versione - Differenza

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versione - Differenza
Anno 1 Numero 30 - 15.09.2008
«Siete lo stesso coinvolti»
Editoriale
di Gian Maria Tosatti
«E proprio oggi, quando il Paese è saltato nel
futuro
con uno zaino pieno di cadaveri
che sgocciola la traccia del suo riconciliato
progresso».
(Pedro Lemebel)
E’ come ce lo raccontano Eduardo in Napoli
milionaria o Ascanio Celestini nel suo Radio
Clandestina. Dal 1945, in Italia, da quella guerra
civile che ha insanguinato la nostra bandiera,
nessuno ne vuole sapere più di violenza, di guerra,
di fascismo, di marxismo. Tutto si liquida con
poche parole. Rapidamente. Quasi come si evita il
venditore di rose o il lavavetri. Nel frattempo in
Italia un’altra guerra civile c’è stata, disturbando
la scostante quiete di oltre un decennio. E forse è
per quel chiasso, per quelle bombe che non
facevano dormire, per quelle strade interrotte
quando si voleva passare, per quelle reciproche
accuse lontane migliaia di chilometri dalla zattera
(piccolo) borghese su cui l’Italia cercava di
galleggiare alla deriva, che oggi le orecchie si
sono fatte più chiuse, ancor meno disposte ad
attivarsi, gli occhi meno disposti a vedere. E’ così
che le persone comuni cercano di sopravvivere,
passando sopra, dimenticando, e quando è
possibile, facendo finta di non vedere o di non
capire. Non è solo un problema italiano. Accade
un po’ dappertutto. Tra le strade di Santiago, tra
quelle di Sanpietroburgo, provate a chiedere alla
portinaia cilena o al commerciante russo degli
anni della dittatura, di Pinochet o dell’Urss. E
accontentatevi di sentire solo come cambia
l’equilibrio del tono quando la loro voce ripeterà
la vostra inappropriata domanda. La voce si farà
più liscia, tanto da fare scivolare via, nel breve e
artificiosamente disinvolto silenzio che segue,
quella vostra curiosità da occidentale. Ma se la
domanda la fa un connazionale allora la risposta
c’è, sbrigativa, liscia sì, ma come uno schiaffo,
che gira il viso per guardare altrove. Nessuno
vuole ricordare, perché tutti, più o meno hanno
sofferto, quelli che si sono fatti venire il torcicollo
stando per decenni girati dall’altra parte, fuori
dalla storia, e quelli che, invece, hanno visto,
tutto, e hanno visto che per molti altri un posto
nella storia aveva le dimensioni di due metri per
uno, come dicono gli inglesi, six feet under.
Come recitava De Andrè in una vecchia canzone,
non ci sono assolti, se mai solo coinvolti, quasi
tutti loro malgrado, quasi tutti disperati. Eppure
non innocenti. Non lo erano allora. Né tantomeno
oggi, se fanno di tutto per dimenticare al fine di
lenire un dolore che tuttavia convive
necessariamente con il crudo insegnamento che la
storia ci consegna perché certe cose non accadano
mai più, perché ad un certo punto un popolo possa
emendare la propria coscienza sporca senza
cercare di nasconderla sotto il tappeto del
progresso che quotidianamente copre come un
lenzuolo mortuario ancora molti ragazzi e molti
scempi, pretendendo di negare che l’infezione di
un passato possa continuare a stendere il suo
ricamo di eruzioni sul presente.
Qualche mese fa stilavamo, in un editoriale, la
lunga fila delle aggressioni neo-fasciste che si
sono consumate nella sola città di Roma negli
ultimissimi anni. Un numero impressionante, un
rosario di lame, di sangue e di sacrificati che ad
ogni nuova recita indebolisce la nostra fede nello
Stato e prima di tutto nel suo corpo di uomini e
coscienze. La politica, ha preferito passarci sopra,
confondendo, col determinante aiuto della
stampa, le aggressioni armate con le risse da
ubriachi, contro l’evidenza e le grida di migliaia di
testimoni, preoccupandosi di far sparire, con la
massima cura, dalle descrizioni quei simboli
proibiti dalla legge, ma mai puniti, tatuati,
esibiti, sventolati. Per chi si accontenta della
versione ufficiale allora è solo delinquenza
comune che tuttavia è immune alla
militarizzazione delle strade. Per chi si lascia
sfuggire che sì, è stata un’aggessione politica,
invece, non è che una fastidiosa coda di quegli
anni ’70… e minimizza «Sì, è sempre la solita
storia tra fascisti e comunisti. Sai quante ne ho
viste trent’anni fa…». Ma, invece, non è così.
Perché ormai da tantissimi, troppi anni la guerra
civile in Italia è finita. E le aggressioni sono
unilaterali, espressione di una cultura che fa della
violenza un esercizio di esistenza e che, incubata
negli spazi concessi dalla politica veltroniana
dell’equidistanza (ma è di questi giorni anche la
riapertura del centro sociale “Cuore nero” nella
“forzista” Milano), è tentata di venire allo
scoperto con maggiore coraggio quando sente un
ministro della Repubblica omaggiare di fronte al
Capo dello Stato i soldati di Salò (costringendo poi
quest’ultimo a dichiarare amaramente che
riconoscere i valori della costituzione è ancora un
obiettivo da raggiungere per molti cittadini di
questo Paese).
