova.
Fuori dalla logica della convenienza nei rapporti, con la donna nel caso, Kafka rimane sospeso tra il
chiedersi nevroticamente cosa mai ella si attende da lui (p. 57), e cosa mai egli potrà pretendere da lei (p.
67).
Nessuno come Kafka sa dire con più efficacia della miseria cui si riduce un espropriato volontario
come lui.
I suoi testi autobiografici, come le Lettere e i Diari, e i testi narrativi, come i Racconti e i Romanzi,
senza nessuna differenza, sarebbero la prefigurazione, come dice Klaus Mann, e come sottolinea Adorno, del
Terzo Reich e dei campi di concentramento per gli ebrei prossimi a venire.
È che tutta l‟opera di Kafka è un grande campo di concentramento anticipato per martiri muti: che ,
prima che si istituzionalizzi materialmente una persecuzione contro di loro – come è avvenuto per gli ebrei,
nel caso – amano assumere su di sé, da vittime sacrificali, ferite immaginate come inferte dal „tiranno‟ che
essi stessi alimentano nel loro pensiero. Smettono di mangiare prima che qualcuno gli abbia tolto il cibo di
bocca; si dichiarano impotenti – anche sessualmente – prima ancora che qualcuno gli abbia reso sfavorevole
il rapporto.
Questa assunzione di martirio non messa in crisi come soluzione diseconomica individuale favorisce
e suggella storicamente l‟istituzionalizzazione della persecuzione.
La metamorfosi, ad esempio, è una prima grande prova di ritirata rovinosa, da parte di uno che ha
rinunciato a nutrirsi di affari economicamente convenienti, su un campo disseminato di resti rancidi di cibo e
di ciarpame di scarto, tra cui si aggira con sempre maggior „gusto‟.
L‟aspetto di gigantesco scarafaggio, parassita per eccellenza, è quello che quest‟uno, Gregor Samsa,
si trova sì inaspettatamente addosso una mattina in un momento di crisi del pensiero della propria
produttività: ma sostanzialmente è l‟immagine che i suoi altri gli rinvierebbero fissandovelo con l‟occhio
malevolo di chi lo giudica incapace e improduttivo. La trasformazione che lo investe senza via di uscita
sarebbe opera di chi non gli ha perdonato un momento di debolezza, e infierirebbe su di lui non lasciandogli
il tempo di riaversi con un rinnovato lavoro imprenditoriale. Che per sua stessa affermazione sarebbe
possibile realizzare.
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È trasformazione da sentenza inappellabile dell‟altro.
La forma del brutto animale schifoso Gregor non riesce a scrollarsela di dosso nonostante,
sembrerebbe, faccia ogni sforzo per far capire di essere sempre un uomo capace di possibile iniziativa: in
verità la forza giudicante dell‟altro malintenzionato nei suoi confronti è sempre così inappellabile a vederlo
sotto quelle spoglie, che la persona del padre, solo in un breve momento relativizzato a uomo con le sue
debolezze – dunque non nemico onnipotente – non potrà che farlo fuori, schiacciandolo, appunto, come uno
scarafaggio („come un cane‟, è la chiusa del Processo).
Quell‟uno rimane cadavere su quel terreno, ucciso dal pensiero della propria impotenza prima ancora
che dai colpi mortali di qualcuno che vuole impedirgli di avere iniziativa.
(Interessante, accenniamo qui soltanto che, fuori dalla logica del cavar beneficio dall‟altro, o procurarne,
nella Metamorfosi finisca per valere la teoria del parassitismo universale, riassumibile in: Non resta che
succhiar sangue o farselo succhiare.
Gregor non sa insomma uscire dall‟idea di esser stato sfruttato lui dalla famiglia finchè era economicamente
produttivo: e di esser giudicato sfruttarla lui la famiglia ora che questa sua capacità economica è in crisi).
Altrove – ma nulla cambia – la strategia che Kafka suggerisce a fronte del pensiero del pre-potere
inevitabile dell‟altro su di lui, è di ritirarsi rimpicciolendosi fino a sparire – in una tana sotto terra, ad
esempio, come la piccola talpa del racconto La tana, che vuol far perdere le sue tracce a chicchessia; di
cercare di non esistere per nessuno; di slegarsi, sciogliendosi dal rapporto, da tutti gli altri.
Di assolutizzarsi, insomma, nell‟unico posto dell‟uno solo, che non sta più neppure al piano terra
della terra di tutti gli altri, ma finisce sotto terra. Morto tra i vivi. Con il desiderio invidioso che tutti gli altri
viventi finiscano morti sotto terra come lui.
