LICEO SCIENTIFICO “AM DE CARLO” Esame di maturità
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LICEO SCIENTIFICO “AM DE CARLO” Esame di maturità
LICEO SCIENTIFICO “A. M. DE CARLO” Esame di maturità a .s. 2006/2007 Girolama Chianese Classe V sez. N Perché “i sette peccati capitali”? beh, l’idea è nata all’improvviso, senza pensarci né cercarla… Era ormai maggio, in classe non si parlava che dell’esame e si accavallavano proposte sull’argomento da scegliere e ci si sforzava di riuscire a fare i collegamenti giusti… tra <la maschera>, <la diversità> e <il tempo>, un voce esclamò <l’accidia>, non ci avevamo mai pensato eppure l’accidia era il male del nostro secolo, ma non era l’unico e sarebbe stato riduttivo isolarlo…ed ecco come nel cercare di ricordare quali erano i restanti sei, trovai il titolo: I sette peccati capitali. Mi era capitato di sentirne parlare ma sempre con la stessa superficialità con cui spesso ci lasciamo vivere,un argomento quindi del tutto sconosciuto a cui mi sono avvicinata con la stessa curiosità di un bambino che si appresta a scoprire e a dare un nome e una spiegazione a ciò che lo circonda. Iniziai così a sfamare l’interesse che nutrivo e a riportare quelli che erano solo idee astratte frutto di un momento di pausa tra amici, in qualcosa di concreto. Pochi sanno che durante il medioevo la chiesa aveva incluso nei Peccati Capitali anche la tristezza, in quanto questo sentimento indicava il non apprezzare le opere che Dio aveva compiuto per gli uomini e che secondo la Chiesa il peggiore dei sette peccati è la superbia, poiché con questo sentimento si tenderebbe a mettersi sullo stesso livello di Dio, considerarlo quindi inferiore a come dovrebbe essere considerato. Infatti è proprio la superbia il peccato di cui si sono macchiati Lucifero, Adamo ed Eva. Nella società moderna, spesso l’uomo si sente protagonista del mondo, invincibile, non accorgendosi che in realtà è solo una pedina nelle mani di chi non ha intenzione di perdere e conduce il suo gioco, l’uomo tende a guardare gli altri prima di se stesso, puntando il dito, accusando e condannando senza diritto di appello, il peccato nasce allora forse nelle convinzioni sbagliate che l’uomo considera ed accetta come giuste. Se ci si riflette un po’, ci accorgeremo tutti che almeno una volta abbiamo peccato nel sentirci non adatti né preparati al ritmo incessante che la vita impone, nel non saper resistere a quel dolce che sembra chiamarci da dietro una vetrina, nel restare impigliati nella trappola dei piaceri del corpo, a tutti sarà capitato di invidiare qualcuno non per quello che l’altro possiede ma nel non avere ciò che l’altro ha, quante volte ci sentiamo superiori non rendendoci conti che nessuno è inferiore, e quanti non hanno mai perso il controllo lasciando spazio alla rabbia o hanno preferito tenere chiuso il portafogli…Beh, siamo tutti vittime o carnefici dei sette peccati capitali, ma per noi peccare è diventata quotidianità, abitudine e non ci facciamo caso né tanto meno poi l’ammettiamo! A scuola, durante quelle sette ore impari a conoscere gli autori o i fenomeni che studi attraverso delle pagine che altri hanno scritto per te e che ancora prima loro avevano scritto per essere ora studiati, apprezzati o criticati per il loro lavoro, eppure al di là di ogni parola che ancora resta o di qualche azione che ancora si ricorda si cela un uomo che pecca! Questo è il caso di D’annunzio e la lussuria, Schopenhauer e l’accidia, Hitler e la superbia, Marziale e l’invidia, Dickens e l’avarizia, Dalì e la gola o I fenomeni vulcanici e l’ira della terra. Sarà un caso che nell'estate 2003 la Algida ha messo in commercio una serie limitata di gelati ispirati ai sette peccati capitali? Io non credo al caso ma nemmeno che tutto abbia una spiegazione però a tutto se ne può dare una, certo è individuale, la prospettiva cambia a seconda del punto di vista , spesso però è semplice ed è l’unica…! Abbandono smodato ai piaceri… Che cos'è La radice della parola lussuria coincide con quella della parola lusso - che indica una esagerazione - e quella della parola lussazione - che significa deformazione o divisione. Appare quindi chiaro il significato di lussuria, che designa qualche cosa di esagerato e di parziale. Il corpo viene oggettivato e la persona spersonalizzata: le vesti, gli accessori, i gesti, la musica, le luci arrivano ad assumere un'importanza fondamentale poiché devono supplire alla mancanza di un altro tipo di seduzione che scaturisce da un'intesa psicologica e affettiva, oltre che fisica. La lussuria è quindi una conseguenza di un certo tipo di paura: la paura del confronto con un altro essere umano nel quale è possibile rispecchiarsi. Il lussurioso non si vuole specchiare, non si vuole vedere, non si vuole confrontare… Cosa è stato detto a proposito della "lussuria" Rendimi casto, ma non subito. Sant'Agostino Il sesso è la cosa più divertente che ho fatto senza ridere. Woody Allen Il piacere è come certe droghe medicinali: per ottenere sempre lo stesso risultato bisogna raddoppiare la dose. Honorè de Balzac Le donne troppo virtuose hanno in se qualcosa che non è mai casto. Denis Diderot Il pudore inventò il vestito per godere maglio della nudità. Carlo Dossi L’arte del «vivere inimitabile» Tutta la vita è senza mutamento. Ha un solo volto la malinconia. Il pensiero ha per cima la follia. E l'amore è legato al tradimento. In queste parole si riconosce un uomo particolare, un poeta eccezionale, che rendeva bello e piacevole ogni cosa che scriveva, il poeta della ‘Lussuria ’, Gabriele D’Annunzio. D’Annunzio è sinonimo di piacere, anzi di piaceri: tutti quelli che concesse alla sua insopprimibile necessità di delizie. E i piaceri che si accordò furono cento e più di cento, dalla più raffinata voluttà alla più semplice cosa. D'Annunzio ricercò e assaporò tutti gli aspetti del piacere della vita utilizzando ogni mezzo: la “lussuria belluina”, il “piacere perverso” e la “immaginazione impura”. Il solo modo che conosceva per placare le voglie imperiose della carne, era quello di abbandonarsi alla “sensualità fuor dai sensi”, perché solo “dopo una lunga voluttà occulta, dopo la malvagia ebbrezza, il corpo è come alleviato”. Ma da buon maestro dei piaceri, sapeva bene che la voluttà è anche nel non essere mai sazio, e la sua perizia era allora nell’assaporare le mirabili fattezze di una donna dopo l’amore: perché il piacere sta “nel possedere il corpo intero, quasi nell'assorbire e sorbire tutte le curve, tutte le rotondità, e le cavità e le lunghezze”. Ma la cosa fantastica in D’Annunzio è che riusciva a trarre nutrimento intellettuale proprio dall'istinto sessuale, e una volta scrisse: “Non temo di guardare nel più profondo di me per riscoprire come dall'ingombro carnale, come dalla bestialità indomita, come dalla turbolenza sanguigna si esalino le aure divine dei mio spirito”. D'Annunzio si è valso della lussuria per una sorta di conoscenza e una sorta di ascesi. Quel che per altri è piacere, per lui è sacrificio e conoscimento. In nessuno degli scritti ascetici, che sono stati forse la sua più forte passione letteraria, si troverà contemplata e indagata la morte come nei suoi libri erotici: la carne non è se non uno spirito devoto alla morte. In questo senso nessuno è stato più carnale di Gabriele D'Annunzio, devoto costante alla morte. Non solo egli s'è visto più volte e s'è descritto morto... egli ha temuto la morte. La sua devozione nasce, come nei primitivi, dall'orrore del suo Dio o demone. Che egli l'abbia cercata, la morte, che ne sia stato tentato, non significa che non la tema... Egli sente come la morte sia l'esperienza maggiore; più grande dell'amore; più decisiva dell'arte; più pericolosa dell'eroismo tragico. Ma essa è anche l'unica esperienza che non consenta ritorni. Egli vorrebbe arricchire la sua vita con la morte". “Il Piacere", considerato la vera e propria "Bibbia" del decadentismo italiano, in cui il protagonista incarna il simbolo della sfrenatezza sensuale che sfocia nella lussuria, generando insoddisfazione e inappagamento dei desideri, è anche il simbolo del piacere di D’Annunzio che vuole esprimere, attraverso il protagonista, tutto il suo ardore per il sesso femminile. Andrea Sperelli è un personaggio autobiografico, poichè è l'incarnazione di quello che l'autore avrebbe voluto essere. Andrea Sperelli il protagonista de "il piacere" è propulsore di questa tendenza estetica della cultura decadente, per cui l'arte diviene oggetto di culto e la vita stessa si risolve in essa.. La ricerca del bello come unico valore, indifferenza per ogni convenzione etica, il disprezzo dei valori borghesi. Sperelli è una figura che più che il pensiero amava l'espressione, la forma ai contenuti, l'importanza che dà alla vitalità e alla sensualità (o piuttosto lussuria), e lo stesso concetto che guida la vita di D'Annunzio "Bisogna fare la propria vita, come si fa “un’opera d'arte" in lui "il senso estetico sostituisce quello morale". L'esteta vive da uomo fuori dal comune perché eccezionalmente dotato e raffinato. Nel romanzo il poeta rivela una ricerca della bellezza come prototipo di una donna affascinante e sfuggente, espressione di ciò che può ammaliare un esteta. Gabriele D'Annunzio volle realizzare un modo di vita eccezionale, libero da ogni convenzione e costrizione, in una perenne tensione erotica ed eroica, in un'atmosfera impregnata di fasto, di raffinatezza di sensualità, di bellezza, e scandita da gesti clamorosi e parole singolari cercando di interpretare al meglio un atteggiamento tipico del decadentismo. D’Annunzio rappresenta nella sua passionalità le ascendenze del mondo classico e i primi albori di una modernità dominata dal sacro fuoco interiore. Inizialmente, egli si rapporta al verso dantesco con “Primo Vere”, poi si volge agli influssi carducciani, per poi esprimere in narrativa un versante letterario italiano che viene considerato emblema di eleganza e raffinatezza stilistica, nel quale si schiudono a ventaglio influssi di vita mondana, esperienze amorose individuali, vocazione per il teatro, cui D’Annunzio viene indirizzato attraverso personalità di attrici come Ida Rubinstein ed Eleonora Duse. D’Annunzio crea drammi di lussuria e di morte, dove l’eroina o l’eroe sono costantemente in contrasto con le idee della morale borghese, portata a reprimere le caratteristiche istintuali dell’essere umano, ed a mistificare le azioni e le teorie nietzschiane del superuomo. Dalle liriche di “Alcyone” alla “Figlia di Iorio”, la poesia esprime l’epico sentimento, e la crepuscolarità, in una musica dannunziana, versata all’impeto nostalgico, amoroso, naturalistico. Ma il piacere quando diventa vizio e quindi lussuria, è mai soddisfatto? E’ proprio questo il ‘quid ’, lui è infatti insoddisfatto, e cerca costantemente nella carne e nella passione un qualcosa di irraggiungibile. D’Annunzio è stato considerato un grande amante, ma non è mai riuscito a stare più di tanto tempo con la stessa donna; non è per amore, ma per passione. E’ passato da donne bellissime, a attrici famose, fino ad arrivare a Parigi, città trasgressiva con i suoi ‘Bordelli ’ , dove inizia a frequentare le famosissime Prostitute. Un Uomo particolarissimo, a volte incompreso proprio per questa sua voglia ossessiva e incontrollabile della sessualità, ma rimarrà per sempre nella storia come uno dei più grandi amanti che ci sia mai stato. disinteresse per il presente e mancanza di prospettive per il futuro Il termine Il termine, nel greco classico, designa la negligenza, l'indifferenza, la mancanza di cure e di interesse per una cosa. Designa inoltre l'abbattimento, lo scoraggiamento, la prostrazione, la stanchezza, la noia e la depressione dell'uomo di fronte alla vita. É lo smarrimento estremo: si produce uno stato d'animo che intacca e rischia di disorientare tutto ciò che raggiunge. Due conseguenze tipiche sono l'instabilità e il disprezzo per gli impegni della propria vita. L'uomo non padroneggia più la vita; le vicende lo avviluppano inestricabili, ed egli non sa più vederci chiaro. Non sa più come cavarsela in determinate vicende della propria esistenza; e il compito a lui affidato gli si erge davanti insuperabile, come la parete di una montagna. La parola all'accidia...!!! Il lavoro mi piace, mi affascina. Potrei starmene seduto per ore a guardarlo. Jerome K. Jerome La cosa più deliziosa non è non aver nulla da fare: è aver qualcosa da fare, e non farla! Marcel Achard Un pigro è un uomo che non fa finta di lavorare. Nicolas de Chamforet I momenti d'ozio sono intervalli di lucidità nei disordini della vita. Ambrose Bierce Una vita ricca e attiva,un sentire dolente Arthur Schopenhauer nacque a Danzica il 22 febbraio del 1788 da una ricca famiglia borghese e morì a Francoforte nel 1860. Suo padre era un bravo mercante che era riuscito ad accrescere il già cospicuo patrimonio familiare. Questa florida condizione economica consentì al giovane Schopenhauer di viaggiare molto e conoscere ambienti stimolanti sul piano umano e culturale. Egli dunque ebbe modo di conoscere il cure vivo e pulsante dell’Europa, però, questa esperienza eccezionale non lo indirizzò, come era prevedibile,verso i traffici e i commerci, ma servì solo ad aggravare la sua tendenza a chiudersi in se stesso e a nutrire una visione pessimistica della vita. I temi dominanti delle sue meditazioni giovanili sono infatti quelli della morte e dell’eternità, dello smarrimento di fronte alla grandiosa maestà della natura. Qualunque sia la causa del sentire doloroso e tormentato del giovane Schopenhauer, certo è che egli nutrì sempre una crescente insofferenza per il mondo borghese da cui era circondato. Dopo la morte del padre, forse per suicidio, il distacco da tale mondo si fece più profondo e, grazie alla madre, che aveva anch’essa voltato le spalle al mondo mercantile,egli poté dedicarsi agli studi classici, abbandonandosi alla contemplazione della cultura, della filosofia e dell’arte greca. Il rifiuto totale della vita E’ in questi anni di studio e di meditazione, che egli avvertì il bisogno di far chiarezza sul proprio sentimento di insoddisfazione esistenziale e di distacco dalle ordinarie preoccupazioni della vita. Schopenhauer giunse a un rifiuto totale della vita. Intraprese allora anche lo studio della filosofia. Platone lo appassionò perché rispondeva alle esigenze del suo animo, specie nel desiderio di evadere dalla prigione del mondo sensibile per sollevarsi al mondo delle idee; e lo stesso si dica per Kant, il filosofo che Schopenhauer ebbe sempre come punto di riferimento privilegiato. In Kant egli trovava una lucida critica al realismo, cioè alla credenza che le cose abbiano una realtà e un significato indipendenti dal soggetto, e in particolare l’affermazione che la mente dell’uomo avverte il bisogno di andare oltre il mondo mutevole e incerto dei fenomeni per raggiungere la “cosa in sé” , vale a dire l’essenza profonda delle cose. Su questo punto tra i due non c’è accordo, infatti mentre per Kant la “cosa in sé” è soltanto pensabile, un concetto non raggiungibile; per Schopenhauer essa si può conquistare con il faticoso processo di chiarificazione interiore che il saggio o il filosofo possono percorrere. Che cos’è il mondo? Nel 1818 Schopenhauer pubblicò il suo capolavoro, il mondo come volontà e rappresentazione,che avrebbe dovuto diffondere la sua verità nel mondo vile e meschino della filosofia tedesca, ma che non ebbe alcun successo. Alla domanda <Che cos’è il mondo?