Non è strano che ciò accada in Italia, dove si
muore senza un perché, dove a più di trent’anni
nessuno ha ancora chiesto veramente conto
dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini, un omicidio
con dei responsabili, ma senza responsabilità,
come quello di Renato Biagetti e quelli possibili
delle decine di ragazzi di sinistra, pacifisti, che in
strada, giorno dopo giorno si salvano dalle
coltellate come funamboli sul filo del rasoio. In
questi ultimi giorni il presidente della camera e
leader di An, Gianfranco Fini, ha fatto un ulteriore
passo importante dichiarando che la destra
democratica deve necessariamente riconoscersi
nei valori dell’antifascismo. Ma per quel che
riguarda la destra “non-democratica”, costituita
da squadracce sempre più attive e sostenuta dalla
(in)tolleranza ignorante dei nostri molti vicini di
casa, per quel che riguarda questa destra che
giornalmente affigge manifesti in zone sempre
nuove delle città, gira armata per le strade,
aggredisce, sviluppa rappresentanze politiche e
saluta “romanamente”, macchiandosi di reati
comuni e di reati costituzionali solo per il fatto di
esistere, per quel che riguarda questa destra che
è un fenomeno criminale impunito che conta molti
militanti e moltissimi testimoni distratti? Per
quanto ancora saremo disposti a far finta che non
esista nascondendola sotto il tappeto come la
nostra coscienza sporca?
Cronache di un mondo perduto
Dopo la presentazione al Festival di Venezia,
torna al cinema “La rabbia” nella sola versione di
Pier Paolo Pasolini
di Attilio Scarpellini
«Che io rimpianga o non rimpianga questo
universo contadino, resta comunque affar mio.
Ciò non mi impedisce affatto di esercitare sul
mondo attuale così com’è la mia critica: anzi
tanto più lucidamente quanto più ne sono
staccato, e quanto più accetto solo stoicamente
di viverci».
(Pier Paolo Pasolini, Limitatezza della Storia e
immensita del mondo contadino, 1974)
Quante domande restano in piedi dopo aver
visto-rivisto l’edizione reintegrata (o per usare il
bel termine di Giuseppe Bertolucci “risarcita”)
della Rabbia di Pasolini? Poche rispetto
all’immagine, dove l’Europa alluvionata degli
anni ’50 e ’60 si allontana nel tempo e forse
neanche un volto tra quelli passati in rassegna –
comuni o coronati, semplici o potenti – sembra
riuscire a riaffiorare alla superficie di un disastro
antropologico ben più travolgente di quello
ancora naturale evocato all’inizio del film. La
rabbia è un film di montaggio che oppone la
poesia all’inchiesta (con tanti saluti, da lontano,
a Michael Moore e alla pessima retorica di
Fahreneit 9/11), lasciando che il testo, la voce –
quella poetica di Bassani alternata a quella
prosaica di Guttuso – strabordi oltre i confini
delle immagini di repertorio, fuggendo e
tornando per toccarle con il parossismo della
visione, proprio come il riflusso di un’onda di
piena: nessuna riattualizzazione è possibile nella
tempesta di una profezia, perché la profezia è
per sua natura rivolta al passato e alla diversità
del futuro. La rabbia è per altri versi un film
chiuso nella dialettica tra un eurocentrismo
tardo, declinante, ferito a morte dal fascismo, e
l’emergere di un terzomondismo ancora
messianico dove albeggiano la speranza degli
umili e la ferocia dei poveri: mentre scorrono le
immagini di Bourghiba e di Nasser, del Congo
appena decolonizzato, della mattanza algerina
nel contrappunto del rombo di un aereo che
scandisce un’invettiva contro la Francia
(amatissima nei suoi poeti, persino quando
Pasolini le ritorce conto il verso di Liberté, l’inno
resistenziale di Paul Eluard) viene quasi
spontaneo leggerle con la memoria rivolta ai
Dannati della terra di Fanon. I diseredati
dell’Africa e dell’Asia irrompono nell’apocalisse
morale europea con la potenza di una natura che
il neocapitalismo si appresta a rimuovere
definitivamente (quanto prima dei Lyotard e dei
Jameson, Pasolini ha intuito il carattere fatale di
quello che chiamiamo postmodernismo…) ma
nella controluce del loro insorgere,
nell’innocenza fisica, musicale, delle loro
esplosioni di gioia – nell’identità senza narcisismo
che fa ballare una bambina tunisina il giorno
dell’indipendenza nazionale – o nei loro corpi
cristici, massacrati dall’alto dei cieli e lasciati a
terra come cose, si sente già trasalire il lamento
del poeta di Casarsa per la scomparsa
dell’immenso mondo contadino di cui anche la
cultura italiana faceva parte. Si rilegge questa o
quella pagina, di dieci anni successiva alla
Rabbia, dedicata al “genocidio della povertà”
negli Scritti Corsari: “L’universo contadino (cui
appartengono le cultura sottoproletarie urbane
e, appunto fino a pochi anni fa quelle delle
minoranze operaie…) è un universo
transnazionale: che addirittura non riconosce le
nazioni (…). E’ questo illimitato mondo contadino
prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino
a pochi anni fa che io rimpiango (non per nulla
dimoro il più a lungo possibile nei paesi del Terzo
Mondo dove esso sopravvive ancora, benché il
Terzo Mondo stia anch’esso entrando nell’orbita
del cosiddetto Sviluppo)”. Senza questa chiave,
del resto, riconnettere i fili della
trama
dialettica sottesa al film risulta quasi
impossibile: l’atteggiamento di Pasolini rispetto
all’insurrezione ungherese del 1956 sarebbe
allora soltanto ambiguo, l’insistenza sulle images
d’Epinal della Russia post-staliniana
diventerebbe stucchevole (tanto più se
commentata dalla voce di Guttuso), gli attacchi
all’astrazione pittorica semplicemente
reazionari, né mai si potrebbe comprendere il
profondo parallelismo tra l’icona funebre di
Giovanni XXIII, “pastore degli umili” che con essi
condivide il “testone contadino” e la futura idea
di una Chiesa divenuta inutile al Potere, perché
estrema e contraddittoria rappresentante di un
mondo per l’appunto preindustriale e
premoderno.