È di Kafka è l‟anoressia del pensiero espressa da un corpo malato. Quello del digiunatore del
racconto omonimo che lamenta in modo sistematico inconsistenza e mancanza di forze. O quello del
tubercolotico Kafka delle Lettere e dei Diari, che, come già detto sopra, definisce la malattia della tisi “il mio
fallimento”, nella prospettiva dell‟“io non guarirò mai”.
O quello dello scarafaggio Gregor Samsa, ridotto ad aver perso la natura „umana‟ del pensiero di
natura per denuncia e rinuncia teorica al pensiero del profitto/guadagno a due posti – in termini di denaro
sonante (Metamorfosi, Bur, p. 75) – nei rapporti, immediatamente umani perché di „affari‟.
*****
APPENDICE
Segue il testo che ho esposto al corso nella mia comunicazione in data 25/1/2003
GIULIA CONTRI
KAFKA CON KIERKEGAARD
Joseph K., protagonista del romanzo di Kafka Il processo, si trova improvvisamente in stato di
arresto a opera di un tribunale, senza che il capo d‟accusa nei suoi confronti gli sia reso noto. Egli vive di
conseguenza la spiacevole condizione di non sapere quale sia la colpa che gli viene ascritta, il che lo getta in
preda da quel momento a un senso di colpa angosciante che lo perseguita (è una colpa di cui dire: chi lo sa!
lo sa Dio!). Il mio intervento – associato alla trattazione del lemma angoscia fatta da Maria D. Contri –
intende segnalare l‟interesse del romanzo kafkiano per quanto concerne la questione dell‟angoscia fatta
uguale al senso di colpa. È peraltro Kafka stesso a dichiarare, citandolo in più momenti delle riflessioni
sull‟angoscia in Diari e Lettere, il suo riferimento a Kierkegaard, “in qualche modo sempre a me presente”,
come dice in una lettera a Max Brod del 1918: Kierkegaard “che dirige così meravigliosamente la non
dirigibile aeronave”.
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Preso di sorpresa, e sottoposto a processo in una posizione di debolezza per ignoranza della colpa in
questione, Josepf K. tenta di difendersi, da un lato criticando il tribunale come rozzo, corrotto e incapace di
giudizio, dall‟altra nominando un avvocato a sostegno della sua causa.
Nel corso del romanzo l‟iniziale posizione di difesa dell‟imputato, pure a lungo tentata al fine di trovare
soluzione all‟angoscia che non lo abbandona mai, viene progressivamente smantellata dal medesimo per
rassegnazione impotente a quello che egli vive come inganno del „tribunale supremo‟ contro di lui: il
tribunale, non rivelando mai il capo di imputazione di cui si tratta, si riserva in esclusiva il giudizio nei suoi
confronti. Quello del tribunale è un sapere riservato, come quello di Dio nel paradiso terrestre. La difesa
legale stessa viene licenziata come inabile dall‟imputato, che si consegna così senza opporre resistenza alla
condanna a morte, pur dicendosi al momento dell‟esecuzione che un aiuto egli avrebbe forse potuto
riceverlo.
Nel romanzo di Kafka c‟è dunque un soggetto “colto di sorpresa”, catturato dall‟imputazione di una
colpa, che dice di non conoscere. Capisce solo di „essere assalito in casa sua‟ e colà arrestato nel bel mezzo
di una „buona salute‟, di un buon funzionamento dei suoi rapporti quotidiani col cibo (la piacevole colazione
del mattino, nel caso, viene interrotta dai messi del tribunale che gli notificano l‟arresto), col sonno
(tranquillo fino all‟arrivo dei medesimi prima dell‟alba), con il lavoro (produttivo prima e poi
improvvisamente inceppato dall‟intervento dei funzionari del tribunale, in quanto a seguito di esso “il
pensiero del processo non abbandona mai” l‟imputato), con la donna (seducente partner, “florida, flessuosa e
calda” fino al momento della loro irruzione in casa). Dopo l‟arresto, Leni, l‟ancella dell‟avvocato, sarà una
che si prostituisce con tutti i sottoposti a giudizio.
E c‟è angoscia in questo soggetto in ragione del sentirsi “così mal preparato” a far fronte all‟assalto,
di fronte all‟attacco. “Non vado mica soggetto a questi attacchi”, dice infatti Joseph K., attacchi recepiti
come rivolti alla fonte stessa della sua “iniziativa”, fino a quel punto intesa alla propria salute, “normalmente
ottima”. Messa in atto dal soggetto fino a quel momento per il benessere nelle proprie relazioni, ora
l‟iniziativa comincia infatti a profilarsi come quella che può „scavare il terreno sotto i piedi‟. Può diventare
una minaccia, un pericolo essa stessa.