> Schopenhauer risponde ponendosi da una duplice prospettiva: da un lato la prospettiva della rappresentazione intellettuale o, meglio, della scienza; e dall’altro quella della volontà. I due punti di vista mettono capo a due soluzioni differenti. Secondo quella della conoscenza il mondo è una mia rappresentazione; secondo l’altro, il mondo è volontà di vivere, un impeto cieco e tenace che coinvolge tutti gli esseri e li condanna alla sofferenza: il volere, infatti, coincide con il dolore perché è costituito dalla tensione continua, dalla ricerca senza sosta di un piacere che non si potrà mai appagare completamente. Il mondo come rappresentazione Il capolavoro di Schopenhauer si apre con l’affermazione secondo cui << il mondo è una mia rappresentazione>>: una verità che riguarda tutti gli esseri viventi, anche se solo l’uomo è capace di assumerla nella sua coscienza e di pensarla. Questa è una verità certa, assoluta ed evidente, tanto che non ha neppure bisogno di essere provata. Dire che il mondo è una mia rappresentazione significa avere la consapevolezza che io non conosco realmente che cosa siano in sé il sole o la terra; ma soltanto di avere un occhio che vede il sole ed una mano che sente il contatto con la terra. Il mondo è una mia rappresentazione, cioè mero apparire, sogno e illusioni espressi nella metafora del “velo di Maya”. La rappresentazione ci dà soltanto fenomeni, cioè apparenza e illusione: qualcosa di analogo a ciò che l’antica mitologia indiana chiamava appunto “il velo di Maya”, cioè quel velo che, coprendo il volto delle cose, cela all’uomo la vera essenza del mondo. La rappresentazione e le forme a priori della conoscenza Schopenhauer dice molto chiaramente che la rappresentazione, cioè la conoscenza intellettuale o la scienza, è solo un modo di guardare le cose nel loro apparire, dall’esterno, restando sempre alla superficie della realtà, senza riuscire a capire che cosa ci sia al di là di questa parvenza. Dunque la rappresentazione ci mostra un continuo fluire di immagini o, in termini filosofici, di fenomeni, cioè cose che appaiono. La realtà quindi è solo un insieme di rappresentazioni, di fenomeni e al soggetto spetta il compito di organizzarli. Questo gli è possibile attraverso le forme spazio temporali della sensibilità e la categoria di casualità. Lo spazio e il tempo sono forme a priori della rappresentazione. Ogni nostra percezione le presuppone come sue condizioni fondamentali, non è possibile percepire, sentire o conoscere nessuna cosa o avvenimento senza collocarlo in uno spazio e in un tempo determinati. Gli oggetti che appaiono nella realtà sensibile spazio-temporale sono poi ulteriormente coordinati dall’intelletto umano in un ordine che, secondo Schopenhauer, è quello della casualità. Ogni fenomeno è collegato all’altro da un nesso di causa-effetto. Così tutta la realtà ci appare come una trama di fenomeni tra loro connessi e subordinati: nella casualità, risiede l’essenza stessa della materia. La vita è sogno Avviandoci a concludere il primo aspetto della questione – l’analisi della rappresentazione – non possiamo fare a meno di registrare il carattere affatto particolare di questo pensiero, in cui il mondo si rivela come una fantasmagorica trama di fenomeni e la vita come illusione e sogno, qualcosa di analogo alla vita notturna dell’uomo. Un mondo di immagini evanescenti e ingannevoli, a volte belle e lusinghiere, a volte terribili e paurose. Per Schopenhauer la vita e i sogni sono pagine di uno stesso libro. La lettura continua viene chiamata vita reale. Ma quando la giornata finisce e smettiamo di leggere, allora ci mettiamo a sfogliare svogliatamente le pagine, spesso è una pagina già letta, a volte è una pagina sconosciuta, ma sempre dello stesso libro. Così si dica del rapporto tra vita vera e i sogni: a quest’ultimi manca l’ordine e la connessione dei fatti,mentre la vita vera è più ordinata; ma si tratta pur sempre della medesima esperienza, come identico era il libro prima letto ordinatamente e poi sfogliato a caso. Schopenhauer pensa che l’uomo possa andare al di là della trama superficiale della vita e del sogno,per attingere la vera realtà, “la cosa in sé”,cioè la vera essenza della realtà. Un’ essenza che l’uomo può raggiungere, una volta che abbia squarciato il velo di Maya. Al contrario, in Kant la “cosa in sé” era quel concetto-limite che serviva a tracciare i confini della conoscenza. Essa era solo pensabile, ma non raggiungibile dal nostro intelletto. Per Schopenhauer, invece, la cosa in sé può essere conosciuta, grazie al fatto che l’uomo non è solo capace di rappresentarsi le cose dall’esterno, ma attraverso il proprio corpo fa l’esperienza della vita dall’interno: si sente soffrire e gioire. In breve, proprio l’esperienza proveniente dal corpo, permette di andare oltre i fenomeni e cogliere l’essenza di me stesso che è brama o volontà di vivere, un impulso forte e irresistibile che ci spinge a esistere e ad agire, di cui la corporeità non è altro che la manifestazione esteriore. Il bisogno esagerato di riconoscimento… Il superbo è una persona innamorata della propria superiorità, vera o presunta, per la quale si aspetta un riconoscimento. Cosa si dice sulla superbia... La simulazione dell'umiltà è peggiore della superbia. Sant'Agostino Origini psicologiche La superbia affonda le sue radici nel profondo dell'uomo, che è sempre teso alla ricerca e all'affermazione della sua identità. L'identità non è qualche cosa che si elabora al proprio interno, ma è qualche cosa che ciascuno negozia nel rapporto con gli altri, da cui attende il riconoscimento. Il bisogno di riconoscimento nell'essere umano è fortissimo: forte al pari di altri bisogni più esistenziali… La vita è una lunga lezione di umiltà. J.M.Barrie La falsa modestia è forse il solo oratore che, parlando di se, cede volentieri la parola ad altri. Abraham Dufresne Non ho pietà per i presuntuosi, perchè credo che portano con se il loro conforto. George Eliot Si è orgogliosi quando si ha qualcosa da perdere e umili quando c'è qualcosa da guadagnarci. Herny James Adolf Hitler nasce il 20 aprile 1889 a Braunnau sull’Inn, alla frontiera austro-bavarese. Suo padre Alois Hitler, lavorava nell’amministrazione reale e sua madre era una cugina del padre. Frequentò la Realschule a Linz, dove fu un allievo turbolento e mediocre. La morte del padre nel 1905 per tubercolosi, che era il flagello di famiglia, lo immobilizzò a letto, lo scoraggiò scolasticamente, ma nonostante il disagio economico e il cancro di cui sua madre stava morendo, decide di partire per Vienna, per realizzare la sua vocazione artistica, iscrivendosi all’Accademia di Belle Arti. Viene respinto per due anni consecutivi all’esame di ammissione dell’Accademia e non poté iscriversi alla facoltà di Architettura, essendo sprovvista di un certificato di licenza. Inizia così un periodo oscuro, 5 anni di vagabondaggio e di decadimento fisico e sociale, quasi totale, lontano dalla famiglia, essendo morta sua madre. In quel periodo era proprio un fantasma del ghetto: girava con un soprabito nero troppo lungo e sformato, che gli era stato regalato da un suo amico occasionale ebreo, i capelli sporchi sotto il capello logoro, una barba che gli invadeva il volto affilato dalla febbre. Nel 1909 egli dovette rassegnarsi a lavorare in una società, e a piazzare i suoi quadri. In quel periodo leggeva molto e discuteva di politica con i suoi amici, ma quasi sempre si trattava di monologhi, che stupivano l’uditorio per i loro temi, la loro perentorietà e la loro violenza. Tra tutti gli amici che aveva, lui era l’unico, che nonostante la decadenza fisica, non si lasciò a quella morale. Lui non abbandonò mai i propri valori: decoro e ordine. Gli mancava solo la disciplina, e la lotta per salvare la sua dignità, lo convinse che, solo il più forte e il più astuto, avrebbe vinto tale lotta della vita. Hitler fu sempre a contatto con le classi lavoratrici e quello che provocava la sua collera, erano le teorie dei marxisti, che rifiutavano i valori della patria borghese e del lavoro capitalista. Scoprì che dietro queste teorie, c’era l’ebraismo. L’antisemitismo si stava sviluppando in Europa centrale, e proprio a Vienna confluivano tutte le razze e gli scarti dei ghetti slavi. E’ proprio in questa situazione che egli contrasse l’odio per gli ebrei: chi si nascondeva dietro al marxismo internazionalista e materialista, chi si arricchiva a spese del popolo e portava via donne e giovani, chi minava la supremazia della razza tedesca nell’Impero, se non l’ebreo? Fu proprio a Vienna per Hitler la "scuola" più dura e la più fruttuosa della sua vita. Nel 1913 egli decise di partire per Monaco e nel 1914, dinanzi al Consiglio di revisione a Salisburgo, fu riformato per cattive condizioni di salute. Quando il 1° agosto 1914 ci fu la dichiarazione di guerra, Hitler era felicissimo e volle partecipare a tale "grande fortuna". Fece domanda per prestare servizio militare nell’esercito della Baviera, e fu arruolato in un battaglione di fanteria di riserva. Senza famiglia, senza amici, senza un mestiere, Hitler fu per 4 anni un soldato modello, per il quale l’esercito rappresentava focolare, affetti e mezzo di sostentamento. Per tutta la guerra ebbe ruolo di staffetta di compagnia. Molto coraggiosamente traversò l’inferno del fronte occidentale, guadagnando così il grado di caporale. Prese un unico congedo in seguito ad una ferita alla gamba. Nel 1917 constatò, con grande sorpresa e collera, che nel Paese regnavano una crescente demoralizzazione, il dubbio e la carestia. Gli ufficiali prussiani erano degli incapaci, lasciavano morire milioni di uomini, che si battevano, soffrivano e morivano ai loro ordini, invece di portare ordine, disciplina e coraggio. Fu allora che Hitler pensò: "Se mi si affidasse il comando della guerra! Saprei come far regnare l’ordine all’interno e ricambiare agli Alleati la loro propaganda". Nel 1918 la Germania venne sconfitta e per lui fu un colpo terribile. Naufragavano quell’Impero e quella vittoria, per i quali aveva appassionatamente combattuto per 4 anni. Il 9 Novembre 1918 venne proclamata la Repubblica di Weimar, battezzata così dal nome della città in cui si tenne l’Assemblea Nazionale Costituente. Questa Repubblica regnò dal 1918 al 1933. Le masse popolari, l’accettarono apaticamente e i gruppi di pressione erano tali che ogni decisione importante del potere politico doveva essere negoziata con la potenze dell’economia privata e dell’esercito, inoltre la repubblica non seppe imporre la pace anche perché questa non si comanda a bacchetta. Nel 1919 Hitler entrò nel Partito tedesco dei lavoratori, che fu trasformato nel 1920 nel Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori, del quale divenne il capo nel 1921. L’inflazione gravissima e l’incertezza della Repubblica crearono il caos tanto che il presidente decretò lo stato d’assedio, affidando all’esercito il compito di difendere la Repubblica che esso disprezzava. Ma le autorità bavaresi volevano approfittare di questa situazione per esautorare la democrazia e installare un governo reazionario e militare. Nel 1929 Hitler, stanco degli indugi delle autorità di Monaco, colpì per primo e attuò il suo colpo di Stato. Ma questo colpo di mano fallì e Adolf Hitler venne arrestato e il partito nazista e quello comunista furono messi fuori legge. Hitler fu condannato e 5 anni di reclusione nella fortezza di Landesberg, pena minima, che del resto, gli fu subito assicurato, sarebbe stata ridotta. Nel carcere, Hitler, dettava il Mein Kampf a Rudolf Hess e intanto prendeva lezioni dal passato. Era per essersi messo nell’illegalità e, quel che più conta contro l’esercito, che aveva fallito. Nel 1924 dopo appena nove mesi di reclusione, Hitler veniva rimesso in libertà . Il suo partito era stato sciolto, ma egli non pensò nemmeno un momento di abbandonare la vita politica. Riorganizzò il partito e all’interno delle SA, che era un’associazione paramilitare, che egli voleva far diventare un esercito politico. Fu scelto un piccolo gruppo, destinato a rimanere attorno al Führer. Il partito fu articolato in gruppi locali riuniti in Gau, i cui capi, i Gauleiter, venivano eletti. Hitler, sospettoso moltiplicava gli incarichi e cambiava spesso il personale. Per affermare la propria autorità, Hitler decise di nominare personalmente i Gauleiter e creò un tribunale per giudicare le contese fra i membri. Negli anni successivi il numero degli adepti crebbe lentamente. Alla fina del 1929 il partito aveva già triplicato i suoi effettivi e le SA contavano 100.000 uomini, un numero pari all’esercito regolare. D’altra parte, il numero dei disoccupati cresceva con lo stesso ritmo. Ora, la SA, grazie alla sua cassa di soccorso e ai suoi refettori, offrì un rifugio agli affamati. In tal modo gli effettivi dell’esercito politico si accrebbero continuamente e nel 1933, si poterono contare 300.000 uomini. Nel 1930 ci furono le elezioni e il partito di Adolf Hitler ottenne circa 6.500.000 voti, superando di poco i socialdemocratici, seguiti dai comunisti. Approfittando, in seguito, del favore del Presidente Hindenburg e degli elementi militari, ma soprattutto dello stato d’animo di depressione in cui si trovava gran parte della popolazione tedesca (sette milioni di disoccupati), il Führer venne nominato cancelliere.