LICEO SCIENTIFICO “AM DE CARLO” Esame di maturità

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LICEO SCIENTIFICO “AM DE CARLO” Esame di maturità
LICEO SCIENTIFICO “A. M. DE CARLO”
Esame di maturità
a .s. 2006/2007
Girolama Chianese
Classe V sez. N
Perché “i sette peccati capitali”? beh, l’idea è nata all’improvviso, senza
pensarci né cercarla… Era ormai maggio, in classe non si parlava che
dell’esame e si accavallavano proposte sull’argomento da scegliere e ci si
sforzava di riuscire a fare i collegamenti giusti… tra <la maschera>,
<la diversità> e <il tempo>, un voce esclamò <l’accidia>, non ci avevamo
mai pensato eppure l’accidia era il male del nostro secolo, ma non era l’unico
e sarebbe stato riduttivo isolarlo…ed ecco come nel cercare di ricordare quali
erano i restanti sei, trovai il titolo: I sette peccati capitali.
Mi era capitato di sentirne parlare ma sempre con la stessa superficialità con
cui spesso ci lasciamo vivere,un argomento quindi del tutto sconosciuto a cui
mi sono avvicinata con la stessa curiosità di un bambino che si appresta a
scoprire e a dare un nome e una spiegazione a ciò che lo circonda. Iniziai così
a sfamare l’interesse che nutrivo e a riportare quelli che erano solo idee
astratte frutto di un momento di pausa tra amici, in qualcosa di concreto.
Pochi sanno che durante il medioevo la chiesa aveva incluso nei Peccati
Capitali anche la tristezza, in quanto questo sentimento indicava il non
apprezzare le opere che Dio aveva compiuto per gli uomini e che secondo la
Chiesa il peggiore dei sette peccati è la superbia, poiché con questo
sentimento si tenderebbe a mettersi sullo stesso livello di Dio, considerarlo
quindi inferiore a come dovrebbe essere considerato. Infatti è proprio la
superbia il peccato di cui si sono macchiati Lucifero, Adamo ed Eva.
Nella società moderna, spesso l’uomo si sente protagonista del mondo,
invincibile, non accorgendosi che in realtà è solo una pedina nelle mani di chi
non ha intenzione di perdere e conduce il suo gioco, l’uomo tende a guardare
gli altri prima di se stesso, puntando il dito, accusando e condannando senza
diritto di appello, il peccato nasce allora forse nelle convinzioni sbagliate che
l’uomo considera ed accetta come giuste.
Se ci si riflette un po’, ci accorgeremo tutti che almeno una volta abbiamo
peccato nel sentirci non adatti né preparati al ritmo incessante che la vita
impone, nel non saper resistere a quel dolce che sembra chiamarci da dietro
una vetrina, nel restare impigliati nella trappola dei piaceri del corpo, a tutti
sarà capitato di invidiare qualcuno non per quello che l’altro possiede ma nel
non avere ciò che l’altro ha, quante volte ci sentiamo superiori non
rendendoci conti che nessuno è inferiore, e quanti non hanno mai perso il
controllo lasciando spazio alla rabbia o hanno preferito tenere chiuso il
portafogli…Beh, siamo tutti vittime o carnefici dei sette peccati capitali,
ma per noi peccare è diventata quotidianità, abitudine e non ci facciamo
caso né tanto meno poi l’ammettiamo!
A scuola, durante quelle sette ore impari a conoscere gli autori o i fenomeni
che studi attraverso delle pagine che altri hanno scritto per te e che ancora
prima loro avevano scritto per essere ora studiati, apprezzati o criticati per
il loro lavoro, eppure al di là di ogni parola che ancora resta o di qualche
azione che ancora si ricorda si cela un uomo che pecca! Questo è il caso di
D’annunzio e la lussuria, Schopenhauer e l’accidia, Hitler e la superbia,
Marziale e l’invidia, Dickens e l’avarizia, Dalì e la gola o I fenomeni
vulcanici e l’ira della terra.
Sarà un caso che nell'estate 2003 la Algida ha messo in commercio una serie
limitata di gelati ispirati ai sette peccati capitali? Io non credo al caso ma
nemmeno che tutto abbia una spiegazione però a tutto se ne può dare una,
certo è individuale, la prospettiva cambia a seconda del punto di vista ,
spesso però è semplice ed è l’unica…!
Abbandono smodato ai piaceri…
Che cos'è
La radice della parola lussuria coincide con quella
della parola lusso - che indica una esagerazione - e
quella della parola lussazione - che significa
deformazione o divisione.
Appare quindi chiaro il significato di lussuria, che
designa qualche cosa di esagerato e di parziale.
Il corpo viene oggettivato e la persona
spersonalizzata: le vesti, gli accessori, i gesti, la
musica, le luci arrivano ad assumere un'importanza
fondamentale poiché devono supplire alla
mancanza di un altro tipo di seduzione che
scaturisce da un'intesa psicologica e affettiva, oltre
che fisica.
La lussuria è quindi una conseguenza di un certo
tipo di paura: la paura del confronto con un altro
essere umano nel quale è possibile rispecchiarsi. Il
lussurioso non si vuole specchiare, non si vuole
vedere, non si vuole confrontare…
Cosa è stato detto a proposito della
"lussuria"
Rendimi casto, ma non subito.
Sant'Agostino
Il sesso è la cosa più divertente che ho fatto
senza ridere.
Woody Allen
Il piacere è come certe droghe medicinali: per
ottenere sempre lo stesso risultato bisogna
raddoppiare la dose.
Honorè de Balzac
Le donne troppo virtuose hanno in se
qualcosa che non è mai casto.
Denis Diderot
Il pudore inventò il vestito per godere maglio
della nudità.
Carlo Dossi
L’arte del «vivere inimitabile»
Tutta la vita è senza mutamento.
Ha un solo volto la malinconia.
Il pensiero ha per cima la follia.
E l'amore è legato al tradimento.
In queste parole si riconosce un uomo particolare, un poeta eccezionale, che rendeva bello e
piacevole ogni cosa che scriveva, il poeta della ‘Lussuria ’, Gabriele D’Annunzio. D’Annunzio è
sinonimo di piacere, anzi di piaceri: tutti quelli che concesse alla sua insopprimibile necessità di
delizie. E i piaceri che si accordò furono cento e più di cento, dalla più raffinata voluttà alla più
semplice cosa. D'Annunzio ricercò e assaporò tutti gli aspetti del piacere della vita utilizzando ogni
mezzo: la “lussuria belluina”, il “piacere perverso” e la “immaginazione impura”. Il solo modo che
conosceva per placare le voglie imperiose della carne, era quello di abbandonarsi alla “sensualità
fuor dai sensi”, perché solo “dopo una lunga voluttà occulta, dopo la malvagia ebbrezza, il corpo è
come alleviato”. Ma da buon maestro dei piaceri, sapeva bene che la voluttà è anche nel non essere
mai sazio, e la sua perizia era allora nell’assaporare le mirabili fattezze di una donna dopo l’amore:
perché il piacere sta “nel possedere il corpo intero, quasi nell'assorbire e sorbire tutte le curve, tutte
le rotondità, e le cavità e le lunghezze”. Ma la cosa fantastica in D’Annunzio è che riusciva a trarre
nutrimento intellettuale proprio dall'istinto sessuale, e una volta scrisse: “Non temo di guardare
nel più profondo di me per riscoprire come dall'ingombro carnale, come dalla bestialità
indomita, come dalla turbolenza sanguigna si esalino le aure divine dei mio spirito”.
D'Annunzio si è valso della lussuria per una sorta di conoscenza e una sorta di ascesi. Quel che per
altri è piacere, per lui è sacrificio e conoscimento. In nessuno degli scritti ascetici, che sono stati
forse la sua più forte passione letteraria, si troverà contemplata e indagata la morte come nei suoi
libri erotici: la carne non è se non uno spirito devoto alla morte. In questo senso nessuno è stato più
carnale di Gabriele D'Annunzio, devoto costante alla morte. Non solo egli s'è visto più volte e s'è
descritto morto... egli ha temuto la morte. La sua devozione nasce, come nei primitivi, dall'orrore
del suo Dio o demone. Che egli l'abbia cercata, la morte, che ne sia stato tentato, non significa che
non la tema... Egli sente come la morte sia l'esperienza maggiore; più grande dell'amore; più
decisiva dell'arte; più pericolosa dell'eroismo tragico. Ma essa è anche l'unica esperienza che non
consenta ritorni. Egli vorrebbe arricchire la sua vita con la morte".
“Il Piacere", considerato la vera e propria "Bibbia" del decadentismo italiano, in cui il protagonista
incarna il simbolo della sfrenatezza sensuale che sfocia nella lussuria, generando insoddisfazione e
inappagamento dei desideri, è anche il simbolo del piacere di D’Annunzio che vuole esprimere,
attraverso il protagonista, tutto il suo ardore per il sesso femminile.
Andrea Sperelli è un personaggio autobiografico, poichè è l'incarnazione di quello che l'autore
avrebbe voluto essere. Andrea Sperelli il protagonista de "il piacere" è propulsore di questa
tendenza estetica della cultura decadente, per cui l'arte diviene oggetto di culto e la vita stessa si
risolve in essa.. La ricerca del bello come unico valore, indifferenza per ogni convenzione etica, il
disprezzo dei valori borghesi.
Sperelli è una figura che più che il pensiero amava l'espressione, la forma ai contenuti, l'importanza
che dà alla vitalità e alla sensualità (o piuttosto lussuria), e lo stesso concetto che guida la vita di
D'Annunzio "Bisogna fare la propria vita, come si fa “un’opera d'arte" in lui "il senso estetico
sostituisce quello morale".
L'esteta vive da uomo fuori dal comune perché eccezionalmente dotato e raffinato. Nel romanzo il
poeta rivela una ricerca della bellezza come prototipo di una donna affascinante e sfuggente,
espressione di ciò che può ammaliare un esteta. Gabriele D'Annunzio volle realizzare un modo di
vita eccezionale, libero da ogni convenzione e costrizione, in una perenne tensione erotica ed
eroica, in un'atmosfera impregnata di fasto, di raffinatezza di sensualità, di bellezza, e scandita da
gesti clamorosi e parole singolari cercando di interpretare al meglio un atteggiamento tipico del
decadentismo. D’Annunzio rappresenta nella sua passionalità le ascendenze del mondo classico e i
primi albori di una modernità dominata dal sacro fuoco interiore. Inizialmente, egli si rapporta al
verso dantesco con “Primo Vere”, poi si volge agli influssi carducciani, per poi esprimere in
narrativa un versante letterario italiano che viene considerato emblema di eleganza e raffinatezza
stilistica, nel quale si schiudono a ventaglio influssi di vita mondana, esperienze amorose
individuali, vocazione per il teatro, cui D’Annunzio viene indirizzato attraverso personalità di attrici
come Ida Rubinstein ed Eleonora Duse. D’Annunzio crea drammi di lussuria e di morte, dove
l’eroina o l’eroe sono costantemente in contrasto con le idee della morale borghese, portata a
reprimere le caratteristiche istintuali dell’essere umano, ed a mistificare le azioni e le teorie
nietzschiane del superuomo. Dalle liriche di “Alcyone” alla “Figlia di Iorio”, la poesia esprime
l’epico sentimento, e la crepuscolarità, in una musica dannunziana, versata all’impeto nostalgico,
amoroso, naturalistico. Ma il piacere quando diventa vizio e quindi lussuria, è mai soddisfatto? E’
proprio questo il ‘quid ’, lui è infatti insoddisfatto, e cerca costantemente nella carne e nella
passione un qualcosa di irraggiungibile. D’Annunzio è stato considerato un grande amante, ma non
è mai riuscito a stare più di tanto tempo con la stessa donna; non è per amore, ma per passione. E’
passato da donne bellissime, a attrici famose, fino ad arrivare a Parigi, città trasgressiva con i suoi
‘Bordelli ’ , dove inizia a frequentare le famosissime Prostitute. Un Uomo particolarissimo, a volte
incompreso proprio per questa sua voglia ossessiva e incontrollabile della sessualità, ma rimarrà per
sempre nella storia come uno dei più grandi amanti che ci sia mai stato.
disinteresse per il presente e mancanza di prospettive per il futuro
Il termine
Il termine, nel greco classico, designa la
negligenza, l'indifferenza, la mancanza di cure e
di interesse per una cosa. Designa inoltre
l'abbattimento, lo scoraggiamento, la
prostrazione, la stanchezza, la noia e la
depressione dell'uomo di fronte alla vita.
É lo smarrimento estremo: si produce uno stato
d'animo che intacca e rischia di disorientare tutto
ciò che raggiunge.
Due conseguenze tipiche sono l'instabilità e il
disprezzo per gli impegni della propria vita.
L'uomo non padroneggia più la vita; le vicende lo
avviluppano inestricabili, ed egli non sa più
vederci chiaro. Non sa più come cavarsela in
determinate vicende della propria esistenza; e il
compito a lui affidato gli si erge davanti
insuperabile, come la parete di una montagna.
La parola all'accidia...!!!
Il lavoro mi piace, mi affascina. Potrei
starmene seduto per ore a guardarlo.
Jerome K. Jerome
La cosa più deliziosa non è non aver nulla
da fare: è aver qualcosa da fare, e non
farla!
Marcel Achard
Un pigro è un uomo che non fa finta di
lavorare.
Nicolas de Chamforet
I momenti d'ozio sono intervalli di lucidità
nei disordini della vita.
Ambrose Bierce
Una vita ricca e attiva,un sentire dolente
Arthur Schopenhauer nacque a Danzica il 22 febbraio del 1788 da una ricca famiglia borghese e
morì a Francoforte nel 1860. Suo padre era un bravo mercante che era riuscito ad accrescere il già
cospicuo patrimonio familiare. Questa florida condizione economica consentì al giovane
Schopenhauer di viaggiare molto e conoscere ambienti stimolanti sul piano umano e culturale. Egli
dunque ebbe modo di conoscere il cure vivo e pulsante dell’Europa, però, questa esperienza
eccezionale non lo indirizzò, come era prevedibile,verso i traffici e i commerci, ma servì solo ad
aggravare la sua tendenza a chiudersi in se stesso e a nutrire una visione pessimistica della vita. I
temi dominanti delle sue meditazioni giovanili sono infatti quelli della morte e dell’eternità, dello
smarrimento di fronte alla grandiosa maestà della natura.
Qualunque sia la causa del sentire doloroso e tormentato del giovane Schopenhauer, certo è che egli
nutrì sempre una crescente insofferenza per il mondo borghese da cui era circondato. Dopo la morte
del padre, forse per suicidio, il distacco da tale mondo si fece più profondo e, grazie alla madre, che
aveva anch’essa voltato le spalle al mondo mercantile,egli poté dedicarsi agli studi classici,
abbandonandosi alla contemplazione della cultura, della filosofia e dell’arte greca.
Il rifiuto totale della vita
E’ in questi anni di studio e di meditazione, che egli avvertì il bisogno di far chiarezza sul proprio
sentimento di insoddisfazione esistenziale e di distacco dalle ordinarie preoccupazioni della vita.
Schopenhauer giunse a un rifiuto totale della vita. Intraprese allora anche lo studio della filosofia.
Platone lo appassionò perché rispondeva alle esigenze del suo animo, specie nel desiderio di
evadere dalla prigione del mondo sensibile per sollevarsi al mondo delle idee; e lo stesso si dica per
Kant, il filosofo che Schopenhauer ebbe sempre come punto di riferimento privilegiato. In Kant
egli trovava una lucida critica al realismo, cioè alla credenza che le cose abbiano una realtà e un
significato indipendenti dal soggetto, e in particolare l’affermazione che la mente dell’uomo avverte
il bisogno di andare oltre il mondo mutevole e incerto dei fenomeni per raggiungere la “cosa in sé” ,
vale a dire l’essenza profonda delle cose. Su questo punto tra i due non c’è accordo, infatti mentre
per Kant la “cosa in sé” è soltanto pensabile, un concetto non raggiungibile; per Schopenhauer essa
si può conquistare con il faticoso processo di chiarificazione interiore che il saggio o il filosofo
possono percorrere.
