La mutazione del consumatore - Campus

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La mutazione del consumatore - Campus
Laura Minestroni
La pubblicità nonostante
i mass media
Verso una comunicazione integrata di marca
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2. La mutazione del consumatore
2.1 Da oggetto a soggetto di critica
Ogni giorno, milioni di persone in tutto il mondo parlano delle marche e dei prodotti su Internet. Prendono la parola su blog
e forum e dicono la loro attorno a casi specifici. Si divertono con
il linguaggio e gli stereotipi degli spot televisivi, pubblicandone
parodie personalizzate e irriverenti su YouTube, oppure diventano fan di questo o quell’altro brand nelle pagine ufficiali di
Facebook. Ci sono marche come Activia di Danone che «mettono nelle mani dei consumatori» la scelta dei gusti del prodotto e
dunque della propria offerta di mercato. E che, su suggerimento
di questi, attuano decisioni importanti per esempio in termini
di packaging (come l’eliminazione del cartone nel formato da
quattro vasetti di yogurt che avrebbe permesso di risparmiare
circa 800 tonnellate di carta all’anno e 1.500 tonnellate di CO2,
pari a quella assorbita da 125.000 alberi in un anno).
Oggi il consumatore esercita un ruolo attivo. Genera e socializza un nuovo sapere anche attraverso la Rete. È in grado di
sviluppare strategie di alleanza e collaborazione con le imprese.
Non è più rivolto (solo) al best buy, al miglior rapporto qualità/
prezzo, ma vuole pure difendere e valorizzare i propri diritti.
Un consumatore, insomma, che come ha osservato Fabris «passa
dall’essere oggetto di critica a soggetto di critica» 1. Questo individuo ha, rispetto a marche e prodotti con cui si rapporta, in generale, maggior potere rispetto a vent’anni fa. Si tratta di quello
che ormai è comunemente definito consumer empowerment: più
autonomia di scelta; accresciute aspettative in termini di qualità; capacità di difendersi dalla pubblicità martellante, ripetitiva,
G. Fabris, La società post-crescita, cit. p. 4.
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invasiva; facoltà di incidere in maniera concreta sulle strategie
delle imprese; grande discrezionalità nell’uso dei media.
Nei confronti dell’advertising, ad esempio, il pubblico ha ormai sviluppato veri e propri anticorpi contro l’eccessiva invadenza. Ed è in grado di riconoscerne la povertà formale e l’assenza
d’idee, come pure – al contrario – le innovazioni dei linguaggi
e dei mezzi di comunicazione. Un gran numero di ricerche sul
campo ha messo in luce un atteggiamento di rifiuto nei confronti
dell’eccesso non motivato, del cattivo gusto, della trasgressione
scontata (basata sugli stereotipi sessuali), della stucchevolezza e
della finzione (la famiglia felice).
L’informazione e la persuasione, due aspetti strettamente
connessi e in continua osmosi nella pubblicità, paiono per la
prima volta messi in discussione dal pubblico stesso. Tradizionalmente, uno dei valori intrinseci della pubblicità mass-market
è stato la credibilità: la pubblicità garantiva, da sola, una certa affidabilità del prodotto. Ora, in molti ambiti, il ruolo che
l’advertising tradizionale riveste nei processi di acquisto risulta
indebolito dalla Rete. Internet sta soppiantando la pubblicità nel
suo ruolo informativo, proprio nel senso che appare più credibile. Soprattutto perché qui le possibilità di confronto, discussione
e interazione, pongono qualsiasi messaggio sotto il vaglio di una
corte spietata e agguerrita sul controllo. Se la dimostrazione di
come il prodotto agisce, la pubblicità puramente informativa o
che esalta certe performances è guardata con fastidio o con sospetto, allo stesso modo, la pubblicità che enfatizza troppo gli
attributi intangibili e le prestazioni immateriali, provoca scetticismo e diffidenza. Questo nuovo atteggiamento ci porta a parafrasare il celebre assioma di Paul Watzlawick «è impossibile non
comunicare» con «non basta più comunicare». Non basta più
comunicare perché oggi le marche, per essere attrattive, devono
offrire vantaggi ai loro interlocutori: sconti, vantaggi, customer
utilities, applicazioni. Ne deriva che la pubblicità deve essere,
prima di tutto, utile. Il che comporta un «ridimensionamento»
della forza espressiva e connotativa dei linguaggi, dei codici e
degli strumenti utilizzati.