C’è invece una strana assunzione di
responsabilità nelle parole che questo
intellettuale disorganico, mai del tutto integrato
non solo nel Pci (da cui venne espulso) ma nella
linea ortodossa della cultura marxista italiana,
dedica alla tragedia ungherese, quando fa
affermare a uno dei suoi angeli fuori campo: “gli
errori di Stalin sono i nostri errori”. Per quanto
appaia paradossale, sono queste parole a
denunciare l’assoluta estraneità di Pasolini al
dispositivo di appartenenza organica ad un
partito (o per converso ad una chiesa) che
rispetto all’errore garantisce sempre una
funzione salvifica: dopo il XX congresso del Pcus
ogni comunista ortodosso era in realtà
autorizzato a proclamare che gli errori (e gli
orrori) di Stalin non erano i suoi, il partito li
aveva condannati e scontati al suo posto (in
seguito l’intero “errore comunista” darà luogo a
una rimozione che permetterà ad alcuni di
affermare che, pur militando nel Pci, si sono
sempre sentiti estranei al modello sovietico). Per
Pasolini, non diversamente che per Sartre nel
medesimo periodo storico, partito e Urss sono
legittimati dall’investitura affettiva delle masse
proletarie poiché attraverso di essi queste ultime
sono state simbolicamente iscritte in una Storia
che congiurava invece alla loro cancellazione.
Nelle Rabbia, le sequenze tratte dai cinegiornali
sovietici sembrano dapprima puntare a
un’edificazione – la Rivoluzione diviene
Tradizione che salda la cultura dei padri
contadini a quella dei figli operai finalmente
alfabetizzati alla Storia – ma vengono
bruscamente interrotte da un’accelerazione
critica che ha un valore a un tempo etico ed
estetico, dal momento che mette visivamente in
discussione il concetto di realismo: all’idillio
mistificato della pittura realista socialista russa
si sovrappone il segno deforme, tormentato
(goyesco) della pittura di Guttuso. Il realismo
monumentale mente, lo stalinismo mente.
La
guerra avvolge il sonno della Ragione da cui
tralignano le immagini della Rabbia. La guerra,
cioè la modernizzazione.
Restano, quasi ai margini del “discorso libero
indiretto” che traduce l’intero film pasoliniano
fino a entrare nelle immagini e a far vibrare il
loro tempo, due gemme elegiache di pura e
rarissima fattura: la prima, scandita dai versi che
Pasolini dedicò a Marilyn Monroe dopo il suo
suicidio, è uno struggente epitaffio della bellezza
– di una bellezza salvifica, dostoevskiana – che
sola restava “tra la stupidità del mondo antico e
la ferocia di quello futuro”; la seconda è quella
dettata dal respiro cosmico del discorso rivolto a
Kruscev che Pasolini mette in bocca a Juri
Gagarin dopo il suo viaggio nello spazio. Sono
anche i momenti più intangibili del film poiché
portano con sé l’essenza sensibile degli anni ’60,
colta un attimo prima della sua trasformazione in
mito, colta cioè nell’istante in cui il massimo
della sua verità si declinava, e si dileguava nel
bagliore della sua morte. Prima che la bellezza e
la pace diventassero due retoriche, e nel breve
tempo in cui la tecnologia apparve veramente
come il compimento di una spiritualità
universale, possiamo amare Marilyn, sorellina
minore del mondo, senza serializzare il suo
sorriso; possiamo credere che nel cielo nero
trapuntato di stelle gialle, guardando la terra dal
punto di vista della luna, Gagarin avesse davvero
scoperto il segreto che rende gli uomini fratelli.
Ma la stessa libertà di questo discorso ci è
preclusa dal senso acuto della sua inattualità, dal
coraggio improbabile che comporta la sua
innocenza. Stretta tra una parte nuova
ricostruita da Bertolucci guardando a ciò che
Pasolini avrebbe potuto fare (se la produzione
del film non gli avesse affiancato Giovannino
Guareschi in omaggio alla logica “visto da
sinistra, visto da destra”) e una terza parte che
illumina la crudeltà, già all’epoca del film, dell’
“aria del tempo” attorno all’autore di Accattone,
La rabbia è un’opera rivolta a ciò che sta dietro
e a ciò che sta davanti a noi. Se ci sembra di non
coglierla è perché siamo il risultato di quel che la
ossessiona: la definitiva distruzione del suo
linguaggio sentimentale, l’incapacità di pensare
altrimenti che secondo l’esistente così com’è.
adottiva viene affidato ai “nonni materni”, in
Sicilia, fino ai nove anni, e poi affidato a un
centro di assistenza di Cagliari. Nel 1968 viene
trasferito all’Istituto di osservazione per minori di
Firenze e poi al riformatorio di Pisa, dove vive in
regime di semilibertà pur non avendo compiuto
alcun crimine.
