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Anno 1 Numero 30 - 15.09.2008 «Siete lo stesso coinvolti» Editoriale di Gian Maria Tosatti «E proprio oggi, quando il Paese è saltato nel futuro con uno zaino pieno di cadaveri che sgocciola la traccia del suo riconciliato progresso». (Pedro Lemebel) E’ come ce lo raccontano Eduardo in Napoli milionaria o Ascanio Celestini nel suo Radio Clandestina. Dal 1945, in Italia, da quella guerra civile che ha insanguinato la nostra bandiera, nessuno ne vuole sapere più di violenza, di guerra, di fascismo, di marxismo. Tutto si liquida con poche parole. Rapidamente. Quasi come si evita il venditore di rose o il lavavetri. Nel frattempo in Italia un’altra guerra civile c’è stata, disturbando la scostante quiete di oltre un decennio. E forse è per quel chiasso, per quelle bombe che non facevano dormire, per quelle strade interrotte quando si voleva passare, per quelle reciproche accuse lontane migliaia di chilometri dalla zattera (piccolo) borghese su cui l’Italia cercava di galleggiare alla deriva, che oggi le orecchie si sono fatte più chiuse, ancor meno disposte ad attivarsi, gli occhi meno disposti a vedere. E’ così che le persone comuni cercano di sopravvivere, passando sopra, dimenticando, e quando è possibile, facendo finta di non vedere o di non capire. Non è solo un problema italiano. Accade un po’ dappertutto. Tra le strade di Santiago, tra quelle di Sanpietroburgo, provate a chiedere alla portinaia cilena o al commerciante russo degli anni della dittatura, di Pinochet o dell’Urss. E accontentatevi di sentire solo come cambia l’equilibrio del tono quando la loro voce ripeterà la vostra inappropriata domanda. La voce si farà più liscia, tanto da fare scivolare via, nel breve e artificiosamente disinvolto silenzio che segue, quella vostra curiosità da occidentale. Ma se la domanda la fa un connazionale allora la risposta c’è, sbrigativa, liscia sì, ma come uno schiaffo, che gira il viso per guardare altrove. Nessuno vuole ricordare, perché tutti, più o meno hanno sofferto, quelli che si sono fatti venire il torcicollo stando per decenni girati dall’altra parte, fuori dalla storia, e quelli che, invece, hanno visto, tutto, e hanno visto che per molti altri un posto nella storia aveva le dimensioni di due metri per uno, come dicono gli inglesi, six feet under. Come recitava De Andrè in una vecchia canzone, non ci sono assolti, se mai solo coinvolti, quasi tutti loro malgrado, quasi tutti disperati. Eppure non innocenti. Non lo erano allora. Né tantomeno oggi, se fanno di tutto per dimenticare al fine di lenire un dolore che tuttavia convive necessariamente con il crudo insegnamento che la storia ci consegna perché certe cose non accadano mai più, perché ad un certo punto un popolo possa emendare la propria coscienza sporca senza cercare di nasconderla sotto il tappeto del progresso che quotidianamente copre come un lenzuolo mortuario ancora molti ragazzi e molti scempi, pretendendo di negare che l’infezione di un passato possa continuare a stendere il suo ricamo di eruzioni sul presente. Qualche mese fa stilavamo, in un editoriale, la lunga fila delle aggressioni neo-fasciste che si sono consumate nella sola città di Roma negli ultimissimi anni. Un numero impressionante, un rosario di lame, di sangue e di sacrificati che ad ogni nuova recita indebolisce la nostra fede nello Stato e prima di tutto nel suo corpo di uomini e coscienze. La politica, ha preferito passarci sopra, confondendo, col determinante aiuto della stampa, le aggressioni armate con le risse da ubriachi, contro l’evidenza e le grida di migliaia di testimoni, preoccupandosi di far sparire, con la massima cura, dalle descrizioni quei simboli proibiti dalla legge, ma mai puniti, tatuati, esibiti, sventolati. Per chi si accontenta della versione ufficiale allora è solo delinquenza comune che tuttavia è immune alla militarizzazione delle strade. Per chi si lascia sfuggire che sì, è stata un’aggessione politica, invece, non è che una fastidiosa coda di quegli anni ’70… e minimizza «Sì, è sempre la solita storia tra fascisti e comunisti. Sai quante ne ho viste trent’anni fa…». Ma, invece, non è così. Perché ormai da tantissimi, troppi anni la guerra civile in Italia è finita. E le aggressioni sono unilaterali, espressione di una cultura che fa della violenza un esercizio di esistenza e che, incubata negli spazi concessi dalla politica veltroniana dell’equidistanza (ma è di questi giorni anche la riapertura del centro sociale “Cuore nero” nella “forzista” Milano), è tentata di venire allo scoperto con maggiore coraggio quando sente un ministro della Repubblica omaggiare di fronte al Capo dello Stato i soldati di Salò (costringendo poi quest’ultimo a dichiarare amaramente che riconoscere i valori della costituzione è ancora un obiettivo da raggiungere per molti cittadini di questo Paese). Non è strano che ciò accada in Italia, dove si muore senza un perché, dove a più di trent’anni nessuno ha ancora chiesto veramente conto dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini, un