(gennaio ‘33). Nel 1934 il Presidente Hindenburg era vecchio e declinava rapidamente e c’era il problema della successione. Erano in molti i candidati, ma il 29 giugno 1934, dopo settimane di dubbio, Hitler diede alle SS e alla Gestapo l’ordine di colpire. Ci fu una notte di sangue (notte dei coltelli) da un capo all’altro del Reich. Per tutta la notte, in una prigione, i plotoni delle SS fucilarono uomini che morivano gridando con "Heil Hitler". Morirono anche degli innocenti, furono liquidati vecchi rancori. Più di 1.000 morti e circa 1.200 arrestati furono coperti dall’esercito, che rimase fedele. Quando Hindenburg morì, Hitler gli successe in qualità di Führer e cancelliere del Reich, ormai la Germania era Hitler e Hitler era la Germania. Il Führer si stancò assai presto degli affari interni e lasciò governare i suoi uomini di fiducia, riservandosi gelosamente la politica estera. Sempre nello stesso anno, la Germania abbandona la conferenza per il disarmo e la Società delle Nazioni e Hitler inizia a sbarazzarsi dei nemici interni: ebrei e repubblicani, in quanto questa sembrava essere la condizione per la rivincita. Nel 1936 il Führer tentò il putsch austriaco, ma questo fallì a causa dell’intervento italiano. Negli anni successivi la Germania si riarmò e rioccupò militarmente la Renania. Nel 1937 Hitler stipulò un accordo con Mussolini, l’asse Roma-Berlino, che si rafforzava di giorno in giorno. Nel 1938 il Führer assunse personalmente il comando delle forze armate nell’ultimo consiglio di gabinetto del Terzo Reich. Si concluse l’Anschlu così come era stato previsto, e l’Austria fu incorporata nella Grande Germania. In questo anno, iniziò l’applicazione delle leggi razziali. Dopo aver conquistato la Boemia e la Slovacchia, nel ‘39 Hitler invase la Polonia e la conquistò, causando la dichiarazione di guerra di Francia ed Inghilterra Nel 1941 Hitler decise di attaccare la sua alleata, la Russia, dando poca importanza alla guerra con l’Inghilterra. Questo fu un errore fatale per Hitler, poiché questo aprì un secondi fronte, errore reso ben presto ancora più grave dall’entrata in guerra degli Stati Uniti. Da questo errore in poi la situazione della Germania si venne a modificare a suo sfavore. In ogni caso Hitler rimase fedele al giuramento pronunciato nel giorno dell’apertura delle ostilità, vivendo tutta la guerra in mezzo al suo esercito. Dal 1941 la salute del Führer, cominciò a risentire del lavoro frenetico e disordinato ch’egli s’imponeva. Capelli grigi, vertigini, fobia per la neve, erano anche le conseguenze dei lunghi mesi passati senza sole né riposo, sotto i cupi abeti delle foreste della Prussia orientale o dell’Ucraina, che nascondevano il suo quartier generale. Per di più l’attentato del 20 luglio gli aveva leso i timpani e il braccio sinistro, da allora, fu agitato da un tremito continuo. Nel 1943 ci fu la disfatta tedesca a Stalingrado e il malcontento di buona parte dell’esercito si concretizzò, in tentativi falliti, di uccidere Adolf Hitler. La Germania veniva attaccata ad Est dai Sovietici e a Ovest dagli Alleati, e nel 1945 il cerchio di fuoco si chiuse intorno a Berlino. Nel bunker della Cancelleria, rifiutandosi di credere alla disfatta, tradito da tutti, Hitler continuò a manovrare con le mani madide e la testa in fiamme, armate inesistenti. Ma quando i Russi furono a solo 100 metri dalla Cancelleria, il sogno di Hitler svanì. Dopo aver sposato la sua amante, Eva Braun, e redatto le sue ultime volontà, Hitler si suicidò il 20 aprile 1945, all’età di 56 anni. I loro cadaveri bruciati scomparvero forse nel caos del bombardamento sovietico. Una settimana dopo, il Terzo Reich capitolava, più di 30 milioni di morti restavano a testimonianza della follia sanguinaria di Adolf Hitler. Nel 1939 Hitler avvenne al potere e, due mesi dopo che il maresciallo Hindenburg gli ebbe affidato la costituzione del nuovo governo, entrarono in vigore i primi provvedimenti contro gli Ebrei tedeschi. • • Essi erano esclusi dagli uffici pubblici e dall’avvocatura; I medici ebrei erano esclusi dalle mutue. Con questi provvedimenti iniziava l’eliminazione degli Ebrei da tutti i settori della vita del Paese, e benché non tutti fossero d’accordo, nessuno interveniva, perché si mirava alla pacificazione. • • • • Soltanto un compatriota può essere cittadino. Soltanto chi è di sangue tedesco, indipendentemente dalla sua religione, può essere un compatriota. Un ebreo non può essere un compatriota. Chi non è cittadino non può vivere in Germania che in qualità di ospite è soggetto alla legislazione per gli stranieri. L’esclusione degli Ebrei e di tutti i non-Tedeschi da tutti i posti di responsabilità nella vita pubblica. La cessazione dell’immigrazione degli Ebrei dell’Est e di tutti gli stranieri parassiti; l’espulsione degli Ebrei e degli stranieri indesiderabili. Secondo i grandi capi nazionalsocialisti, era un errore credere che il problema ebraico potesse essere risolto senza spargimento di sangue: la soluzione non poteva avvenire altrimenti se non in maniera cruenta. Nel 1935 il commercio era boicottato, ma gli Ebrei non venivano ancora seviziati, tuttavia ci furono nuovi provvedimenti. • • • • • I matrimoni tra Ebrei a soggetti di sangue tedesco o assimilato sono proibiti. I rapporti extraconiugali tra Ebrei e individui di sangue tedesco, o assimilato sono proibiti. Gli Ebrei non possono tenere al loro servizio in qualità di domestiche, donne di sangue tedesco o assimilato che abbiano meno di quarantacinque anni di età. E’ proibito agli Ebrei esporre bandiere dai colori nazionali tedeschi. Per contro essi possono esporre bandiere dai colori ebraici: l’esercizio di questo diritto è tutelato dallo Stato. Le infrazioni del 1° provvedimento saranno punite con la reclusione. Le infrazioni al 2° provvedimento saranno punite con pena di prigione o di reclusione. Queste leggi erano le leggi sacrali, mediante le quali Hitler poteva realizzare il suo sogno. Egli voleva estirpare la religione cristiana e sostituirla con un nuovo culto una nuova morale. Solo una religione gli poteva assicurare degli uomini religiosamente obbedienti, fanaticamente sottomessi, che gli corressero dietro. Questi dovevano sottomettersi al Führer incondizionatamente e assolutamente, il Führer è come il sacerdote che sa esprimere la volontà divina. Secondo Hitler, l’Ebreo simboleggia il male: " Se l’Ebreo non esistesse, bisognerebbe inventarlo", perché una religione non può fare a meno del diavolo. La sua presenza faceva sì che si percepisse meglio il Dio. Più l’orrore sarebbe stato intenso, più intense sarebbero state l’adorazione e la fede. Queste idee di Hitler entrarono nella mente della popolazione: l’Ebreo non è soltanto impuro e contamina tutto con il suo stesso contatto, ma impuro è anche tutto quanto gli appartiene e partecipa alla sua vita. Vennero attribuite dai tribunali pene di prigione e di reclusione per contaminazione razziale, che avveniva anche attraverso baci e abbracci. "La contaminazione razziale è un crimine peggiore dell’assassinio" Le leggi sacrali divennero sempre più assurde e nel 1938 venne stabilito che ogni uomo Ebreo doveva prendere il nome di Israele e ogni donna Ebrea quello di Sara. Con l’Anschlu dell’Austria, nel 1938, i provvedimenti sacrali vennero emessi con frequenza raddoppiata, e naturalmente anche la neoannessa Austria venne messa "al passo", per ciò che riguardava la legislazione antisemita. Tra le nuove disposizioni c’erano: • • • • La denuncia obbligatoria dei beni appartenenti agli Ebrei. L’obbligo di assumere il nome di Israele o di Sara. La soppressione delle ultime eccezioni a favore degli avvocati ex combattenti. L’obbligo di apporre la lettera J su passaporti e carte d’identità. A metà ottobre 1938 venne deciso, che era arrivato il momento di risolvere il problema ebraico. Gli Ebrei dovevano sparire dall’economia tedesca a lasciare la Germania. Poco dopo iniziarono le prime deportazioni. Circa 10.454 Ebrei vennero portati a Buchenwald, e lì vennero fatti coricare all’aperto in pieno inverno, percossi e torturati per giornate intere, mentre l’altoparlante scandiva: "Ogni Ebreo che desideri impiccarsi è pregato di avere la cortesia di introdursi un pezzo di carta in bocca, recante il proprio nome, al fine di poter procedere all’identificazione". Dal novembre 1938 le sinagoghe vennero bruciate e gli ebrei deportati, e in ogni città, tra tutti coloro che avrebbero potuto fare qualcosa, nessuno mosse un dito. Ormai la politica che Hitler aveva adottato negli ultimi cinque anni, aveva addomesticato tutta la società. Furono incendiate 101 sinagoghe, 76 demolite e distrutti 7.500 negozi, ma questo non bastava, altri provvedimenti vennero emessi: • • • • • Tutti gli Ebrei sono esclusi totalmente e definitivamente dal commercio. Gli Ebrei devono pagare un’ammenda collettiva di un miliardo. Ai ragazzi Ebrei è vietato frequentare scuole tedesche.(Ministero dell’Educazione) La libera circolazione degli Ebrei viene limitata: essi non possono frequentare determinati quartieri, né mostrarsi in pubblico a determinate ore.(Polizia) E’ proibito agli Ebrei l’accesso alle vetture-letto e alle vetture-ristorante; e così pure l’accesso ai ristoranti e alberghi frequentati dai membri del partito. Queste ordinanze introducevano misure assai complesse al fine "di giungere, se possibile, al concentramento degli Ebrei in determinati edifici". E mentre questi provvedimenti venivano emessi, la comunità ebraiche della Germania provvedevano allo sgombero della macerie della sinagoghe; quasi ovunque il terreno era stato trasformato in alberate "per ariani" a loro scapito. Qualche mese dopo alla vigilia della guerra, una legge di base regolava lo statuto degli Ebrei, stabilendo la formazione di una "Unione degli Ebrei del Reich", alla quale dovevano aderire tutti gli Ebrei tedeschi, ai quali spettava di provvedere all’istruzione dei ragazzi ebrei, all’assistenza sociale, ai problemi dell’emigrazione. Tale era la situazione degli Ebrei tedeschi alla vigilia della seconda guerra mondiale e Hitler in un discorso disse: " O l’Europa e il mondo si piegheranno ai miei voleri; e allora io concentrerò il popolo ebraico in qualche isola deserta. O tenteranno di resistermi; e allora la razza maledetta sarà votata allo sterminio". Quando nel 1941 la guerra diventò veramente totale, quando il Führer finalmente si convinse che i ponti erano definitivamente tagliati e che una nuova Monaco era impossibile, i nazisti ricorsero alla seconda alternativa: iniziarono così le persecuzioni. Anche alla Polonia vennero estese queste leggi sacrali e nell’ottobre 1939 venne istituito il principio dell’obbligatorietà del servizio del lavoro per gli ebrei dai 14 ai 60 anni, venne prescritto un censimento che dava la possibilità di contrassegnare con un timbro i documenti d’identità degli Ebrei. Nel novembre dello stesso anno venne prescritto l’uso di un bracciale bianco "largo almeno 10 centimetri", vennero vietati i trasferimenti di residenza e istituito il coprifuoco dalla nove di sera alle cinque del mattino. Agli inizi del ‘40 venne fatto divieto di servirsi delle ferrovie e di tutti i mezzi di pubblici di trasporto. Tutta una serie di ordinanze minori, analoghe a quelle introdotte i Germania, proibisce agli Ebrei di frequentare locali pubblici e gli spettacoli, li bandisce dalle scuole e dalle università, li allontana dalle libere professioni e da ogni settore della vita economica, li priva dei benefici della legislazione sociale, e, nel giro di poche settimane, ne "arianizza" le aziende commerciali e industriali. Sono loro consentite soltanto le attività manuali. Venne infine messa in atto la sistematica concentrazione nei ghetti. Il ghetto di Lodz è il primo in ordine di tempo. Nelle grandi città i ghetti furono cinti da mura; in altre località si trattava di quartieri delimitati, all’ingresso dei quali stavano cartelli in lingua tedesca che avvertivano: "Pericolo di epidemia, potete entrare a vostro rischio e pericolo!". All’inizio del 1941 il concentramento dei ghetti in Polonia era ormai cosa conclusa e venne decretata la pena di morte per ogni Ebreo sorpreso fuori dal ghetto. Questo sistema comportava, tra le altre conseguenza la condanna degli Ebrei a lenta morte per inanizione. L’elenco interminabile dei provvedimenti legali emanati ai danni degli Ebrei culminava in alcuni testi che stabilivano imprecisi termini giuridici che un Ebreo non potrà più essere soggetto di diritto civile o penale; non potrà sporgere denuncia: i tribunali sono incompetenti a giudicare del suo caso, poiché egli sta fuori della legge, e delitti o crimini da lui commessi sono di esclusiva competenza della polizia e delle SS. LA DECISIONE E L’ELIMINAZIONE L’eliminazione totale degli Ebrei non era il piano iniziale di Hitler. Purtroppo non ci sono documenti e probabilmente non ne sono mai esistiti, che possano attestarlo. Ma una cosa è sicura, anche se non era nei suoi piani, fu Lui a deciderlo sterminio degli Ebrei nel 1940. Ma cosa gli fece cambiare idea? Forse l’odio per il popolo ebraica, forse la sua follia, ma più probabilmente il motivo era un altro. Quando lo sterminio degli Ebrei venne disposto, era ormai evidente che il conflitto sarebbe stato di lunga durata, indipendentemente dal suo esito. Le speranze di un compromesso con l’Inghilterra erano svanite e i nazisti giocavano il tutto per tutto. Lo sterminio del popolo ebraico, avrebbe reso complice tutto il popolo tedesco, infatti "nulla lega più dei delitti commessi in comune". In questo modo, l’olocausto sarebbe servito ad unire il Capo ai sudditi in un cerchio comune d’ insaziabile furia omicida. L’espulsione degli Ebrei e la loro eliminazione s’imponeva con evidenza assoluta, quindi il modo di eliminarli non aveva troppa importanza. Furono attuati quattro tipi di eliminazioni: caotiche, metodiche, dirette ed ritardate. ELIMINAZIONI CAOTICHE Mentre la Germania si apprestava a dichiarare guerra contro la Russia, vennero formati dei gruppi d’azione. Questi gruppi erano formati da 500-800 persone e avevano il compito di sterminare gli Ebrei. L’esercito tedesco entrò velocemente nell’Unione Sovietica, ma gli Ebrei dei paesi baltici vennero risparmiati, in quanto la loro manodopera era un fattore insostituibile. Solo quando l’avanzata tedesca rallentò, i gruppi poterono procedere con le eliminazioni di massa, che avvenivano così: Giunti in una località, si facevano indicare gli Ebrei del posto e il rabbino, al quale affidavano l’incarico di costituire un Consiglio ebraico. Il domani, o qualche giorno dopo, il Consiglio ebraico veniva avvertito che la popolazione ebraica doveva essere registrata in vista di un trasferimento verso un "territorio ebraico". Il Consiglio era pertanto incaricato di convocare la popolazione che, nelle località di una certa importanza, veniva avvertita con manifesti. Data la rapidità dell’operazione, l’ordine in genere era eseguito dagli abitanti, non ancora informati dei metodi tedeschi. Gli Ebrei venivano caricati su autocarri, talora su vagoni merci, e