A Pisa Franco Serantini comincia a frequentare le
federazioni giovanili socialista e comunista,
passando poi per Lotta Continua e approdando ai
circoli anarchici. Per la prima volta nella sua vita,
Franco entra a far parte di una rete di persone, ne
condivide le passioni e le battaglie. Per la prima
volta, attraverso la militanza politica, il giovane
anarchico ha qualcosa di simile a una famiglia e
degli amici.
Il centro e il margine
Emiliano Valente porta a teatro la storia
dell’anarchico Serantini in una riflessione per
quadri sull’Italia contemporanea.
di Graziano Graziani
Il 7 maggio del 1972 Franco Serantini, anarchico,
muore a Pisa nel pronto soccorso del carcere
cittadino. Due giorni prima aveva partecipato a un
presidio di Lotta Continua, indetto contro il
comizio di un deputato missino. Durante le
cariche della polizia, Serantini viene circondato e
pestato a sangue da un gruppo di celerini.
Trasportato in carcere, lamenta un malessere
generale che le guardie carcerarie e il medico non
giudicano serio: dopo due giorni di agonia, entra
in coma e muore.
La vicenda di Serantini, oggi poco ricordata, può
sembrare una delle tante che hanno costellato la
difficile stagione degli anni Settanta. Questo è
forse vero per la sua morte, ma non per la vicenda
umana che a quella morte lo ha condotto.
Abbandonato in un brefotrofio di Cagliari, vi resta
fino all’età di due anni, quando viene adottato da
una coppia senza figli. Alla morte della madre
Emiliano Valente, giovane attore e autore
teatrale, ha incontrato la figura di Serantini
tramite il libro che gli dedicò Corrado Stajano nel
1975, Il Sovversivo. Impegnato nella stesura di un
racconto per quadri della storia contemporanea
d’Italia, ha individuato nella vicenda personale di
Serantini la chiave per parlare degli anni Settanta,
aggirando schemi e riflessioni di carattere
sociologico. «La storia di Franco, che avevo letto
diversi anni fa – racconta Valente – è la storia di
una persona totalmente emarginata, abbandonata
da ogni istituzione e rete sociale in modo così
totale e reiterato che ha quasi dell’incredibile. La
sua è un’esistenza ai margini delle vicende
storiche di quegli anni, che pure lui ha
attraversato e che hanno determinato il corso e la
fine della sua esistenza. Insomma, un punto di
vista laterale per guardare gli anni Settata fuori
dagli anni Settanta, osservarne la logica e le
dinamiche da un punto di vista insolito».
Nessuno, il quadro dedicato a Serantini, è stato di
recente presentato a Roma, al Teatro Lo Spazio,
nell’ambito del concorso per teatro di narrazione
Attori sul comò. Classificatosi al secondo posto, lo
spettacolo è stato segnalato dalla giuria per il
tentativo di uscire dagli schemi abituali del teatro
di narrazione, e per il progetto drammaturgico in
cui si inserisce. Tempo - questo il nome del
progetto – si sviluppa lungo quattro quadri che, a
intervalli di venti anni, raccontano l’Italia di un
punto di vista laterale, marginale rispetto alla
storia con la “esse” maiuscola, come nel caso
della morte dell’anarchico Serantini, che ne
costituisce il secondo quadro.
«Il primo – racconta Valente – è un collage di
ricordi di miei parenti, nonni e zii, emigrati dalla
Calabria in Inghilterra e in Belgio. Storie che se
viste dall’interno, fuori dal momento storico in cui
sono collocate, colpiscono per la loro attualità.
Quei racconti potrebbero essere fatti oggi, così
come sono, da un migrante rumeno. Il senso del
progetto Tempo è proprio questo: guardare la
storia d’Italia da un’angolazione insolita,
marginale, per portarne alla luce aspetti meno
evidenti, nascosti. E mostrare come la Storia con
la esse maiuscola si inserisca nelle dinamiche
delle singole esistenze, e come, in questa
dimensione minore, drammaticamente si ripete
nel corso delle epoche».
Nei due quadri finali questa prospettiva, pur
restando, centrale, non si sviluppa attraverso
storie marginali. «Il terzo quadro racconta della
scomparsa dell’agenda del giudice Paolo
Borsellino. La sua morte e quella di Falcone sono
state l’evento cardine degli anni Novanta. Ma
seguendo la storia laterale della scomparsa
dell’agenda, anche questo evento viene guardato
attraverso una delle dinamiche che hanno
caratterizzato quasi l’intera storia della
repubblica italiana: le collusioni del potere e i
servizi segreti deviati».
Il quarto quadro è ancora in fase embrionale, e
riguarderà la stringente attualità. «Sto lavorando
sulle formule linguistiche televisive, quelle dei
telegiornali, ad esempio – spiega Valente –. Quelle
formule che hanno fatto sì che il dibattito politico
in Italia si trasformasse in un grottesco grammelot
senza senso, trasformando la parola in un
esercizio retorico che non veicola più significato.
Non so ancora se all’interno di questo lavoro
inserirò una storia, come per gli altri tre, oppure
no. Qualunque sia la strada che imboccherà il
lavoro, il fulcro di questo quadro sarà rispondere
ad un interrogativo: Che effetto fa questa
rutilante giostra mediatica sulla gente che è fuori
dal dibattito politico e televisivo, che non può
controllarlo e lo subisce solamente?».