Lo stato di salute attuale, comunque, pur compromesso e indebolito dall‟impreparazione, è ancora
sentito come difendibile: “Non sono poi tanto debole”, “ho solo bisogno di essere sorretto”. L‟angoscia
cerca ancora vie di soluzione.
E tra le soluzioni cercate c‟è anzitutto quella di non dare consenso all‟arresto del pensiero, all‟arresto
cioè del giudizio, alla sua delega a quel tribunale superiore, che accusa il soggetto di una mancanza che
questi non si riconosce. “Quel procedimento vale solo se io lo riconosco”, dice infatti Joseph K. parlando
dell‟accusa a suo carico. „Non è poi così grave essere in arresto‟, ribadisce egli all‟ispettore che glielo
notifica. Egli rimane “libero anche se in arresto”, gli fa sapere il funzionario stesso, e “non deve sentirsi
ostacolato nel suo solito tenore di vita”. L‟arresto dunque non è sentito come premessa ad una inevitabile
rinuncia. Nel corso del romanzo tale obiezione si manifesta per lungo tratto nel protagonista come critica
all‟idea di una corte alta competente a giudicare un soggetto in causa al posto del soggetto stesso. E a
sostegno dell‟obiezione a quell‟istanza astratta di dominio egli chiede l‟aiuto di un difensore, cercato, ma poi
revocato.
Disdetto il difensore, dopo una lunga oscillazione tra possibilità di difesa e inevitabilità della
capitolazione, la conclusione del soggetto sarà per la resa senza condizioni.
Quando il difensore gli insinua il sospetto che egli farebbe „resistenza‟ all‟idea che il pericolo sia in
casa (“mi aspettavo più giudizio da lei... nei confronti del mondo giudiziario”), e che forse ci sarebbe da
rivedere il gioco da lui stesso fatto appunto in casa affinché il dominio dell‟istanza giudicante pensata come
unicamente esterna vi prenda piede, egli lo licenzia: il solo pensiero di ammettere una propria possibile
connivenza con quell‟istanza lo „stordisce‟ e gli fa temere il rischio „di esporsi ad un pericolo maggiore di
quello corso finora‟. „Se voleva arrivare a qualche risultato bisognava prima di tutto respingere fin da
principio ogni idea di colpa. Una colpa non c‟era...‟. „Sotto questo aspetto bisognava revocare al più presto...
il patrocinio affidato al legale... Questo era un provvedimento inaudito e forse gravemente offensivo, ma K.
non poteva tollerare che i suoi sforzi incontrassero ostacoli eventualmente provocati dal suo stesso
avvocato‟.
Penso a proposito alla tesi cui fa riferimento Freud nella conduzione della cura psicoanalitica: nel
senso di colpa una colpa ci deve essere. E faccio qui l‟ipotesi che Kafka – che frequentava con una qualche
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regolarità circoli psicoanalitici praghesi, e che fa riferimento in molti passi di Lettere, Diari, Confessioni a
psicoanalisi, a psicologia, a Freud – preso nella stretta dell‟angoscia, esplicitamente denunciata a più riprese
come malattia del „corpo‟ e insieme dello „spirito‟, facendone una puntigliosa disamina, si fosse deciso per
una cura analitica, disdicendola poi. I termini del discorso fatto nel Processo a proposito dell‟avvocato
revocato mi paiono inequivocabilmente riferibili a quelli di un analista disdetto. Per rinuncia alla difesa in
ambedue i casi.
Ultimamente dunque la via per superare l‟angoscia è pensata da Joseph K. come rimozione del
pensiero di una possibile connivenza col comando di una sottomissione senza sovranità in casa propria. Ma
questa connivenza sappiamo che è pensabile come tale solo da chi non rinuncia, sotto i colpi di un attacco,
all‟idea di poter sempre e comunque riabilitarsi in quanto positivo legislatore della legge dei propri rapporti.
La rinuncia ispira la parabola del Guardiano della legge che compare nelle ultime pagine del
romanzo: guardiano che con l‟inganno tenta di tener fuori dalla legge l‟ingenuo uomo di campagna che
vorrebbe entrarci, non rivelandogli che l‟ingresso di fronte a cui egli era rimasto appostato per anni era
quello riservato solo a lui.