omicidio con dei responsabili, ma senza responsabilità, come quello di Renato Biagetti e quelli possibili delle decine di ragazzi di sinistra, pacifisti, che in strada, giorno dopo giorno si salvano dalle coltellate come funamboli sul filo del rasoio. In questi ultimi giorni il presidente della camera e leader di An, Gianfranco Fini, ha fatto un ulteriore passo importante dichiarando che la destra democratica deve necessariamente riconoscersi nei valori dell’antifascismo. Ma per quel che riguarda la destra “non-democratica”, costituita da squadracce sempre più attive e sostenuta dalla (in)tolleranza ignorante dei nostri molti vicini di casa, per quel che riguarda questa destra che giornalmente affigge manifesti in zone sempre nuove delle città, gira armata per le strade, aggredisce, sviluppa rappresentanze politiche e saluta “romanamente”, macchiandosi di reati comuni e di reati costituzionali solo per il fatto di esistere, per quel che riguarda questa destra che è un fenomeno criminale impunito che conta molti militanti e moltissimi testimoni distratti? Per quanto ancora saremo disposti a far finta che non esista nascondendola sotto il tappeto come la nostra coscienza sporca? Cronache di un mondo perduto Dopo la presentazione al Festival di Venezia, torna al cinema “La rabbia” nella sola versione di Pier Paolo Pasolini di Attilio Scarpellini «Che io rimpianga o non rimpianga questo universo contadino, resta comunque affar mio. Ciò non mi impedisce affatto di esercitare sul mondo attuale così com’è la mia critica: anzi tanto più lucidamente quanto più ne sono staccato, e quanto più accetto solo stoicamente di viverci». (Pier Paolo Pasolini, Limitatezza della Storia e immensita del mondo contadino, 1974) Quante domande restano in piedi dopo aver visto-rivisto l’edizione reintegrata (o per usare il bel termine di Giuseppe Bertolucci “risarcita”) della Rabbia di Pasolini? Poche rispetto all’immagine, dove l’Europa alluvionata degli anni ’50 e ’60 si allontana nel tempo e forse neanche un volto tra quelli passati in rassegna – comuni o coronati, semplici o potenti – sembra riuscire a riaffiorare alla superficie di un disastro antropologico ben più travolgente di quello ancora naturale evocato all’inizio del film. La rabbia è un film di montaggio che oppone la poesia all’inchiesta (con tanti saluti, da lontano, a Michael Moore e alla pessima retorica di Fahreneit 9/11), lasciando che il testo, la voce – quella poetica di Bassani alternata a quella prosaica di Guttuso – strabordi oltre i confini delle immagini di repertorio, fuggendo e tornando per toccarle con il parossismo della visione, proprio come il riflusso di un’onda di piena: nessuna riattualizzazione è possibile nella tempesta di una profezia, perché la profezia è per sua natura rivolta al passato e alla diversità del futuro. La rabbia è per altri versi un film chiuso nella dialettica tra un eurocentrismo tardo, declinante, ferito a morte dal fascismo, e l’emergere di un terzomondismo ancora messianico dove albeggiano la speranza degli umili e la ferocia dei poveri: mentre scorrono le immagini di Bourghiba e di Nasser, del Congo appena decolonizzato, della mattanza algerina nel contrappunto del rombo di un aereo che scandisce un’invettiva contro la Francia (amatissima nei suoi poeti, persino quando Pasolini le ritorce conto il verso di Liberté, l’inno resistenziale di Paul Eluard) viene quasi spontaneo leggerle con la memoria rivolta ai Dannati della terra di Fanon. I diseredati dell’Africa e dell’Asia irrompono nell’apocalisse morale europea con la potenza di una natura che il neocapitalismo si appresta a rimuovere definitivamente (quanto prima dei Lyotard e dei Jameson, Pasolini ha intuito il carattere fatale di quello che chiamiamo postmodernismo…) ma nella controluce del loro insorgere, nell’innocenza fisica, musicale, delle loro esplosioni di gioia – nell’identità senza narcisismo che fa ballare una bambina tunisina il giorno dell’indipendenza nazionale – o nei loro corpi cristici, massacrati dall’alto dei cieli e lasciati a terra come cose, si sente già trasalire il lamento del poeta di Casarsa per la scomparsa dell’immenso mondo contadino di cui anche la cultura italiana faceva parte. Si rilegge questa o quella pagina, di dieci anni successiva alla Rabbia, dedicata al “genocidio della povertà” negli Scritti Corsari: “L’universo contadino (cui appartengono le cultura sottoproletarie urbane e, appunto fino a pochi anni fa quelle delle minoranze operaie…) è un universo transnazionale: che addirittura non riconosce le nazioni (…). E’ questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a pochi anni fa che io rimpiango (non per nulla dimoro il più a lungo possibile nei paesi del Terzo Mondo dove esso sopravvive ancora, benché il Terzo Mondo stia anch’esso entrando nell’orbita del cosiddetto Sviluppo)”. Senza questa chiave, del resto, riconnettere i fili della trama dialettica sottesa al film risulta quasi impossibile: l’atteggiamento di Pasolini rispetto all’insurrezione ungherese del 1956 sarebbe allora soltanto ambiguo, l’insistenza