Sarebbe bello potersi permettere Shakespeare
Elena Vanni ed Elio Germano autori e attori di
“Verona caput fasci”, un’inchiesta teatrale sui
fatti di violenza e intolleranza che da anni
coinvolgono il capoluogo veneto.
di Mariateresa Surianello
La macchina dell’odio sta sfuggendo di mano ai
suoi costruttori. Non passa giorno senza che si
verifichino fatti di intolleranza ai danni delle
frange più deboli della società. Mentre i nostri
centri storici sono soffocati da inquietanti suv e
inutili pick up cromati, scende il sipario sull’8
settembre più buio della Repubblica Italiana. E’
troppo anche per Gianfranco Fini che, calatosi nel
ruolo istituzionale di terza carica dello Stato,
assesta un duro colpo alla crescente foga,
obliteratrice della Storia, dei suoi compagni di
partito. Intervenendo alla festa di Azione giovani,
il Presidente della Camera spiazza l’auditorio
dichiarando che ogni democratico è un
antifascista e che resistenti e repubblichini non
possono stare sullo stesso piano: i primi lottavano
dalla parte giusta, per la libertà, mentre i secondi
– fatta salva la buona fede – erano dalla parte
sbagliata. Parole inequivocabili in risposta proprio
alle affermazioni celebrative dell’Armistizio di
Alemanno sindaco di Roma e di La Russa, che in
veste di ministro delle difesa ha sbattuto in faccia
al Presidente della Repubblica la richiesta di pari
dignità per i ragazzi di Salò. Vedremo l’effetto
delle parole di Fini sulla “comunità militante”
quella che tappezza Roma di manifesti con l’invito
al sindaco di non dimenticare chi l’ha mandato
sullo scranno più alto del Campidoglio. C’è tutto
un substrato umano in fermento lungo la Penisola,
che facendosi scudo con le dichiarazioni dei
politici al governo si organizza non solo per le
battaglie allo stadio con vessili nazi-fascisti, ma
anche per combattere nelle strade delle nostre
città grandi e piccole contro immigrati, zingari,
ebrei, comunisti, omosessuali... Una guerra contro
tutti coloro che questa umanità inferocita
considera “diversi”.
Il sangue versato la scorsa primavera continua a
spandersi – come in una delle immagini più intese
di Crac, l’incalzante e tecnologica performance
che i Motus hanno proposto a India per la serata
conclusiva del romano Shorth Theatre. Ma alla
stregua di quel germoglio di vita che resiste nel
cerchio di algoritmi creato dal gruppo riminese
per questa tappa dei suoi Racconti crudeli della
giovinezza, così alla violenza omicida di primavera
il duo Elena Vanni-Elio Germano ha risposto con
Verona caput fasci, spettacolo che va alle radici
della crescente violenza. Attori molto sensibili alle
tematiche sociali, sono entrambi attivi sulla scena
teatrale con interventi di schietto impegno
politico. Vanni, tra l’altro, con i riconoscimenti
per i suoi lavori ha contribuito a far conoscere la
ditta Narramondo, mentre Germano, molto prima
di affermarsi sul grande schermo (nel 2007 ha
vinto il Davide di Donatello come migliore attore),
ha riscosso un decennio di apprezzamenti anche
come rapper nel gruppo romano delle Bestie Rare.
Di questo spettacolo che ha il sapore
dell’happening ne abbiamo parlato con Elena
Vanni, in questi giorni che precedono il suo
riallestimento proprio a Verona sul luogo della
tragedia, il 3 ottobre, in ricordo dell’uccisione di
Nicola Tomassoli.
Per questo lavoro siete partiti dalla mozione
approvata dal Comune di Verona il 27 aprile
1995, con la quale si respingeva la risoluzione
del Parlamento Europeo dell’anno precedente
che chiedeva ai Paesi membri di impegnarsi nel
riconoscere alle coppie omosessuali pari dignità
e diritti di quelle eterosessuali. L’aggressione e
l’omicidio di Nicola Tomassoli compiuto da
cinque fascisti di vent’anni ha radici lontane?
L’occasione è arrivata con un evento di violenza,
dopo l’aggressione in via de Lollis a Roma.
All’Università si è organizzata una serata,
Anomalia Sapienza, che raccoglieva fondi per il
processo di Emiliano, il ragazzo picchiato da
cinque fascisti di Forza Nuova, e che finito in
ospedale è poi andato agli arresti domiciliari per
due mesi. Elio ha sentito su Radio Onda Rossa i
ragazzi di Facciamo breccia e abbiamo iniziato a
lavorare. Ci sembrava giusto tornare a coinvolgere
il Circolo Pink (gay-lesbico) di Verona, perché i
fatti del ’95 erano dovuti a un atteggiamento
violento, razzista, fascista nei confronti delle
persone. Le frasi contenute in questa risoluzione,
pronunciate da consiglieri comunali leghisti e di
Alleanza Nazionale sono così grottesche e
violente, ma allo stesso tempo molto teatrali.
Infatti, abbiamo cercato di conservarle in tutta la
loro violenza.
Non è che a Roma non ci siano state negli ultimi
anni aggressioni fasciste anche con morti, però
all’indomani dell’elezione a sindaco di Gianni
Alemanno, si sono susseguiti con cadenza
quotidiana atti di intolleranza di diversa gravità
ai danni di immigrati, Rom, gay e persone di
sinistra. In poche ore il clima in città è
cambiato, è stato come se questi gruppi – spesso
legati alle tifoserie calcistiche ultrà – si fossero
sentiti legittimati?