trasportati a qualche chilometro dalla città, verso un burrone o un fossato anticarro. Spogliati del loro denaro, degli oggetti di valore e spesso dei loro stessi abiti, uomini, donne e bambini venivano immediatamente fucilati sul posto. Le fucilazioni non erano l’unico sistema cui ricorsero i Komandos. Si ebbero, sulle rive del Mar Nero, degli annegamenti collettivi, vi furono anche casi di Ebrei bruciati vivi e di ebrei asfissiati negli "autocarri a gas". ELIMINAZIONI METODICHE Il genio tecnico dei Tedeschi permise loro di organizzare nel giro di pochi mesi un’industria della morte, razionale ed efficace. I campi di sterminio erano sorti, con installazioni dapprima rudimentali, poi via via più perfezionate e il sistema di sterminio scelto fu l’asfissia per acido prussico (Auschwitz) e per ossido di carbonio. Ogni campo di sterminio era dotato di un piccolo locale chiuso ermeticamente, che veniva trasformato in doccia. Vi veniva fatta penetrare una serie di tubi a cui si adattavano dei cilindri contenenti l’ossido di carbonio. Prima di essere condotti a gruppi di dieci o di quindici dentro alla camera a gas, i malati venivano generalmente insonnoliti con iniezioni di morfina o di scopolamina, o drogati con pastiglie sonnifere. Le stazioni di eutanasia erano provviste anche di un piccolo crematorio ove venivano bruciati i cadaveri. Le famiglie erano informate con lettere stereotipate che annunciavano il decesso del malato per "debolezza cardiaca" o per "polmonite". Prima di questa tecnica ne erano state utilizzate altre, tra cui il metodo della calce viva, le iniezioni di fenolo al cuore e far precipitare le vittime dall’alto di una cava. I procedimenti tecnici per ottenere uno sterminio efficace e discreto, conforme a ciò che i nazisti qualificavano come "stile tedesco", furono studiati e preparati in laboratorio da medici e studiosi tedeschi e i malati di mente della Germania fecero da cavie per gli Ebrei d’Europa. ELIMINAZIONI DIRETTE Oltre alla sterminio degli ebrei, la pazzia hitleriana si estese ad altri popoli, tra cui Zingari, Russi, Polacchi e Cechi. Anche questi furono colpiti dalle leggi razziali, furono deportati e poi massacrati. Le disposizioni della Wehrmacht prevedevano che "nessun Tedesco che avesse preso parte alle operazioni militari, potesse essere soggetto a procedimenti disciplinari o giudiziari a causa della sua condotta durante il combattimento", inoltre i soldati dovevano tener presente "che nei paesi baltici, la vita umana, il più delle volte, non aveva alcun valore. ELIMINAZIONI RITARDATE Altri metodi di eliminazione di ebrei, invece che avere effetti immediati come la fucilazione, avevano effetti ritardati. Uno di questi procedimenti era far si che non vi fosse più generazione futura, attraverso progetti di sterilizzazione di massa. Un altro procedimento consisteva nel ratto dei bambini. Questi venivano collocati negli asili-nido delle SS e lì morivano di fame. Anche la degradazione mentale dei popoli era un provvedimento per lo sterminio degli Ebrei. Alle popolazioni non-tedesche era concesso un grado minimo di istruzione: leggere e scrivere. Così si andava verso la formazione di "tribù degenerate" e "bestie da soma" senza volto ne individualità. Dolore per il ben altrui L'invidia è un sentimento malevolo nei confronti di un'altra persona o gruppo di persone che possiedono qualcosa (concretamente o metaforicamente) che l'invidioso non possiede. Essa si caratterizza come desiderio ambivalente: di possedere ciò che gli altri possiedono, oppure che gli altri perdano quello che possiedono. L'enfasi è, quindi, sul confronto della propria situazione con quella delle persone invidiate, e non sul valore intrinseco dell'oggetto posseduto da tali Cosa si dice sull’invidia… L'invidioso mi loda senza saperlo. Gibran, Kahalil. L'invidioso non muore mai una volta sola, ma tante volte quanto l'invidiato vive salutato dal plauso della gente. Gracián, Baltasar. Ci si vanta spesso delle passioni, anche delle più criminose; ma l'invidia è una passione timida e vergognosa che non si osa mai confessare. La Rochefoucauld. Gli anni che una donna si toglie non li butta via, li aggiunge all'età delle altre. Anonimo Congratularsi vuol dire esprimere con garbo la propria invidia. Ambrose Bierce Da «Epigrammi» IX, 97 «Schiatta d'invidia quel tale perchè tutta Roma mi legge. Schiatta d'invidia perchè sono segnato a dito dalla folla. Schiatta d'invidia perchè Tito e Domiziano mi hanno concesso privilegi e favori. Schiatta d'invidia perchè ho un piccolo podere fuori città e una casa modesta a Roma. Schiatta d'invidia perchè sono circondato da amici e invitato a cena. Schiatta d'invidia perchè sono amato ed ho successo. Schiatti pure chi crepa d'invidia!» Nel suo crudo realismo, in modo spregiudicato e talvolta per bisogno di raggranellare quanto gli bastasse per vivere, Marziale disse e scrisse, quando potè. Di certo calcò spesso la mano con una crudele satira contro molti personaggi che affollavano la società del suo tempo; con il suo sguardo osservò attentamente ogni cosa ed ogni aspetto umano dal vizio capitale al più semplice gesto malizioso; con i suoi epigrammi scrutò le piccole vicende quotidiane e le rese eterne, incensò i potenti per necessità e per fame. Marziale fu il poeta dei costumi, osservò la società romana ritraendone acutamente i vizi e i difetti ma giudicò sempre con la sua testa. Fin dall'inizio soffrì l'ingiustizia dei tempi sulla propria pelle sempre arrabattandosi chiedendo ora ad uno ora ad un'altro protettore od amico qualche sesterzio. Come lo stesso Marziale ci riferisce di sovente la gente per la strada si fermava a guardarlo e si meravigliava che un poeta così grande portasse un mantello lacero e scolorito. Se poi teniamo conto che quella bella "toga di finissima lana" non era altro che un regalo di un comandante militare di Domiziano, possiamo intuire che il poeta godeva del favore del principe nonché dell'amicizia e della considerazione dei funzionari che ruotavano intorno all'imperatore: era l'abito appropriato alla dignità di equestre ma era come una "lampada accesa sulla sua miseria". L'imperatore gli aveva dato un titolo, l'amico un elegante vestito degno d'un grande poeta: per Marziale, fu vero "memorabile dono" e di quella veste signorile fece grandissimo uso sino a che non la vide ridotta, dopo un anno, logora e stinta e ancora una volta degna della sua povertà. E tale difficoltà del vivere lo accompagnò per quasi tutta la vita fino a fargli scrivere: «D'accordo, sono povero, lo sono sempre stato. Tutti però nel mondo mi leggono e tutti dicono: è lui! Questo privilegio a pochi lo ha concesso la morte: a me, vivo, lo concede la vita... Tu sei molto ricco, lo so, ma non potrai essere mai quel che sono io; quel che sei tu può esserlo il primo che capita!». Marziale si avvicina all'uomo con un sorriso malizioso e spesso sfrontato ma sempre terribilmente spassoso, divertito e assai comprensivo dell'andazzo della vita e del destino che sa essere cinico e barbaro con chiunque: il grande Marziale mira a colpire il vizio e non l'individuo ben identificato con nome e cognome, tende a fotografare il peccato e non il peccatore. L’uomo così com'è veramente, con la sua umanità e la sua crudeltà, soprattutto con i suoi vizi, con le vanità e le manie, le sue debolezze e i suoi istinti. Con molta sincerità e con vanto Marziale dirà che la sua pagina «non conosce né Centauri,né Arpìe, ma solo l'uomo: hominem pagina nostra sapit». Ma com'era la vita a Roma al tempo di Marziale? La storia non la fanno solo gli imperatori o i condottieri con le loro guerre o i grandi uomini della politica con le manovre e le congiure: la storia contribuiscono a farla tutti e molte volte un grande evento o una svolta epocale hanno inizio proprio dai mutamenti della società dei quali solo pochi protagonisti si fanno interpreti. Quella moltitudine romana con la sua vita di ogni giorno è la fotografia fedele di un'epoca dalle nefandezze alla grandezza ed è questa l'umanità che Marziale fisserà nei suoi epigrammi. La grande Roma, caput mundi, dominatrice del mondo, era in realtà una città rumorosa, tumultuosa e contraddittoria: luogo di speculazioni indescrivibili, centro pulsante di vizi e stranezze incredibili, luminosa e sordida, "cenciosa e grandiosa al tempo stesso". Andar per Roma non era certo facile né agevole: il continuo via vai dei carri per il trasporto delle merci, le schiere di servi e cocchieri che accompagnavano i ricchi e i potenti creavano un caos indescrivibile fino a che si arrivò persino a stabilire che i carri per trasporto potessero circolare solo nelle ore notturne. Fu così che Roma al calare delle tenebre divenne assai rumorosa, illuminata dalle fiaccole e invasa dalle imprecazioni e dalle liti continue dei carrettieri, dei bottegai e dei malfattori: in molte strade di Roma era ben difficile dormire e lo stesso Marziale aveva scritto in un triste dicembre del 95 d.c.: «Roma, grazia per un cortigiano affaticato, per un affaticato cliente. Quanto tempo ancora portando saluti fra togatucci e battistrada correrò tutto il giorno per una manciata di soldi? ...Io per prezzo dei miei libri non vorrei le campagne di Puglia: né il Nilo ricco di messi né l'uva squisita. Mi chiedi che cosa voglio? dormire!». Marziale che aveva una piccola casa sul Quirinale, dove abitava in un terzo piano rumoroso ed affollato, ormai non riusciva più a dormire con tutto quel frastuono che spesso lo rendeva irrequieto dopo notti insonni: «Il povero non può né pensare né dormire in Roma. Oh si dorme bene in Roma, ma nelle case dei grandi signori che hanno le campagne e le vigne nel mezzo della città. Là, negl'intimi recessi dei palazzi, è il sonno: nessuna voce turba i silenzi e il giorno non entra se non quando è voluto. A me pure le risate della gente che passa rompono il sonno e tutta Roma è al mio capezzale». E Roma era proprio così: per pochi fortunati era una festa continua, una baldoria sfrenata, mentre per molti era un affaccendarsi continuo. Altri ancora preferivano dedicarsi ad affari più redditizi come i tenutari dei bordelli che in Roma trovavano terreno fertile o come la moltitudine di ruffiani e delatori. In quel tempo «esser povero non era più, o soltanto, la peggiore ignominia né il peggior delitto, ma l'unico». Tutto poteva essere perdonato se la tasca era ben fornita ma la miseria non si perdonava a nessuno. Allo stesso modo poteva esser facile fare qualche soldo grazie alla fortuna perché bastava andare a genio a qualche potente o famiglia illustre per sistemarsi per qualche tempo sempre che il destino tenesse lontano le sventure. Anche il giovane Marco Valerio Marziale, dal tranquillo borgo spagnolo di Bilbili venne a Roma in cerca di fortuna e, poco più che ventenne, per sbarcare il lunario dovette adattarsi all'umile condizione del cliente sempre incerto del domani e sempre pronto a scroccare una cena o a chieder soldi. Famosi alcuni epigrammi a tale riguardo: «O Massimo, ti scrocco, me ne vergogno ma te la scrocco, la cena; e tu poi ne scrocchi un'altra: ormai dunque siamo pari... Mi basta essere servo, non voglio essere un viceservo. Chi sta sopra, non deve, o Massimo, avere chi gli sia superiore" ». Un letterato, specie un poeta, non aveva allora altra risorsa per vivere che la liberalità dei ricchi o la protezione di qualche amico potente ed influente: il merito poetico, la fama, la rinomanza non fruttavano che applausi, e se anche l'opera aveva molti lettori, chi guadagnava era soprattutto il libraio. Nel cuore aveva molte speranze anche perchè la fortuna aveva già baciato altri prima di lui come ad esempio Seneca. Tanti onori ma poche opere di bene perchè a Marziale ben poco servivano le onorificenze e i titoli se poi si trovava senza un soldo in tasca: cambiavano i protettori ma la sua vita era sempre contrassegnata da un continua lotta non più per la gloria che ormai aveva conquistato ma per potersi dire poeta famoso e benestante: il merito poetico non mosse mai a compassione nessuno. Come poeta usufruì certamente di riguardi e di favori, spesso dell'appoggio di amicizie influenti e la sua condizione non fu certo così priva di ogni diletto come può apparire dai suoi versi tuttavia si avverte spesso una continua aspirazione ad una piena indipendenza e alla tranquillità come a rispecchiare in lui la figura di un poeta ormai famoso eppur agitato ed afflitto dall'ingiustizia della vita In un famoso epigramma Marziale descrive il suo ideale di poeta: «Vuoi la ricetta per vivere felice? Una sostanza avita, non procuratasi con il sudore della fronte, un campo fertile, un focolare sempre acceso, animo sereno, salute fisica, saggia semplicità, conversazione affabile, notti senza incubi, essere ciò che sei e non preferire nulla di più, alla fine nè temere nè bramare l'ultimo giorno». Questa ricetta di vita fu irrealizzabile per il povero Marziale che si trovò al contrario a dover chiedere e molte volte non ottenere niente. Marziale è spesso un po' accattone e fannullone: in alcuni momenti smarrisce la sua dignità ma solo perchè non sente altra necessità che quella di alimentare la sua arte nei confronti della quale è capace di sacrificarsi totalmente. È vero: chiedeva ai suoi protettori sovvenzioni e regalie ma era l'unica cosa che gli restasse da fare per sopravvivere e d'altronde non aveva allora altra risorsa per vivere. Del resto un uomo come Marziale, a cui non mancavano l'ingegno e la cultura, e neppure il favore di alcuni imperatori, poteva tentare con facilità e con buona fortuna di acquisire ricchezze con i mezzi delle pubbliche denuncie cosa che del resto avevano già fatto numerosi letterati ed oratori famosi: ma Marziale preferì fare il "poeta mendicante" anziché accusare perchè in lui l'amore del «vivere comodamente» non era più forte che quello di «vivere rettamente». Questo "poeta cliente" che gironzolava notte e giorno per la città imperiale e conosceva le fastosità e i freddi splendori dei palazzi e delle ville signorili; e poi nei suoi epigrammi descriveva la vita quotidiana in una città rumorosa e tumultuosa dove regnavano sudici banconi dei bottegai e schiamazzi che non lo facevano dormire nella sua modesta dimora: non sono altro che la testimonianza di una profonda conoscenza della vita che può offrire tutto e niente. La conoscenza profonda del suo tempo, il sentimento morale che pervade diversi epigrammi, l'intuizione e la spontaneità di espressione possono essere definite le caratteristiche originali della poesia di Marziale che assumerà di volta in volta toni più o meno lirici a seconda dei temi trattati. Il suo carattere