È il «contenuto» a rappresentare oggi la dimensione che guida il consumo della pubblicità. «Contenuto» può essere news,
documentario, intrattenimento, opinione, o qualunque altra for-
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ma di comunicazione che abbia il potenziale di generare coinvolgimento del pubblico (audience engagement). Master Card,
per esempio, comunica ai suoi clienti, attraverso un’applicazione mobile per I-phone chiamata «Priceless Picks», i luoghi in
cui usare la carta ottenendo sconti: sfruttando la localizzazione
GPS, comunica i punti vendita più prossimi. È un servizio offerto dalla marca e ha una ricaduta positiva sulla sua immagine.
E non è casuale se il dibattito teorico accademico degli ultimi
anni veda ampio consenso attorno all’idea che il marketing delle
società avanzate sia nel pieno di un processo evolutivo che si
fonda su una nuova prospettiva «servizio-centrica» 2. Una prospettiva, cioè, in cui il touchpoint, ossia il punto di contatto con
il consumatore in vista di una relazione, sia «un contenuto in
servizio» che la marca, in ogni sua manifestazione, offre o dovrebbe offrire in maniera efficace e coerente.
Anche la richiesta di trasparenza appare oggi come un tema
centrale che regola il rapporto tra marca, consumatore, comunicazione.
La pubblicità onesta non inganna e non mente. Lo ricordava
il motto dell’agenzia Mc Cann Erickson che è stato, storicamente, The truth well told, cioè «la verità ben detta». Vale a dire
retoricamente ben detta: convincente, persuasiva. E non è affatto
un caso che il primo significato del termine «persuasione», presupponga l’idea di verità. Persuadere significa, infatti, far sì che
il proprio interlocutore modifichi consapevolmente la propria
opinione alla luce di un argomento considerato vero o giusto
(dal latino per-suadeo: ti convinco per, affinché…).
Tuttavia, è anche possibile sostenere come la pubblicità abbia
avuto per troppo tempo la cattiva abitudine a dire mezze verità
tacendo la metà più sgradevole. La celebre battuta di Cary Grant
nel film di Hitchcock Intrigo Internazionale la dice lunga: «nel
mondo dell’advertising non esistono bugie, c’è solo l’espediente dell’esagerazione». E non pochi autori si sono soffermati su
2
Per un approfondimento si vedano R.F. Lusch – S.L.Vargo, ServiceDominant Logic. A Guiding Framework for Inbound Marketing, in «Marketing
Review», 6/2009; S.L. Vargo, Toward a transcending conceptualization of relationship: a service dominant perspective, in «Journal of Business and Industrial
Marketing», 24 (5/6), 2009, pp. 373-379.
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questo fenomeno, a partire da Baudrillard. I suoi contributi sulla
demitizzazione della pubblicità rimangono a tutt’oggi notevoli 3.
Nondimeno, va detto che il ricorso all’informazione o alla
persuasione più suggestiva, oppure il loro dosaggio nella comunicazione, è sempre stato un fatto di opportunità e strategia:
considerando che la vera funzione della pubblicità è quella di
stimolare le vendite, poco importa la natura del messaggio se
questo riesce a creare nel pubblico una maggiore propensione
all’acquisto. Tuttavia, già negli anni Novanta, Brioschi osservava che «l’analisi di tali messaggi e della relativa struttura mette
in evidenza il prevalere, in un numero consistente di casi, della
componente persuasivo suggestiva su quella informativa» 4.
Nascondere gli aspetti negativi di un prodotto o di un’impresa per portare alla luce quelli positivi non è più possibile.
Rischia di diventare addirittura ridicolo e controproducente.
All’uso dell’asterisco malizioso, usato troppe volte nella pubblicità stampa per rivelare a fondo pagina verità scomode (Iva
e tasse da includere a un prezzo stracciato, tasso zero che non
è mai zero), va tutta l’antipatia del pubblico. Comunicare con
quell’approccio nel «mondo digitale» ad esempio, dove il fruitore della pubblicità ribatte e dice la sua, significa oggi, per un
inserzionista,venir bombardato dalle critiche in tempo reale. Si
capisce perché le aziende che abbiano scheletri nell’armadio farebbero meglio, adesso, ad attrezzarsi a gestire un’operazione
di crisis management applicata alla comunicazione prima di entrare nell’insidioso terreno dei social media. Così, accanto a un
comportamento del consumatore (consumer behavior), appare
per la prima volta in tutta la sua evidenza sociale l’idea di un
corporate behavior, il comportamento delle aziende. Che deve
necessariamente far parte della strategia. Ed ecco spiegata la resistenza di tante marche ad aprirsi all’interazione con gli utenti nel web. Qui i consumatori possono replicare, smascherare,
interrogare, chiedere spiegazioni. Ed è vietato non rispondere.