Infatti, al di là del fatto da cui partiamo, legato a
un gruppo gay-lesbico, ciò di cui vogliamo parlare
è l’atteggiamento fascista e razzista che si sta
spandendo, radicando e che adesso non si
nasconde più. Per noi è impossibile pensare che un
ragazzo venga ammazzato a calci e pugni in
centro a Verona. Come sempre, abbiamo sentito la
necessità di dire, non possiamo stare zitti. Come
disse Ulrike Meinhof, quando era una giornalista:
“E’ meglio essere arrabbiati che tristi”. In questo
momento la cosa fondamentale è denunciare un
livello di violenza inaudito, inammissibile.
Secondariamente noi siamo allibiti dalle regole
che si stanno definendo. Un mio amico svizzero mi
diceva che sui loro giornali in prima pagina si
scrive: “L’Italia è impazzita” e giù a elencare le
nuove norme dei sindaci, tipo: non si può stare
dopo le undici di sera in più di due seduti su una
panchina, non si può mangiare panini per strada,
non si può fumare... tutta una regolamentazione e
un controllo che arriva a essere una restrizione
delle libertà individuali, fascista, dittatoriale. Una
sequela spaventosa di condizionamenti che stanno
cascando su di noi a pioggia. Il sindaco Tosi è
maestro in questo.
E’ chiaro a questo punto quale sia il nocciolo
della questione che volete far emergere.
E’ aberrante che in un consiglio comunale, in quel
1995, si sia potuto parlare così... Purtroppo,
queste frasi sono diventate all’ordine del giorno.
Lo spettacolo è nato dai documenti e dai colloqui
con le persone che sono state coinvolte, allora. In
particolare, quelle del Circolo Pink che avevano
organizzato la manifestazione contro la mozione
comunale. Loro ci hanno parlato del terrore in cui
negli anni Novanta vivevano. Percepivano Verona
come laboratorio delle destre tra l’integralismo
cattolico e la destra giovanile molto violenta
legata al calcio. E’ impressionante che le frasi del
consigliere comunale di allora siano le stesse
pronunciate dieci-quindici anni dopo da Bagnasco.
Ed è ancora più impressionante che questo lavoro
su Verona e su altri piccoli centri del Nord, già
leghisti, razzisti e ricchi, fosse un modello poi
esportato. E’ diventato la nostra normalità,
queste frasi siamo costretti ad ascoltarle dai
politici che ci governano.
Quali sono i materiali che avete utilizzato per la
costruzione drammaturgica?
Abbiamo parlato con molte persone, quelle del
Pink, del Csoa La Chimica e di Facciamo breccia
che sono state tutte entusiaste di pensare che
questa storia dopo tredici anni sarebbe stata
raccontata. Ci hanno fornito la mozione, i
volantini dell’epoca da cui abbiamo preso le frasi,
ce n’è una abberrante di Forza Nuova che dice:
“Omosessuali in Arena, sì, però con i leoni”.
Materiali che sorpassano la fantasia. Tra l’altro chi
aveva indetto la manifestazione contro la mozione
del Comune di Verona, sono le stesse che sono
state fermate a Roma in piazza San Pietro, a Gay
Pride. Abbiamo allargato i fatti di Verona a quello
che sta accadendo oggi in tutta Italia, è bastato
raccogliere le frasi dei politici del momento, dal
leghista che dice: “Sui gay bisognerebbe usare il
napalm” alla ministra Mara Carfagna che dichiara:
“I gay sono costituzionalmente sterili”, da
Bagnasco che afferma: “L’omossessualità è uguale
alla pedofilia” a Ratzinger che sentenzia:
“L’omosessualità è l’eclissi di Dio”. Questo fatto
vuole essere contestualizzato all’interno di una
visione quotidiana. Ci teniamo alla giornata del 3
ottobre, nel pomeriggio faremo lo spettacolo lì
dove è stato ucciso Nicola. Anche da parte degli
organizzatori c’è la volontà di evitare la
ricorrenza e l’appuntamento celebrativo con la
posa di una targa. Vogliamo coinvolgere la gente,
contro l’assuefazione che si è creata. Molti
temono di entrare in conflitto con il Comune e c’è
molta confusione. Pensa che dopo lo spettacolo a
Verona, nel cimitero ebraico, sono state trovate
scritte, non solo contro gli ebrei, ma anche contro
gli immigrati e il Csoa La chimica. Tutti,
indistintamente.
Hai spesso lavorato sul recupero della memoria
di fatti storici che sono stati oggetto di
rimozione collettiva. Sto pensando ad A.V.
storia di una B.rava R.agazza (ha vinto la prima
edizione del Premio Tuttoteatro.com Dante
Cappelletti, nel 2004) – uno scavo nella lotta
armata attraverso la figura di una brigatista
rossa. Ma a parte le ferite degli anni Settanta,
sul ventennio fascista e i sessanta anni di
rigurgiti il popolo italiano continua a operare
una rimozione. Ora siamo giunti alla negazione
della Storia, al suo appiattimento, alla totale
parificazione tra partigiani e repubblichini...
Rispetto alla ricerca fatta per A.V., il lavoro per
Verona caput fasci, oltre a raccontare l’attualità
mi coinvolge a livello personale. Sono di Salò e
non posso dimenticare un episodio cardine della
mia vita. Un’amica di Parigi che per la prima volta
è venuta a trovarmi a Salò mi ha chiesto: “Ma
dov’è il monumento, dov’è la targa che dice che
avete vinto Mussolini?”. Ma quale monumento,
quale targa, noi non abbiamo niente a Salò!