Che cos’è il mondo?
Nel 1818 Schopenhauer pubblicò il suo capolavoro, il mondo come volontà e rappresentazione,che
avrebbe dovuto diffondere la sua verità nel mondo vile e meschino della filosofia tedesca, ma che
non ebbe alcun successo.
Alla domanda <Che cos’è il mondo?> Schopenhauer risponde ponendosi da una duplice
prospettiva: da un lato la prospettiva della rappresentazione intellettuale o, meglio, della scienza; e
dall’altro quella della volontà.
I due punti di vista mettono capo a due soluzioni differenti. Secondo quella della conoscenza il
mondo è una mia rappresentazione; secondo l’altro, il mondo è volontà di vivere, un impeto cieco e
tenace che coinvolge tutti gli esseri e li condanna alla sofferenza: il volere, infatti, coincide con il
dolore perché è costituito dalla tensione continua, dalla ricerca senza sosta di un piacere che non si
potrà mai appagare completamente.
Il mondo come rappresentazione
Il capolavoro di Schopenhauer si apre con l’affermazione secondo cui << il mondo è una mia
rappresentazione>>: una verità che riguarda tutti gli esseri viventi, anche se solo l’uomo è capace di
assumerla nella sua coscienza e di pensarla. Questa è una verità certa, assoluta ed evidente, tanto
che non ha neppure bisogno di essere provata. Dire che il mondo è una mia rappresentazione
significa avere la consapevolezza che io non conosco realmente che cosa siano in sé il sole o la
terra; ma soltanto di avere un occhio che vede il sole ed una mano che sente il contatto con la terra.
Il mondo è una mia rappresentazione, cioè mero apparire, sogno e illusioni espressi nella metafora
del “velo di Maya”. La rappresentazione ci dà soltanto fenomeni, cioè apparenza e illusione:
qualcosa di analogo a ciò che l’antica mitologia indiana chiamava appunto “il velo di Maya”, cioè
quel velo che, coprendo il volto delle cose, cela all’uomo la vera essenza del mondo.
La rappresentazione e le forme a priori della conoscenza
Schopenhauer dice molto chiaramente che la rappresentazione, cioè la conoscenza intellettuale o la
scienza, è solo un modo di guardare le cose nel loro apparire, dall’esterno, restando sempre alla
superficie della realtà, senza riuscire a capire che cosa ci sia al di là di questa parvenza. Dunque la
rappresentazione ci mostra un continuo fluire di immagini o, in termini filosofici, di fenomeni, cioè
cose che appaiono.
La realtà quindi è solo un insieme di rappresentazioni, di fenomeni e al soggetto spetta il compito di
organizzarli. Questo gli è possibile attraverso le forme spazio temporali della sensibilità e la
categoria di casualità.
Lo spazio e il tempo sono forme a priori della rappresentazione. Ogni nostra percezione le
presuppone come sue condizioni fondamentali, non è possibile percepire, sentire o conoscere
nessuna cosa o avvenimento senza collocarlo in uno spazio e in un tempo determinati. Gli oggetti
che appaiono nella realtà sensibile spazio-temporale sono poi ulteriormente coordinati dall’intelletto
umano in un ordine che, secondo Schopenhauer, è quello della casualità. Ogni fenomeno è collegato
all’altro da un nesso di causa-effetto. Così tutta la realtà ci appare come una trama di fenomeni tra
loro connessi e subordinati: nella casualità, risiede l’essenza stessa della materia.
La vita è sogno
Avviandoci a concludere il primo aspetto della questione – l’analisi della rappresentazione – non
possiamo fare a meno di registrare il carattere affatto particolare di questo pensiero, in cui il mondo
si rivela come una fantasmagorica trama di fenomeni e la vita come illusione e sogno, qualcosa di
analogo alla vita notturna dell’uomo. Un mondo di immagini evanescenti e ingannevoli, a volte
belle e lusinghiere, a volte terribili e paurose. Per Schopenhauer la vita e i sogni sono pagine di uno
stesso libro. La lettura continua viene chiamata vita reale. Ma quando la giornata finisce e
smettiamo di leggere, allora ci mettiamo a sfogliare svogliatamente le pagine, spesso è una pagina
già letta, a volte è una pagina sconosciuta, ma sempre dello stesso libro. Così si dica del rapporto tra
vita vera e i sogni: a quest’ultimi manca l’ordine e la connessione dei fatti,mentre la vita vera è più
ordinata; ma si tratta pur sempre della medesima esperienza, come identico era il libro prima letto
ordinatamente e poi sfogliato a caso. Schopenhauer pensa che l’uomo possa andare al di là della
trama superficiale della vita e del sogno,per attingere la vera realtà, “la cosa in sé”,cioè la vera
essenza della realtà. Un’ essenza che l’uomo può raggiungere, una volta che abbia squarciato il velo
di Maya. Al contrario, in Kant la “cosa in sé” era quel concetto-limite che serviva a tracciare i
confini della conoscenza. Essa era solo pensabile, ma non raggiungibile dal nostro intelletto. Per
Schopenhauer, invece, la cosa in sé può essere conosciuta, grazie al fatto che l’uomo non è solo
capace di rappresentarsi le cose dall’esterno, ma attraverso il proprio corpo fa l’esperienza della vita
dall’interno: si sente soffrire e gioire. In breve, proprio l’esperienza proveniente dal corpo, permette
di andare oltre i fenomeni e cogliere l’essenza di me stesso che è brama o volontà di vivere, un
impulso forte e irresistibile che ci spinge a esistere e ad agire, di cui la corporeità non è altro che la
manifestazione esteriore.
Il bisogno esagerato di riconoscimento…
Il superbo è una persona innamorata
della propria superiorità, vera o
presunta, per la quale si aspetta un
riconoscimento.
Cosa si dice sulla superbia...
La simulazione dell'umiltà è peggiore della
superbia.
Sant'Agostino
Origini psicologiche
La superbia affonda le sue radici nel
profondo dell'uomo, che è sempre teso alla
ricerca e all'affermazione della sua identità.
L'identità non è qualche cosa che si elabora
al proprio interno, ma è qualche cosa che
ciascuno negozia nel rapporto con gli altri,
da cui attende il riconoscimento.
Il bisogno di riconoscimento nell'essere
umano è fortissimo: forte al pari di altri
bisogni più esistenziali…
La vita è una lunga lezione di umiltà.
J.M.Barrie
La falsa modestia è forse il solo oratore
che, parlando di se, cede volentieri la
parola ad altri.
Abraham Dufresne
Non ho pietà per i presuntuosi, perchè
credo che portano con se il loro conforto.
George Eliot
Si è orgogliosi quando si ha qualcosa da
perdere e umili quando c'è qualcosa da
guadagnarci.
Herny James
Adolf Hitler nasce il 20 aprile 1889 a Braunnau sull’Inn, alla frontiera austro-bavarese. Suo padre
Alois Hitler, lavorava nell’amministrazione reale e sua madre era una cugina del padre.
Frequentò la Realschule a Linz, dove fu un allievo turbolento e mediocre. La morte del padre nel
1905 per tubercolosi, che era il flagello di famiglia, lo immobilizzò a letto, lo scoraggiò
scolasticamente, ma nonostante il disagio economico e il cancro di cui sua madre stava morendo,
decide di partire per Vienna, per realizzare la sua vocazione artistica, iscrivendosi all’Accademia di
Belle Arti.
Viene respinto per due anni consecutivi all’esame di ammissione dell’Accademia e non poté
iscriversi alla facoltà di Architettura, essendo sprovvista di un certificato di licenza. Inizia così un
periodo oscuro, 5 anni di vagabondaggio e di decadimento fisico e sociale, quasi totale, lontano
dalla famiglia, essendo morta sua madre. In quel periodo era proprio un fantasma del ghetto: girava
con un soprabito nero troppo lungo e sformato, che gli era stato regalato da un suo amico
occasionale ebreo, i capelli sporchi sotto il capello logoro, una barba che gli invadeva il volto
affilato dalla febbre.
Nel 1909 egli dovette rassegnarsi a lavorare in una società, e a piazzare i suoi quadri. In quel
periodo leggeva molto e discuteva di politica con i suoi amici, ma quasi sempre si trattava di
monologhi, che stupivano l’uditorio per i loro temi, la loro perentorietà e la loro violenza. Tra tutti
gli amici che aveva, lui era l’unico, che nonostante la decadenza fisica, non si lasciò a quella
morale. Lui non abbandonò mai i propri valori: decoro e ordine.
Gli mancava solo la disciplina, e la lotta per salvare la sua dignità, lo convinse che, solo il più forte
e il più astuto, avrebbe vinto tale lotta della vita. Hitler fu sempre a contatto con le classi lavoratrici
e quello che provocava la sua collera, erano le teorie dei marxisti, che rifiutavano i valori della
patria borghese e del lavoro capitalista. Scoprì che dietro queste teorie, c’era l’ebraismo.
L’antisemitismo si stava sviluppando in Europa centrale, e proprio a Vienna confluivano tutte le
razze e gli scarti dei ghetti slavi.
E’ proprio in questa situazione che egli contrasse l’odio per gli ebrei: chi si nascondeva dietro al
marxismo internazionalista e materialista, chi si arricchiva a spese del popolo e portava via donne e
giovani, chi minava la supremazia della razza tedesca nell’Impero, se non l’ebreo?
Fu proprio a Vienna per Hitler la "scuola" più dura e la più fruttuosa della sua vita.
Nel 1913 egli decise di partire per Monaco e nel 1914, dinanzi al Consiglio di revisione a
Salisburgo, fu riformato per cattive condizioni di salute. Quando il 1° agosto 1914 ci fu la
dichiarazione di guerra, Hitler era felicissimo e volle partecipare a tale "grande fortuna".
Fece domanda per prestare servizio militare nell’esercito della Baviera, e fu arruolato in un
battaglione di fanteria di riserva. Senza famiglia, senza amici, senza un mestiere, Hitler fu per 4
anni un soldato modello, per il quale l’esercito rappresentava focolare, affetti e mezzo di
sostentamento. Per tutta la guerra ebbe ruolo di staffetta di compagnia. Molto coraggiosamente
traversò l’inferno del fronte occidentale, guadagnando così il grado di caporale. Prese un unico
congedo in seguito ad una ferita alla gamba.
Nel 1917 constatò, con grande sorpresa e collera, che nel Paese regnavano una crescente
demoralizzazione, il dubbio e la carestia. Gli ufficiali prussiani erano degli incapaci, lasciavano
morire milioni di uomini, che si battevano, soffrivano e morivano ai loro ordini, invece di portare
ordine, disciplina e coraggio. Fu allora che Hitler pensò: "Se mi si affidasse il comando della
guerra! Saprei come far regnare l’ordine all’interno e ricambiare agli Alleati la loro propaganda".
Nel 1918 la Germania venne sconfitta e per lui fu un colpo terribile. Naufragavano quell’Impero e
quella vittoria, per i quali aveva appassionatamente combattuto per 4 anni.
Il 9 Novembre 1918 venne proclamata la Repubblica di Weimar, battezzata così dal nome della città
in cui si tenne l’Assemblea Nazionale Costituente. Questa Repubblica regnò dal 1918 al 1933. Le
masse popolari, l’accettarono apaticamente e i gruppi di pressione erano tali che ogni decisione
importante del potere politico doveva essere negoziata con la potenze dell’economia privata e
dell’esercito, inoltre la repubblica non seppe imporre la pace anche perché questa non si comanda a
bacchetta.
Nel 1919 Hitler entrò nel Partito tedesco dei lavoratori, che fu trasformato nel 1920 nel Partito
nazionalsocialista tedesco dei lavoratori, del quale divenne il capo nel 1921.
L’inflazione gravissima e l’incertezza della Repubblica crearono il caos tanto che il presidente
decretò lo stato d’assedio, affidando all’esercito il compito di difendere la Repubblica che esso
disprezzava. Ma le autorità bavaresi volevano approfittare di questa situazione per esautorare la
democrazia e installare un governo reazionario e militare.
Nel 1929 Hitler, stanco degli indugi delle autorità di Monaco, colpì per primo e attuò il suo colpo di
Stato. Ma questo colpo di mano fallì e Adolf Hitler venne arrestato e il partito nazista e quello
comunista furono messi fuori legge. Hitler fu condannato e 5 anni di reclusione nella fortezza di
Landesberg, pena minima, che del resto, gli fu subito assicurato, sarebbe stata ridotta. Nel carcere,
Hitler, dettava il Mein Kampf a Rudolf Hess e intanto prendeva lezioni dal passato. Era per essersi
messo nell’illegalità e, quel che più conta contro l’esercito, che aveva fallito.
Nel 1924 dopo appena nove mesi di reclusione, Hitler veniva rimesso in libertà . Il suo partito era
stato sciolto, ma egli non pensò nemmeno un momento di abbandonare la vita politica. Riorganizzò
il partito e all’interno delle SA, che era un’associazione paramilitare, che egli voleva far diventare
un esercito politico. Fu scelto un piccolo gruppo, destinato a rimanere attorno al Führer.
Il partito fu articolato in gruppi locali riuniti in Gau, i cui capi, i Gauleiter, venivano eletti. Hitler,
sospettoso moltiplicava gli incarichi e cambiava spesso il personale. Per affermare la propria
autorità, Hitler decise di nominare personalmente i Gauleiter e creò un tribunale per giudicare le
contese fra i membri. Negli anni successivi il numero degli adepti crebbe lentamente. Alla fina del
1929 il partito aveva già triplicato i suoi effettivi e le SA contavano 100.000 uomini, un numero
pari all’esercito regolare. D’altra parte, il numero dei disoccupati cresceva con lo stesso ritmo. Ora,
la SA, grazie alla sua cassa di soccorso e ai suoi refettori, offrì un rifugio agli affamati. In tal modo
gli effettivi dell’esercito politico si accrebbero continuamente e nel 1933, si poterono contare
300.000 uomini.
Nel 1930 ci furono le elezioni e il partito di Adolf Hitler ottenne circa 6.500.000 voti, superando di
poco i socialdemocratici, seguiti dai comunisti. Approfittando, in seguito, del favore del Presidente
Hindenburg e degli elementi militari, ma soprattutto dello stato d’animo di depressione in cui si
trovava gran parte della popolazione tedesca (sette milioni di disoccupati), il Führer venne nominato
cancelliere.(gennaio ‘33).
Nel 1934 il Presidente Hindenburg era vecchio e declinava rapidamente e c’era il problema della
successione. Erano in molti i candidati, ma il 29 giugno 1934, dopo settimane di dubbio, Hitler
diede alle SS e alla Gestapo l’ordine di colpire. Ci fu una notte di sangue (notte dei coltelli) da un
capo all’altro del Reich. Per tutta la notte, in una prigione, i plotoni delle SS fucilarono uomini che
morivano gridando con "Heil Hitler". Morirono anche degli innocenti, furono liquidati vecchi
rancori. Più di 1.000 morti e circa 1.200 arrestati furono coperti dall’esercito, che rimase fedele.
Quando Hindenburg morì, Hitler gli successe in qualità di Führer e cancelliere del Reich, ormai la
Germania era Hitler e Hitler era la Germania. Il Führer si stancò assai presto degli affari interni e
lasciò governare i suoi uomini di fiducia, riservandosi gelosamente la politica estera.