3
Si vedano in particolare La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture, Il Mulino, Bologna 2010; Della seduzione, SE, Milano 1997 e V. Codeluppi
(a cura di), Il sogno della merce, Lupetti & Co., Milano 1987.
4
E.T. Brioschi (1995), La comunicazione d’azienda, in «Scienze sociali e
dottrina sociale della Chiesa», nº 4, 1995.
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Possono persino dirottare la marca, con azioni di brand hijacking 5: Wipperfürth fa riferimento, in proposito, a qualcosa di
simile a una persona o un gruppo che, generalmente senza troppi
convenevoli, costringe il pilota a volare e atterrare in un luogo
diverso da quello stabilito. Insomma, un’azione terroristica bella
e buona che consiste nell’assumere il controllo di una marca.
In questa metafora, l’azienda è l’aeroplano, i manager sono i
piloti, tutti i consumatori o più in generale gli stakeholders, sono
i potenziali dirottatori. Questa definizione ci fa pensare alla recente esperienza della lunga occupazione (15 mesi) del carcere
dell’Asinara da parte degli operai cassintegrati della Vinyls, con
l’operazione social media L’isola dei cassintegrati che, parafrasando un celebre format televisivo, propone un reality «reale»,
dove nessuno è famoso ma tutti sono senza lavoro, e che attraverso Facebook, Twitter e blog è riuscita a movimentare media e
opinione pubblica su temi d’interesse comune.
Un più pertinente caso di brand hijacking è quello subito dal
marchio di abbigliamento Diesel. In risposta alla pubblicità «Be
Stupid!» (la recente campagna di comunicazione integrata che
inneggiava con ogni mezzo alla stupidità, senza alcuna pertinenza o legame col prodotto), l’annuncio è stato rimanipolato e
dirottato semanticamente fino a diventare: Smart buy 50 $ jeans;
Stupid spend 250 $. E poi pubblicato sul web. Un vero e proprio
boomerang per la marca che ha fatto della stupidità il suo vessillo e del premium price dei suoi prodotti una leva competitiva.
È evidente che il ruolo del destinatario della comunicazione persuasoria in generale, e della pubblicità in particolare, sia
profondamente cambiato: non più destinatario passivo di una
suggestione 6, ma soggetto attivo, capace di interpretarla o re-
5
Per un approfondimento si veda A. Wipperfürth, Brand Hijack: Marketing without Marketing, Portfolio 2005.
6
Al termine «suggestione» (che deriva dal latino suggestus la cui radice è
suggero cioè soggiogare) si è fatto ricorso in letteratura per lungo tempo. Usato
comunemente per definire quel processo di influenza sugli atteggiamenti, sulle
opinioni e sul comportamento dell’individuo capace di insinuare subdolamente
un pensiero o un’idea al di sotto della soglia della coscienza, il termine presume
che il recettore della comunicazione sia una sorta di sonnambulo (vedi il «sonnambulismo sociale» legato ai processi imitativi magistralmente descritto da Gabriel Tarde o più semplicemente alla «trance ipnoide» del consumatore indicata
da Vance Packard ne I persuasori occulti). A cavallo tra gli anni Cinquanta e
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sistervi, di bloccarla o di respingerla, di trattarla come «spam»
o posta indesiderata, di accoglierla del tutto o in parte e di rielaborarla in termini personali e valutativi. Anche sul fronte del
consumo vi sono continui segnali dell’incisività del mutamento
in atto. Non solo è possibile affermare che i consumatori stiano divenendo a loro volta produttori e venditori (prosumers 7 e
sellsumers) ma anche che in generale si stiano trasformando in
«consumatori critici», cioè soggetti di critica, appunto. Negli
ultimi decenni s’è assistito in tutte le società avanzate a un persistente sviluppo di movimenti di varie matrici ideologiche e
culturali che rivendicano stili di vita e d’acquisto più sobri, una
maggiore responsabilità sociale e ambientale, e che sembrano
muoversi «in direzione contraria al consumismo e all’edonismo
che all’osservatore superficiale appaiono come i fenomeni dominanti» 8. In realtà, vi sono continue evidenze che l’accresciuto potere del consumatore sia da ravvisarsi anche nel suo potere
discrezionale rispetto alle scelte dei prodotti e delle fonti d’informazione; nel riscatto dall’iperconsumo e dal materialismo
che avevano caratterizzato gli anni Ottanta e, non da ultimo,
nell’assunzione di responsabilità e nei caratteri di «doverosità»
di certe valutazioni o comportamenti.