sulle images d’Epinal della Russia post-staliniana diventerebbe stucchevole (tanto più se commentata dalla voce di Guttuso), gli attacchi all’astrazione pittorica semplicemente reazionari, né mai si potrebbe comprendere il profondo parallelismo tra l’icona funebre di Giovanni XXIII, “pastore degli umili” che con essi condivide il “testone contadino” e la futura idea di una Chiesa divenuta inutile al Potere, perché estrema e contraddittoria rappresentante di un mondo per l’appunto preindustriale e premoderno. C’è invece una strana assunzione di responsabilità nelle parole che questo intellettuale disorganico, mai del tutto integrato non solo nel Pci (da cui venne espulso) ma nella linea ortodossa della cultura marxista italiana, dedica alla tragedia ungherese, quando fa affermare a uno dei suoi angeli fuori campo: “gli errori di Stalin sono i nostri errori”. Per quanto appaia paradossale, sono queste parole a denunciare l’assoluta estraneità di Pasolini al dispositivo di appartenenza organica ad un partito (o per converso ad una chiesa) che rispetto all’errore garantisce sempre una funzione salvifica: dopo il XX congresso del Pcus ogni comunista ortodosso era in realtà autorizzato a proclamare che gli errori (e gli orrori) di Stalin non erano i suoi, il partito li aveva condannati e scontati al suo posto (in seguito l’intero “errore comunista” darà luogo a una rimozione che permetterà ad alcuni di affermare che, pur militando nel Pci, si sono sempre sentiti estranei al modello sovietico). Per Pasolini, non diversamente che per Sartre nel medesimo periodo storico, partito e Urss sono legittimati dall’investitura affettiva delle masse proletarie poiché attraverso di essi queste ultime sono state simbolicamente iscritte in una Storia che congiurava invece alla loro cancellazione. Nelle Rabbia, le sequenze tratte dai cinegiornali sovietici sembrano dapprima puntare a un’edificazione – la Rivoluzione diviene Tradizione che salda la cultura dei padri contadini a quella dei figli operai finalmente alfabetizzati alla Storia – ma vengono bruscamente interrotte da un’accelerazione critica che ha un valore a un tempo etico ed estetico, dal momento che mette visivamente in discussione il concetto di realismo: all’idillio mistificato della pittura realista socialista russa si sovrappone il segno deforme, tormentato (goyesco) della pittura di Guttuso. Il realismo monumentale mente, lo stalinismo mente. La guerra avvolge il sonno della Ragione da cui tralignano le immagini della Rabbia. La guerra, cioè la modernizzazione. Restano, quasi ai margini del “discorso libero indiretto” che traduce l’intero film pasoliniano fino a entrare nelle immagini e a far vibrare il loro tempo, due gemme elegiache di pura e rarissima fattura: la prima, scandita dai versi che Pasolini dedicò a Marilyn Monroe dopo il suo suicidio, è uno struggente epitaffio della bellezza – di una bellezza salvifica, dostoevskiana – che sola restava “tra la stupidità del mondo antico e la ferocia di quello futuro”; la seconda è quella dettata dal respiro cosmico del discorso rivolto a Kruscev che Pasolini mette in bocca a Juri Gagarin dopo il suo viaggio nello spazio. Sono anche i momenti più intangibili del film poiché portano con sé l’essenza sensibile degli anni ’60, colta un attimo prima della sua trasformazione in mito, colta cioè nell’istante in cui il massimo della sua verità si declinava, e si dileguava nel bagliore della sua morte. Prima che la bellezza e la pace diventassero due retoriche, e nel breve tempo in cui la tecnologia apparve veramente come il compimento di una spiritualità universale, possiamo amare Marilyn, sorellina minore del mondo, senza serializzare il suo sorriso; possiamo credere che nel cielo nero trapuntato di stelle gialle, guardando la terra dal punto di vista della luna, Gagarin avesse davvero scoperto il segreto che rende gli uomini fratelli. Ma la stessa libertà di questo discorso ci è preclusa dal senso acuto della sua inattualità, dal coraggio improbabile che comporta la sua innocenza. Stretta tra una parte nuova ricostruita da Bertolucci guardando a ciò che Pasolini avrebbe potuto fare (se la produzione del film non gli avesse affiancato Giovannino Guareschi in omaggio alla logica “visto da sinistra, visto da destra”) e una terza parte che illumina la crudeltà, già all’epoca del film, dell’ “aria del tempo” attorno all’autore di Accattone, La rabbia è un’opera rivolta a ciò che sta dietro e a ciò che sta davanti a noi. Se ci sembra di non coglierla è perché siamo il risultato di quel che la ossessiona: la definitiva distruzione del suo linguaggio sentimentale, l’incapacità di pensare altrimenti che secondo l’esistente così com’è. adottiva viene affidato ai “nonni materni”, in Sicilia, fino ai nove anni, e poi affidato a un centro di assistenza di Cagliari. Nel 1968 viene trasferito all’Istituto di osservazione per minori di Firenze e poi al riformatorio di Pisa, dove vive in regime di semilibertà pur non avendo compiuto alcun crimine. A Pisa Franco Serantini comincia a frequentare le federazioni