Sempre nello stesso anno, la Germania abbandona la conferenza per il disarmo e la Società delle
Nazioni e Hitler inizia a sbarazzarsi dei nemici interni: ebrei e repubblicani, in quanto questa
sembrava essere la condizione per la rivincita.
Nel 1936 il Führer tentò il putsch austriaco, ma questo fallì a causa dell’intervento italiano.
Negli anni successivi la Germania si riarmò e rioccupò militarmente la Renania. Nel 1937 Hitler
stipulò un accordo con Mussolini, l’asse Roma-Berlino, che si rafforzava di giorno in giorno.
Nel 1938 il Führer assunse personalmente il comando delle forze armate nell’ultimo consiglio di
gabinetto del Terzo Reich. Si concluse l’Anschlu così come era stato previsto, e l’Austria fu
incorporata nella Grande Germania. In questo anno, iniziò l’applicazione delle leggi razziali.
Dopo aver conquistato la Boemia e la Slovacchia, nel ‘39 Hitler invase la Polonia e la conquistò,
causando la dichiarazione di guerra di Francia ed Inghilterra
Nel 1941 Hitler decise di attaccare la sua alleata, la Russia, dando poca importanza alla guerra con
l’Inghilterra. Questo fu un errore fatale per Hitler, poiché questo aprì un secondi fronte, errore reso
ben presto ancora più grave dall’entrata in guerra degli Stati Uniti. Da questo errore in poi la
situazione della Germania si venne a modificare a suo sfavore. In ogni caso Hitler rimase fedele al
giuramento pronunciato nel giorno dell’apertura delle ostilità, vivendo tutta la guerra in mezzo al
suo esercito.
Dal 1941 la salute del Führer, cominciò a risentire del lavoro frenetico e disordinato ch’egli
s’imponeva. Capelli grigi, vertigini, fobia per la neve, erano anche le conseguenze dei lunghi mesi
passati senza sole né riposo, sotto i cupi abeti delle foreste della Prussia orientale o dell’Ucraina,
che nascondevano il suo quartier generale. Per di più l’attentato del 20 luglio gli aveva leso i
timpani e il braccio sinistro, da allora, fu agitato da un tremito continuo.
Nel 1943 ci fu la disfatta tedesca a Stalingrado e il malcontento di buona parte dell’esercito si
concretizzò, in tentativi falliti, di uccidere Adolf Hitler. La Germania veniva attaccata ad Est dai
Sovietici e a Ovest dagli Alleati, e nel 1945 il cerchio di fuoco si chiuse intorno a Berlino. Nel
bunker della Cancelleria, rifiutandosi di credere alla disfatta, tradito da tutti, Hitler continuò a
manovrare con le mani madide e la testa in fiamme, armate inesistenti.
Ma quando i Russi furono a solo 100 metri dalla Cancelleria, il sogno di Hitler svanì. Dopo aver
sposato la sua amante, Eva Braun, e redatto le sue ultime volontà, Hitler si suicidò il 20 aprile 1945,
all’età di 56 anni. I loro cadaveri bruciati scomparvero forse nel caos del bombardamento sovietico.
Una settimana dopo, il Terzo Reich capitolava, più di 30 milioni di morti restavano a testimonianza
della follia sanguinaria di Adolf Hitler.
Nel 1939 Hitler avvenne al potere e, due mesi dopo che il maresciallo Hindenburg gli ebbe
affidato la costituzione del nuovo governo, entrarono in vigore i primi provvedimenti contro
gli Ebrei tedeschi.
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Essi erano esclusi dagli uffici pubblici e dall’avvocatura;
I medici ebrei erano esclusi dalle mutue.
Con questi provvedimenti iniziava l’eliminazione degli Ebrei da tutti i settori della vita del
Paese, e benché non tutti fossero d’accordo, nessuno interveniva, perché si mirava alla
pacificazione.
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Soltanto un compatriota può essere cittadino. Soltanto chi è di sangue tedesco,
indipendentemente dalla sua religione, può essere un compatriota. Un ebreo non
può essere un compatriota.
Chi non è cittadino non può vivere in Germania che in qualità di ospite è soggetto
alla legislazione per gli stranieri.
L’esclusione degli Ebrei e di tutti i non-Tedeschi da tutti i posti di responsabilità
nella vita pubblica.
La cessazione dell’immigrazione degli Ebrei dell’Est e di tutti gli stranieri parassiti;
l’espulsione degli Ebrei e degli stranieri indesiderabili.
Secondo i grandi capi nazionalsocialisti, era un errore credere che il problema ebraico
potesse essere risolto senza spargimento di sangue: la soluzione non poteva avvenire
altrimenti se non in maniera cruenta.
Nel 1935 il commercio era boicottato, ma gli Ebrei non venivano ancora seviziati, tuttavia
ci furono nuovi provvedimenti.
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I matrimoni tra Ebrei a soggetti di sangue tedesco o assimilato sono proibiti.
I rapporti extraconiugali tra Ebrei e individui di sangue tedesco, o assimilato sono
proibiti.
Gli Ebrei non possono tenere al loro servizio in qualità di domestiche, donne di
sangue tedesco o assimilato che abbiano meno di quarantacinque anni di età.
E’ proibito agli Ebrei esporre bandiere dai colori nazionali tedeschi. Per contro essi
possono esporre bandiere dai colori ebraici: l’esercizio di questo diritto è tutelato
dallo Stato.
Le infrazioni del 1° provvedimento saranno punite con la reclusione. Le infrazioni al
2° provvedimento saranno punite con pena di prigione o di reclusione.
Queste leggi erano le leggi sacrali, mediante le quali Hitler poteva realizzare il suo sogno.
Egli voleva estirpare la religione cristiana e sostituirla con un nuovo culto una nuova
morale. Solo una religione gli poteva assicurare degli uomini religiosamente obbedienti,
fanaticamente sottomessi, che gli corressero dietro.
Questi dovevano sottomettersi al Führer
incondizionatamente e assolutamente, il Führer è come
il sacerdote che sa esprimere la volontà divina. Secondo
Hitler, l’Ebreo simboleggia il male: " Se l’Ebreo non
esistesse, bisognerebbe inventarlo", perché una
religione non può fare a meno del diavolo. La sua
presenza faceva sì che si percepisse meglio il Dio.
Più l’orrore sarebbe stato intenso, più intense sarebbero
state l’adorazione e la fede. Queste idee di Hitler
entrarono nella mente della popolazione: l’Ebreo non è
soltanto impuro e contamina tutto con il suo stesso
contatto, ma impuro è anche tutto quanto gli appartiene
e partecipa alla sua vita.
Vennero attribuite dai tribunali pene di prigione e di
reclusione per contaminazione razziale, che avveniva
anche attraverso baci e abbracci.
"La contaminazione razziale è un crimine peggiore
dell’assassinio"
Le leggi sacrali divennero sempre più assurde e nel 1938 venne stabilito che ogni uomo
Ebreo doveva prendere il nome di Israele e ogni donna Ebrea quello di Sara.
Con l’Anschlu dell’Austria, nel 1938, i provvedimenti sacrali vennero emessi con
frequenza raddoppiata, e naturalmente anche la neoannessa Austria venne messa "al
passo", per ciò che riguardava la legislazione antisemita. Tra le nuove disposizioni
c’erano:
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La denuncia obbligatoria dei beni appartenenti agli Ebrei.
L’obbligo di assumere il nome di Israele o di Sara.
La soppressione delle ultime eccezioni a favore degli avvocati ex combattenti.
L’obbligo di apporre la lettera J su passaporti e carte d’identità.
A metà ottobre 1938 venne deciso, che era arrivato il momento di risolvere il problema
ebraico. Gli Ebrei dovevano sparire dall’economia tedesca a lasciare la Germania.
Poco dopo iniziarono le prime deportazioni. Circa 10.454 Ebrei vennero portati a
Buchenwald, e lì vennero fatti coricare all’aperto in pieno inverno, percossi e torturati per
giornate intere, mentre l’altoparlante scandiva: "Ogni Ebreo che desideri impiccarsi è
pregato di avere la cortesia di introdursi un pezzo di carta in bocca, recante il proprio
nome, al fine di poter procedere all’identificazione".
Dal novembre 1938 le sinagoghe vennero bruciate e gli ebrei deportati, e in ogni città, tra
tutti coloro che avrebbero potuto fare qualcosa, nessuno mosse un dito. Ormai la politica
che Hitler aveva adottato negli ultimi cinque anni, aveva addomesticato tutta la società.
Furono incendiate 101 sinagoghe, 76 demolite e distrutti 7.500 negozi, ma questo non
bastava, altri provvedimenti vennero emessi:
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Tutti gli Ebrei sono esclusi totalmente e definitivamente dal commercio.
Gli Ebrei devono pagare un’ammenda collettiva di un miliardo.
Ai ragazzi Ebrei è vietato frequentare scuole tedesche.(Ministero dell’Educazione)
La libera circolazione degli Ebrei viene limitata: essi non possono frequentare
determinati quartieri, né mostrarsi in pubblico a determinate ore.(Polizia)
E’ proibito agli Ebrei l’accesso alle vetture-letto e alle vetture-ristorante; e così pure
l’accesso ai ristoranti e alberghi frequentati dai membri del partito.
Queste ordinanze introducevano misure assai complesse al fine "di giungere, se possibile,
al concentramento degli Ebrei in determinati edifici". E mentre questi provvedimenti
venivano emessi, la comunità ebraiche della Germania provvedevano allo sgombero della
macerie della sinagoghe; quasi ovunque il terreno era stato trasformato in alberate "per
ariani" a loro scapito.
Qualche mese dopo alla vigilia della guerra, una legge di base regolava lo statuto
degli
Ebrei, stabilendo la formazione di una "Unione degli Ebrei del Reich",
alla quale dovevano aderire tutti gli Ebrei tedeschi, ai quali spettava
di provvedere all’istruzione dei ragazzi ebrei, all’assistenza sociale, ai
problemi dell’emigrazione. Tale era la situazione degli Ebrei tedeschi
alla vigilia della seconda guerra mondiale e Hitler in un discorso
disse: " O l’Europa e il mondo si piegheranno ai miei voleri; e allora io
concentrerò il popolo ebraico in qualche isola deserta. O tenteranno
di resistermi; e allora la razza maledetta sarà votata allo sterminio".
Quando nel 1941 la guerra diventò veramente totale, quando il
Führer finalmente si convinse che i ponti erano definitivamente
tagliati e che una nuova Monaco era impossibile, i nazisti ricorsero
alla seconda alternativa: iniziarono così le persecuzioni.
Anche alla Polonia vennero estese queste leggi sacrali e nell’ottobre 1939 venne istituito il
principio dell’obbligatorietà del servizio del lavoro per gli ebrei dai 14 ai 60 anni, venne
prescritto un censimento che dava la possibilità di contrassegnare con un timbro i
documenti d’identità degli Ebrei. Nel novembre dello stesso anno venne prescritto l’uso di
un bracciale bianco "largo almeno 10 centimetri", vennero vietati i trasferimenti di
residenza e istituito il coprifuoco dalla nove di sera alle cinque del mattino.
Agli inizi del ‘40 venne fatto divieto di servirsi delle ferrovie e di tutti i mezzi di pubblici di
trasporto. Tutta una serie di ordinanze minori, analoghe a quelle introdotte i Germania,
proibisce agli Ebrei di frequentare locali pubblici e gli spettacoli, li bandisce dalle scuole e
dalle università, li allontana dalle libere professioni e da ogni settore della vita economica,
li priva dei benefici della legislazione sociale, e, nel giro di poche settimane, ne "arianizza"
le aziende commerciali e industriali. Sono loro consentite soltanto le attività manuali.
Venne infine messa in atto la sistematica concentrazione nei ghetti. Il ghetto di Lodz è il
primo in ordine di tempo. Nelle grandi città i ghetti furono cinti da mura; in altre località si
trattava di quartieri delimitati, all’ingresso dei quali stavano cartelli in lingua tedesca che
avvertivano: "Pericolo di epidemia, potete entrare a vostro rischio e pericolo!". All’inizio del
1941 il concentramento dei ghetti in Polonia era ormai cosa conclusa e venne decretata la
pena di morte per ogni Ebreo sorpreso fuori dal ghetto. Questo sistema comportava, tra le
altre conseguenza la condanna degli Ebrei a lenta morte per inanizione.
L’elenco interminabile dei provvedimenti legali emanati ai danni degli Ebrei culminava in
alcuni testi che stabilivano imprecisi termini giuridici che un Ebreo non potrà più essere
soggetto di diritto civile o penale; non potrà sporgere denuncia: i tribunali sono
incompetenti a giudicare del suo caso, poiché egli sta fuori della legge, e delitti o crimini da
lui commessi sono di esclusiva competenza della polizia e delle SS.
LA DECISIONE E L’ELIMINAZIONE
L’eliminazione totale degli Ebrei non era il piano iniziale di Hitler. Purtroppo non ci sono
documenti e probabilmente non ne sono mai esistiti, che possano attestarlo. Ma una cosa
è sicura, anche se non era nei suoi piani, fu Lui a deciderlo sterminio degli Ebrei nel 1940.
Ma cosa gli fece cambiare idea? Forse l’odio per il popolo ebraica, forse la sua follia, ma
più probabilmente il motivo era un altro. Quando lo sterminio degli Ebrei venne disposto,
era ormai evidente che il conflitto sarebbe stato di lunga durata, indipendentemente dal
suo esito. Le speranze di un compromesso con l’Inghilterra erano svanite e i nazisti
giocavano il tutto per tutto. Lo sterminio del popolo ebraico, avrebbe reso complice tutto il
popolo tedesco, infatti "nulla lega più dei delitti commessi in comune".
In questo modo, l’olocausto sarebbe servito ad unire il Capo ai sudditi in un cerchio
comune d’ insaziabile furia omicida. L’espulsione degli Ebrei e la loro eliminazione
s’imponeva con evidenza assoluta, quindi il modo di eliminarli non aveva troppa
importanza. Furono attuati quattro tipi di eliminazioni: caotiche, metodiche, dirette ed
ritardate.
ELIMINAZIONI CAOTICHE
Mentre la Germania si apprestava a dichiarare guerra contro la Russia, vennero formati
dei gruppi d’azione. Questi gruppi erano formati da 500-800 persone e avevano il compito
di sterminare gli Ebrei. L’esercito tedesco entrò velocemente nell’Unione Sovietica, ma gli
Ebrei dei paesi baltici vennero risparmiati, in quanto la loro manodopera era un fattore
insostituibile. Solo quando l’avanzata tedesca rallentò, i gruppi poterono procedere con le
eliminazioni di massa, che avvenivano così:
Giunti in una località, si facevano indicare gli Ebrei del posto e il rabbino, al quale
affidavano l’incarico di costituire un Consiglio ebraico. Il domani, o qualche giorno dopo, il
Consiglio ebraico veniva avvertito che la popolazione ebraica doveva essere registrata in
vista di un trasferimento verso un "territorio ebraico". Il Consiglio era pertanto incaricato di
convocare la popolazione che, nelle località di una certa importanza, veniva avvertita con
manifesti. Data la rapidità dell’operazione, l’ordine in genere era eseguito dagli abitanti,
non ancora informati dei metodi tedeschi.
Gli Ebrei venivano caricati su autocarri, talora su vagoni merci, e
trasportati a qualche chilometro dalla città, verso un burrone o un
fossato anticarro. Spogliati del loro denaro, degli oggetti di valore e
spesso dei loro stessi abiti, uomini, donne e bambini venivano
immediatamente fucilati sul posto. Le fucilazioni non erano l’unico
sistema cui ricorsero i Komandos. Si ebbero, sulle rive del Mar
Nero, degli annegamenti collettivi, vi furono anche casi di Ebrei
bruciati vivi e di ebrei asfissiati negli "autocarri a gas".