Un filone di studi particolarmente interessante, a questo proposito, è quello che indaga il rapporto consumo/felicità e che
mostra quanto complesso e «sociale» sia il nostro uso dei beni.
Non è una novità: Douglas e Isherwood hanno ricordato che «i
beni sono neutri, ma i loro usi sono sociali: possono essere usati
come barriere o come ponti» 9 e ancor prima Veblen teorizzò
la capacità del consumo di rendere visibile una data posizione
sociale acquisita attraverso meccanismi di ostentazione, emu-
Sessanta, cioè parallelamente alla nascita della pubblicità come «disciplina», si
è manifestata la tendenza a sostituire il termine suggestione con quello di persuasione o di comunicazione persuasoria.
7
Per un approfondimento sulla nozione di «prosumer» si rimanda a G.
Ritzer – N. Jurgenson, Production, Consumption, Prosumption. The Nature of
Capitalism in the Age of the Digital Prosumer, in «Journal of Consumer Culture», vol. 10/13, 2010.
8
L. Bruni, Note sul consumo e sulla felicità, Nuova Umanità, XXIII, nº 138,
6/2001, pp. 869- 870.
9
M. Douglas – B. Isherwood, Il mondo delle cose. Oggetti, valori, consumo, Il Mulino, Bologna 1984, p. 14.
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lazione e differenziazione. Ma gli studi sulla felicità (in Italia
è Luigino Bruni a dedicarvi le più interessanti riflessioni) vanno ben oltre. Essi nascono dalla constatazione che l’equazione
«più ricchezza uguale più benessere» cominci a scricchiolare 10.
Le ricerche empiriche di Robert Lane, dell’Università di Yale,
chiariscono questo passaggio. L’autore parte dalle analisi empiriche sulla felicità, e in particolare dalla perdita di felicità nelle
democrazie di mercato e dà la sua risposta al perché a un aumento di reddito possa corrispondere una diminuzione di felicità. Considerando che «molti, forse la maggioranza, dei piaceri
della vita non hanno prezzo, non sono in vendita, e quindi non
passano attraverso il mercato» 11, Lane interpreta la mancanza
di felicità delle società capitalistiche avanzate come la contropartita della diminuzione del «consumo» di beni relazionali.
Ma che cos’è un bene relazionale?
In realtà, il concetto di «bene relazionale» non è ancora stato
definito in modo univoco. Viene usato da vari autori con significati diversi, senza che vi sia sempre coerenza. In questa sede
prenderemo a prestito la definizione di Bruni, secondo cui i beni
relazionali sono «beni prodotti da rapporti, da incontri nei quali l’identità e le motivazioni dell’altro con cui interagisco sono
elementi essenziali nella creazione e nel valore del bene – l’amicizia è un tipico bene (asset per la precisione) relazionale» 12.
Così, l’imperativo categorico della crescita economica e del
benessere: consumare di più, viene messo in discussione. Non
è necessariamente vero che consumare più beni aumenti quella
felicità che cerchiamo attraverso i beni stessi. Inoltre «consumare di più» non significa per forza consumare più «merci». La
categoria di «bene economico», in questa prospettiva, si allarga fino a comprendere rapporti, incontri, significati, esperienze.
Comunque, va precisato che la nozione di «felicità» è davvero
ambigua, o comunque antropologicamente e storicamente variabile. Si pensi soltanto che la costituzione americana cita la «fe-
10
Per un approfondimento si veda R. Easterlin, Income and Happiness:
Towards a Unified Theory, Mimeo, Oxford University, Oxford 2000.
11
R. Lane, The loss of happiness in market democracies, Yale University
Press, Yale 2000, p. 59.