giovanili socialista e comunista, passando poi per Lotta Continua e approdando ai circoli anarchici. Per la prima volta nella sua vita, Franco entra a far parte di una rete di persone, ne condivide le passioni e le battaglie. Per la prima volta, attraverso la militanza politica, il giovane anarchico ha qualcosa di simile a una famiglia e degli amici. Il centro e il margine Emiliano Valente porta a teatro la storia dell’anarchico Serantini in una riflessione per quadri sull’Italia contemporanea. di Graziano Graziani Il 7 maggio del 1972 Franco Serantini, anarchico, muore a Pisa nel pronto soccorso del carcere cittadino. Due giorni prima aveva partecipato a un presidio di Lotta Continua, indetto contro il comizio di un deputato missino. Durante le cariche della polizia, Serantini viene circondato e pestato a sangue da un gruppo di celerini. Trasportato in carcere, lamenta un malessere generale che le guardie carcerarie e il medico non giudicano serio: dopo due giorni di agonia, entra in coma e muore. La vicenda di Serantini, oggi poco ricordata, può sembrare una delle tante che hanno costellato la difficile stagione degli anni Settanta. Questo è forse vero per la sua morte, ma non per la vicenda umana che a quella morte lo ha condotto. Abbandonato in un brefotrofio di Cagliari, vi resta fino all’età di due anni, quando viene adottato da una coppia senza figli. Alla morte della madre Emiliano Valente, giovane attore e autore teatrale, ha incontrato la figura di Serantini tramite il libro che gli dedicò Corrado Stajano nel 1975, Il Sovversivo. Impegnato nella stesura di un racconto per quadri della storia contemporanea d’Italia, ha individuato nella vicenda personale di Serantini la chiave per parlare degli anni Settanta, aggirando schemi e riflessioni di carattere sociologico. «La storia di Franco, che avevo letto diversi anni fa – racconta Valente – è la storia di una persona totalmente emarginata, abbandonata da ogni istituzione e rete sociale in modo così totale e reiterato che ha quasi dell’incredibile. La sua è un’esistenza ai margini delle vicende storiche di quegli anni, che pure lui ha attraversato e che hanno determinato il corso e la fine della sua esistenza. Insomma, un punto di vista laterale per guardare gli anni Settata fuori dagli anni Settanta, osservarne la logica e le dinamiche da un punto di vista insolito». Nessuno, il quadro dedicato a Serantini, è stato di recente presentato a Roma, al Teatro Lo Spazio, nell’ambito del concorso per teatro di narrazione Attori sul comò. Classificatosi al secondo posto, lo spettacolo è stato segnalato dalla giuria per il tentativo di uscire dagli schemi abituali del teatro di narrazione, e per il progetto drammaturgico in cui si inserisce. Tempo - questo il nome del progetto – si sviluppa lungo quattro quadri che, a intervalli di venti anni, raccontano l’Italia di un punto di vista laterale, marginale rispetto alla storia con la “esse” maiuscola, come nel caso della morte dell’anarchico Serantini, che ne costituisce il secondo quadro. «Il primo – racconta Valente – è un collage di ricordi di miei parenti, nonni e zii, emigrati dalla Calabria in Inghilterra e in Belgio. Storie che se viste dall’interno, fuori dal momento storico in cui sono collocate, colpiscono per la loro attualità. Quei racconti potrebbero essere fatti oggi, così come sono, da un migrante rumeno. Il senso del progetto Tempo è proprio questo: guardare la storia d’Italia da un’angolazione insolita, marginale, per portarne alla luce aspetti meno evidenti, nascosti. E mostrare come la Storia con la esse maiuscola si inserisca nelle dinamiche delle singole esistenze, e come, in questa dimensione minore, drammaticamente si ripete nel corso delle epoche». Nei due quadri finali questa prospettiva, pur restando, centrale, non si sviluppa attraverso storie marginali. «Il terzo quadro racconta della scomparsa dell’agenda del giudice Paolo Borsellino. La sua morte e quella di Falcone sono state l’evento cardine degli anni Novanta. Ma seguendo la storia laterale della scomparsa dell’agenda, anche questo evento viene guardato attraverso una delle dinamiche che hanno caratterizzato quasi l’intera storia della repubblica italiana: le collusioni del potere e i servizi segreti deviati». Il quarto quadro è ancora in fase embrionale, e riguarderà la stringente attualità. «Sto lavorando sulle formule linguistiche televisive, quelle dei telegiornali, ad esempio – spiega Valente –. Quelle formule che hanno fatto sì che il dibattito politico in Italia si trasformasse in un grottesco grammelot senza senso, trasformando la parola in un esercizio retorico che non veicola più significato. Non so ancora se all’interno di questo lavoro inserirò una storia, come per gli altri tre, oppure no. Qualunque sia la strada che imboccherà il lavoro, il fulcro di questo quadro sarà rispondere ad un interrogativo: Che effetto fa questa rutilante giostra mediatica sulla gente che è fuori dal dibattito politico e televisivo, che non può controllarlo e lo subisce solamente?». Sarebbe bello potersi permettere