ELIMINAZIONI METODICHE
Il genio tecnico dei Tedeschi permise loro di organizzare nel giro di pochi mesi un’industria
della morte, razionale ed efficace. I campi di sterminio erano sorti, con installazioni
dapprima rudimentali, poi via via più perfezionate e il sistema di sterminio scelto fu
l’asfissia per acido prussico (Auschwitz) e per ossido di carbonio.
Ogni campo di sterminio era dotato di un piccolo locale chiuso ermeticamente, che veniva
trasformato in doccia. Vi veniva fatta penetrare una serie di tubi a cui si adattavano dei
cilindri contenenti l’ossido di carbonio. Prima di essere condotti a gruppi di dieci o di
quindici dentro alla camera a gas, i malati venivano generalmente insonnoliti con iniezioni
di morfina o di scopolamina, o drogati con pastiglie sonnifere. Le stazioni di eutanasia
erano provviste anche di un piccolo crematorio ove venivano bruciati i cadaveri. Le
famiglie erano informate con lettere stereotipate che annunciavano il decesso del malato
per "debolezza cardiaca" o per "polmonite".
Prima di questa tecnica ne erano state utilizzate altre, tra cui il metodo della calce viva, le
iniezioni di fenolo al cuore e far precipitare le vittime dall’alto di una cava. I procedimenti
tecnici per ottenere uno sterminio efficace e discreto, conforme a ciò che i nazisti
qualificavano come "stile tedesco", furono studiati e preparati in laboratorio da medici e
studiosi tedeschi e i malati di mente della Germania fecero da cavie per gli Ebrei d’Europa.
ELIMINAZIONI DIRETTE
Oltre alla sterminio degli ebrei, la pazzia hitleriana si estese ad altri popoli, tra cui Zingari,
Russi, Polacchi e Cechi. Anche questi furono colpiti dalle leggi razziali, furono deportati e
poi massacrati. Le disposizioni della Wehrmacht prevedevano che "nessun Tedesco che
avesse preso parte alle operazioni militari, potesse essere soggetto a procedimenti
disciplinari o giudiziari a causa della sua condotta durante il combattimento", inoltre i
soldati dovevano tener presente "che nei paesi baltici, la vita umana, il più delle volte, non
aveva alcun valore.
ELIMINAZIONI RITARDATE
Altri metodi di eliminazione di ebrei, invece che avere effetti immediati come la fucilazione,
avevano effetti ritardati. Uno di questi procedimenti era far si che non vi fosse più
generazione futura, attraverso progetti di sterilizzazione di massa.
Un altro procedimento consisteva nel ratto dei bambini. Questi venivano collocati negli
asili-nido delle SS e lì morivano di fame. Anche la degradazione mentale dei popoli era un
provvedimento per lo sterminio degli Ebrei. Alle popolazioni non-tedesche era concesso
un grado minimo di istruzione: leggere e scrivere. Così si andava verso la formazione di
"tribù degenerate" e "bestie da soma" senza volto ne individualità.
Dolore per il ben altrui
L'invidia è un sentimento malevolo nei
confronti di un'altra persona o gruppo
di persone che possiedono qualcosa
(concretamente o metaforicamente) che
l'invidioso non possiede. Essa si
caratterizza come desiderio
ambivalente: di possedere ciò che gli
altri possiedono, oppure che gli altri
perdano quello che possiedono.
L'enfasi è, quindi, sul confronto della
propria situazione con quella delle
persone invidiate, e non sul valore
intrinseco dell'oggetto posseduto da tali
Cosa si dice sull’invidia…
L'invidioso mi loda senza saperlo.
Gibran, Kahalil.
L'invidioso non muore mai una volta
sola, ma tante volte quanto l'invidiato
vive salutato dal plauso della gente.
Gracián, Baltasar.
Ci si vanta spesso delle passioni, anche
delle più criminose; ma l'invidia è una
passione timida e vergognosa che non si
osa mai confessare.
La Rochefoucauld.
Gli anni che una donna si toglie non li
butta via, li aggiunge all'età delle altre.
Anonimo
Congratularsi vuol dire esprimere con
garbo la propria invidia.
Ambrose Bierce
Da «Epigrammi» IX, 97
«Schiatta d'invidia quel tale perchè tutta Roma mi legge.
Schiatta d'invidia perchè sono segnato a dito dalla folla.
Schiatta d'invidia perchè Tito e Domiziano mi hanno
concesso privilegi e favori.
Schiatta d'invidia perchè ho un piccolo podere fuori città e
una casa modesta a Roma.
Schiatta d'invidia perchè sono circondato da amici e invitato
a cena.
Schiatta d'invidia perchè sono amato ed ho successo.
Schiatti pure chi crepa d'invidia!»
Nel suo crudo realismo, in modo spregiudicato e talvolta per bisogno di raggranellare quanto gli
bastasse per vivere, Marziale disse e scrisse, quando potè. Di certo calcò spesso la mano con una
crudele satira contro molti personaggi che affollavano la società del suo tempo; con il suo sguardo
osservò attentamente ogni cosa ed ogni aspetto umano dal vizio capitale al più semplice gesto
malizioso; con i suoi epigrammi scrutò le piccole vicende quotidiane e le rese eterne, incensò i
potenti per necessità e per fame. Marziale fu il poeta dei costumi, osservò la società romana
ritraendone acutamente i vizi e i difetti ma giudicò sempre con la sua testa. Fin dall'inizio soffrì
l'ingiustizia dei tempi sulla propria pelle sempre arrabattandosi chiedendo ora ad uno ora ad un'altro
protettore od amico qualche sesterzio. Come lo stesso Marziale ci riferisce di sovente la gente per la
strada si fermava a guardarlo e si meravigliava che un poeta così grande portasse un mantello lacero
e scolorito. Se poi teniamo conto che quella bella "toga di finissima lana" non era altro che un
regalo di un comandante militare di Domiziano, possiamo intuire che il poeta godeva del favore del
principe nonché dell'amicizia e della considerazione dei funzionari che ruotavano intorno
all'imperatore: era l'abito appropriato alla dignità di equestre ma era come una "lampada accesa
sulla sua miseria". L'imperatore gli aveva dato un titolo, l'amico un elegante vestito degno d'un
grande poeta: per Marziale, fu vero "memorabile dono" e di quella veste signorile fece grandissimo
uso sino a che non la vide ridotta, dopo un anno, logora e stinta e ancora una volta degna della sua
povertà.
E tale difficoltà del vivere lo accompagnò per quasi tutta la vita fino a fargli scrivere: «D'accordo,
sono povero, lo sono sempre stato. Tutti però nel mondo mi leggono e tutti dicono: è lui! Questo
privilegio a pochi lo ha concesso la morte: a me, vivo, lo concede la vita... Tu sei molto ricco, lo so,
ma non potrai essere mai quel che sono io; quel che sei tu può esserlo il primo che capita!».
Marziale si avvicina all'uomo con un sorriso malizioso e spesso sfrontato ma sempre terribilmente
spassoso, divertito e assai comprensivo dell'andazzo della vita e del destino che sa essere cinico e
barbaro con chiunque: il grande Marziale mira a colpire il vizio e non l'individuo ben identificato
con nome e cognome, tende a fotografare il peccato e non il peccatore.
L’uomo così com'è veramente, con la sua umanità e la sua crudeltà, soprattutto con i suoi vizi, con
le vanità e le manie, le sue debolezze e i suoi istinti. Con molta sincerità e con vanto Marziale dirà
che la sua pagina «non conosce né Centauri,né Arpìe, ma solo l'uomo: hominem pagina nostra
sapit».
Ma com'era la vita a Roma al tempo di Marziale? La storia non la fanno solo gli imperatori o i
condottieri con le loro guerre o i grandi uomini della politica con le manovre e le congiure: la storia
contribuiscono a farla tutti e molte volte un grande evento o una svolta epocale hanno inizio proprio
dai mutamenti della società dei quali solo pochi protagonisti si fanno interpreti. Quella moltitudine
romana con la sua vita di ogni giorno è la fotografia fedele di un'epoca dalle nefandezze alla
grandezza ed è questa l'umanità che Marziale fisserà nei suoi epigrammi.
La grande Roma, caput mundi, dominatrice del mondo, era in realtà una città rumorosa, tumultuosa
e contraddittoria: luogo di speculazioni indescrivibili, centro pulsante di vizi e stranezze incredibili,
luminosa e sordida, "cenciosa e grandiosa al tempo stesso".
Andar per Roma non era certo facile né agevole: il continuo via vai dei carri per il trasporto delle
merci, le schiere di servi e cocchieri che accompagnavano i ricchi e i potenti creavano un caos
indescrivibile fino a che si arrivò persino a stabilire che i carri per trasporto potessero circolare solo
nelle ore notturne. Fu così che Roma al calare delle tenebre divenne assai rumorosa, illuminata dalle
fiaccole e invasa dalle imprecazioni e dalle liti continue dei carrettieri, dei bottegai e dei malfattori:
in molte strade di Roma era ben difficile dormire e lo stesso Marziale aveva scritto in un triste
dicembre del 95 d.c.: «Roma, grazia per un cortigiano affaticato, per un affaticato cliente. Quanto
tempo ancora portando saluti fra togatucci e battistrada correrò tutto il giorno per una manciata di
soldi? ...Io per prezzo dei miei libri non vorrei le campagne di Puglia: né il Nilo ricco di messi né
l'uva squisita. Mi chiedi che cosa voglio? dormire!».
Marziale che aveva una piccola casa sul Quirinale, dove abitava in un terzo piano rumoroso ed
affollato, ormai non riusciva più a dormire con tutto quel frastuono che spesso lo rendeva irrequieto
dopo notti insonni: «Il povero non può né pensare né dormire in Roma. Oh si dorme bene in Roma,
ma nelle case dei grandi signori che hanno le campagne e le vigne nel mezzo della città. Là,
negl'intimi recessi dei palazzi, è il sonno: nessuna voce turba i silenzi e il giorno non entra se non
quando è voluto. A me pure le risate della gente che passa rompono il sonno e tutta Roma è al mio
capezzale». E Roma era proprio così: per pochi fortunati era una festa continua, una baldoria
sfrenata, mentre per molti era un affaccendarsi continuo. Altri ancora preferivano dedicarsi ad affari
più redditizi come i tenutari dei bordelli che in Roma trovavano terreno fertile o come la
moltitudine di ruffiani e delatori.
In quel tempo «esser povero non era più, o soltanto, la peggiore ignominia né il peggior delitto, ma
l'unico». Tutto poteva essere perdonato se la tasca era ben fornita ma la miseria non si perdonava a
nessuno.
Allo stesso modo poteva esser facile fare qualche soldo grazie alla fortuna perché bastava andare a
genio a qualche potente o famiglia illustre per sistemarsi per qualche tempo sempre che il destino
tenesse lontano le sventure.
Anche il giovane Marco Valerio Marziale, dal tranquillo borgo spagnolo di Bilbili venne a Roma in
cerca di fortuna e, poco più che ventenne, per sbarcare il lunario dovette adattarsi all'umile
condizione del cliente sempre incerto del domani e sempre pronto a scroccare una cena o a chieder
soldi. Famosi alcuni epigrammi a tale riguardo: «O Massimo, ti scrocco, me ne vergogno ma te la
scrocco, la cena; e tu poi ne scrocchi un'altra: ormai dunque siamo pari... Mi basta essere servo, non
voglio essere un viceservo. Chi sta sopra, non deve, o Massimo, avere chi gli sia superiore" ». Un
letterato, specie un poeta, non aveva allora altra risorsa per vivere che la liberalità dei ricchi o la
protezione di qualche amico potente ed influente: il merito poetico, la fama, la rinomanza non
fruttavano che applausi, e se anche l'opera aveva molti lettori, chi guadagnava era soprattutto il
libraio.
Nel cuore aveva molte speranze anche perchè la fortuna aveva già baciato altri prima di lui come ad
esempio Seneca.
Tanti onori ma poche opere di bene perchè a Marziale ben poco servivano le onorificenze e i titoli
se poi si trovava senza un soldo in tasca: cambiavano i protettori ma la sua vita era sempre
contrassegnata da un continua lotta non più per la gloria che ormai aveva conquistato ma per potersi
dire poeta famoso e benestante: il merito poetico non mosse mai a compassione nessuno.
Come poeta usufruì certamente di riguardi e di favori, spesso dell'appoggio di amicizie influenti e la
sua condizione non fu certo così priva di ogni diletto come può apparire dai suoi versi tuttavia si
avverte spesso una continua aspirazione ad una piena indipendenza e alla tranquillità come a
rispecchiare in lui la figura di un poeta ormai famoso eppur agitato ed afflitto dall'ingiustizia della
vita
In un famoso epigramma Marziale descrive il suo ideale di poeta: «Vuoi la ricetta per vivere felice?
Una sostanza avita, non procuratasi con il sudore della fronte, un campo fertile, un focolare sempre
acceso, animo sereno, salute fisica, saggia semplicità, conversazione affabile, notti senza incubi,
essere ciò che sei e non preferire nulla di più, alla fine nè temere nè bramare l'ultimo giorno».
Questa ricetta di vita fu irrealizzabile per il povero Marziale che si trovò al contrario a dover
chiedere e molte volte non ottenere niente.
Marziale è spesso un po' accattone e fannullone: in alcuni momenti smarrisce la sua dignità ma solo
perchè non sente altra necessità che quella di alimentare la sua arte nei confronti della quale è
capace di sacrificarsi totalmente.
È vero: chiedeva ai suoi protettori sovvenzioni e regalie ma era l'unica cosa che gli restasse da fare
per sopravvivere e d'altronde non aveva allora altra risorsa per vivere.
Del resto un uomo come Marziale, a cui non mancavano l'ingegno e la cultura, e neppure il favore
di alcuni imperatori, poteva tentare con facilità e con buona fortuna di acquisire ricchezze con i
mezzi delle pubbliche denuncie cosa che del resto avevano già fatto numerosi letterati ed oratori
famosi: ma Marziale preferì fare il "poeta mendicante" anziché accusare perchè in lui l'amore del
«vivere comodamente» non era più forte che quello di «vivere rettamente». Questo "poeta cliente"
che gironzolava notte e giorno per la città imperiale e conosceva le fastosità e i freddi splendori dei
palazzi e delle ville signorili; e poi nei suoi epigrammi descriveva la vita quotidiana in una città
rumorosa e tumultuosa dove regnavano sudici banconi dei bottegai e schiamazzi che non lo
facevano dormire nella sua modesta dimora: non sono altro che la testimonianza di una profonda
conoscenza della vita che può offrire tutto e niente.
La conoscenza profonda del suo tempo, il sentimento morale che pervade diversi epigrammi,
l'intuizione e la spontaneità di espressione possono essere definite le caratteristiche originali della
poesia di Marziale che assumerà di volta in volta toni più o meno lirici a seconda dei temi trattati. Il
suo carattere non fu certo facile nè costante, ebbe molte amicizie ma in fondo non divenne intimo di
alcuno, si interessò a tutto e a tutti ma in definitiva non si legò mai ad alcuno; sospirò l'amore ma
non ebbe una famiglia se non per sposarsi forse per interesse ed ottenere un privilegio imperiale; a
Roma rimpianse la sua terra natale di Bilbili e quando vi ritornò, sognò Roma, l'unica vera
ispiratrice della sua poesia.
Da Epigrammi XI ,44
<<Ricco sei e solo vivi, tu
nato
sotto il consolato
di Bruto:
credi che gli amici tuoi sian
sinceri?