12
L. Bruni, Note sul consumo e sulla felicità, cit., p. 883.
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licità» come orizzonte del cittadino; quelle europee tendono a
mettere in rilievo altre categorie, la nostra, ad esempio, la libertà
o il lavoro. Da quanto si è detto finora, dunque, l’ipotesi di perdita di felicità nelle democrazie di mercato rimane circoscritta
e leggibile «solo» dentro un’ottica meramente sociologica, ma
necessariamente politica, prevedendo un «giudizio» sul mercato. Ciò che a noi qui interessa sottolineare, tuttavia, è la modalità
con cui gli individui hanno oggi acquisito una inedita consapevolezza del consumo, che rimane, per dirla con Max Weber, un
agire sociale dotato di senso. Possiamo, se solo lo vogliamo,
consumare di più consumando «meglio». Questa «presa di coscienza» appare sempre più diffusa nelle società contemporanee.
Basti pensare alla dimensione ambientale e energetica affrontata
consumando diversamente; oppure alla sfida del consumo «critico»; al cosiddetto buycott 13, finalizzato a promuovere l’acquisto di determinati beni per favorire una causa politica, sociale o
ambientale (lampadine a basso consumo energetico, cibo locale,
cibo biologico, pesce «dolphin safe», detersivi compatti, prodotti equosolidali, riciclabili o riciclati, a chilometri zero, a impatto
zero ecc.). La novità è che tali comportamenti non appartengono
più solo alla sfera della «protesta», della negazione, del rifiuto o
di frange ideologizzate, ma anche a quella della «scelta» di molti. Non più solo il boicottaggio di specifici marchi o di prodotti
firmati da una impresa di cui si disapprova il comportamento 14;
non più solo il negative purchasing (la scelta di evitare prodotti
che si condannano come auto inquinanti, pannolini per bambini
che non siano biodegradabili, prodotti di origine animale ecc.),
ma anche positive buying cioè acquisti dal significato positivo.
Il che impone una riflessione più generale attorno al fatto che
13
Il neologismo buycott è stato usato per la prima volta il 17 maggio 2005
dal critico Jeff Cohen nell’appello Join the BUYcott volto a promuovere negli
Stati Uniti l’acquisto della benzina della rete di distribuzione venezuelana Citgo,
considerando che il presidente del Venezuela Hugo Chavez sarebbe l’unico capo
di stato democraticamente eletto tra i maggiori Paesi produttori di petrolio. In
altre parole, la scelta di una benzina piuttosto che un’altra rappresenterebbe una
scelta pro o contro la democrazia. Nell’appello Jeff Cohen aveva precisato che
l’iniziativa era coerente rispetto alla scelta di prediligere mezzi di trasporto pubblici o non inquinanti o alla promozione dello sviluppo delle energie rinnovabili.
14
Per un approfondimento si rimanda a M. Drillech, Le Boycott, Presses du
Management, Paris 1999.
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l’agire di consumo sembri ormai aver inglobato le istanze politiche di un segmento vasto di società e ne abbia tradotto i desideri
o la richiesta, questa volta davvero imponente, di trasformazione
verso una dimensione più «civile» e «umana».
2.2 Un’attenzione parziale continua
In un’epoca a forte densità comunicativa come la nostra, in
cui si assiste a un’imponente disseminazione sociale della marca e dei suoi messaggi (strettamente pubblicitari e non, si pensi
al packaging, al punto vendita, alle sponsorizzazioni…) sono
sempre più importanti le procedure che consentono agli individui di far fronte alla mole sterminata d’informazioni in arrivo
attraverso processi di selezione, schematizzazione, inferenza e
semplificazione dei percorsi decisionali. Si tratta di un modo
per ottimizzare e risparmiare energie cognitive. Tendiamo a
scegliere, ricordare e considerare il credibile, il conosciuto, il
rassicurante, il familiare rispetto a ciò che richiede di essere
compreso, approfondito e verificato.
L’attenzione, d’altra parte, è strutturalmente selettiva. Come
ha osservato Kapferer nel suo studio sulla persuasione:
Il mondo ci circonda per 360º, il nostro campo visivo non
copre che 210º circa. La vista è precisa soltanto nel raggio
di due gradi […]. In un certo modo sembra che l’organismo
operi una scelta degli stimoli che, a loro volta, controlleranno
il comportamento 15.
Non possiamo rispondere a tutte le molteplici stimolazioni
che riceviamo: è necessario operare di continuo delle scelte.