Perché noi non abbiamo vinto niente! A Salò
nessuno a livello istituzionale si è fatto carico di
spiegare cos’è successo. Questo atteggiamento ha
permesso, cinque anni fa, a un privato, un
assessore di A.N., di aprire un bar che si chiama
“Bar nero – Cafè Museum”. I turisti che arrivano,
non trovando niente, vanno lì, nel museo di
Mussolini, nel bar di un fascista, e lui racconta
loro la sua storia. Che a Salò non ci sia un
monumento, né una targa è significativo, non c’è
stata un’assunzione di responsabilità da parte
delle Istituzioni. Oggi ristabilire questo margine,
che viene costantemente spostato, è sempre più
difficile, chi lo fa viene indicato come fazioso, di
sinistra... Il solo parlarne è fazioso. Questo è
pericolosissimo. E, invece, lo diceva anche A.V.
negli anni Settanta, vorremmo ricominciare a
camminare con le nostre gambe, sorpassando
questa strumentalizzazione di un passato che,
quando torna, causa gli stessi errori.
Per tornare alla denuncia del vostro spettacolo,
oggi, se da una parte – a destra - si tende a
riclassificare gli atti di intolleranza violenti, le
aggressioni, i pestaggi, nell’alveo dei reati
comuni, dall’altra si liquida questa
recrudescenza con l’espressione siamo tornati
agli anni Settanta. Tu che col tuo teatro hai
indagato quegli anni come percepisci lo scontro
dei nostri giorni? Cosa è cambiato?
In questo anniversario del ’68 si è detto e scritto
di tutto in maniera pubblicitaria, come ricorrenza,
senza compiere un’analisi per far capire a chi non
c’era cosa è successo. In A.V., c’è una battuta di
Marianna-la ragazzina, la quale si stupisce e dice:
“Ancora fascisti contro comunisti, ma quella storia
non doveva essersi conclusa con la nascita della
Repubblica?!”. Questa storia non si concluderà mai
e purtroppo oggi non ha più delle controparti che
hanno delle ragioni, ma c’è una totale confusione
che arriva ad atteggiamenti di violenza e
qualunquismo preoccupanti. Questa linea che
costantemente si sposta, definendo una
normalità, come si fa a tornare indietro? Apatia o
violenza mi preoccupano entrambi.
Del resto si è arrivati a questo punto operando
per anni un processo di svuotamento di
significato a partire dalle parole, pensiamo a
“libertà”... Oggi è pronto un esercito di giovani
obnubilati.
Sì, però, sono fiduciosa. Anche a Roma si
organizzano molte iniziative per conoscere e
riflettere.
La presenza di Elio Germano può aiutare la
circolazione di Verona caput fasci, che
difficilmente sarà accolto nei teatri?
Elio ha un percorso legato alla denuncia sociale,
anche con il suo gruppo Bestie Rare. La sua
presenza nello spettacolo può richiamare
spettatori che forse non sarebbero mai arrivati. Il
suo nome può attirare, anche se il rovescio della
medaglia sta nel rischio che si parli di Verona
caput fasci affogandolo nel gossip e tralasciando i
contenuti del lavoro. Elio e io siamo convinti che
lo spettacolo vada fatto anche da altri attori, nel
caso non fossimo liberi per una data, noi restiamo
gli autori. Vorremmo che questo spettacolo fosse
uno stimolo moltiplicatore, è nato per la serata
alla Sapienza, per dire no a tutti i fatti di violenza
e di fascismo che stanno accadendo. In questo
periodo purtroppo ci sono molte cose da dire, per
dare una visione personale e politica dei fatti che
non sia strumentale e televisiva. Sarebbe bello tra
un po’ ridedicarsi a Shakespeare, ma finché senti
questo vuoto, anche a livello giornalistico, finché
hai difficoltà a reperire le notizie, ad avere un
punto di vista, un approfondimento, è necessario
continuare a fare questo tipo di teatro. Raimondo
Brandi nel suo spettacolo Security, fino all’11
settembre dice, «sono un attore, ho tanto tempo
libero e mi dedico allo studio di un argomento per
persone che non hanno tutto questo tempo». In
un’ora di spettacolo puoi avere degli stimoli, poi
ciascuno spettatore andrà ad approfondire.
La Storia siamo noi
“Cuori rossi”, una racconto dettagliato per non
lasciare spazio alle parzialità (neppure a quelle
dell’autore)
di Giovanni Arnólfi
Leggendo Cuori rossi di Cristiano Armati si
capiscono (o forse si ribadiscono semplicemente)
alcune cose molto importanti. La prima è che, nel
decennio che va dall’inizio degli anni Settanta e
l’inizio degli anni Ottanta, si è consumata in Italia
una effettiva guerra civile, perché tali sono le
cifre che elencano i caduti e tali sono le
meccaniche d’azione. La seconda è che con la
veglia del presidente Pertini al letto di Paolo Di
Nella, nel 1983, quella guerra è finita ed è iniziata
una stagione di criminalità antidemocratica che
della spirale che l’ha preceduta ha preso solo le
note peggiori, ossia l’odio privo di ragioni
“realmente politiche”.