Furon sinceri quelli che tu
avevi
da giovane e da povero:
ora ogni nuovo amico
desidera soltanto che tu
muoia>>.
Da Epigrammi V, 81
<<Se povero sei,
Emiliano,
tu sempre povero sarai.
Ora soltanto ai ricchi
si danno le
ricchezze>>.
Eccessivo desiderio di non spendere
L'avarizia è la scarsa
disponibilità a
spendere e a donare ciò
che si possiede.
Cosa è stato detto dell’avarizia:
L'avarizia comincia dove finisce la
povertà.
Balzac
Cos'e' l'avarizia? E' un continuo vivere in
miseria per paura della miseria.
San Bernardo
Alla povertà mancano molte cose,
all'avarizia tutte.
Publilio Siro
Gli uomini odiano coloro che chiamano
avari solo perchè non ne possono cavare
nulla.
Voltaire
C’è una parabola di Gesù che parla di un uomo che aveva passato l’intera sua vita ad
accumulare tesori. Questo mi fa venire in mente un personaggio di Walt Disney: lo zio
Paperone. Ve ne ricordate? Quel vecchio, avido ed avaro, che accumulava tutti i suoi
soldi in un’enorme forziere straboccante e ben custodito. Non erano soldi da
spendere, guai, solo da accumulare! E lo zio Paperone viveva come un poveraccio,
risparmiando ogni centesimo e lanciando tuoni e fulmini contro lo spendaccione nipote
Paperino… Lo zio Paperone, un personaggio per ridere, riprende però quello inventato
dallo scrittore Charles Dickens, lo zio Scrooge, nel “Racconto di Natale”.
Written in 1843 by Charles Dickens it is considered the most important of the Books of Christmas.
The Christmas Carol contains the history of the conversion of the miser Ebezener Scrooge, profiteer
without scruples of the City that despise the religion, the family and God because they don't make
him earn money. He doesn't do charity, and he reduces his employee to the hunger. This brings him
to neglect the friends and the family living in loneliness with his own egoism. To save him from the
damnation that it attends him after the death, the ghost of Jacob Marley, once his partner in business
shows to him the hell to which has brought his egoism: to be saved himself Scrooge will owe to
receive the visit of three ghosts, the Spirit of the Christmas of the Past, the Spirit of the Christmas of
the Present and that some future. They will drag him in a trip in the time and in the space in which
Scrooge will see what it waits for him again if it won't change his behaviour : a headstone with his
name above. Very worried, the miser rediscovers a new life, mending the blames salesclerks and
finding again the peace for his soul. The history wants to be a reflection on the great poverty and the
juvenile exploitation of which same Dickens had experience in his infancy, when his parents sent
him to work in a factory of polish for shoes to repay the debts of his father.
<< Lento, grave, silenzioso, s'accostò il fantasma. Scrooge, in vederselo davanti, cadde in
ginocchio, perché in verità questo degli Spiriti era circonfuso di ombra e di mistero.
Un nero paludamento lo avvolgeva tutto, nascondendogli il capo, la faccia, ogni forma: solo
una mano distesa sporgeva. Senza di ciò, sarebbe stato difficile discernere la cupa figura dalla
notte, separarla dalle tenebre che la stringevano.
Sentì Scrooge che lo Spirito era alto e forte, sentì che la misteriosa presenza gl'incuteva un
terrore solenne. Non sapeva altro, perché lo Spirito era muto e immobile.
- Sono io in presenza dello Spirito di Natale futuro? - chiese Scrooge.
Non rispose lo Spirito, e solo accennò con la mano.
- Tu mi mostrerai le ombre delle cose non accadute, ma che accadranno nel tempo che ci
aspetta, - proseguì Scrooge. - Dico bene, Spirito? La parte superiore del paludamento si aggruppò un momento nelle sue pieghe, come se lo
Spirito avesse inclinato il capo. Fu questa l'unica sua risposta.
Benché oramai assuefatto a cotesta compagnia dell'altro mondo, Scrooge avea tanta paura di
quell'ombra taciturna da non reggersi in gambe quando si trattò di seguirla. Lo Spirito, quasi
accorto di quel tremore, sostò un momento per dargli tempo di riaversi.
Ma il rimedio fu peggio del male. Scrooge fu preso da un brivido di vago terrore, pensando che
di dietro al fosco paludamento due occhi spettrali intentamente lo fissavano, mentre egli, per
quanto aguzzasse i propri, non poteva altro vedere che una scarna mano sporgente da un gran
viluppo di nerume.
- Spirito del futuro! - egli esclamò, - io ho più paura di te che di ogni altro Spirito veduto
innanzi. Ma, poiché so che l'intenzione tua è di farmi del bene, e poiché spero di mutar vita, se
Dio mi dà vita, eccomi disposto a tenerti compagnia e con animo grato, anche. Non vorrai tu
essermi cortese di una parola? Nessuna risposta. La mano accennava diritto in avanti.
- Ebbene, guidami! - disse Scrooge. - Guidami! La notte declina, e il tempo è per me prezioso,
lo sento. Guidami, Spirito! Il Fantasma si mosse lento e grave com'era venuto. Scrooge lo seguì come avvolto nell'ombra
del paludamento e in quella si sentì portato via.
Non si può dire che entrassero in città; parve invece che questa balzasse fuori di botto e li
circondasse. Vi si trovavano dentro, proprio nel cuore; alla borsa, fra i negozianti. E questi
andavano su e giù frettolosi, e faceano tintinnare i denari in tasca, e discorrevano a capannelli,
e cavavano fuori gli orologi, e si gingillavano in atto pensoso e co' grossi sigilli d'oro della
catena. Così tante volte gli aveva visti Scrooge.
Lo Spirito si arrestò presso un gruppo di uomini d'affari. Osservando la mano che gli additava,
Scrooge si avanzò per udire i loro discorsi.
- No - diceva un omaccione grasso con tanto di pappagorgia - non ne so gran cosa. Questo so
che è morto.
- Quand'è ch'è morto? - domandò un altro.
- Iersera, credo.
- O di che? - chiese un terzo, pescando largamente in un'ampia tabacchiera. - Mi pareva a me
che non dovesse morir mai.
- Dio lo sa, - sbadigliò il primo.
- Che ne ha fatto dei suoi danari? - domandò un signore dal viso rubicondo con una
escrescenza pendula in punta del naso, la quale tremolava come i bargigli d'un tacchino.
- Non ne ho inteso dir niente, - rispose l'uomo dalla pappagorgia in un secondo sbadiglio. L'avrà lasciati alla sua Ditta. A me, no di certo. Questo è quanto so. Una risata generale accolse questa facezia.
- Ha da essere un magro funerale, - soggiunse quello stesso; - perché non so davvero di
nessuno che ci vada. Che direste se ci andassimo tutti noi, da volontari?
- Se c'è da rifocillarsi, non dico di no, - osservò il signore dall'escrescenza. - Se ci vengo, mi
s'ha da nudrire. Altra risata.
- Bè, - disse il primo, - io sono il più disinteressato fra tutti voi, perché non porto mai guanti
neri e non fo mai colazione. Eppure eccomi pronto ad andare, se c'è altri che mi faccia
compagnia. Quando ci penso, mi pare e non mi pare di essere stato il suo amico più intrinseco;
dovunque ci si vedeva, si barattavano quattro chiacchiere. Addio, addio! Il gruppo si sciolse si mescolò ad altri gruppi. Scrooge li conosceva tutti, e si volse allo Spirito
per avere una spiegazione.
Il Fantasma passò oltre in una via. Segnò, col dito disteso, due persone che s'incontravano. Di
nuovo Scrooge porse ascolto, pensando di trovar qui la spiegazione domandata.
Anche questi uomini gli erano noti: uomini d'affari, ricchissimi, di gran conto. S'era studiato
sempre di guadagnarsi la loro stima: beninteso, una stima commerciale, nient'altro.
- Come si va? - chiese uno.
- E voi? - ribatté l'altro.
- Non c'è malaccio. Pare che il vecchio lesina abbia avuto il suo conto alla fine, eh?
- Così ho inteso dire. Fa freddo, non vi pare?
- Siamo a Natale, capite. Voi non siete pattinatore, eh?
- No, no! Ho ben altro pel capo. Buon giorno! Non altro. Questo il loro incontro, il colloquio, il commiato.
Scrooge avrebbe quasi stupito che lo Spirito desse tanto peso a così futili discorsi; ma per
un'intima certezza che qualche intento nascosto ci avea da essere, si diè a pensarci sopra. Non
si poteva supporre che quei discorsi si riferissero alla morte di Giacobbe, il suo vecchio socio,
perché quella apparteneva al Passato, e i dominio di questo Spirito era tutto nel Futuro. Né gli
veniva in mente altra persona che gli appartenesse. Ma non dubitando punto che, a chiunque
si riferissero, quei discorsi aveano una moralità latente diretta al proprio bene, ei risolvette di
far tesoro di ogni parola che udisse e di ogni cosa che vedesse; e specialmente di osservare la
propria ombra, quando sarebbe comparsa. Poiché, pensava, la condotta del suo io di là da
venire lo avrebbe messo sulla buona via, agevolandogli la soluzione di quegli indovinelli. Si
guardò attorno per trovar sé stesso; ma un altro occupava il noto cantuccio, e benché
l'orologio segnasse l'ora solita del suo arrivo, non vide alcuno che gli somigliasse in mezzo alla
folla che si pigiava all'entrata. Non ne stupì molto però; perché era andato rivolgendo dentro di
sé un mutamento di vita e pensava e sperava che questa sua assenza fosse una prova dei
novelli propositi recati in atto.
Muto e fosco gli stava sempre allato il Fantasma con la mano protesa. Quando ei si riscosse,
argomentò, dalla direzione della mano e dalla posizione del Fantasma stesso rispetto a sé, che
gli occhi invisibili acutamente lo scrutassero. N'ebbe un brivido per tutta la persona.
Si tolsero dalla scena affaccendata e vennero in una oscura parte della città, dove Scrooge non
era mai penetrato, benché subito ne riconoscesse la postura e la mala fama. Le vie erano
anguste e sudicie; misere le botteghe e le case; la gente seminuda, ubriaca, sciatta, brutta.
Androni e chiassuoli, come tante fogne, rigurgitavano sulle vie intricate l'oltraggio del lezzo,
dell'immondizia, degli esseri viventi; e tutto il quartiere esalava il delitto, il sudiciume, la
miseria.
In fondo a cotesta spelonca infame, sotto l'aggetto di una tettoia, aprivasi una bottega lurida e
bassa, dove s'andava a comprare cenci, ferri, bottiglie, untume di rimasugli. Dentro,
sull'impiantito, erano ammontati chiodi, uncini, chiavi rugginose, catene, lime, bilance, pesi,
ferri vecchi d'ogni maniera. Ascondevansi forse e brulicavano segreti che non era bello
approfondire in quella montagna di cenci nauseabondi, di grasso corrotto, di ossami. Un
vecchio furfante sulla settantina, grigio di capelli, se ne stava a sedere in mezzo a coteste sue
mercanzie, presso una stufa di vecchi mattoni. Difeso dall'aria fredda di fuori mediante un
sudiciume di tenda fatta di tante pezze spaiate, sospese a una corda, s'andava fumando la sua
pipa con tutta la voluttà di una solitudine indisturbata.
Scrooge e il Fantasma vennero in presenza di costui nel punto stesso che una donna con un
grosso fardello sgusciava nella bottega. E subito dopo di lei, un'altra donna entrò, carica allo
stesso modo; e le tenne dietro un uomo vestito di nero rossiccio, il quale non meno stupì in
vederle tutt'e due ch'esse non avessero fatto riconoscendosi a vicenda. Dopo un momento di
muto stupore, al quale si unì il vecchio della pipa, tutt'e tre dettero in una gran risata.
- Passi avanti la giornaliera! - gridò la donna ch'era entrata per la prima. - Poi venga la
lavandaia; poi l'appaltatore delle pompe funebri. Vedi un po' che bazza, vecchio Joe! Pare che
ci siamo dato la posta, pare!
- Non vi potevate incontrare in un posto migliore, - disse il vecchio Joe, togliendosi la pipa di
bocca. - Venite in salotto. Ci siete da un pezzo come a casa vostra; e gli altri due non son mica
forestieri. Lasciate che chiuda la porta della bottega. Ah, come stride! sfido a trovar qui dentro
una sferra più rugginosa di questi arpionacci o delle ossa più vecchie delle mie.. Ah, ah! Siamo
in armonia del mestiere, capite, siamo bene assortiti. Venite in salotto. Venite in salotto. Il salotto era lo spazio difeso dalla tenda di stracci. Il vecchio rattizzò il fuoco con un ferro
rugginoso di ringhiera, e smoccolato che ebbe la lucerna fumosa (perché già era notte) col
cannello della pipa, si pose questo di nuovo fra le labbra.
Nel frattempo, la donna che avea già parlato gettò il suo fagotto per terra e sedette sopra uno
sgabello, incrociando i gomiti sulle ginocchia e squadrando con mal piglio gli altri due.
- O che m'avete da dire, signora Dilber, sentiamo un po'! - disse la donna. - Ognuno ha il
diritto di guardare ai suoi interessi. Anche lui non ha fatto altro, voi lo sapete!
- Altro se lo so! - rispose la lavandaia. - Nessuno lo passava per questo.
- E allora, che è che mi fate cotesti occhiacci, come se aveste paura? Non c'è mica da scoprire
altarini, qui!
- No, davvero! - dissero insieme la signora Dilber e l'uomo. - Speriamo di no, almeno.
- Bravi dunque! - esclamò la donna, - e non se ne parli altro. Chi è che ce lo perde questo po'
di roba? Nessuno, a meno che non sia il morto.
- Avete ragione, - approvò ridendo la signora Dilber.
- S'ei se la voleva serbare anche dopo morto, quel vecchio lesina, perché non ha vissuto come
tutti gli altri? Se avesse fatto così, qualcuno gli sarebbe stato vicino quando la morte se lo ha
pigliato, e non avrebbe bocchieggiato nella sua topaia solo come un cane.
- È proprio la parola della verità. Questo gli toccava, nient'altro.
- E gli avrebbe avuto a toccar peggio, parola d'onore, e così avessi potuto io metter le mani su
qualche altra cosa. Aprite quel fagotto, Joe, e prezzatelo. Parlate chiaro. Non ho mica paura io
d'esser la prima e tanto meno ch'essi lo vedano. Anche prima di trovarci qua, si sapeva un
pochino, mi pare, che i nostri affarucci li facevamo. Niente di male. Aprite il fagotto, Joe. Ma la galanteria dei colleghi si oppose a questo, e l'uomo vestito di nero rossiccio, montando
pel primo sulla breccia, profferse il suo bottino. Non era gran che. Un par di sigilli, un astuccio
da matita, due bottoni di camicia e una spilla di poco valore. Il vecchio Joe esaminò ed
apprezzò ad uno ad uno gli oggetti, scrisse sul muro con un pezzo di gesso le somme ch'era
disposto a sborsare, e visto che non c'era altro, tirò la somma.
- Ecco il vostro conto, - disse, - e non darei niente niente di più, mi avessero anche ad
arrostire. Chi viene appresso? -
Veniva appresso la signora Dilber. Lenzuola e tovaglie, un abito, due cucchiaini d'argento
antiquati, un par di pinzette per lo zucchero e qualche stivale. Il secondo conteggio fu fatto sul
muro come il primo.
- Con le signore, - disse il vecchio Joe, - sono sempre largo di mano. È una mia debolezza, e
gli è così che mi rovino. Eccovi il vostro conto. Se non siete contenta e volete mercanteggiare,
mi pentirò di essere stato così liberale e vi farò invece una sottrazione.