Shakespeare Elena Vanni ed Elio Germano autori e attori di “Verona caput fasci”, un’inchiesta teatrale sui fatti di violenza e intolleranza che da anni coinvolgono il capoluogo veneto. di Mariateresa Surianello La macchina dell’odio sta sfuggendo di mano ai suoi costruttori. Non passa giorno senza che si verifichino fatti di intolleranza ai danni delle frange più deboli della società. Mentre i nostri centri storici sono soffocati da inquietanti suv e inutili pick up cromati, scende il sipario sull’8 settembre più buio della Repubblica Italiana. E’ troppo anche per Gianfranco Fini che, calatosi nel ruolo istituzionale di terza carica dello Stato, assesta un duro colpo alla crescente foga, obliteratrice della Storia, dei suoi compagni di partito. Intervenendo alla festa di Azione giovani, il Presidente della Camera spiazza l’auditorio dichiarando che ogni democratico è un antifascista e che resistenti e repubblichini non possono stare sullo stesso piano: i primi lottavano dalla parte giusta, per la libertà, mentre i secondi – fatta salva la buona fede – erano dalla parte sbagliata. Parole inequivocabili in risposta proprio alle affermazioni celebrative dell’Armistizio di Alemanno sindaco di Roma e di La Russa, che in veste di ministro delle difesa ha sbattuto in faccia al Presidente della Repubblica la richiesta di pari dignità per i ragazzi di Salò. Vedremo l’effetto delle parole di Fini sulla “comunità militante” quella che tappezza Roma di manifesti con l’invito al sindaco di non dimenticare chi l’ha mandato sullo scranno più alto del Campidoglio. C’è tutto un substrato umano in fermento lungo la Penisola, che facendosi scudo con le dichiarazioni dei politici al governo si organizza non solo per le battaglie allo stadio con vessili nazi-fascisti, ma anche per combattere nelle strade delle nostre città grandi e piccole contro immigrati, zingari, ebrei, comunisti, omosessuali... Una guerra contro tutti coloro che questa umanità inferocita considera “diversi”. Il sangue versato la scorsa primavera continua a spandersi – come in una delle immagini più intese di Crac, l’incalzante e tecnologica performance che i Motus hanno proposto a India per la serata conclusiva del romano Shorth Theatre. Ma alla stregua di quel germoglio di vita che resiste nel cerchio di algoritmi creato dal gruppo riminese per questa tappa dei suoi Racconti crudeli della giovinezza, così alla violenza omicida di primavera il duo Elena Vanni-Elio Germano ha risposto con Verona caput fasci, spettacolo che va alle radici della crescente violenza. Attori molto sensibili alle tematiche sociali, sono entrambi attivi sulla scena teatrale con interventi di schietto impegno politico. Vanni, tra l’altro, con i riconoscimenti per i suoi lavori ha contribuito a far conoscere la ditta Narramondo, mentre Germano, molto prima di affermarsi sul grande schermo (nel 2007 ha vinto il Davide di Donatello come migliore attore), ha riscosso un decennio di apprezzamenti anche come rapper nel gruppo romano delle Bestie Rare. Di questo spettacolo che ha il sapore dell’happening ne abbiamo parlato con Elena Vanni, in questi giorni che precedono il suo riallestimento proprio a Verona sul luogo della tragedia, il 3 ottobre, in ricordo dell’uccisione di Nicola Tomassoli. Per questo lavoro siete partiti dalla mozione approvata dal Comune di Verona il 27 aprile 1995, con la quale si respingeva la risoluzione del Parlamento Europeo dell’anno precedente che chiedeva ai Paesi membri di impegnarsi nel riconoscere alle coppie omosessuali pari dignità e diritti di quelle eterosessuali. L’aggressione e l’omicidio di Nicola Tomassoli compiuto da cinque fascisti di vent’anni ha radici lontane? L’occasione è arrivata con un evento di violenza, dopo l’aggressione in via de Lollis a Roma. All’Università si è organizzata una serata, Anomalia Sapienza, che raccoglieva fondi per il processo di Emiliano, il ragazzo picchiato da cinque fascisti di Forza Nuova, e che finito in ospedale è poi andato agli arresti domiciliari per due mesi. Elio ha sentito su Radio Onda Rossa i ragazzi di Facciamo breccia e abbiamo iniziato a lavorare. Ci sembrava giusto tornare a coinvolgere il Circolo Pink (gay-lesbico) di Verona, perché i fatti del ’95 erano dovuti a un atteggiamento violento, razzista, fascista nei confronti delle persone. Le frasi contenute in questa risoluzione, pronunciate da consiglieri comunali leghisti e di Alleanza Nazionale sono così grottesche e violente, ma allo stesso tempo molto teatrali. Infatti, abbiamo cercato di conservarle in tutta la loro violenza. Non è che a Roma non ci siano state negli ultimi anni aggressioni fasciste anche con morti, però all’indomani dell’elezione a sindaco di Gianni Alemanno, si sono susseguiti con cadenza quotidiana atti di intolleranza di diversa gravità ai danni di immigrati, Rom, gay e persone di sinistra. In poche ore il clima in città è cambiato, è stato come se questi gruppi – spesso legati alle tifoserie calcistiche ultrà – si fossero sentiti legittimati? Infatti, al di là del fatto da cui partiamo, legato a un gruppo