non fu certo facile nè costante, ebbe molte amicizie ma in fondo non divenne intimo di alcuno, si interessò a tutto e a tutti ma in definitiva non si legò mai ad alcuno; sospirò l'amore ma non ebbe una famiglia se non per sposarsi forse per interesse ed ottenere un privilegio imperiale; a Roma rimpianse la sua terra natale di Bilbili e quando vi ritornò, sognò Roma, l'unica vera ispiratrice della sua poesia. Da Epigrammi XI ,44 <<Ricco sei e solo vivi, tu nato sotto il consolato di Bruto: credi che gli amici tuoi sian sinceri? Furon sinceri quelli che tu avevi da giovane e da povero: ora ogni nuovo amico desidera soltanto che tu muoia>>. Da Epigrammi V, 81 <<Se povero sei, Emiliano, tu sempre povero sarai. Ora soltanto ai ricchi si danno le ricchezze>>. Eccessivo desiderio di non spendere L'avarizia è la scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede. Cosa è stato detto dell’avarizia: L'avarizia comincia dove finisce la povertà. Balzac Cos'e' l'avarizia? E' un continuo vivere in miseria per paura della miseria. San Bernardo Alla povertà mancano molte cose, all'avarizia tutte. Publilio Siro Gli uomini odiano coloro che chiamano avari solo perchè non ne possono cavare nulla. Voltaire C’è una parabola di Gesù che parla di un uomo che aveva passato l’intera sua vita ad accumulare tesori. Questo mi fa venire in mente un personaggio di Walt Disney: lo zio Paperone. Ve ne ricordate? Quel vecchio, avido ed avaro, che accumulava tutti i suoi soldi in un’enorme forziere straboccante e ben custodito. Non erano soldi da spendere, guai, solo da accumulare! E lo zio Paperone viveva come un poveraccio, risparmiando ogni centesimo e lanciando tuoni e fulmini contro lo spendaccione nipote Paperino… Lo zio Paperone, un personaggio per ridere, riprende però quello inventato dallo scrittore Charles Dickens, lo zio Scrooge, nel “Racconto di Natale”. Written in 1843 by Charles Dickens it is considered the most important of the Books of Christmas. The Christmas Carol contains the history of the conversion of the miser Ebezener Scrooge, profiteer without scruples of the City that despise the religion, the family and God because they don't make him earn money. He doesn't do charity, and he reduces his employee to the hunger. This brings him to neglect the friends and the family living in loneliness with his own egoism. To save him from the damnation that it attends him after the death, the ghost of Jacob Marley, once his partner in business shows to him the hell to which has brought his egoism: to be saved himself Scrooge will owe to receive the visit of three ghosts, the Spirit of the Christmas of the Past, the Spirit of the Christmas of the Present and that some future. They will drag him in a trip in the time and in the space in which Scrooge will see what it waits for him again if it won't change his behaviour : a headstone with his name above. Very worried, the miser rediscovers a new life, mending the blames salesclerks and finding again the peace for his soul. The history wants to be a reflection on the great poverty and the juvenile exploitation of which same Dickens had experience in his infancy, when his parents sent him to work in a factory of polish for shoes to repay the debts of his father. << Lento, grave, silenzioso, s'accostò il fantasma. Scrooge, in vederselo davanti, cadde in ginocchio, perché in verità questo degli Spiriti era circonfuso di ombra e di mistero. Un nero paludamento lo avvolgeva tutto, nascondendogli il capo, la faccia, ogni forma: solo una mano distesa sporgeva. Senza di ciò, sarebbe stato difficile discernere la cupa figura dalla notte, separarla dalle tenebre che la stringevano. Sentì Scrooge che lo Spirito era alto e forte, sentì che la misteriosa presenza gl'incuteva un terrore solenne. Non sapeva altro, perché lo Spirito era muto e immobile. - Sono io in presenza dello Spirito di Natale futuro? - chiese Scrooge. Non rispose lo Spirito, e solo accennò con la mano. - Tu mi mostrerai le ombre delle cose non accadute, ma che accadranno nel tempo che ci aspetta, - proseguì Scrooge. - Dico bene, Spirito? La parte superiore del paludamento si aggruppò un momento nelle sue pieghe, come se lo Spirito avesse inclinato il capo. Fu questa l'unica sua risposta. Benché oramai assuefatto a cotesta compagnia dell'altro mondo, Scrooge avea tanta paura di quell'ombra taciturna da non reggersi in gambe quando si trattò di seguirla. Lo Spirito, quasi accorto di quel tremore, sostò un momento per dargli tempo di riaversi. Ma il rimedio fu peggio del male. Scrooge fu preso da un brivido di vago terrore, pensando che di dietro al fosco paludamento due occhi spettrali intentamente lo fissavano, mentre egli, per quanto aguzzasse i propri, non poteva altro vedere che una scarna mano sporgente da un gran viluppo di nerume. - Spirito del futuro! - egli esclamò, - io ho più paura di te che di ogni altro Spirito veduto innanzi. Ma, poiché so che l'intenzione tua è di farmi del bene, e poiché spero di mutar vita, se Dio mi dà vita, eccomi disposto a tenerti compagnia e con animo grato, anche. Non vorrai tu essermi cortese di una parola? Nessuna risposta. La mano accennava diritto in avanti. - Ebbene, guidami! - disse Scrooge. - Guidami! La notte declina, e il tempo è per me prezioso, lo sento. Guidami, Spirito! Il Fantasma si mosse lento e grave com'era venuto. Scrooge lo seguì come avvolto nell'ombra del paludamento e in quella si sentì portato via. Non si può dire che entrassero in città; parve invece che questa balzasse fuori di botto e li circondasse. Vi si trovavano dentro, proprio nel cuore; alla borsa, fra i negozianti. E questi andavano su e giù frettolosi, e faceano tintinnare i denari in tasca, e discorrevano a capannelli, e cavavano fuori gli orologi, e si gingillavano in atto pensoso e co' grossi sigilli d'oro della catena. Così tante volte gli aveva visti Scrooge. Lo Spirito si arrestò presso un gruppo di uomini d'affari. Osservando la mano che gli additava, Scrooge si avanzò per udire i loro discorsi. - No - diceva un omaccione grasso con tanto di pappagorgia - non ne so gran cosa. Questo so che è morto. - Quand'è ch'è morto? - domandò un altro. - Iersera, credo. - O di che? - chiese un terzo, pescando largamente in un'ampia tabacchiera. - Mi pareva a me che non dovesse morir mai. - Dio lo sa, - sbadigliò il primo. - Che ne ha fatto dei suoi danari? - domandò un signore dal viso rubicondo con una escrescenza pendula in punta del naso, la quale tremolava come i bargigli d'un tacchino. - Non ne ho inteso dir niente, - rispose l'uomo dalla pappagorgia in un secondo sbadiglio. L'avrà lasciati alla sua Ditta. A me, no di certo. Questo è quanto so. Una risata generale accolse questa facezia. - Ha da essere un magro funerale, - soggiunse quello stesso; - perché non so davvero di nessuno che ci vada. Che direste se ci andassimo tutti noi, da volontari? - Se c'è da rifocillarsi, non dico di no, - osservò il signore dall'escrescenza. - Se ci vengo, mi s'ha da nudrire. Altra risata. - Bè, - disse il primo, - io sono il più disinteressato fra tutti voi, perché non porto mai guanti neri e non fo mai colazione. Eppure eccomi pronto ad andare, se c'è altri che mi faccia compagnia. Quando ci penso, mi pare e non mi pare di essere stato il suo amico più intrinseco; dovunque ci si vedeva, si barattavano quattro chiacchiere. Addio, addio! Il gruppo si sciolse si mescolò ad altri gruppi. Scrooge li conosceva tutti, e si volse allo Spirito per avere una spiegazione. Il Fantasma passò oltre in una via. Segnò, col dito disteso, due persone che s'incontravano. Di nuovo Scrooge porse ascolto, pensando di trovar qui la spiegazione domandata. Anche questi uomini gli erano noti: uomini d'affari, ricchissimi, di gran conto. S'era studiato sempre di guadagnarsi la loro stima: beninteso, una stima commerciale, nient'altro. - Come si va? - chiese uno. - E voi? - ribatté l'altro. - Non c'è malaccio. Pare che il vecchio lesina abbia avuto il suo conto alla fine, eh? - Così ho inteso dire. Fa freddo, non vi pare? - Siamo a Natale, capite. Voi non siete pattinatore, eh? - No, no! Ho ben altro pel capo. Buon giorno! Non altro. Questo il loro incontro, il colloquio, il commiato. Scrooge avrebbe quasi stupito che lo Spirito desse tanto peso a così futili discorsi; ma per un'intima certezza che qualche intento nascosto ci avea da essere, si diè a pensarci sopra. Non si poteva supporre che quei discorsi si riferissero alla morte di Giacobbe, il suo vecchio socio, perché quella apparteneva al Passato, e i dominio di questo Spirito era tutto nel Futuro. Né gli veniva in mente altra persona che gli appartenesse. Ma non dubitando punto che, a chiunque si riferissero, quei discorsi aveano una moralità latente diretta al proprio bene, ei risolvette di far tesoro di ogni parola che udisse e di ogni cosa che vedesse; e specialmente di osservare la propria ombra, quando sarebbe comparsa. Poiché, pensava, la condotta del suo io di là da venire lo avrebbe messo sulla buona via, agevolandogli la soluzione di quegli indovinelli. Si guardò attorno per trovar sé stesso; ma un altro occupava il noto cantuccio, e benché l'orologio segnasse l'ora solita del suo arrivo, non vide alcuno che gli somigliasse in mezzo alla folla che si pigiava all'entrata. Non ne stupì molto però; perché era andato rivolgendo dentro di sé un mutamento di vita e pensava e sperava che questa sua assenza fosse una prova dei novelli propositi recati in atto. Muto e fosco gli stava sempre allato il Fantasma con la mano protesa. Quando ei si riscosse, argomentò, dalla direzione della mano e dalla posizione del Fantasma stesso rispetto a sé, che gli occhi invisibili acutamente lo scrutassero. N'ebbe un brivido per tutta la persona. Si tolsero dalla scena affaccendata e vennero in una oscura parte della città, dove Scrooge non era mai penetrato, benché subito ne riconoscesse la postura e la mala fama. Le vie erano anguste e sudicie; misere le botteghe e le case; la gente seminuda, ubriaca, sciatta, brutta. Androni e chiassuoli, come tante fogne, rigurgitavano sulle vie intricate l'oltraggio del lezzo, dell'immondizia, degli esseri viventi; e tutto il quartiere esalava il delitto, il sudiciume, la miseria. In fondo a cotesta spelonca infame, sotto l'aggetto di una tettoia, aprivasi una bottega lurida e bassa, dove s'andava a comprare cenci, ferri, bottiglie, untume di rimasugli. Dentro, sull'impiantito, erano ammontati chiodi, uncini, chiavi rugginose, catene, lime, bilance, pesi, ferri vecchi d'ogni maniera. Ascondevansi forse e brulicavano segreti che non era bello approfondire in quella montagna di cenci nauseabondi, di grasso corrotto, di ossami. Un vecchio furfante sulla settantina, grigio di capelli, se ne stava a sedere in mezzo a coteste sue mercanzie, presso una stufa di vecchi mattoni. Difeso dall'aria fredda di fuori mediante un sudiciume di tenda fatta di tante pezze spaiate, sospese a una corda, s'andava fumando la sua pipa con tutta la voluttà di una solitudine indisturbata. Scrooge e il Fantasma vennero in presenza di costui nel punto stesso che una donna con un grosso fardello sgusciava nella bottega. E subito dopo di lei, un'altra donna entrò, carica allo stesso modo; e le tenne dietro un uomo vestito di nero rossiccio, il quale non meno stupì in vederle tutt'e due ch'esse non avessero fatto riconoscendosi a vicenda. Dopo un momento di muto stupore, al quale si unì il vecchio della pipa, tutt'e tre dettero in una gran risata. - Passi avanti la giornaliera! - gridò la donna ch'era entrata per la prima. - Poi venga la lavandaia; poi l'appaltatore delle pompe funebri. Vedi un po' che bazza, vecchio Joe! Pare che ci siamo dato la posta, pare! - Non vi potevate incontrare in un posto migliore, - disse il vecchio Joe, togliendosi la pipa di bocca. - Venite in salotto. Ci siete da un pezzo come a casa vostra; e gli altri due non son mica forestieri. Lasciate che chiuda la porta della bottega. Ah, come stride! sfido a trovar qui dentro una sferra più rugginosa di questi arpionacci o delle ossa più vecchie delle mie.. Ah, ah! Siamo in armonia del mestiere, capite, siamo bene assortiti. Venite in salotto. Venite in salotto. Il salotto era lo spazio difeso dalla tenda di stracci. Il vecchio rattizzò il fuoco con un ferro rugginoso di ringhiera, e smoccolato che ebbe la lucerna fumosa (perché già era notte) col cannello della pipa, si pose questo di nuovo fra le labbra. Nel frattempo, la donna che avea già parlato gettò il suo fagotto per terra e sedette sopra uno sgabello, incrociando i gomiti sulle ginocchia e squadrando con mal piglio gli altri due. - O che m'avete da dire, signora Dilber, sentiamo un po'! - disse la donna. - Ognuno ha il diritto di guardare ai suoi interessi. Anche lui non ha fatto altro, voi lo sapete! - Altro se lo so! - rispose la lavandaia. - Nessuno lo passava per questo. - E allora, che è che mi fate cotesti occhiacci, come se aveste paura? Non c'è mica da scoprire altarini, qui! - No, davvero! - dissero insieme la signora Dilber e l'uomo. - Speriamo di no, almeno. - Bravi dunque! - esclamò la donna, - e non se ne parli altro. Chi è che ce lo perde questo po' di roba? Nessuno, a meno che non sia il morto. - Avete ragione, - approvò ridendo la signora Dilber. - S'ei se la voleva serbare anche dopo morto, quel vecchio lesina, perché non ha vissuto come tutti gli altri? Se avesse fatto così, qualcuno gli sarebbe stato vicino quando la morte se lo ha pigliato, e non avrebbe bocchieggiato nella sua topaia solo come un cane. - È proprio la parola della verità. Questo gli toccava, nient'altro. - E gli avrebbe avuto a toccar peggio, parola d'onore, e così avessi potuto io metter le mani su qualche altra cosa. Aprite quel fagotto, Joe, e prezzatelo. Parlate chiaro. Non ho mica paura io d'esser la prima e tanto meno ch'essi lo vedano. Anche prima di trovarci qua, si sapeva un pochino, mi pare, che i nostri affarucci li facevamo. Niente di male. Aprite il fagotto, Joe. Ma la galanteria dei colleghi si oppose a questo, e l'uomo vestito di nero rossiccio, montando pel primo sulla breccia, profferse il suo bottino. Non era gran che. Un par di sigilli, un astuccio da matita, due bottoni di camicia e una spilla di poco valore. Il vecchio Joe esaminò ed apprezzò ad uno ad uno gli oggetti, scrisse sul muro con un pezzo di gesso le somme ch'era disposto a sborsare, e visto che non c'era altro, tirò la somma. - Ecco il vostro conto, - disse, - e non darei niente niente di più, mi avessero anche ad arrostire. Chi viene appresso? - Veniva appresso la signora Dilber. Lenzuola e tovaglie, un abito, due cucchiaini d'argento antiquati, un