- Ed ora, Joe, - disse l'altra donna, - disfate il mio fagotto. Joe si pose ginocchioni per star più comodo e dopo aver sciolti un arruffio di nodi, tirò fuori un
involto grosso e pesante di stoffa scura.
- O che è questo? - disse. - Un cortinaggio!
- Ah! - rispose ridendo la donna sporgendosi sulle braccia incrociate. - Un cortinaggio!
- Non mi darete mica ad intendere, che lo abbiate tirato giù, anelli e ogni cosa, mentre il morto
stava lì, sul letto!
- Sì davvero. E perché no?
- Brava, - disse Joe, - voi siete nata per far fortuna, e vi dico che la farete.
- Certo, - rispose freddamente la donna, - quando me ne verrà il destro, non me ne starò con
le mani in mano, per riguardo a un omaccio come quello lì. No, Joe, parola d'onore. E adesso
non mi fate sgocciolar l'olio sulle coperte.
- Anche sue? - domandò Joe.
- O di chi volete che siano? - ribatté la donna. - Non c'è paura che pigli un'infreddatura, no.
- Spero che non sia morto di male contagioso, eh? - disse Joe, fermandosi in tronco e alzando
gli occhi.
- Niente paura, - rispose la donna. - Se mai, non mi struggevo poi tanto della sua compagnia
da stargli intorno per questi stracci. Ah! fatevi pure a guardarla cotesta camicia, che non ci
troverete né un buco né niente niente di logoro. Era la migliore che avesse, ed è anche fine. Se
non c'ero io, l'avrebbero sciupata.
- Sciupata? - domandò il vecchio Joe.
- Già, - rispose la donna ridendo, - gliel'avrebbero messa indosso per sepellirlo. E c'è stato non
so che balordo che così avea fatto! ma io gliel'ho cavata di nuovo. È anche troppo lusso il
cotone per involtarvi un morto. Più brutto di quanto era con questa indosso, non potrà parere
di certo. Scrooge ascoltava questo dialogo inorridendo. Li vedeva aggruppati intorno al loro bottino, alla
povera luce d'una lucerna, e gliene veniva un odio, una nausea, come al cospetto di osceni
demoni che mercanteggiassero lo stesso cadavere.
- Ah, ah! - ridacchiò la stessa donna, quando il vecchio Joe, cavando un sacchetto di flanella
pieno di denari contò a ciascuno per terra la sua parte. - Qui sta il bello, vedete! Ha fatto paura
a tutti quando era vivo, proprio per farci guadagnar noi da morto. Ah, ah, ah!
- Spirito! - disse Scrooge, tremando da capo a piedi. - Vedo, vedo. Cotesto sciagurato potrei
essere io. A questo mi mena la mia vita di adesso... Dio di misericordia, che cosa è questa! -
Indietreggiò dal terrore, perché la scena era mutata ed ei toccava quasi un letto, un letto
nudo, senza cortinaggio, sul quale, sotto un lenzuolo sdrucito, giaceva qualche cosa
d'avviluppato, il cui silenzio stesso parlava terribilmente.
La camera era buia, tanto buia da non potere osservare intorno con accuratezza, benché
Scrooge aguzzasse gli occhi obbedendo a un impulso segreto che lo rendeva ansioso di sapere
in che sorta di camera si trovasse.
Una luce scialba, venendo di fuori, mandò un raggio su quel letto: e su questo, spogliato,
rubato, solo, trascurato, senza pianto, giaceva il corpo di quell'uomo.
Scrooge volse un'occhiata al Fantasma. La rigida mano accennava al capo del morto. Il
lenzuolo era così male aggiustato che col menomo tocco d'un dito Scrooge avrebbe potuto
scoprire quella faccia. Vi pensò, ne vide l'agevolezza, se ne struggeva; ma non avea maggior
potere di rimuovere quel velo che di allontanare da sé lo Spettro silenzioso.
Oh! fredda, rigida, spaventevole Morte! rizza qui il tuo altare, vestilo di tutti i tuoi terrori. Qui
davvero è il tuo regno! Ma se quel capo fosse amato, riverito, onorato, non un capello ne
potresti strappare pei tuoi biechi disegni, non un tratto del viso rendere odioso. Non è già che
quella mano non sia grave e che non ricada abbandonata; non è già che il cuore e il polso non
battano; ma quella mano era aperta, generosa, leale; ma quel cuore era bravo, caldo,
affettuoso; ma quel polso era di un uomo. Colpisci, Ombra, colpisci pure! schizzeranno dalla
ferita le sue buone azioni e si spargeranno pel mondo come semi di vita immortale!
Nessuna voce pronunciò queste parole all'orecchio di Scrooge, eppure egli le udì mentre
guardava a quel letto. Se quest'uomo rivivesse, ei pensava, quali cure lo assorbirebbero?
L'avarizia, la crudeltà, l'ingordigia? Una bella ricchezza gli hanno guadagnato, davvero!
Giaceva, nella cassa buia e deserta, senza che una voce di donna, di uomo, di bambino
dicesse: "Egli fu buono per me in questa cosa o in quella, e per la memoria che ne serbo io
sarò buono per lui". Un gatto raspava alla porta e sotto le pietre del caminetto si udiva un
rosicchiar di topi. Che cosa cercassero nella camera della morte e perché fossero così
irrequieti, Scrooge non osò pensare.
- Spirito! - disse, - questo luogo è orrido. Uscendone, non m'uscirà di mente la sua terribile
lezione, credimi. Andiamo via! Sempre, col rigido dito, lo Spirito accennava al capo del morto.
- Intendo, - rispose Scrooge, - e ti ubbidirei anche, se potessi. Ma non ne ho la forza, Spirito,
non ne ho la forza. Di nuovo parve che lo Spirito lo guardasse.
- Se c'è qualcuno nella città, che pianga la morte di quest'uomo, - disse Scrooge al sommo
dell'angoscia, - mostramelo, Spirito, te ne scongiuro! Il Fantasma distese un momento la scura veste davanti a lui come un'ala; e ritraendola scoprì
una stanza rischiarata dalla luce del giorno, dov'erano una madre co' suoi bambini.
Ella aspettava ansiosa qualcuno; andava su e giù per la stanza; trasaliva ad ogni rumore; si
spenzolava dalla finestra; guardava all'orologio; si provava invano a lavorare di ago;
sopportava a stento le voci dei bambini che facevano il chiasso.
S'udì alla fine la bussata lungamente attesa. Ella corse incontro al marito; un uomo dal viso
emaciato e triste, benché giovane ancora. Vi si notava ora una singolare espressione; una
specie di soddisfazione malinconica, della quale si vergognava e che studiavasi di reprimere.
Sedette pel desinare che era stato tenuto in caldo presso i fuoco; e quando la donna, dopo un
lungo silenzio, gli domandò timidamente che notizie portava, ei parve impacciato a rispondere.
- Sono buone o cattive? - disse ella, per aiutarlo.
- Cattive, - rispose.
- Siamo rovinati affatto?
- No. C'è speranza, Carolina.
- S'egli si è commosso, - disse la moglie tutta sorpresa, - allora sì! Tutto si può sperare, se è
accaduto un miracolo come questo.
- Oramai, - rispose il marito, - non si può più commuovere. È morto. Se il viso diceva il vero, ella era una creatura mite e prudente; e nondimeno, udendo quella
nuova, strinse insieme le mani, ringraziando il cielo. Ne domandò subito perdono e fu dolente
della disgrazia; ma il primo movimento era stato del cuore.
- Adesso si trova tutto vero quel che mi disse quella donna mezzo brilla, di cui t'ho parlato ieri,
quando feci per vederlo e per ottenere la dilazione di una settimana. Io mi figuravo che fosse
una scusa. Non solo stava molto male, ma era a dirittura moribondo.
- A chi sarà trasferito il nostro debito?
- Non so. Ma prima d'allora, il danaro sarà pronto; e se mai, non avremo la mala sorte
d'inciampare in un creditore spietato come lui. Stanotte possiamo dormire col capo fra due
guanciali, Carolina! Sì. Comunque temperassero la cosa, i loro cuori erano più leggieri. I visini dei bambini, che si
stringevano loro intorno per udire quel che così poco capivano, brillavano più del solito; e tutta
la casa, per la morte di quell'uomo, era più felice! L'unica emozione che lo Spirito gli potesse
mostrare come effetto di quell'evento, era di piacere.
- Lasciami vedere qualche scena di tenerezza che si leghi all'idea della morte, - disse Scrooge;
- se no, Spirito, quella buia camera testé lasciata mi sarà sempre davanti. Lo Spirito lo menò per varie vie che gli erano familiari; e via facendo, Scrooge guardava di qua
e di là per trovare sé stesso, ma in nessun posto vedevasi. Entrarono nella casetta, già prima
visitata, del povero Bob Cratchit, e vi trovarono la mamma e i figliuoli raccolti intorno al fuoco.
Erano tranquilli, molto tranquilli. I rumorosi piccoli Cratchit se ne stavano a sedere in un
cantuccio, muti come statue, e guardando a Pietro che leggeva in un libro. La mamma e le
figliuole attendevano a cucire. Ma erano molto tranquilli tutti, molto tranquilli!
- "Ed egli prese un bambino e lo mise in mezzo a loro."
Dove aveva udito queste parole Scrooge? Non le aveva già sognate. Il ragazzo avea dovuto
leggerle ad alta voce, mentre egli e lo Spirito varcavano la soglia. E perché non andava avanti?
La mamma posò il lavoro sulla tavola e si coprì la faccia con le mani.
- Il colore, - disse, - mi fa male agli occhi. Il colore? Ah, povero Tiny Tim!
- Adesso stanno meglio, - disse la moglie di Cratchit. - Si vede che il lume della candela stanca
la vista; e per nulla al mondo voglio far vedere a vostro padre, quando torna, che ho gli occhi
affaticati. Dev'essere vicino a tornare.
- È anzi passata l'ora, - rispose Pietro chiudendo il libro. - Se non sbaglio, mamma, da qualche
sera in qua mi par che il babbo cammini meno svelto del solito. Da capo tornarono a star tranquilli. Finalmente ella disse, con voce forte e allegra, che un sol
momento tremò:
- Mi ricordo quando camminava portando in collo... mi ricordo quando camminava portando in
collo Tiny Tim, e andava svelto davvero.
- Anch'io me ne ricordo, - esclamò Pietro. - Spesso.
- E io pure! - venne su un altro. Tutti se ne ricordavano.
- Gli è che il bambino era leggiero, - riprese ella, tutta china sul lavoro, - e il babbo gli voleva
tanto bene che non gli dava niente fastidio: niente. Ah, eccolo! Corse ad incontrarlo; e Bob, col suo fazzoletto al collo - ne aveva bisogno, poveraccio! - entrò.
Il thè lo aspettava accanto al fuoco, e tutti fecero a gara per servirglielo. Poi i due piccoli
Cratchit gli montarono sulle ginocchia, e gli posarono le piccole guance di qua e di là sul viso,
come per dire: "Via, babbo, non ci pensare, non t'affliggere!"
Bob era allegro con loro e parlò in tono gaio a tutta la famiglia. Guardò il lavoro sulla tavola e
lodò la bravura e la sollecitudine della signora Cratchit e delle ragazze. Avrebbero terminato
molto prima di domenica, disse.
- Domenica! - esclamò la moglie. - Sicché, ci sei andato oggi?
- Sì, cara, - rispose Bob. - Ti ci avrei voluta anche te. Ti avrebbe fatto del bene di vedere tutto
quel verde. Ma ci andrai spesso. Gli avevo promesso che di Domenica ci avrei fatto una
passeggiatina. Caro piccino! caro caro piccino! Ruppe in pianti ad un tratto. Non si poté tenere. Se avesse potuto, non avrebbe forse sentito
così vicino il suo figlioletto come se lo sentiva.
Lasciò la stanza e andò nella cameretta di sopra, che era tutta illuminata e ornata di ghirlande
di Natale. C'era una sedia accanto al letto del bambino, e si vedeva a più segni che qualcuno
c'era stato di fresco. Il povero Bob vi sedette, e quando si fu alquanto raccolto e calmato, baciò
quel caro visino. Allora si rassegnò a quanto era accaduto, e tornò da basso del tutto felice.
Si raccolsero intorno al fuoco a discorrere; la mamma e le ragazze lavoravano sempre. Bob
narrò loro della straordinaria bontà del nipote del signor Scrooge, che appena una volta avea
visto, e che incontrandolo per via e vedutolo un pochino... "un pochino giù, vedete" disse Bob,
gli avea domandato che dispiacere avesse. "Al che" disse Bob "visto ch'egli è la persona più
affabile del mondo, gli dissi la cosa. - Me ne duole assai, signor Cratchit, disse lui, e anche per
la vostra buona signora. - A proposito, come abbia fatto a saper questo, non lo so davvero.
- A saper che cosa?
- Che tu sei una buona moglie.
- Tutti lo sanno! - disse Pietro.
- Bravo ragazzo, ben detto! - esclamò Bob. - Lo spero bene. "Mi duole assai, dice, per la vostra
buona signora. Se in qualunque modo posso esservi utile, dice dandomi il suo biglietto, eccovi
l'indirizzo di casa. Dirigetevi a me, ve ne prego." Ora capisci, esclamò Bob, non era già pei
favori che ci potea rendere, ma quella sua affabilità facea veramente piacere. Pareva proprio
che avesse conosciuto il nostro Tiny Tim, e partecipasse al nostro dolore.
- Ha un buon cuore, questo è certo, - disse la signora Cratchit.
- Ne saresti certissima se lo vedessi e gli parlassi, - rispose Bob. - Non mi farebbe nessuna
meraviglia, vedi, s'ei trovasse a Pietro un posto migliore.
- Senti, Pietro, senti? - disse la madre.
- E allora, - esclamò una delle ragazze, - Pietro s'accasa e si stabilisce per conto suo.
- Eh via! - ribatté Pietro con una smorfia.
- Prima o dopo, - disse Bob, - può anche darsi, benché ci sia tempo a pensarci sopra, figliuolo
mio. Ma, comunque la cosa vada, io son sicuro che nessuno di noi dimenticherà mai il povero
Tiny Tim, no, non è vero? e nemmeno questa prima separazione in famiglia.
- Mai, babbo, mai! - gridarono tutti ad una voce.
- E io so pure - disse Bob, - io so, cari miei, che quando ci ricorderemo com'egli fosse buono e
paziente, benché così piccino, non ci lasceremo andare a questionar fra di noi, se no sarebbe lo
stesso che scordarci di quel poveretto.
- No, babbo, mai! - di nuovo esclamarono tutti.
- Sono contento, - disse Bob, - oh, sono contento! La moglie lo baciò e così fecero le figliuole e i due ragazzi. Con Pietro si dettero una forte
stretta di mano. Anima di Tiny Tim, la tua essenza infantile veniva da Dio!
- Spirito - disse Scrooge, - sento non so come, che il momento della nostra separazione è
prossimo. Dimmi, chi era quell'uomo che abbiamo visto disteso sul letto di morte? Lo Spirito di Natale di là da venire lo trasportò come prima - benché in un tempo diverso; e in
verità queste ultime visioni non erano ordinate e soltanto apparivano tutte nel futuro - nelle vie
frequentate dagli uomini d'affari, ma non gli mostrò l'altro sé stesso. Non si fermava lo Spirito;
correva, correva diritto alla meta designata, finché Scrooge non lo pregò di arrestarsi un
momento.
- Questo cortile che ora attraversiamo, - disse, - è da molto tempo il centro dei miei affari.
Ecco la casa. Lasciami un po' vedere quel che sarò un giorno. Lo Spirito si arrestò; ma la mano sua accennava altrove.