gay-lesbico, ciò di cui vogliamo parlare è l’atteggiamento fascista e razzista che si sta spandendo, radicando e che adesso non si nasconde più. Per noi è impossibile pensare che un ragazzo venga ammazzato a calci e pugni in centro a Verona. Come sempre, abbiamo sentito la necessità di dire, non possiamo stare zitti. Come disse Ulrike Meinhof, quando era una giornalista: “E’ meglio essere arrabbiati che tristi”. In questo momento la cosa fondamentale è denunciare un livello di violenza inaudito, inammissibile. Secondariamente noi siamo allibiti dalle regole che si stanno definendo. Un mio amico svizzero mi diceva che sui loro giornali in prima pagina si scrive: “L’Italia è impazzita” e giù a elencare le nuove norme dei sindaci, tipo: non si può stare dopo le undici di sera in più di due seduti su una panchina, non si può mangiare panini per strada, non si può fumare... tutta una regolamentazione e un controllo che arriva a essere una restrizione delle libertà individuali, fascista, dittatoriale. Una sequela spaventosa di condizionamenti che stanno cascando su di noi a pioggia. Il sindaco Tosi è maestro in questo. E’ chiaro a questo punto quale sia il nocciolo della questione che volete far emergere. E’ aberrante che in un consiglio comunale, in quel 1995, si sia potuto parlare così... Purtroppo, queste frasi sono diventate all’ordine del giorno. Lo spettacolo è nato dai documenti e dai colloqui con le persone che sono state coinvolte, allora. In particolare, quelle del Circolo Pink che avevano organizzato la manifestazione contro la mozione comunale. Loro ci hanno parlato del terrore in cui negli anni Novanta vivevano. Percepivano Verona come laboratorio delle destre tra l’integralismo cattolico e la destra giovanile molto violenta legata al calcio. E’ impressionante che le frasi del consigliere comunale di allora siano le stesse pronunciate dieci-quindici anni dopo da Bagnasco. Ed è ancora più impressionante che questo lavoro su Verona e su altri piccoli centri del Nord, già leghisti, razzisti e ricchi, fosse un modello poi esportato. E’ diventato la nostra normalità, queste frasi siamo costretti ad ascoltarle dai politici che ci governano. Quali sono i materiali che avete utilizzato per la costruzione drammaturgica? Abbiamo parlato con molte persone, quelle del Pink, del Csoa La Chimica e di Facciamo breccia che sono state tutte entusiaste di pensare che questa storia dopo tredici anni sarebbe stata raccontata. Ci hanno fornito la mozione, i volantini dell’epoca da cui abbiamo preso le frasi, ce n’è una abberrante di Forza Nuova che dice: “Omosessuali in Arena, sì, però con i leoni”. Materiali che sorpassano la fantasia. Tra l’altro chi aveva indetto la manifestazione contro la mozione del Comune di Verona, sono le stesse che sono state fermate a Roma in piazza San Pietro, a Gay Pride. Abbiamo allargato i fatti di Verona a quello che sta accadendo oggi in tutta Italia, è bastato raccogliere le frasi dei politici del momento, dal leghista che dice: “Sui gay bisognerebbe usare il napalm” alla ministra Mara Carfagna che dichiara: “I gay sono costituzionalmente sterili”, da Bagnasco che afferma: “L’omossessualità è uguale alla pedofilia” a Ratzinger che sentenzia: “L’omosessualità è l’eclissi di Dio”. Questo fatto vuole essere contestualizzato all’interno di una visione quotidiana. Ci teniamo alla giornata del 3 ottobre, nel pomeriggio faremo lo spettacolo lì dove è stato ucciso Nicola. Anche da parte degli organizzatori c’è la volontà di evitare la ricorrenza e l’appuntamento celebrativo con la posa di una targa. Vogliamo coinvolgere la gente, contro l’assuefazione che si è creata. Molti temono di entrare in conflitto con il Comune e c’è molta confusione. Pensa che dopo lo spettacolo a Verona, nel cimitero ebraico, sono state trovate scritte, non solo contro gli ebrei, ma anche contro gli immigrati e il Csoa La chimica. Tutti, indistintamente. Hai spesso lavorato sul recupero della memoria di fatti storici che sono stati oggetto di rimozione collettiva. Sto pensando ad A.V. storia di una B.rava R.agazza (ha vinto la prima edizione del Premio Tuttoteatro.com Dante Cappelletti, nel 2004) – uno scavo nella lotta armata attraverso la figura di una brigatista rossa. Ma a parte le ferite degli anni Settanta, sul ventennio fascista e i sessanta anni di rigurgiti il popolo italiano continua a operare una rimozione. Ora siamo giunti alla negazione della Storia, al suo appiattimento, alla totale parificazione tra partigiani e repubblichini... Rispetto alla ricerca fatta per A.V., il lavoro per Verona caput fasci, oltre a raccontare l’attualità mi coinvolge a livello personale. Sono di Salò e non posso dimenticare un episodio cardine della mia vita. Un’amica di Parigi che per la prima volta è venuta a trovarmi a Salò mi ha chiesto: “Ma dov’è il monumento, dov’è la targa che dice che avete vinto Mussolini?”