par di pinzette per lo zucchero e qualche stivale. Il secondo conteggio fu fatto sul muro come il primo. - Con le signore, - disse il vecchio Joe, - sono sempre largo di mano. È una mia debolezza, e gli è così che mi rovino. Eccovi il vostro conto. Se non siete contenta e volete mercanteggiare, mi pentirò di essere stato così liberale e vi farò invece una sottrazione. - Ed ora, Joe, - disse l'altra donna, - disfate il mio fagotto. Joe si pose ginocchioni per star più comodo e dopo aver sciolti un arruffio di nodi, tirò fuori un involto grosso e pesante di stoffa scura. - O che è questo? - disse. - Un cortinaggio! - Ah! - rispose ridendo la donna sporgendosi sulle braccia incrociate. - Un cortinaggio! - Non mi darete mica ad intendere, che lo abbiate tirato giù, anelli e ogni cosa, mentre il morto stava lì, sul letto! - Sì davvero. E perché no? - Brava, - disse Joe, - voi siete nata per far fortuna, e vi dico che la farete. - Certo, - rispose freddamente la donna, - quando me ne verrà il destro, non me ne starò con le mani in mano, per riguardo a un omaccio come quello lì. No, Joe, parola d'onore. E adesso non mi fate sgocciolar l'olio sulle coperte. - Anche sue? - domandò Joe. - O di chi volete che siano? - ribatté la donna. - Non c'è paura che pigli un'infreddatura, no. - Spero che non sia morto di male contagioso, eh? - disse Joe, fermandosi in tronco e alzando gli occhi. - Niente paura, - rispose la donna. - Se mai, non mi struggevo poi tanto della sua compagnia da stargli intorno per questi stracci. Ah! fatevi pure a guardarla cotesta camicia, che non ci troverete né un buco né niente niente di logoro. Era la migliore che avesse, ed è anche fine. Se non c'ero io, l'avrebbero sciupata. - Sciupata? - domandò il vecchio Joe. - Già, - rispose la donna ridendo, - gliel'avrebbero messa indosso per sepellirlo. E c'è stato non so che balordo che così avea fatto! ma io gliel'ho cavata di nuovo. È anche troppo lusso il cotone per involtarvi un morto. Più brutto di quanto era con questa indosso, non potrà parere di certo. Scrooge ascoltava questo dialogo inorridendo. Li vedeva aggruppati intorno al loro bottino, alla povera luce d'una lucerna, e gliene veniva un odio, una nausea, come al cospetto di osceni demoni che mercanteggiassero lo stesso cadavere. - Ah, ah! - ridacchiò la stessa donna, quando il vecchio Joe, cavando un sacchetto di flanella pieno di denari contò a ciascuno per terra la sua parte. - Qui sta il bello, vedete! Ha fatto paura a tutti quando era vivo, proprio per farci guadagnar noi da morto. Ah, ah, ah! - Spirito! - disse Scrooge, tremando da capo a piedi. - Vedo, vedo. Cotesto sciagurato potrei essere io. A questo mi mena la mia vita di adesso... Dio di misericordia, che cosa è questa! - Indietreggiò dal terrore, perché la scena era mutata ed ei toccava quasi un letto, un letto nudo, senza cortinaggio, sul quale, sotto un lenzuolo sdrucito, giaceva qualche cosa d'avviluppato, il cui silenzio stesso parlava terribilmente. La camera era buia, tanto buia da non potere osservare intorno con accuratezza, benché Scrooge aguzzasse gli occhi obbedendo a un impulso segreto che lo rendeva ansioso di sapere in che sorta di camera si trovasse. Una luce scialba, venendo di fuori, mandò un raggio su quel letto: e su questo, spogliato, rubato, solo, trascurato, senza pianto, giaceva il corpo di quell'uomo. Scrooge volse un'occhiata al Fantasma. La rigida mano accennava al capo del morto. Il lenzuolo era così male aggiustato che col menomo tocco d'un dito Scrooge avrebbe potuto scoprire quella faccia. Vi pensò, ne vide l'agevolezza, se ne struggeva; ma non avea maggior potere di rimuovere quel velo che di allontanare da sé lo Spettro silenzioso. Oh! fredda, rigida, spaventevole Morte! rizza qui il tuo altare, vestilo di tutti i tuoi terrori. Qui davvero è il tuo regno! Ma se quel capo fosse amato, riverito, onorato, non un capello ne potresti strappare pei tuoi biechi disegni, non un tratto del viso rendere odioso. Non è già che quella mano non sia grave e che non ricada abbandonata; non è già che il cuore e il polso non battano; ma quella mano era aperta, generosa, leale; ma quel cuore era bravo, caldo, affettuoso; ma quel polso era di un uomo. Colpisci, Ombra, colpisci pure! schizzeranno dalla ferita le sue buone azioni e si spargeranno pel mondo come semi di vita immortale! Nessuna voce pronunciò queste parole all'orecchio di Scrooge, eppure egli le udì mentre guardava a quel letto. Se quest'uomo rivivesse, ei pensava, quali cure lo assorbirebbero? L'avarizia, la crudeltà, l'ingordigia? Una bella ricchezza gli hanno guadagnato, davvero! Giaceva, nella cassa buia e deserta, senza che una voce di donna, di uomo, di bambino dicesse: "Egli fu buono per me in questa cosa o in quella, e per la memoria che ne serbo io sarò buono per lui". Un gatto raspava alla porta e sotto le pietre del caminetto si udiva un rosicchiar di topi. Che cosa cercassero nella camera della morte e perché fossero così irrequieti, Scrooge non osò pensare. - Spirito! - disse, - questo luogo è orrido. Uscendone, non m'uscirà di mente la sua terribile lezione, credimi. Andiamo via! Sempre, col rigido dito, lo Spirito accennava al capo del morto. - Intendo, - rispose Scrooge, - e ti ubbidirei anche, se potessi. Ma non ne ho la forza, Spirito, non ne ho la forza. Di nuovo parve che lo Spirito lo guardasse. - Se c'è qualcuno nella città, che pianga la morte di quest'uomo, - disse Scrooge al sommo dell'angoscia, - mostramelo, Spirito, te ne scongiuro! Il Fantasma distese un momento la scura veste davanti a lui come un'ala; e ritraendola scoprì una stanza rischiarata dalla luce del giorno, dov'erano una madre co' suoi bambini. Ella aspettava ansiosa qualcuno; andava su e giù per la stanza; trasaliva ad ogni rumore; si spenzolava dalla finestra; guardava all'orologio; si provava invano a lavorare di ago; sopportava a stento le voci dei bambini che facevano il chiasso. S'udì alla fine la bussata lungamente attesa. Ella corse incontro al marito; un uomo dal viso emaciato e triste, benché giovane ancora. Vi si notava ora una singolare espressione; una specie di soddisfazione malinconica, della quale si vergognava e che studiavasi di reprimere. Sedette pel desinare che era stato tenuto in caldo presso i fuoco; e quando la donna, dopo un lungo silenzio, gli domandò timidamente che notizie portava, ei parve impacciato a rispondere. - Sono buone o cattive? - disse ella, per aiutarlo. - Cattive, - rispose. - Siamo rovinati affatto? - No. C'è speranza, Carolina. - S'egli si è commosso, - disse la moglie tutta sorpresa, - allora sì! Tutto si può sperare, se è accaduto un miracolo come questo. - Oramai, - rispose il marito, - non si può più commuovere. È morto. Se il viso diceva il vero, ella era una creatura mite e prudente; e nondimeno, udendo quella nuova, strinse insieme le mani, ringraziando il cielo. Ne domandò subito perdono e fu dolente della disgrazia; ma il primo movimento era stato del cuore. - Adesso si trova tutto vero quel che mi disse quella donna mezzo brilla, di cui t'ho parlato ieri, quando feci per vederlo e per ottenere la dilazione di una settimana. Io mi figuravo che fosse una scusa. Non solo stava molto male, ma era a dirittura moribondo. - A chi sarà trasferito il nostro debito? - Non so. Ma prima d'allora, il danaro sarà pronto; e se mai, non avremo la mala sorte d'inciampare in un creditore spietato come lui. Stanotte possiamo dormire col capo fra due guanciali, Carolina! Sì. Comunque temperassero la cosa, i loro cuori erano più leggieri. I visini dei bambini, che si stringevano loro intorno per udire quel che così poco capivano, brillavano più del solito; e tutta la casa, per la morte di quell'uomo, era più felice! L'unica emozione che lo Spirito gli potesse mostrare come effetto di quell'evento, era di piacere. - Lasciami vedere qualche scena di tenerezza che si leghi all'idea della morte, - disse Scrooge; - se no, Spirito, quella buia camera testé lasciata mi sarà sempre davanti. Lo Spirito lo menò per varie vie che gli erano familiari; e via facendo, Scrooge guardava di qua e di là per trovare sé stesso, ma in nessun posto vedevasi. Entrarono nella casetta, già prima visitata, del povero Bob Cratchit, e vi trovarono la mamma e i figliuoli raccolti intorno al fuoco. Erano tranquilli, molto tranquilli. I rumorosi piccoli Cratchit se ne stavano a sedere in un cantuccio, muti come statue, e guardando a Pietro che leggeva in un libro. La mamma e le figliuole attendevano a cucire. Ma erano molto tranquilli tutti, molto tranquilli! - "Ed egli prese un bambino e lo mise in mezzo a loro." Dove aveva udito queste parole Scrooge? Non le aveva già sognate. Il ragazzo avea dovuto leggerle ad alta voce, mentre egli e lo Spirito varcavano la soglia. E perché non andava avanti? La mamma posò il lavoro sulla tavola e si coprì la faccia con le mani. - Il colore, - disse, - mi fa male agli occhi. Il colore? Ah, povero Tiny Tim! - Adesso stanno meglio, - disse la moglie di Cratchit. - Si vede che il lume della candela stanca la vista; e per nulla al mondo voglio far vedere a vostro padre, quando torna, che ho gli occhi affaticati. Dev'essere vicino a tornare. - È anzi passata l'ora, - rispose Pietro chiudendo il libro. - Se non sbaglio, mamma, da qualche sera in qua mi par che il babbo cammini meno svelto del solito. Da capo tornarono a star tranquilli. Finalmente ella disse, con voce forte e allegra, che un sol momento tremò: - Mi ricordo quando camminava portando in collo... mi ricordo quando camminava portando in collo Tiny Tim, e andava svelto davvero. - Anch'io me ne ricordo, - esclamò Pietro. - Spesso. - E io pure! - venne su un altro. Tutti se ne ricordavano. - Gli è che il bambino era leggiero, - riprese ella, tutta china sul lavoro, - e il babbo gli voleva tanto bene che non gli dava niente fastidio: niente. Ah, eccolo! Corse ad incontrarlo; e Bob, col suo fazzoletto al collo - ne aveva bisogno, poveraccio! - entrò. Il thè lo aspettava accanto al fuoco, e tutti fecero a gara per servirglielo. Poi i due piccoli Cratchit gli montarono sulle ginocchia, e gli posarono le piccole guance di qua e di là sul viso, come per dire: "Via, babbo, non ci pensare, non t'affliggere!" Bob era allegro con loro e parlò in tono gaio a tutta la famiglia. Guardò il lavoro sulla tavola e lodò la bravura e la sollecitudine della signora Cratchit e delle ragazze. Avrebbero terminato molto prima di domenica, disse. - Domenica! - esclamò la moglie. - Sicché, ci sei andato oggi? - Sì, cara, - rispose Bob. - Ti ci avrei voluta anche te. Ti avrebbe fatto del bene di vedere tutto quel verde. Ma ci andrai spesso. Gli avevo promesso che di Domenica ci avrei fatto una passeggiatina. Caro piccino! caro caro piccino! Ruppe in pianti ad un tratto. Non si poté tenere. Se avesse potuto, non avrebbe forse sentito così vicino il suo figlioletto come se lo sentiva. Lasciò la stanza e andò nella cameretta di sopra, che era tutta illuminata e ornata di ghirlande di Natale. C'era una sedia accanto al letto del bambino, e si vedeva a più segni che qualcuno c'era stato di fresco. Il povero Bob vi sedette, e quando si fu alquanto raccolto e calmato, baciò quel caro visino. Allora si rassegnò a quanto era accaduto, e tornò da basso del tutto felice. Si raccolsero intorno al fuoco a discorrere; la mamma e le ragazze lavoravano sempre. Bob narrò loro della straordinaria bontà del nipote del signor Scrooge, che appena una volta avea visto, e che incontrandolo per via e vedutolo un pochino... "un pochino giù, vedete" disse Bob, gli avea domandato che dispiacere avesse. "Al che" disse Bob "visto ch'egli è la persona più affabile del mondo, gli dissi la cosa. - Me ne duole assai, signor Cratchit, disse lui, e anche per la vostra buona signora. - A proposito, come abbia fatto a saper questo, non lo so davvero. - A saper che cosa? - Che tu sei una buona moglie. - Tutti lo sanno! - disse Pietro. - Bravo ragazzo, ben detto! - esclamò Bob. - Lo spero bene. "Mi duole assai, dice, per la vostra buona signora. Se in qualunque modo posso esservi utile, dice dandomi il suo biglietto, eccovi l'indirizzo di casa. Dirigetevi a me, ve ne prego." Ora capisci, esclamò Bob, non era già pei favori che ci potea rendere, ma quella sua affabilità facea veramente piacere. Pareva proprio che avesse conosciuto il nostro Tiny Tim, e partecipasse al nostro dolore. - Ha un buon cuore, questo è certo, - disse la signora Cratchit. - Ne saresti certissima se lo vedessi e gli parlassi, - rispose Bob. - Non mi farebbe nessuna meraviglia, vedi, s'ei trovasse a Pietro un posto migliore. - Senti, Pietro, senti? - disse la madre. - E allora, - esclamò una delle ragazze, - Pietro s'accasa e si stabilisce per conto suo. - Eh via! - ribatté Pietro con una smorfia. - Prima o dopo, - disse Bob, - può anche darsi, benché ci sia tempo a pensarci sopra, figliuolo mio. Ma, comunque la cosa vada, io son sicuro che nessuno di noi dimenticherà mai il povero Tiny Tim, no, non è vero? e nemmeno questa prima separazione in famiglia. - Mai, babbo, mai! - gridarono tutti ad una voce. - E io so pure - disse Bob, - io so, cari miei, che quando ci ricorderemo com'egli fosse buono e paziente, benché così piccino, non ci lasceremo andare a questionar fra di noi, se no sarebbe lo stesso che scordarci di quel poveretto. - No, babbo, mai! - di nuovo esclamarono tutti. - Sono contento, - disse Bob, - oh, sono contento! La moglie lo baciò e così fecero le figliuole e i due ragazzi. Con Pietro si dettero una forte stretta di mano. Anima di Tiny Tim, la tua essenza infantile veniva da Dio! - Spirito - disse Scrooge, - sento non so come, che il momento della nostra separazione è prossimo. Dimmi, chi era quell'uomo che abbiamo visto disteso sul letto di morte? Lo Spirito di Natale di là da venire lo trasportò come prima - benché in un tempo diverso; e in verità queste ultime visioni non erano ordinate e soltanto apparivano tutte nel futuro - nelle vie frequentate dagli uomini d'affari, ma non gli mostrò l'altro sé stesso. Non si fermava lo Spirito; correva, correva diritto alla meta designata, finché Scrooge non lo pregò di arrestarsi un momento. - Questo cortile che ora attraversiamo, - disse, - è da molto tempo il centro dei miei affari. Ecco la casa. Lasciami un po' vedere quel che sarò un giorno. Lo Spirito si arrestò; ma la mano sua accennava altrove. - Lì è la casa, - esclamò Scrooge. - Perché mi fai segno da quell'altra parte? Il dito inesorabile stette saldo. Scrooge corse a dare un'occhiata alla finestra del suo banco. Sempre banco era, ma non più il suo. Erano mutati i mobili e la persona