- Lì è la casa, - esclamò Scrooge. - Perché mi fai segno da quell'altra parte? Il dito inesorabile stette saldo.
Scrooge corse a dare un'occhiata alla finestra del suo banco. Sempre banco era, ma non più il
suo. Erano mutati i mobili e la persona seduta in poltrona non gli somigliava. Il Fantasma
accennava sempre allo stesso modo.
Ei lo raggiunse, e ruminando perché e dove se ne fosse andato, lo accompagnò fino a un
cancello di ferro. Prima di entrare, si guardò attorno.
Un cimitero. Qui, dunque, lo sciagurato di cui gli sarebbe stato svelato il nome, qui giaceva
sottoterra. Un bel posto davvero. Circondato da case, ingombro di erbe e cespugli, una morte
anzi che una vita di vegetazione, soffocato dalle molte sepolture, grasso fino alla nausea. Un
bel posto davvero!
Lo Spirito stette fra le tombe e abbassò il dito segnandone una. Scrooge vi si accostò
tremando. Era sempre lo stesso Spirito, ma parve a Scrooge travedere un pensiero nuovo e
terribile nella solennità della sua forma.
- Prima di accostarmi a quella pietra ove tu accenni, - disse Scrooge, - rispondi a una sola
domanda. Son queste le immagini delle cose future o soltanto delle cose possibili? Lo Spirito teneva sempre il dito abbassato verso la tomba vicina.
- Le azioni umane adombrano sempre un certo fine, che può diventare inevitabile, se in quelle
ci si ostina. Ma se vengono a mutare, muterà anche il fine. Dimmi che così è, dimmelo, in
queste scene che mi vai mostrando! Lo Spirito era immobile sempre.
Scrooge si trascinò a quella volta, tremando; e seguendo il dito, lesse sulla pietra della tomba
negletta il proprio nome: EBENEZER SCROOGE.
- Son io, io quell'uomo che giaceva sul letto? - gridò cadendo in ginocchio.
Il dito accennò dalla tomba a lui e da lui alla tomba.
- No, Spirito! Oh no, no! Il dito non si moveva.
- Spirito! - gridò egli abbracciandosi alla sua veste, - ascoltami! Io non son più lo stesso uomo
di prima. Io non sarò l'uomo che sarei stato, se non t'avessi seguito. Perché mostrarmi tutto
questo, se per me non c'è più speranza? Per la prima volta la mano parve agitarsi.
- Buono Spirito, - ei proseguì, sempre prostrato - tu ti commuovi perché sei buono, tu hai pietà
di me. Dimmi, assicurami ch'io posso ancora, mutando vita, cangiar queste scene che m'hai
mostrate! -
La mano tremò di nuovo in atto di conforto.
- Io onorerò sempre Natale nel cuore, io ne serberò il culto tutto l'anno. Vivrò nel passato, nel
presente e nell'avvenire. Mi parleranno dentro tutti e tre gli Spiriti. Non mi scorderò delle loro
lezioni. Oh, dimmi, dimmi che mi sarà dato cancellare lo scritto di questa pietra! Afferrò, nell'angoscia che lo straziava, la mano dello Spirito. Questi cercò divincolarsi dalla
stretta, ma Scrooge pregava e teneva forte. Lo Spirito, più forte di lui, lo respinse.
Alzando le mani in una estrema preghiera di veder mutato il suo fato, ei notò una
trasformazione nella veste e nel cappuccio del Fantasma. Lo Spirito si strinse in sé, si
rannicchiò, si rassodò, divenne una colonna di letto >>.
il richiamo alla nostra animalità
Cosa è stato detto della "gola"
Che cos'è:
Il peccato di gola coincide con un desiderio
d'appagamento immediato del corpo per
mezzo di qualche cosa di materiale che
provoca compiacimento. É
un'irrefrenabilità, un'incapacità di moderarsi
nell'assunzione di cibo.
Il rapporto col cibo è un problema serio che
investe degli aspetti legati all'esistenza.
Infatti, siccome il cibo è la prima condizione
di esistenza, spetta al cibo e alla gola
mettere in scena un tema che non è
alimentare, ma profondamente
esistenziale, perché va alla radice
dell'accettazione o del rifiuto di sé.
Più che la ragione è lo stomaco che ci
guida.
Arsene Ancelot
Il miglior condimento del cibo è la fame.
Marco Tullio Cicerone
L'ingordigia è un rifiuto emotivo: è il
segno che qualcosa ci sta divorando.
P.De Vries
I medici lavorano per conservarci la salute,
i cuochi per distruggerla; ma questi ultimi
sono più sicuri del fatto loro.
Denis Diderot
I golosi si scavano la fossa coi denti.
Henri Estienne
La schiera delle anime dei golosi procede nel sesto girone.
L'aspetto di questi penitenti è tale da suscitare in Dante la più
profonda compassione: nel volto pallidissimo spiccano,
profondamente incavate, le orbite degli occhi, il corpo appare di
una magrezza spaventosa, tanto che la pelle, disseccata e
squamosa, modella il loro scheletro.
Nacque l'11 maggio 1904, a Figueres. Figlio di Salvador Dalí , notaio della città.Venne chiamato
Salvador in memoria del fratello morto nell'ottobre 1903, a soli ventuno mesi, il giovane Salvador si
identificò subito, in modo esasperato e per certi versi quasi morboso, con il fratello scomparso; si
convinse di essere il suo sostituto e questo ebbe notevoli ripercussioni sulla sua personalità.Con
l'andare degli anni il disagio si tramutò in ribellione soprattutto a scuola. I coniugi Pichot, artisti e
amici di famiglia intuiscono il talento di Dalí. In questo ambiente il giovane conosce il pittore
Siegfried Burmann, che regala a Salvador, undicenne, una tavolozza da pittore. Seguì i primi studi
nella città natale e all'età di quattordici anni partecipò sia ad una mostra collettiva di artisti locali
che e ad una mostra a Barcellona patrocinata dall'Università, nella quale ricevette il premio
intitolato al Rettore.Dopo la morte della madre, Salvador andò a studiare a Madrid all'Accademia
d'Arte di S.Fernando dove entrò a far parte della Resistenza degli Studenti nella quale conoscerà
altri grandi artisti della sua epoca.Negli anni 1924-1925 produsse numerosi ritratti della sorella
Anna Maria e in generale esplorò gli stili in uso all'epoca in successive fasi conosciute come
'freudiana' per arrivare ad essere influenzato prima dal cubismo e poi dal surrealismo. Nel 1934
diede vita a sei mostre personali in Europa e negli Stati Uniti. Dopo qualche anno la sua salute
cominciò a vacillare portandolo verso una difficile vecchiaia, anche il matrimonio andò in crisi:
entrambi malati, Salvador e Gala diventarono intrattabili, angosciati dal pensiero della morte
imminente.
Dipinse il suo ultimo quadro nel 1983, La coda di rondine.Un incendio nella sua abitazione nel
1984, dove riportò alcune ustioni, lo indusse a traslocare nelle stanze della Torre Galatea, edificio
collegato al Teatro-Museo e qui rimase, praticamente in reclusione, fino alla morte il 23 gennaio
1989 per colpo apoplettico. Il corpo fu imbalsamato e sepolto nel suo museo a Figueras.
Attività artistica
Agli inizi della carriera artistica il pittore si dedicò anche alla realizzazione di dipinti che ritraevano
nature morte, composizioni di oggetti semplici e sobri restando nel solco della tradizione dell'arte
spagnola del XVII secolo. Salvador amava rappresentare se stesso nei suoi dipinti: nel periodo
giovanile le sue opere sono soprattutto naturalistiche, mentre in seguito presenta se stesso in modo
più definito come ad esempio "Sonno" dove raffigura una strana creatura con fattezze che
richiamano in un certo modo le sue.
Il pittore non viene riconosciuto come un ritrattista, anche se realizzò un buon numero di ritratti; nei
primi anni ritrasse parenti ed amici mentre nel periodo newyorkese, trovò il modo di far soldi
ritraendo le signore della buona società.Agli inizi della carriera, Salvador dipinse un certo numero
di paesaggi che rappresentavano con straordinaria chiarezza la regione della Spagna in cui era nato,
ma in seguito abbandonò queste descrizioni convenzionali pur continuando ad ambientarvi anche i
dipinti surrealisti. La modella preferita dal pittore fu la moglie Gala, una donna dal carattere molto
forte che, a parere di molti schiacciò Salvador con la sua personalità.
L'artista la rappresentò in modo somigliante, come ad esempio in "Ritratto di Gala con aragosta" del
1949, ma se ne servì anche come modella per opere a carattere religioso, composizioni figurative ed
immagini allegoriche semi-astratte.Salvador realizzò anche dipinti religiosi a partire dal 1949, anno
in cui ebbe udienza dal papa Pio XII. Come pittore, Dalí non ebbe un unico stile o tecnica, la sua
miglior produzione vide la luce nel surrealismo e i suoi quadri, di gran dettaglio e composizione
stravagante e geniale riflettono un mondo onirico particolare.Salvador Dalì, genio versatile, il più
originale e brillante interprete del Surrealismo, ha lasciato un' importante testimonianza di sè, oltre
che come pittore e scultore anche come illustratore.
Dopo aver illustrato I Canti di Maldoror di Lautrèamont nel '34 ,in seguito , la sua arte metafisica
trova espressione nell' illustrazione dei grandi classici, Cervantes,Dante, Shakespeare,Boccaccio, la
Bibbia.
Le cento tavole originali che illustrano la Divina Commedia e da cui le xilografie sono tratte, sono
realizzate in tecnica mista, acquerello con interventi a penna e furono concepite agli albori del
periodo mistico di Dalì.
Le tavole illustrano le tre cantiche Inferno, Purgatorio Paradiso e sono suddivise in trentatrè trittici.
Le xilografie a colori di La Divina Commedia, sono la più importante opera illustrativa di Dalì e si
compone di 100 tavole, di dimensione 35,5 x 28 .
Sono stati necessari 5 anni di lavoro, dal '60 al '64 per incidere i 3500 legni necessari per imprimere
in progressiva i 35 colori di ogni singola tavola.
Il periodo mistico, espresso nella suo " Manifesto Mistico ", è successivo all'= esplosione della
bomba atomica ; Salvador Dalì, ridefinì la sua poetica richiamandosi alla pittura classica, all' età
atomica e al misticismo.
Nell' illustrazione di La Divina Commedia, l' eleganza del segno, si coniuga con un uso magistrale
ed innovativo del colore in cui la ricerca pittorica dell' artista trova libera espressione nell'
originalità , freschezza e genialità dell' ispirazione.
La figurazione, è spesso dissacrante,ironica e grottesca nella rappresentazioni dell'= Inferno, e del
Purgatorio; è anche di grande forza evocativa.
Il viaggio nell' oltre mondo dantesco è stato interpretato da Salvador Dalì con i motivi più rilevanti
della sua ricerca metafisica e mistica rappresentando in modo egregio l' elevata umanità di La
Divina Commedia.
una passione che fa perdere il controllo...
Che cos’è
Ciascuno di noi si identifica solitamente con la parte
educata e razionale di sé e rifiuta di riconoscere come
propria la parte passionale, della cui attivazione è
responsabile l’altro. La rabbia è una passione che fa
parte di noi e che dovrebbe indurci a guardarci dentro
con più attenzione. Se qualcuno ci fa arrabbiare, infatti,
questo significa che in noi c’è qualche cosa di irrisolto,
c’è una disarmonia. In caso contrario non ci
arrabbieremmo, ma affronteremmo la difficoltà con
calma, moderazione e logica.
Invece tutti abbiamo qualche cosa che ci fa arrabbiare
perchè tutti abbiamo delle intolleranze, delle debolezze
o qualche vecchia ferita non completamente
rimarginata. Spesso infatti quando ci arrabbiamo non è
per il fatto contingente, ma per qualche cosa d’altro, di
più “antico”, dimenticato forse. E così, la classica
“goccia che fa traboccare il vaso” ci fa esplodere. E
allora cosa fare? Reprimere la rabbia? No. La rabbia,
come le altre passioni, è una dinamica del corpo che lo
danneggia sia quando è eccessivamente compressa,
sia quando è scatenata senza limiti.
I proverbi sull'ira
Se siamo irritati senza motivo, lo siamo
sempre perchè il motivo è nascosto in
noi e ci è molto scomodo scoprirlo.
Paul Bourget
Sono sempre più sincere le cose che
diciamo quando l'animo è irato che
quando è tranquillo.
Marco Tullio Cicerone
Non appena nutrita la rabbia muore, è il
digiuno che la ingrassa.
Emily Dickinson
Attenzione alla furia di un uomo
paziente.
John Dryden
FENOMENI VULCANICI
Generalità e storia
Si definisce come vulcanismo quella serie di fenomeni costituiti dalla fuoriuscita attraverso fratture
della crosta terrestre di materiale caldo quali lave, gas e prodotti piroclastici; i punti di emissione di
tale materiale sono detti vulcani. Essi sono generalmente costituiti da rilievi con caratteristica forma
conica più o meno schiacciata; questa è il risultato dell'accumulo dei prodotti lavici e piroclastici
emessi nel tempo. La scienza che studia la formazione, l'evoluzione e l'attività dei vulcani è detta
vulcanologia
I magmi
I magmi sono fusi naturali di alta temperatura, che contengono al loro interno variabili quantità di
gas. I magmi si formano all'interno della Terra per fusione parziale delle rocce quando si verificano
particolari condizioni di pressione e di temperatura. I magmi sono costituiti prevalentemente da
ossigeno. Essi contengono disciolte quantità variabili di componenti volatili, specialmente acqua e
anidride carbonica.
Esiste una notevole regolarità nella variazione della composizione chimica nei magmi. In genere, i
magmi poveri in silicio (detti magmi basici) sono più ricchi in Fe, Mg e Ca; quelli ricchi in silicio
(magmi acidi) sono caratterizzati da concentrazioni relativamente più elevate in sodio e potassio.
Dal raffreddamento dei magmi si formano le rocce ignee. Se il processo avviene all'interno della
terra le rocce prendono il nome di rocce ignee intrusive. Se il raffreddamento avviene sulla
superficie terrestre le rocce vengono dette ignee effusive.
Le rocce ignee sono costituite da minerali di varia natura, tra cui i più importanti hanno
composizione silicatica e sono rappresentati da olivina, anfiboli, pirosseni, feldspati e quarzo.
Le caratteristiche fisiche più importanti dei magmi sono la temperatura e la viscosità. Le
temperature dei magmi mostrano valori compresi tra circa 750°-800° e circa 1150-1200° ed
aumentano passando dai magmi acidi a quelli basici.
La viscosità dei magmi è molto variabile ed aumenta dai magmi basici a quelli acidi. I magmi basici
(es. basalti) hanno una viscosità comparabile a quella di alcuni olii da motore. I magmi acidi (es.
graniti) sono molto più viscosi. A parità di composizione chimica la viscosità dei magmi aumenta
con il diminuire della temperatura.
Generazione e risalita dei magmi
La Terra è costituita per la maggior parte (escluso il nucleo esterno) da rocce solide. I magmi si
generano all'interno della Terra, quando si realizzano condizioni particolari e tali da determinare la
fusione parziale o anatessi delle rocce. La formazione dei magmi, pertanto, rappresenta un evento
anomalo. I processi più importanti di fusione si verificano nella parte superiore del mantello
terrestre oppure nella crosta continentale profonda o intermedia.
Sia nel mantello che nella crosta, i magmi hanno densità inferiore rispetto a quella delle rocce da cui
derivano. Tale contrasto di densità, reso più netto dalla presenza di sostanze volatili concentrate nel
magma, costituisce la causa principale della separazione dei magmi e della loro risalita verso l'alto.