L’attenzione è un’«allocazione selettiva» dello sforzo di trattamento dell’informazione 16. E ciò vale a maggior ragione nel
campo delle scelte di consumo e delle preferenze d’acquisto,
15
J.N. Kapferer, Le vie della persuasione. L’influenza dei media e della
pubblicità sul comportamento, ERI, Torino 1982, p. 155.
16
Per un approfondimento si veda il classico D.A. Norman, Memory and
Attention, Introduction to Human Information Processing, John Wiley, New
York 1969.
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in un ambito, cioè, caratterizzato dal costante incremento delle
possibilità alternative e da una sempre più marcata somiglianza
fra prodotti e servizi in termini di caratteristiche e potenzialità.
Sicché si può affermare che
[…] in un mercato come l’attuale, in cui un’avanzata tecnologia
ha praticamente equiparato, rendendole oggettivamente quasi
indistinguibili, le varie marche di uno stesso prodotto e talvolta
prodotti tra loro diversi, e in cui le alternative di scelta offerte
dal pubblico sono – dal punto di vista della produzione – omogenee ed indifferenziate, il consumatore è sempre più indotto
ad appellarsi, quale criterio distintivo di scelta, a quei criteri di
differenziazione marginale artificiosamente attribuiti al prodotto
dalla pubblicità 17.
Però, questo consumatore descritto da Fabris nel 1968 s’è
ulteriormente evoluto: è sempre più indipendente e consapevole nelle sue preferenze, sempre più critico e sospettoso nei
confronti della pubblicità. Cambiata anch’essa, poiché sempre
meno potrà contare sull’«artificiosità» dei criteri di differenziazione marginale attribuiti al prodotto o al servizio citata poc’anzi. E, al contrario, dovrà legittimare ogni contenuto intangibile;
fornire argomentazioni a supporto del beneficio proposto, contare sull’autenticità (anche delle esperienze generate) e sulla trasparenza della comunicazione.
La psicologia cognitiva ha da tempo dimostrato come i consumatori acquisiscano informazioni su beni e servizi da diverse
fonti, non tutte ascrivibili ai canonici messaggi pubblicitari e
promozionali. Già nel 1972, Howard e Ostlund della Columbia University evidenziavano la straordinaria rapidità con cui il
consumatore tende a comporre i propri media patterns, a usare le informazioni, a selezionare le une rispetto alle altre; ad
apprendere, nel tempo, quali meritano più attenzione e quali
ricordare, quali soddisfano i suoi bisogni di conoscenza, intrattenimento, orientamento 18. Le imprese stesse, d’altra parte,
G. Fabris, La comunicazione pubblicitaria, cit., p. 322.
Per un approfondimento si veda J.A. Howard – L.E. Ostlund, Buyer
Behavior: Theoretical and Empirical Foundations, Alfred A. Knopf Inc., New
York 1973, in particolare le pp. 187-229.
17
18
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consapevoli o meno, emettono, un «flusso consistente di comunicazioni che si affianca alla pubblicità e talvolta riveste persino
un peso maggiore di questa» 19.
Così, i processi di acquisizione delle informazioni da parte
degli «individui consumatori» risultano adesso indubbiamente
più complessi che in passato. L’attenzione, più che in qualsiasi
altra fase socioculturale, è selettiva, limitata, difficile da catturare. Stiamo parlando di un consumatore che già dall’epoca precrisi, numerose ricerche in campo nazionale, e non solo, descrivevano come pragmatico, emotivo, competente, selettivo, esigente,
curioso, proattivo, alla ricerca di prodotti e servizi personalizzati, attento ai dettagli e al prezzo, nomade ma orientato all’affare,
infedele alla marca, spaesato 20. E soprattutto distratto.