seduta in poltrona non gli somigliava. Il Fantasma accennava sempre allo stesso modo. Ei lo raggiunse, e ruminando perché e dove se ne fosse andato, lo accompagnò fino a un cancello di ferro. Prima di entrare, si guardò attorno. Un cimitero. Qui, dunque, lo sciagurato di cui gli sarebbe stato svelato il nome, qui giaceva sottoterra. Un bel posto davvero. Circondato da case, ingombro di erbe e cespugli, una morte anzi che una vita di vegetazione, soffocato dalle molte sepolture, grasso fino alla nausea. Un bel posto davvero! Lo Spirito stette fra le tombe e abbassò il dito segnandone una. Scrooge vi si accostò tremando. Era sempre lo stesso Spirito, ma parve a Scrooge travedere un pensiero nuovo e terribile nella solennità della sua forma. - Prima di accostarmi a quella pietra ove tu accenni, - disse Scrooge, - rispondi a una sola domanda. Son queste le immagini delle cose future o soltanto delle cose possibili? Lo Spirito teneva sempre il dito abbassato verso la tomba vicina. - Le azioni umane adombrano sempre un certo fine, che può diventare inevitabile, se in quelle ci si ostina. Ma se vengono a mutare, muterà anche il fine. Dimmi che così è, dimmelo, in queste scene che mi vai mostrando! Lo Spirito era immobile sempre. Scrooge si trascinò a quella volta, tremando; e seguendo il dito, lesse sulla pietra della tomba negletta il proprio nome: EBENEZER SCROOGE. - Son io, io quell'uomo che giaceva sul letto? - gridò cadendo in ginocchio. Il dito accennò dalla tomba a lui e da lui alla tomba. - No, Spirito! Oh no, no! Il dito non si moveva. - Spirito! - gridò egli abbracciandosi alla sua veste, - ascoltami! Io non son più lo stesso uomo di prima. Io non sarò l'uomo che sarei stato, se non t'avessi seguito. Perché mostrarmi tutto questo, se per me non c'è più speranza? Per la prima volta la mano parve agitarsi. - Buono Spirito, - ei proseguì, sempre prostrato - tu ti commuovi perché sei buono, tu hai pietà di me. Dimmi, assicurami ch'io posso ancora, mutando vita, cangiar queste scene che m'hai mostrate! - La mano tremò di nuovo in atto di conforto. - Io onorerò sempre Natale nel cuore, io ne serberò il culto tutto l'anno. Vivrò nel passato, nel presente e nell'avvenire. Mi parleranno dentro tutti e tre gli Spiriti. Non mi scorderò delle loro lezioni. Oh, dimmi, dimmi che mi sarà dato cancellare lo scritto di questa pietra! Afferrò, nell'angoscia che lo straziava, la mano dello Spirito. Questi cercò divincolarsi dalla stretta, ma Scrooge pregava e teneva forte. Lo Spirito, più forte di lui, lo respinse. Alzando le mani in una estrema preghiera di veder mutato il suo fato, ei notò una trasformazione nella veste e nel cappuccio del Fantasma. Lo Spirito si strinse in sé, si rannicchiò, si rassodò, divenne una colonna di letto >>. il richiamo alla nostra animalità Cosa è stato detto della "gola" Che cos'è: Il peccato di gola coincide con un desiderio d'appagamento immediato del corpo per mezzo di qualche cosa di materiale che provoca compiacimento. É un'irrefrenabilità, un'incapacità di moderarsi nell'assunzione di cibo. Il rapporto col cibo è un problema serio che investe degli aspetti legati all'esistenza. Infatti, siccome il cibo è la prima condizione di esistenza, spetta al cibo e alla gola mettere in scena un tema che non è alimentare, ma profondamente esistenziale, perché va alla radice dell'accettazione o del rifiuto di sé. Più che la ragione è lo stomaco che ci guida. Arsene Ancelot Il miglior condimento del cibo è la fame. Marco Tullio Cicerone L'ingordigia è un rifiuto emotivo: è il segno che qualcosa ci sta divorando. P.De Vries I medici lavorano per conservarci la salute, i cuochi per distruggerla; ma questi ultimi sono più sicuri del fatto loro. Denis Diderot I golosi si scavano la fossa coi denti. Henri Estienne La schiera delle anime dei golosi procede nel sesto girone. L'aspetto di questi penitenti è tale da suscitare in Dante la più profonda compassione: nel volto pallidissimo spiccano, profondamente incavate, le orbite degli occhi, il corpo appare di una magrezza spaventosa, tanto che la pelle, disseccata e squamosa, modella il loro scheletro. Nacque l'11 maggio 1904, a Figueres. Figlio di Salvador Dalí , notaio della città.Venne chiamato Salvador in memoria del fratello morto nell'ottobre 1903, a soli ventuno mesi, il giovane Salvador si identificò subito, in modo esasperato e per certi versi quasi morboso, con il fratello scomparso; si convinse di essere il suo sostituto e questo ebbe notevoli ripercussioni sulla sua personalità.Con l'andare degli anni il disagio si tramutò in ribellione soprattutto a scuola. I coniugi Pichot, artisti e amici di famiglia intuiscono il talento di Dalí. In questo ambiente il giovane conosce il pittore Siegfried Burmann, che regala a Salvador, undicenne, una tavolozza da pittore. Seguì i primi studi nella città natale e all'età di quattordici anni partecipò sia ad una mostra collettiva di artisti locali che e ad una mostra a Barcellona patrocinata dall'Università, nella quale ricevette il premio intitolato al Rettore.Dopo la morte della madre, Salvador andò a studiare a Madrid all'Accademia d'Arte di S.Fernando dove entrò a far parte della Resistenza degli Studenti nella quale conoscerà altri grandi artisti della sua epoca.Negli anni 1924-1925 produsse numerosi ritratti della sorella Anna Maria e in generale esplorò gli stili in uso all'epoca in successive fasi conosciute come 'freudiana' per arrivare ad essere influenzato prima dal cubismo e poi dal surrealismo. Nel 1934 diede vita a sei mostre personali in Europa e negli Stati Uniti. Dopo qualche anno la sua salute cominciò a vacillare portandolo verso una difficile vecchiaia, anche il matrimonio andò in crisi: entrambi malati, Salvador e Gala diventarono intrattabili, angosciati dal pensiero della morte imminente. Dipinse il suo ultimo quadro nel 1983, La coda di rondine.Un incendio nella sua abitazione nel 1984, dove riportò alcune ustioni, lo indusse a traslocare nelle stanze della Torre Galatea, edificio collegato al Teatro-Museo e qui rimase, praticamente in reclusione, fino alla morte il 23 gennaio 1989 per colpo apoplettico. Il corpo fu imbalsamato e sepolto nel suo museo a Figueras. Attività artistica Agli inizi della carriera artistica il pittore si dedicò anche alla realizzazione di dipinti che ritraevano nature morte, composizioni di oggetti semplici e sobri restando nel solco della tradizione dell'arte spagnola del XVII secolo. Salvador amava rappresentare se stesso nei suoi dipinti: nel periodo giovanile le sue opere sono soprattutto naturalistiche, mentre in seguito presenta se stesso in modo più definito come ad esempio "Sonno" dove raffigura una strana creatura con fattezze che richiamano in un certo modo le sue. Il pittore non viene riconosciuto come un ritrattista, anche se realizzò un buon numero di ritratti; nei primi anni ritrasse parenti ed amici mentre nel periodo newyorkese, trovò il modo di far soldi ritraendo le signore della buona società.Agli inizi della carriera, Salvador dipinse un certo numero di paesaggi che rappresentavano con straordinaria chiarezza la regione della Spagna in cui era nato, ma in seguito abbandonò queste descrizioni convenzionali pur continuando ad ambientarvi anche i dipinti surrealisti. La modella preferita dal pittore fu la moglie Gala, una donna dal carattere molto forte che, a parere di molti schiacciò Salvador con la sua personalità. L'artista la rappresentò in modo somigliante, come ad esempio in "Ritratto di Gala con aragosta" del 1949, ma se ne servì anche come modella per opere a carattere religioso, composizioni figurative ed immagini allegoriche semi-astratte.Salvador realizzò anche dipinti religiosi a partire dal 1949, anno in cui ebbe udienza dal papa Pio XII. Come pittore, Dalí non ebbe un unico stile o tecnica, la sua miglior produzione vide la luce nel surrealismo e i suoi quadri, di gran dettaglio e composizione stravagante e geniale riflettono un mondo onirico particolare.Salvador Dalì, genio versatile, il più originale e brillante interprete del Surrealismo, ha lasciato un' importante testimonianza di sè, oltre che come pittore e scultore anche come illustratore. Dopo aver illustrato I Canti di Maldoror di Lautrèamont nel '34 ,in seguito , la sua arte metafisica trova espressione nell' illustrazione dei grandi classici, Cervantes,Dante, Shakespeare,Boccaccio, la Bibbia. Le cento tavole originali che illustrano la Divina Commedia e da cui le xilografie sono tratte, sono realizzate in tecnica mista, acquerello con interventi a penna e furono concepite agli albori del periodo mistico di Dalì. Le tavole illustrano le tre cantiche Inferno, Purgatorio Paradiso e sono suddivise in trentatrè trittici. Le xilografie a colori di La Divina Commedia, sono la più importante opera illustrativa di Dalì e si compone di 100 tavole, di dimensione 35,5 x 28 . Sono stati necessari 5 anni di lavoro, dal '60 al '64 per incidere i 3500 legni necessari per imprimere in progressiva i 35 colori di ogni singola tavola. Il periodo mistico, espresso nella suo " Manifesto Mistico ", è successivo all'= esplosione della bomba atomica ; Salvador Dalì, ridefinì la sua poetica richiamandosi alla pittura classica, all' età atomica e al misticismo. Nell' illustrazione di La Divina Commedia, l' eleganza del segno, si coniuga con un uso magistrale ed innovativo del colore in cui la ricerca pittorica dell' artista trova libera espressione nell' originalità , freschezza e genialità dell' ispirazione. La figurazione, è spesso dissacrante,ironica e grottesca nella rappresentazioni dell'= Inferno, e del Purgatorio; è anche di grande forza evocativa. Il viaggio nell' oltre mondo dantesco è stato interpretato da Salvador Dalì con i motivi più rilevanti della sua ricerca metafisica e mistica rappresentando in modo egregio l' elevata umanità di La Divina Commedia. una passione che fa perdere il controllo... Che cos’è Ciascuno di noi si identifica solitamente con la parte educata e razionale di sé e rifiuta di riconoscere come propria la parte passionale, della cui attivazione è responsabile l’altro. La rabbia è una passione che fa parte di noi e che dovrebbe indurci a guardarci dentro con più attenzione. Se qualcuno ci fa arrabbiare, infatti, questo significa che in noi c’è qualche cosa di irrisolto, c’è una disarmonia. In caso contrario non ci arrabbieremmo, ma affronteremmo la difficoltà con calma, moderazione e logica. Invece tutti abbiamo qualche cosa che ci fa arrabbiare perchè tutti abbiamo delle intolleranze, delle debolezze o qualche vecchia ferita non completamente rimarginata. Spesso infatti quando ci arrabbiamo non è per il fatto contingente, ma per qualche cosa d’altro, di più “antico”, dimenticato forse. E così, la classica “goccia che fa traboccare il vaso” ci fa esplodere. E allora cosa fare? Reprimere la rabbia? No. La rabbia, come le altre passioni, è una dinamica del corpo che lo danneggia sia quando è eccessivamente compressa, sia quando è scatenata senza limiti. I proverbi sull'ira Se siamo irritati senza motivo, lo siamo sempre perchè il motivo è nascosto in noi e ci è molto scomodo scoprirlo. Paul Bourget Sono sempre più sincere le cose che diciamo quando l'animo è irato che quando è tranquillo. Marco Tullio Cicerone Non appena nutrita la rabbia muore, è il digiuno che la ingrassa. Emily Dickinson Attenzione alla furia di un uomo paziente. John Dryden FENOMENI VULCANICI Generalità e storia Si definisce come vulcanismo quella serie di fenomeni costituiti dalla fuoriuscita attraverso fratture della crosta terrestre di materiale caldo quali lave, gas e prodotti piroclastici; i punti di emissione di tale materiale sono detti vulcani. Essi sono generalmente costituiti da rilievi con caratteristica forma conica più o meno schiacciata; questa è il risultato dell'accumulo dei prodotti lavici e piroclastici emessi nel tempo. La scienza che studia la formazione, l'evoluzione e l'attività dei vulcani è detta vulcanologia I magmi I magmi sono fusi naturali di alta temperatura, che contengono al loro interno variabili quantità di gas. I magmi si formano all'interno della Terra per fusione parziale delle rocce quando si verificano particolari condizioni di pressione e di temperatura. I magmi sono costituiti prevalentemente da ossigeno. Essi contengono disciolte quantità variabili di componenti volatili, specialmente acqua e anidride carbonica. Esiste una notevole regolarità nella variazione della composizione chimica nei magmi. In genere, i magmi poveri in silicio (detti magmi basici) sono più ricchi in Fe, Mg e Ca; quelli ricchi in silicio (magmi acidi) sono caratterizzati da concentrazioni relativamente più elevate in sodio e potassio. Dal raffreddamento dei magmi si formano le rocce ignee. Se il processo avviene all'interno della terra le rocce prendono il nome di rocce ignee intrusive. Se il raffreddamento avviene sulla superficie terrestre le rocce vengono dette ignee effusive. Le rocce ignee sono costituite da minerali di varia natura, tra cui i più importanti hanno composizione silicatica e sono rappresentati da olivina, anfiboli, pirosseni, feldspati e quarzo. Le caratteristiche fisiche più importanti dei magmi sono la temperatura e la viscosità. Le temperature dei magmi mostrano valori compresi tra circa 750°-800° e circa 1150-1200° ed aumentano passando dai magmi acidi a quelli basici. La viscosità dei magmi è molto variabile ed aumenta dai magmi basici a quelli acidi. I magmi basici (es. basalti) hanno una viscosità comparabile a quella di alcuni olii da motore. I magmi acidi (es. graniti) sono molto più viscosi. A parità di composizione chimica la viscosità dei magmi aumenta con il diminuire della temperatura. Generazione e risalita dei magmi La Terra è costituita per la maggior parte (escluso il nucleo esterno) da rocce solide. I magmi si generano all'interno della Terra, quando si realizzano condizioni particolari e tali da determinare la fusione parziale o anatessi delle rocce. La formazione dei magmi, pertanto, rappresenta un evento anomalo. I processi più importanti di fusione si verificano nella parte superiore del mantello terrestre oppure nella crosta continentale profonda o intermedia. Sia nel mantello che nella crosta, i magmi hanno densità inferiore rispetto a quella delle rocce da cui derivano. Tale contrasto di densità, reso più netto dalla presenza di sostanze volatili concentrate nel magma, costituisce la causa principale della separazione dei magmi e della loro risalita verso l'alto. I magmi possono risalire direttamente in superficie dalla zona sorgente oppure, molto più comunemente, si fermano nella crosta o