. Ma quale monumento, quale targa, noi non abbiamo niente a Salò! Perché noi non abbiamo vinto niente! A Salò nessuno a livello istituzionale si è fatto carico di spiegare cos’è successo. Questo atteggiamento ha permesso, cinque anni fa, a un privato, un assessore di A.N., di aprire un bar che si chiama “Bar nero – Cafè Museum”. I turisti che arrivano, non trovando niente, vanno lì, nel museo di Mussolini, nel bar di un fascista, e lui racconta loro la sua storia. Che a Salò non ci sia un monumento, né una targa è significativo, non c’è stata un’assunzione di responsabilità da parte delle Istituzioni. Oggi ristabilire questo margine, che viene costantemente spostato, è sempre più difficile, chi lo fa viene indicato come fazioso, di sinistra... Il solo parlarne è fazioso. Questo è pericolosissimo. E, invece, lo diceva anche A.V. negli anni Settanta, vorremmo ricominciare a camminare con le nostre gambe, sorpassando questa strumentalizzazione di un passato che, quando torna, causa gli stessi errori. Per tornare alla denuncia del vostro spettacolo, oggi, se da una parte – a destra - si tende a riclassificare gli atti di intolleranza violenti, le aggressioni, i pestaggi, nell’alveo dei reati comuni, dall’altra si liquida questa recrudescenza con l’espressione siamo tornati agli anni Settanta. Tu che col tuo teatro hai indagato quegli anni come percepisci lo scontro dei nostri giorni? Cosa è cambiato? In questo anniversario del ’68 si è detto e scritto di tutto in maniera pubblicitaria, come ricorrenza, senza compiere un’analisi per far capire a chi non c’era cosa è successo. In A.V., c’è una battuta di Marianna-la ragazzina, la quale si stupisce e dice: “Ancora fascisti contro comunisti, ma quella storia non doveva essersi conclusa con la nascita della Repubblica?!”. Questa storia non si concluderà mai e purtroppo oggi non ha più delle controparti che hanno delle ragioni, ma c’è una totale confusione che arriva ad atteggiamenti di violenza e qualunquismo preoccupanti. Questa linea che costantemente si sposta, definendo una normalità, come si fa a tornare indietro? Apatia o violenza mi preoccupano entrambi. Del resto si è arrivati a questo punto operando per anni un processo di svuotamento di significato a partire dalle parole, pensiamo a “libertà”... Oggi è pronto un esercito di giovani obnubilati. Sì, però, sono fiduciosa. Anche a Roma si organizzano molte iniziative per conoscere e riflettere. La presenza di Elio Germano può aiutare la circolazione di Verona caput fasci, che difficilmente sarà accolto nei teatri? Elio ha un percorso legato alla denuncia sociale, anche con il suo gruppo Bestie Rare. La sua presenza nello spettacolo può richiamare spettatori che forse non sarebbero mai arrivati. Il suo nome può attirare, anche se il rovescio della medaglia sta nel rischio che si parli di Verona caput fasci affogandolo nel gossip e tralasciando i contenuti del lavoro. Elio e io siamo convinti che lo spettacolo vada fatto anche da altri attori, nel caso non fossimo liberi per una data, noi restiamo gli autori. Vorremmo che questo spettacolo fosse uno stimolo moltiplicatore, è nato per la serata alla Sapienza, per dire no a tutti i fatti di violenza e di fascismo che stanno accadendo. In questo periodo purtroppo ci sono molte cose da dire, per dare una visione personale e politica dei fatti che non sia strumentale e televisiva. Sarebbe bello tra un po’ ridedicarsi a Shakespeare, ma finché senti questo vuoto, anche a livello giornalistico, finché hai difficoltà a reperire le notizie, ad avere un punto di vista, un approfondimento, è necessario continuare a fare questo tipo di teatro. Raimondo Brandi nel suo spettacolo Security, fino all’11 settembre dice, «sono un attore, ho tanto tempo libero e mi dedico allo studio di un argomento per persone che non hanno tutto questo tempo». In un’ora di spettacolo puoi avere degli stimoli, poi ciascuno spettatore andrà ad approfondire. La Storia siamo noi “Cuori rossi”, una racconto dettagliato per non lasciare spazio alle parzialità (neppure a quelle dell’autore) di Giovanni Arnólfi Leggendo Cuori rossi di Cristiano Armati si capiscono (o forse si ribadiscono semplicemente) alcune cose molto importanti. La prima è che, nel decennio che va dall’inizio degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, si è consumata in Italia una effettiva guerra civile, perché tali sono le cifre che elencano i caduti e tali sono le meccaniche d’azione. La seconda è che con la veglia del presidente Pertini al letto di Paolo Di Nella, nel 1983, quella guerra è finita ed è iniziata una stagione di criminalità antidemocratica che della spirale che l’ha preceduta ha preso solo le note peggiori, ossia l’odio privo di ragioni “realmente politiche”. E’ necessario fare questa premessa, perché i lettori del libro noteranno, forse con un certo disappunto che Armati perde l’occasione straordinaria di mantenere un distacco britannico nel raccontare una vicenda storica che, comunque, parla da sola. E di fatti è così. Le note appassionate che l’autore fa vibrare di sottofondo non distraggono il lettore che affonda in una ferita rimasta aperta per tutti. La Storia, quando è raccontata con correttezza, non si presta ad interpretazioni. E Armati la racconta con meticolosa