In tale parabola Kafka dà fiato ultimamente alla teoria che un soggetto, attaccato nella sua ingenuità,
non saprebbe resistere ai colpi, e capitolerebbe inevitabilmente: ponendo fine per dolo altrui ad un
miracoloso – in quanto non da lui posto – benessere, di cui godrebbe dunque per grazia di dio. Benessere che
altrettanto si dissolverebbe in seguito a un assalto esterno, dissolvendo nel contempo il pensiero stesso del
soggetto. Senza che questi riesca a darsi la possibilità di ri-porlo, di porlo di nuovo, al fine di rielaborare
l‟attacco: e ad alimentare, senza escluderla per principio, l‟idea di difesa da parte di un avvocato che abbia
rinunciato a rinunciare. E senza quindi che il senso di colpa che il soggetto prova possa definirsi con un
lavoro di giudizio secondo la fattispecie di un atto di rinuncia e di connivenza con l‟offensore. In assenza di
questo lavoro non resterà che farsi missionario militante dell‟arresto del pensiero e del movimento, della
condanna all‟impotenza fino alla morte.
Diari e Lettere, che vanno in parallelo con la stesura del Processo, lo testimoniano. Nelle Lettere a
Felice, del 1917, ad esempio, la morte è assunta come soluzione, attraverso la dissoluzione del corpo, in una
malattia che è del corpo e dello spirito insieme: nella tubercolosi, definita da Kafka, al primo sbocco di
sangue, “il mio fallimento generale”, “arma la cui estrema necessità rimane fintanto che vivo”. “Io non
guarirò mai”. La malattia è dunque anzitutto del pensiero: pensiero malato che si oppone strenuamente alla
guarigione. Questo è il beruf, la vocazione di Kafka: resistere alla riabilitazione. «Volendo incominciare
dalla testa per guarirla, ci vorrebbe la forza di un imballatore di mobili... forza che non sarò mai in grado di
procurarmi» (Lettera a Oskar Baum del 1918).
Il tema della militanza della dissoluzione del corpo e del pensiero come soluzione e insieme
spettacolarizzazione – che però ha da fare i conti con la riluttanza delle folle a farsi distogliere dalla banalità
dei propri piaceri – la ritroviamo in uno degli ultimi racconti Di Kafka, Il digiunatore:
Negli ultimi decenni l’interesse per i digiunatori è molto scemato. Mentre prima valeva la pena di inscenare
grandiosamente questa sorta di spettacoli per proprio conto con apposito impresario, oggi non ci si
potrebbe neppur pensare. Erano altri tempi, quelli. Allora del digiunatore si occupava tutta una città; a ogni
nuovo giorno di digiuno cresceva l’interesse del pubblico, ciascuno voleva vedere il digiunatore almeno una
volta al dì; negli ultimi giorni vi erano degli abbonati che sedevano tutto il tempo davanti alla piccola gabbia
di sbarre; anche di notte non mancava qualche visita... per gli adulti esso spesso non era che un divertimento
perché così voleva l’andazzo...
Certo è che un bel giorno il digiunatore, già così idolatrato dal pubblico, si trovò abbandonato dalla folla
avida di piaceri e accorrente a ben altri spettacoli. Ancora una volta l’impresario corse con lui mezza Europa
per vedere se qua e là ci fosse da scovare la vecchia passione; invano; come per una segreta convenzione si
era formata ovunque una specie di repugnanza per lo spettacolo del digiuno. S’intende che questo non era
certo potuto venir così, da un momento all’altro; e adesso, a cose fatte, si richiamavano alla memoria certi
segni premonitori non abbastanza tenuti d’occhio, non abbastanza repressi; ma ormai farvi conto era troppo
tardi. Era certo, è vero, che in un giorno avvenire anche il digiuno tornerebbe in onore, ma per i
contemporanei questo non era sufficiente conforto. E che restava a fare al digiunatore? Colui che migliaia di
persone avevano esaltato giubilando non poteva mostrarsi nei baracconi delle piccole fiere locali, e per
cambiar mestiere non solo egli era troppo vecchio, ma era soprattutto troppo fanatico dell’arte sua. Licenziò
l’impresario, il compagno della sua impareggiabile carriera, e si fece scritturare da un gran circo... Ma... visto
l’andazzo del momento... si passava davanti a lui e si tirava innanzi. Provatevi a spiegare a qualcuno l’arte del
digiunare! Chi non la sente, inutile tentare di fargliela capire.
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NOTE
[1] Elias Canetti, L’altro processo, Guanda, Parma 1999 (prima edizione 1969).
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