I magmi possono risalire direttamente in superficie dalla zona sorgente oppure, molto più
comunemente, si fermano nella crosta o al limite tra crosta e mantello (circa 35 km di profondità)
per formare dei serbatoi (camere magmatiche) all'interno dei quali subiscono un lento
raffreddamento con cristallizzazione dei minerali. Di particolare interesse vulcanologico sono le
camere magmatiche che si formano a bassa profondità (4-5 km) al di sotto di alcuni apparati
vulcanici. In occasione di alcune grosse eruzioni effusive o esplosive, le camere magmatiche
superficiali si possono svuotare quasi completamente. Ciò causa il crollo di parte del vulcano.
I prodotti dell'attività vulcanica
I prodotti emessi dai vulcani nel corso della loro attività sono costituiti da lave, gas e piroclastiti. Le
lave e le piroclastiti vengono emesse soltanto durante le fasi parossistiche dell'attività dei vulcani
mentre i gas possono fuoriuscire anche durante i periodi di quiescenza.
Le lave sono magmi eruttati in superficie. Esse possono formare ampie colate oppure raffreddarsi
immediatamente al di sopra del condotto vulcanico dando luogo a strutture cupoliformi dette duomi
lavici.
I prodotti piroclastici o piroclastiti sono materiali frammentati che si formano nel corso di eruzioni
esplosive. Le piroclastiti sono costituite sia da brandelli di magma sia da frammenti di rocce solide
strappate dal condotto vulcanico durante l'esplosione. Possono avere dimensioni variabili, da
parecchi metri (blocchi e bombe vulcaniche) a pochi cm (lapilli) a frazioni di mm (ceneri
vulcaniche) (Figura 1).
FIGURA 1
Bombe vulcaniche a forma di fuso,
che poggiano su lapilli e ceneri.
I gas vulcanici hanno composizione variabile ma, come detto, sono costituiti prevalentemente da
acqua e anidride carbonica, con presenza di quantità minori di vari composti di zolfo, fluoro, cloro
etc.
Comportamento dei vulcani e tipi di eruzione
Le eruzioni vulcaniche vengono suddivise in effusive ed esplosive a seconda dello stile tranquillo o
esplosivo di emissione dei prodotti.
Il diverso comportamento eruttivo dei vulcani dipende dalla viscosità e dal contenuto in gas dei
magmi. Come già ricordato, la viscosità dei magmi è funzione della temperatura e, soprattutto, della
composizione chimica.
FIGURA 2
Comportamento eruttivo
dei magmi acidi e basici
con diverso contenuto in
gas.
Lave basiche fluide e ricche in gas (Figura 2A) danno eruzioni effusive accompagnate da fenomeni
esplosivi di modesta entità quali jet di lava alti fino a molte centinaia di metri (fontane di lava); le
stesse lave, se povere in gas, danno eruzioni effusive tranquille senza apprezzabili fenomeni
esplosivi (Figura 2B).
Le lave acide viscose ricche in gas danno eruzioni esplosive di alta energia(Figura 2C); le stesse
lave, se povere in gas, danno duomi lavici o colate di modesto spessore (Figura 2D).
Le più note eruzioni effusive sono quelle hawaiiane, tipiche dei vulcani delle Isole Hawaii. Esse
sono tipiche di magmi basici fluidi e consistono nella emissione tranquilla di colate fluide con
modesti fenomeni esplosivi tipo fontane di lava (Figura 3). I vulcani che si formano in seguito
all'attività hawaiiana hanno forma conica molto appiattita e vengono detti vulcani scudo.
FIGURA 3
Eruzione hawaiiana con
fontana e colate di lava.
Le eruzioni esplosive magmatiche sono legate alla presenza di abbondanti quantità di gas di origine
magmatica, cioè risaliti insieme al magma dal mantello terrestre. I due tipi più importanti sono le
eruzioni stromboliane e le pliniane.
Le eruzioni stromboliane, tipiche del vulcano attivo di Stromboli (Isole Eolie) consistono di
esplosioni ritmiche di modesta energia, con lancio di brandelli di lava nera o rossa (dette scorie di
lancio) che, dopo traiettorie più o meno lunghe ma non superiori alle centinaia di metri, ricadono al
suolo nell'immediata vicinanza del cratere (Figura 6). Le eruzioni stromboliane sono tipiche di
magmi a viscosità intermedia tra quelli basici e acidi.
FIGURA 6
Eruzione
stromboliana
Le eruzioni pliniane sono quelle a maggiore energia. Sono tipiche di magmi viscosi acidi ricchi in
gas e sono caratterizzate dalla formazione di un'alta colonna eruttiva con forma a fungo che può
raggiungere le diecine di km di altezza (Figura 7). La colonna eruttiva è formata da pomici, ceneri e
blocchi. Le ceneri raggiungono le quote più elevate e possono essere disperse dal vento su aree
molto estese, anche a diecine di migliaia di km dal punto di emissione. Le eruzioni pliniane
prendono il nome da Plinio il Giovane che descrisse dettagliatamente l'eruzione del Vesuvio, che
presentava le caratteristiche sopra descritte.
FIGURA 7
Eruzione
pliniana
Processi di messa in posto dei prodotti vulcanici
Le colate laviche sono messe in posto con meccanismi abbastanza semplici, tipici di materiali più o
meno fluidi che scorrono su superfici a diversa geometria. Le colate laviche si incanalano
preferenzialmente lungo le valli e hanno tendenza a accumularsi nelle depressioni topografiche. I
loro percorsi, pertanto, sono abbastanza prevedibili. Le velocità sono variabili in funzione
essenzialmente della viscosità della lava e dell'inclinazione della superficie di scorrimento. La
velocità della gran parte delle lave raramente supera i pochi km/ora o addirittura qualche chilometro
al giorno; tuttavia, si possono avere velocità molto più elevate (di alcune diecine di km/ora) per lave
fluide che scorrono su pendii scoscesi.
Di particolare interesse sono i processi di messa in posto dei prodotti piroclastici. Questi possono
essere lanciati a varie angolazioni e ricadere per gravità andando a formare depositi piroclastici di
caduta. I frammenti piroclastici più grossolani (blocchi e bombe) cadono nelle vicinanze del
cratere, mentre le ceneri e i lapilli possono ricadere a molti km di distanza. Il loro accumulo può
essere causa di crolli di tetti, distruzione di raccolti, inquinamento di fonti idriche
In alcuni casi le piroclastiti possono essere emesse orizzontalmente durante l'esplosione. Tale
fenomeno, simile all'onda di base che si verifica in occasione di esplosioni nucleari, viene detto
base surge (onda di base. I surge piroclastici hanno forte mobilità orizzontale, elevata velocità
(dell'ordine di parecchie centinaia di km/ora) e sono in grado di scorrere anche in contropendenza.
Queste caratteristiche rendono i surge estremamente pericolosi.
Nel caso di eruzioni vulcaniane e pliniane, la gran parte del materiale piroclastico va a formare
colonne eruttive anche di enormi dimensioni. Il crollo di tali colonne determina la formazione di
dense nuvole piroclastiche dotate di elevata mobilità, in grado di trasportare enormi quantità di
materiale piroclastico. Queste nuvole sono note con il termine di colate piroclastiche.
Con il termine di tufo viene indicato qualsiasi deposito di ceneri e lapilli, indipendentemente dal
meccanismo di messa in posto.
Il trasporto da parte dell'acqua genera la formazione di colate di fango o lahar. Queste sono delle
miscele di acqua, ceneri e blocchi che si formano, per esempio, in seguito a piogge copiose che
interessano aree coperte da piroclastiti non consolidate, oppure quando l'eruzione esplosiva avviene
in un lago craterico. L'acqua si mescola alle ceneri e produce un fluido dotato di elevata mobilità e
velocità. I lahar sono tra i fenomeni più distruttivi del vulcanismo e si possono verificare anche
molto tempo dopo un'eruzione vulcanica. Ad esempio, i lahar che hanno causato nell'autunno del
'98 distruzione e vittime a Sarno e altri comuni della Campania si sono verificati lungo tempo dopo
la deposizioni delle ceneri del Vesuvio che è in fase di quiescenza dal 1944.
Il vulcanismo e l'ambiente
Gli effetti dei fenomeni vulcanici sull'ambiente nel quale l'uomo vive sono molteplici e complessi.
L'aspetto più noto è quello operato dalla potenza distruttiva di alcune eruzioni. Tra le più note
ricordiamo quella del Vesuvio del 79 d.C., quella dell'Isola di Santorini nell'arco delle Cicladi nel
mar Egeo che determinò la scomparsa intorno al 1600 a.C. della civiltà minoica e quella del 1902
del vulcano Pelée nella Martinica. Durante le eruzioni i maggiori danni possono essere provocati
direttamente dalle colate e surge piroclastici, dalla caduta di cenere che copre e distrugge i raccolti,
dai gas emessi in gran quantità che determinano asfissia negli esseri viventi nelle aree più vicine al
vulcano, dai lahar che si verificano se dopo un'eruzione esplosiva si hanno abbondanti piogge o se
l'eruzione avviene in un lago craterico. Relativamente poco pericolose sono invece le colate laviche
che scorrono a velocità non molto elevata e il cui percorso, che segue quello delle valli può essere
previsto e, in alcuni casi, deviato. Da quanto detto è evidenteche le eruzioni maggiormente
distruttive sono quelle esplosive quali quelle pliniane e vulcaniane, mentre quelle di tipo hawaiano
presentano minore pericolosità. In Italia un'attività di tipo esplosivo si verifica al Vesuvio e a
Vulcano mentre l'Etna ha un regime piu tranquillo e meno pericoloso. Per ridurre i rischi connessi
all'attività vulcanica è necessaria una sorveglianza continua dei singoli sistemi attivi. E' ormai noto
che ogni eruzione è preceduta da una serie di eventi costituiti da sollevamento del suolo in
prossimità del centro eruttivo, da un aumento dell'attività sismica superficiale connessa con la
risalita dei magmi, da cambiamenti nella temperatura e composizione dei gas emessi dalle fumarole
e da variazioni nel campo magnetico locale. I continui rilevamenti geofisici, geochimici e
topografici possono consentire, pertanto, di prevedere un'eruzione vulcanica anche se allo stato
attuale delle conoscenze non è possibile predire con precisione il momento e l'intensità dell'eruzione
stessa.
L'attività vulcanica può produrre importanti effetti sul clima. Questi sono connessi con l'immissione
nell'atmosfera di enormi quantità di ceneri e di gas che possono rimanere in sospensione per molti
anni causando notevole assorbimento delle radiazioni solari con conseguente abbassamento della
temperatura su vaste regioni. L'eruzione del vulcano Tambora in Indonesia, avvenuta nel 1915,
immise nell'atmosfera una quantità di ceneri tale da causare la completa oscurità per tre giorni in un
raggio di 500 km intorno al vulcano. La permanenza delle particelle di cenere e gas in sospensione
causò l'abbassamento della temperatura media mondiale di più di un grado con forti danni per
l'agricoltura tanto che il 1916 fu conosciuto come l'anno senza estate e come l'anno della povertà.
A differenza dei peccati capitali i nuovi peccati non sono più una
deviazione, una caratteristica o una malattia della personalità di
un individuo; ma tendenze collettive a cui un individuo non può
opporre una resistenza individuale. Sono: consumismo,
conformismo, spudoratezza, sessomania, sociopatia, diniego,
vuoto.
Secondo un personale sondaggio effettuato su un campione di 120
persone di età compresa tra i 16 e i 50 anni, il peccato in cui si eccede di
più è la Gola…Beh, forse meglio così, perché è l’unico peccato che
danneggia solo noi stessi..!
accidia
lussuria
invidia
superbia
ira
avarizia
gola
8%
37%
24%
6%
4%
13%
8%
Ma poi, Temiamo di più che le fiamme dell'Inferno ci
lambiscono per i nostri reiterati peccati di gola o più
semplicemente le "ire" della bilancia?...
E se provassimo a considerare i 7 peccati capitali nei telefilm più “cult” degli ultimi
anni, avremmo:
GOLA –> LA TATA: quando si parla di gola, impossibile non ritornare con la mente alla
spassosissima sit-com “La Tata”. La protagonista ha una linea mozzafiato, eppure la
vediamo spesso ingozzarsi con barili di gelato o rovistare nel frigo alla ricerca di
qualche avanzo della cena, dopo una dolorosa riflessione sulla sua vita.
INVIDIA –> DESPERATE HOUSEWIVES: nella via più famosa della TV, Wisteria Lane,
serpeggia la sensazione che l’erba del vicino sia sempre più verde; le 4 casalinghe
disperate segretamente, si invidiano a vicenda: chi non vorrebbe un corpo come quello
di Gabrielle (Eva Longoria), o chi non invidia l’intuito sul lavoro di cui dispone Lynette
(Felicity Huffmann), o la capacità nelle faccende domestiche di Bree (Marcia Cross) o
l’inguaribile ottimismo di Susan (teri Hatcher)? L’invidia dilaga per un prato del
tenuto, per delle gardenie più rigogliose di altre o per un uomo, come accade tra Susan
e Idie (Nicolette Sheridan), che prima si contendono l’idraulico Mike (James Denton), e
che poi si accapigliano quando Susan scopre che il suo ex-marito si è trasferito nella
casa di Idie…
IRA -> THE O.C.: ira fa rima con Newport Beach. Le cose cominciano a mettersi male
all’arrivo di Ryan (Benjamin McKenzie): il classico ragazzo poche parole molti muscoli
che è pronto a fare a botte per qualsiasi motivo e soprattutto per l’amata Marissa
(Misha Barton), e infatti non si risparmia, tirando cazzotti a destra e manca! E che
dire di Summer (Rachael Bilson) che in una delle prime puntate minaccia di piantare
una forchetta nell’occhio del povero Seth (Adam Brody)?
LUSSURIA -> NIP/TUCK: la palma del telefilm più lussurioso della storia della tv non
poteva non andare a Nip/Tuck a al famoso studio chirurgico McNamara/Troy. Tra un
intervento ed un altro il belloccio di turno Christian Troy alias Julian McMahon, se le
passa tutte e non perde occasione per incontri molto hard in qualsiasi momento della
giornata Anche il piccolo Matt sarà al centro di turbinosi incontri sessuali a tre, con
pazze razziste e con “donne” con ben più di un segreto…
SUPERBIA –> BEVERLY HILLS/DAWSON’S CREEK: il poco ambito premio di superbo per
eccellenza delle serie tv va spartito a pari merito tra due mostri sacri dei teen-drama
come Brandon Walsh di Beverly Hills 90210 e il Dawson Leary di Dawson’s Creek.
Entrambi pensano di poter cambiare il mondo celandosi dietro alla classica maschera
del bravo ragazzo: per entrambi urge un immediato e drastico ridimensionamento.
AVARIZIA –> SETTIMO CIELO: il reverendo Eric Campden ha un posto assicurato tra gli
avari della tv, infatti il bilancio familiare è sempre in primissimo piano; ma come
potrebbe essere altrimenti con ben 7 figli da mantenere? Simon appare come un
rubacuori che colleziona biondine e che se la deve vedere con presunte gravidanze e
malattie veneree, mentre Mary ne ha combinate di cotte e di crude.
ACCIDIA –> SIX FEET UNDER: meritano di trovare il posto d’onore nel girone dantesco
degli accidiosi i protagonisti di “six feet under”, dove le aspettative del domani sono
ridotte all’osso, e dove la noia imperversa tra l’atmosfera dark e la routine dell’impresa
familiare di pompe funebri. E così tra incomprensioni, rimorsi, crisi isteriche e follie
varie i Fisher sembrano non conoscere il significato della parola “felicità”.