al limite tra crosta e mantello (circa 35 km di profondità) per formare dei serbatoi (camere magmatiche) all'interno dei quali subiscono un lento raffreddamento con cristallizzazione dei minerali. Di particolare interesse vulcanologico sono le camere magmatiche che si formano a bassa profondità (4-5 km) al di sotto di alcuni apparati vulcanici. In occasione di alcune grosse eruzioni effusive o esplosive, le camere magmatiche superficiali si possono svuotare quasi completamente. Ciò causa il crollo di parte del vulcano. I prodotti dell'attività vulcanica I prodotti emessi dai vulcani nel corso della loro attività sono costituiti da lave, gas e piroclastiti. Le lave e le piroclastiti vengono emesse soltanto durante le fasi parossistiche dell'attività dei vulcani mentre i gas possono fuoriuscire anche durante i periodi di quiescenza. Le lave sono magmi eruttati in superficie. Esse possono formare ampie colate oppure raffreddarsi immediatamente al di sopra del condotto vulcanico dando luogo a strutture cupoliformi dette duomi lavici. I prodotti piroclastici o piroclastiti sono materiali frammentati che si formano nel corso di eruzioni esplosive. Le piroclastiti sono costituite sia da brandelli di magma sia da frammenti di rocce solide strappate dal condotto vulcanico durante l'esplosione. Possono avere dimensioni variabili, da parecchi metri (blocchi e bombe vulcaniche) a pochi cm (lapilli) a frazioni di mm (ceneri vulcaniche) (Figura 1). FIGURA 1 Bombe vulcaniche a forma di fuso, che poggiano su lapilli e ceneri. I gas vulcanici hanno composizione variabile ma, come detto, sono costituiti prevalentemente da acqua e anidride carbonica, con presenza di quantità minori di vari composti di zolfo, fluoro, cloro etc. Comportamento dei vulcani e tipi di eruzione Le eruzioni vulcaniche vengono suddivise in effusive ed esplosive a seconda dello stile tranquillo o esplosivo di emissione dei prodotti. Il diverso comportamento eruttivo dei vulcani dipende dalla viscosità e dal contenuto in gas dei magmi. Come già ricordato, la viscosità dei magmi è funzione della temperatura e, soprattutto, della composizione chimica. FIGURA 2 Comportamento eruttivo dei magmi acidi e basici con diverso contenuto in gas. Lave basiche fluide e ricche in gas (Figura 2A) danno eruzioni effusive accompagnate da fenomeni esplosivi di modesta entità quali jet di lava alti fino a molte centinaia di metri (fontane di lava); le stesse lave, se povere in gas, danno eruzioni effusive tranquille senza apprezzabili fenomeni esplosivi (Figura 2B). Le lave acide viscose ricche in gas danno eruzioni esplosive di alta energia(Figura 2C); le stesse lave, se povere in gas, danno duomi lavici o colate di modesto spessore (Figura 2D). Le più note eruzioni effusive sono quelle hawaiiane, tipiche dei vulcani delle Isole Hawaii. Esse sono tipiche di magmi basici fluidi e consistono nella emissione tranquilla di colate fluide con modesti fenomeni esplosivi tipo fontane di lava (Figura 3). I vulcani che si formano in seguito all'attività hawaiiana hanno forma conica molto appiattita e vengono detti vulcani scudo. FIGURA 3 Eruzione hawaiiana con fontana e colate di lava. Le eruzioni esplosive magmatiche sono legate alla presenza di abbondanti quantità di gas di origine magmatica, cioè risaliti insieme al magma dal mantello terrestre. I due tipi più importanti sono le eruzioni stromboliane e le pliniane. Le eruzioni stromboliane, tipiche del vulcano attivo di Stromboli (Isole Eolie) consistono di esplosioni ritmiche di modesta energia, con lancio di brandelli di lava nera o rossa (dette scorie di lancio) che, dopo traiettorie più o meno lunghe ma non superiori alle centinaia di metri, ricadono al suolo nell'immediata vicinanza del cratere (Figura 6). Le eruzioni stromboliane sono tipiche di magmi a viscosità intermedia tra quelli basici e acidi. FIGURA 6 Eruzione stromboliana Le eruzioni pliniane sono quelle a maggiore energia. Sono tipiche di magmi viscosi acidi ricchi in gas e sono caratterizzate dalla formazione di un'alta colonna eruttiva con forma a fungo che può raggiungere le diecine di km di altezza (Figura 7). La colonna eruttiva è formata da pomici, ceneri e blocchi. Le ceneri raggiungono le quote più elevate e possono essere disperse dal vento su aree molto estese, anche a diecine di migliaia di km dal punto di emissione. Le eruzioni pliniane prendono il nome da Plinio il Giovane che descrisse dettagliatamente l'eruzione del Vesuvio, che presentava le caratteristiche sopra descritte. FIGURA 7 Eruzione pliniana Processi di messa in posto dei prodotti vulcanici Le colate laviche sono messe in posto con meccanismi abbastanza semplici, tipici di materiali più o meno fluidi che scorrono su superfici a diversa geometria. Le colate laviche si incanalano preferenzialmente lungo le valli e hanno tendenza a accumularsi nelle depressioni topografiche. I loro percorsi, pertanto, sono abbastanza prevedibili. Le velocità sono variabili in funzione essenzialmente della viscosità della lava e dell'inclinazione della superficie di scorrimento. La velocità della gran parte delle lave raramente supera i pochi km/ora o addirittura qualche chilometro al giorno; tuttavia, si possono avere velocità molto più elevate (di alcune diecine di km/ora) per lave fluide che scorrono su pendii scoscesi. Di particolare interesse sono i processi di messa in posto dei prodotti piroclastici. Questi possono essere lanciati a varie angolazioni e ricadere per gravità andando a formare depositi piroclastici di caduta. I frammenti piroclastici più grossolani (blocchi e bombe) cadono nelle vicinanze del cratere, mentre le ceneri e i lapilli possono ricadere a molti km di distanza. Il loro accumulo può essere causa di crolli di tetti, distruzione di raccolti, inquinamento di fonti idriche In alcuni casi le piroclastiti possono essere emesse orizzontalmente durante l'esplosione. Tale fenomeno, simile all'onda di base che si verifica in occasione di esplosioni nucleari, viene detto base surge (onda di base. I surge piroclastici hanno forte mobilità orizzontale, elevata velocità (dell'ordine di parecchie centinaia di km/ora) e sono in grado di scorrere anche in contropendenza. Queste caratteristiche rendono i surge estremamente pericolosi. Nel caso di eruzioni vulcaniane e pliniane, la gran parte del materiale piroclastico va a formare colonne eruttive anche di enormi dimensioni. Il crollo di tali colonne determina la formazione di dense nuvole piroclastiche dotate di elevata mobilità, in grado di trasportare enormi quantità di materiale piroclastico. Queste nuvole sono note con il termine di colate piroclastiche. Con il termine di tufo viene indicato qualsiasi deposito di ceneri e lapilli, indipendentemente dal meccanismo di messa in posto. Il trasporto da parte dell'acqua genera la formazione di colate di fango o lahar. Queste sono delle miscele di acqua, ceneri e blocchi che si formano, per esempio, in seguito a piogge copiose che interessano aree coperte da piroclastiti non consolidate, oppure quando l'eruzione esplosiva avviene in un lago craterico. L'acqua si mescola alle ceneri e produce un fluido dotato di elevata mobilità e velocità. I lahar sono tra i fenomeni più distruttivi del vulcanismo e si possono verificare anche molto tempo dopo un'eruzione vulcanica. Ad esempio, i lahar che hanno causato nell'autunno del '98 distruzione e vittime a Sarno e altri comuni della Campania si sono verificati lungo tempo dopo la deposizioni delle ceneri del Vesuvio che è in fase di quiescenza dal 1944. Il vulcanismo e l'ambiente Gli effetti dei fenomeni vulcanici sull'ambiente nel quale l'uomo vive sono molteplici e complessi. L'aspetto più noto è quello operato dalla potenza distruttiva di alcune eruzioni. Tra le più note ricordiamo quella del Vesuvio del 79 d.C., quella dell'Isola di Santorini nell'arco delle Cicladi nel mar Egeo che determinò la scomparsa intorno al 1600 a.C. della civiltà minoica e quella del 1902 del vulcano Pelée nella Martinica. Durante le eruzioni i maggiori danni possono essere provocati direttamente dalle colate e surge piroclastici, dalla caduta di cenere che copre e distrugge i raccolti, dai gas emessi in gran quantità che determinano asfissia negli esseri viventi nelle aree più vicine al vulcano, dai lahar che si verificano se dopo un'eruzione esplosiva si hanno abbondanti piogge o se l'eruzione avviene in un lago craterico. Relativamente poco pericolose sono invece le colate laviche che scorrono a velocità non molto elevata e il cui percorso, che segue quello delle valli può essere previsto e, in alcuni casi, deviato. Da quanto detto è evidenteche le eruzioni maggiormente distruttive sono quelle esplosive quali quelle pliniane e vulcaniane, mentre quelle di tipo hawaiano presentano minore pericolosità. In Italia un'attività di tipo esplosivo si verifica al Vesuvio e a Vulcano mentre l'Etna ha un regime piu tranquillo e meno pericoloso. Per ridurre i rischi connessi all'attività vulcanica è necessaria una sorveglianza continua dei singoli sistemi attivi. E' ormai noto che ogni eruzione è preceduta da una serie di eventi costituiti da sollevamento del suolo in prossimità del centro eruttivo, da un aumento dell'attività sismica superficiale connessa con la risalita dei magmi, da cambiamenti nella temperatura e composizione dei gas emessi dalle fumarole e da variazioni nel campo magnetico locale. I continui rilevamenti geofisici, geochimici e topografici possono consentire, pertanto, di prevedere un'eruzione vulcanica anche se allo stato attuale delle conoscenze non è possibile predire con precisione il momento e l'intensità dell'eruzione stessa. L'attività vulcanica può produrre importanti effetti sul clima. Questi sono connessi con l'immissione nell'atmosfera di enormi quantità di ceneri e di gas che possono rimanere in sospensione per molti anni causando notevole assorbimento delle radiazioni solari con conseguente abbassamento della temperatura su vaste regioni. L'eruzione del vulcano Tambora in Indonesia, avvenuta nel 1915, immise nell'atmosfera una quantità di ceneri tale da causare la completa oscurità per tre giorni in un raggio di 500 km intorno al vulcano. La permanenza delle particelle di cenere e gas in sospensione causò l'abbassamento della temperatura media mondiale di più di un grado con forti danni per l'agricoltura tanto che il 1916 fu conosciuto come l'anno senza estate e come l'anno della povertà. A differenza dei peccati capitali i nuovi peccati non sono più una deviazione, una caratteristica o una malattia della personalità di un individuo; ma tendenze collettive a cui un individuo non può opporre una resistenza individuale. Sono: consumismo, conformismo, spudoratezza, sessomania, sociopatia, diniego, vuoto. Secondo un personale sondaggio effettuato su un campione di 120 persone di età compresa tra i 16 e i 50 anni, il peccato in cui si eccede di più è la Gola…Beh, forse meglio così, perché è l’unico peccato che danneggia solo noi stessi..! accidia lussuria invidia superbia ira avarizia gola 8% 37% 24% 6% 4% 13% 8% Ma poi, Temiamo di più che le fiamme dell'Inferno ci lambiscono per i nostri reiterati peccati di gola o più semplicemente le "ire" della bilancia?... E se provassimo a considerare i 7 peccati capitali nei telefilm più “cult” degli ultimi anni, avremmo: GOLA –> LA TATA: quando si parla di gola, impossibile non ritornare con la mente alla spassosissima sit-com “La Tata”. La protagonista ha una linea mozzafiato, eppure la vediamo spesso ingozzarsi con barili di gelato o rovistare nel frigo alla ricerca di qualche avanzo della cena, dopo una dolorosa riflessione sulla sua vita. INVIDIA –> DESPERATE HOUSEWIVES: nella via più famosa della TV, Wisteria Lane, serpeggia la sensazione che l’erba del vicino sia sempre più verde; le 4 casalinghe disperate segretamente, si invidiano a vicenda: chi non vorrebbe un corpo come quello di Gabrielle (Eva Longoria), o chi non invidia l’intuito sul lavoro di cui dispone Lynette (Felicity Huffmann), o la capacità nelle faccende domestiche di Bree (Marcia Cross) o l’inguaribile ottimismo di Susan (teri Hatcher)? L’invidia dilaga per un prato del tenuto, per delle gardenie più rigogliose di altre o per un uomo, come accade tra Susan e Idie (Nicolette Sheridan), che prima si contendono l’idraulico Mike (James Denton), e che poi si accapigliano quando Susan scopre che il suo ex-marito si è trasferito nella casa di Idie… IRA -> THE O.C.: ira fa rima con Newport Beach. Le cose cominciano a mettersi male all’arrivo di Ryan (Benjamin McKenzie): il classico ragazzo poche parole molti muscoli che è pronto a fare a botte per qualsiasi motivo e soprattutto per l’amata Marissa (Misha Barton), e infatti non si risparmia, tirando cazzotti a destra e manca! E che dire di Summer (Rachael Bilson) che in una delle prime puntate minaccia di piantare una forchetta nell’occhio del povero Seth (Adam Brody)? LUSSURIA -> NIP/TUCK: la palma del telefilm più lussurioso della storia della tv non poteva non andare a Nip/Tuck a al famoso studio chirurgico McNamara/Troy. Tra un intervento ed un altro il belloccio di turno Christian Troy alias Julian McMahon, se le passa tutte e non perde occasione per incontri molto hard in qualsiasi momento della giornata Anche il piccolo Matt sarà al centro di turbinosi incontri sessuali a tre, con pazze razziste e con “donne” con ben più di un segreto… SUPERBIA –> BEVERLY HILLS/DAWSON’S CREEK: il poco ambito premio di superbo per eccellenza delle serie tv va spartito a pari merito tra due mostri sacri dei teen-drama come Brandon Walsh di Beverly Hills 90210 e il Dawson Leary di Dawson’s Creek. Entrambi pensano di poter cambiare il mondo celandosi dietro alla classica maschera del bravo ragazzo: per entrambi urge un immediato e drastico ridimensionamento. AVARIZIA –> SETTIMO CIELO: il reverendo Eric Campden ha un posto assicurato tra gli avari della tv, infatti il bilancio familiare è sempre in primissimo piano; ma come potrebbe essere altrimenti con ben 7 figli da mantenere? Simon appare come un rubacuori che colleziona biondine e che se la deve vedere con presunte gravidanze e malattie veneree, mentre Mary ne ha combinate di cotte e di crude. ACCIDIA –> SIX FEET UNDER: meritano di trovare il posto d’onore nel girone dantesco degli accidiosi i protagonisti di “six feet under”, dove le aspettative del domani sono ridotte all’osso, e dove la noia imperversa tra l’atmosfera dark e la routine dell’impresa familiare di pompe funebri. E così tra incomprensioni, rimorsi, crisi isteriche e follie varie i Fisher sembrano non conoscere il significato della parola “felicità”.