E’ necessario fare questa premessa, perché i
lettori del libro noteranno, forse con un certo
disappunto che Armati perde l’occasione
straordinaria di mantenere un distacco britannico
nel raccontare una vicenda storica che,
comunque, parla da sola. E di fatti è così. Le note
appassionate che l’autore fa vibrare di sottofondo
non distraggono il lettore che affonda in una
ferita rimasta aperta per tutti. La Storia, quando
è raccontata con correttezza, non si presta ad
interpretazioni. E Armati la racconta con
meticolosa attenzione per ogni dettaglio, per ogni
sfumatura. Racconta solo una parte della storia,
ma la precisione nel tracciare i contorni della
metà piena lascia, per contrasto, che si delinei
con altrettanta esattezza la sagoma della metà
vuota. Il suo livore, allora, è un in più che forse
ha solo il difetto di far vendere meno copie a
quello che è un grande bignami per ripassare
qualcosa che da tanto ci sforziamo di dimenticare,
per declinare l’obbligo di tirarvi le somme.
Ma quali sono le somme da tirare?
Facilissimo. La prima ce la consegna una storia
che il libro sfiora solo in parte ma che si manifesta
comunque con estrema chiarezza, quella della
Repubblica Italiana, che dopo la morte di De
Gasperi ha abbandonato, forse in favore di una
realpolitik, ogni vero e genuino proposito
democratico, entrando in rapporti con
organizzazioni segrete interne o esterne allo
Stato. La seconda è che chi ha combattuto con le
armi, contro lo Stato, o contro l’opposta
militanza, ha scelto il metodo meno efficace per
raggiungere anche il minimo risultato. Su questa
incontestabile lezione, che non è né di destra e né
di sinistra, si chiude un momento terribile del
nostro passato, che ha confuso spesso la politica
con l’odio, la vittoria delle idee con la vittoria
sugli uomini. Nel libro, che inizia la sua narrazione
dalla Strage del Pane (’44), infatti, gli anni di
piombo non sono che un troppo lungo elenco di
pugni nello stomaco, che stancano subito e
sfiniscono quando vi si mette la parola fine. Oltre
che di morti, però il libro è anche pieno di ragioni.
Quelle politiche appunto. Che tuttavia vengono
coperte dal sangue e rese in fine irrintracciabili. Il
sangue di innocenti, spesso, consapevoli, forse o
non del tutto, ma sangue di ragazzi che avrebbero
dovuto combattersi di meno e confrontarsi di più,
come ebbe a dire Pasolini. Di questi italiani, la
politica di palazzo si è fatta gioco, negandogli il
dialogo da una parte o mandandoli in prima linea
dall’altra.
Dall’altra che la pura violenza è una forma
fondamentale di auto-rappresentazione della
destra neo-fascista, mentre per la sinistra extraparlamentare italiana è stata la conseguenza
deviata di una stagione di guerra aperta che, dai
piani alti, decideva di chiudere i conti con
l’eredità della Resistenza.
E con la fine degli anni di piombo quel retaggio è
stato davvero definitivamente liquidato assieme
alla possibilità concreta per i cittadini d’essere
“corpo dello stato”. Da quel momento in poi non
sono le ideologie ad essere finite, ma la
democrazia. Dal canto suo lo Stato – si pensi a
Genova 2001 - ha continuato, come negli anni di
piombo, a fare dell’omicidio uno strumento di
governance, sparando (non solo lacrimogeni) ad
altezza uomo. Mentre da quel momento in poi la
sinistra ha assistito alla lenta agonia del
movimento, non più capace di rappresentare uno
strumento concreto di azione politica, e la destra
ha conosciuto, invece, la lunga escalation di una
militanza scollegata del tutto dalla concretezza
delle istanze civili e mossa solo da una cieca
intolleranza figlia del disagio e del
disadattamento di una società svuotata di valori
opponibili alla barbarie. Negli ultimi capitoli
Armati racconta le morti di giovani che non erano
neppure militanti, gente uccisa perché ballava il
reggae o per il “pretesto” di una sigaretta.
Omicidi politici, perché figli di una organizzata
mentalità di odio e di violenza omicida verso il
diverso da sé che è da decenni l’abc che s’insegna
ai giovani in tutti i luoghi in cui la destra extraparlamentare (ma anche quella che ha una
rappresentanza politica, basti pensare a Forza
Nuova) si riunisce. Dagli anni Ottanta a oggi, il
conto degli omicidi e dei feriti è
emblematicamente sbilanciato fra tanti da una
parte e zero dall’altra. Anche qui la Storia non
ammette opinioni. Parlano i fatti. Mentre la
stampa tace tutto ciò che può.
In libreria: Cristiano Armati, Cuori rossi, Newton
& Compton, pp. 504, € 16,90.
la differenza
Ma poi? Una volta finita questa stagione? Ecco che,
dunque, il valore di questo libro risiede appunto
nell’ampiezza dell’arco temporale che copre e
che va ben al di là del quasi omonimo Cuori neri
di Luca Telese, il cui racconto è temporalmente
limitato al decennio delle bombe, definito dallo
stesso autore come un’anomalia nella politica
italiana. Armati, non crede alle anomalie, specie
se di questa portata, e allora comincia dall’inizio,
dalla strage di Portella della Ginestra, e si
proietta fino a Nicola Tomassoli, vittima del
recente agguato di Verona. In questa larga
prospettiva, si riescono a capire alcune cose
fondamentali. Da una parte la connivenza fra
criminalità neo-fascista e la “dark side” (lato
nero… forse non è un caso) della politica italiana.
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in redazione
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