attenzione per ogni dettaglio, per ogni sfumatura. Racconta solo una parte della storia, ma la precisione nel tracciare i contorni della metà piena lascia, per contrasto, che si delinei con altrettanta esattezza la sagoma della metà vuota. Il suo livore, allora, è un in più che forse ha solo il difetto di far vendere meno copie a quello che è un grande bignami per ripassare qualcosa che da tanto ci sforziamo di dimenticare, per declinare l’obbligo di tirarvi le somme. Ma quali sono le somme da tirare? Facilissimo. La prima ce la consegna una storia che il libro sfiora solo in parte ma che si manifesta comunque con estrema chiarezza, quella della Repubblica Italiana, che dopo la morte di De Gasperi ha abbandonato, forse in favore di una realpolitik, ogni vero e genuino proposito democratico, entrando in rapporti con organizzazioni segrete interne o esterne allo Stato. La seconda è che chi ha combattuto con le armi, contro lo Stato, o contro l’opposta militanza, ha scelto il metodo meno efficace per raggiungere anche il minimo risultato. Su questa incontestabile lezione, che non è né di destra e né di sinistra, si chiude un momento terribile del nostro passato, che ha confuso spesso la politica con l’odio, la vittoria delle idee con la vittoria sugli uomini. Nel libro, che inizia la sua narrazione dalla Strage del Pane (’44), infatti, gli anni di piombo non sono che un troppo lungo elenco di pugni nello stomaco, che stancano subito e sfiniscono quando vi si mette la parola fine. Oltre che di morti, però il libro è anche pieno di ragioni. Quelle politiche appunto. Che tuttavia vengono coperte dal sangue e rese in fine irrintracciabili. Il sangue di innocenti, spesso, consapevoli, forse o non del tutto, ma sangue di ragazzi che avrebbero dovuto combattersi di meno e confrontarsi di più, come ebbe a dire Pasolini. Di questi italiani, la politica di palazzo si è fatta gioco, negandogli il dialogo da una parte o mandandoli in prima linea dall’altra. Dall’altra che la pura violenza è una forma fondamentale di auto-rappresentazione della destra neo-fascista, mentre per la sinistra extraparlamentare italiana è stata la conseguenza deviata di una stagione di guerra aperta che, dai piani alti, decideva di chiudere i conti con l’eredità della Resistenza. E con la fine degli anni di piombo quel retaggio è stato davvero definitivamente liquidato assieme alla possibilità concreta per i cittadini d’essere “corpo dello stato”. Da quel momento in poi non sono le ideologie ad essere finite, ma la democrazia. Dal canto suo lo Stato – si pensi a Genova 2001 - ha continuato, come negli anni di piombo, a fare dell’omicidio uno strumento di governance, sparando (non solo lacrimogeni) ad altezza uomo. Mentre da quel momento in poi la sinistra ha assistito alla lenta agonia del movimento, non più capace di rappresentare uno strumento concreto di azione politica, e la destra ha conosciuto, invece, la lunga escalation di una militanza scollegata del tutto dalla concretezza delle istanze civili e mossa solo da una cieca intolleranza figlia del disagio e del disadattamento di una società svuotata di valori opponibili alla barbarie. Negli ultimi capitoli Armati racconta le morti di giovani che non erano neppure militanti, gente uccisa perché ballava il reggae o per il “pretesto” di una sigaretta. Omicidi politici, perché figli di una organizzata mentalità di odio e di violenza omicida verso il diverso da sé che è da decenni l’abc che s’insegna ai giovani in tutti i luoghi in cui la destra extraparlamentare (ma anche quella che ha una rappresentanza politica, basti pensare a Forza Nuova) si riunisce. Dagli anni Ottanta a oggi, il conto degli omicidi e dei feriti è emblematicamente sbilanciato fra tanti da una parte e zero dall’altra. Anche qui la Storia non ammette opinioni. Parlano i fatti. Mentre la stampa tace tutto ciò che può. In libreria: Cristiano Armati, Cuori rossi, Newton & Compton, pp. 504, € 16,90. la differenza Ma poi? Una volta finita questa stagione? Ecco che, dunque, il valore di questo libro risiede appunto nell’ampiezza dell’arco temporale che copre e che va ben al di là del quasi omonimo Cuori neri di Luca Telese, il cui racconto è temporalmente limitato al decennio delle bombe, definito dallo stesso autore come un’anomalia nella politica italiana. Armati, non crede alle anomalie, specie se di questa portata, e allora comincia dall’inizio, dalla strage di Portella della Ginestra, e si proietta fino a Nicola Tomassoli, vittima del recente agguato di Verona. In questa larga prospettiva, si riescono a capire alcune cose fondamentali. Da una parte la connivenza fra criminalità neo-fascista e la “dark side” (lato nero… forse non è un caso) della politica italiana. settimanale di cultura on-line su www.differenza.org direttore responsabile Gian Maria Tosatti in redazione Graziano Graziani, Attilio Scarpellini, Mariateresa Surianello. La rivista è finanziata nell'ambito del progetto Scenari Indipendenti, promosso dalla Provincia di Roma in collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la Regione Lazio.