D’altra parte, oggi ci si riferisce a una «attenzione parziale
continua» 21, un eufemismo, forse, per non dire perenne distrazione degli individui. Una distrazione generata da un overload
informativo, da una iperscelta e iperofferta di canali e mezzi;
dal moltiplicarsi di messaggi, segnali, annunci. E ulteriormente complicata da una irreversibile, cronica, mancanza di tempo. Una quantità crescente di sms, email e stimoli di ogni tipo,
distrae la nostra attenzione dall’attività – o dalle attività – cui
ci stiamo dedicando. Al plurale, perché svolgiamo sempre più
attività contemporaneamente. E a ognuna di queste dedichiamo una quota ristretta di concentrazione. Se l’attenzione è una
19
«Al consumatore, del resto, interessa relativamente sapere da quale momento dell’impresa scaturisce la comunicazione più seduttiva o più efficace. E,
comunque, il più delle volte sarebbe incapace di discernerlo. Il consumatore è
investito da un flusso globale di comunicazione che ha come fonte d’impresa o
la marca ed è per lui irrilevante conoscere se le diverse componenti del mix comunicativo sono state consapevolmente e strategicamente attivate dall’impresa
oppure no» (G. Fabris, La pubblicità. Teorie e prassi, Franco Angeli, Milano
1992, p. 546).
20
Centromarca-Università Vita-Salute San Raffaele, Evoluzione del ruolo e
del significato della marca: marca industriale, marca commerciale e prezzo nel
nuovo scenario della cultura di consumo, Milano, novembre 2007.
21
Continuous Partial Attention: il termine è stato coniato da Linda Stone nel
1998. Per un approfondimento si vedano L. Stone, Continuous Partial Attention.
Not the Same as Multi-Tasking, in «Business Week», July 24, 2008 e R. Staglianò, Troppi stimoli per il cervello: non ci concentriamo più, in «la Repubblica»,
28 marzo 2006.
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questione di grado e di sforzo, di selettività e intensità 22, l’attenzione parziale continua corrisponde a uno stato ininterrotto
di massima allerta capace di creare quello che è stato definito
un «senso artificiale di crisi» 23 e di impotenza: una condizione
che sperimentiamo ormai pressoché ovunque, sempre e in ogni
luogo. Arriviamo a mettere a fuoco una priorità assoluta e contemporaneamente «buttiamo l’occhio» (o trasferiamo le energie
cognitive) alla periferia della scena per vedere se vi siano, e se
stiamo perdendo, altre opportunità. A quel punto, se intercettiamo un messaggio o un contenuto interessante, sposteremo il
nostro sguardo. Il nostro focus è labile, volubile, variabile e soggetto alla deconcentrazione.
Proviamo a pensare come questo comportamento, ormai interiorizzato, si rifletta sulla fruizione dei contenuti pubblicitari.
Se ai tempi di Carosello la pubblicità era un appuntamento atteso che avveniva in un luogo di rappresentazione deputato (il
salotto buono, il tinello) scandendo i ritmi del quotidiano (dopo
«tutti a nanna») e al quale si prestava un’attenzione massima,
nell’era dello smartphone i messaggi commerciali si polverizzano in una miriade di luoghi, di occasioni e di forme. Perdono
la loro sacralità e per certi versi quell’aura e divengono, insieme
alla marca, strumenti di una nuova «discorsività sociale» che ci
avvolge 24. Non è casuale, infatti, se Henry Jenkins (2007) abbia
parlato a tal proposito di «tele-avvolgimento».
Nel corso degli ultimi vent’anni siamo diventati degli specialisti nel prestare una continua attenzione parziale al mondo
che ci circonda e agli stimoli che riceviamo. Non che prima
dedicassimo la massima attenzione a un «soggetto» alla volta,
per compartimenti stagni. Da sempre, ci sono momenti in cui
un’attenzione parziale, ma costante, è la migliore strategia di
attenzione per quello che stiamo facendo 25. A piccole dosi, la
22
Per un approfondimento si veda J.N. Kapferer, Le dimensioni dell’attenzione, in Le vie della persuasione, cit., pp. 155-171.
23
L. Stone, Continuous Partial Attention, cit.
24
Per un approfondimento sui temi della discorsività sociale della marca in
una prospettiva socio semiotica si veda A. Semprini, La marca. Dal prodotto al
mercato, dal mercato alla società, Lupetti, Milano 1996.
25
Secondo il modello dell’attenuazione sviluppato da Treisman, gli input
non desiderati non sono bloccati da una «strozzatura» selettiva come invece so-
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costante attenzione parziale ci è utile. Tuttavia, la mutazione in
questo senso s’è spinta all’estremo, se si pensa che numerosi
autori attribuiscono proprio a questo fenomeno l’ aumento considerevole, nella nostra epoca, di malattie e disturbi cognitivi
legati all’attenzione 26.
Nell’era dell’attention economy e dell’attention management le persone affinano sistemi individuali che corrispondono
a soluzioni cognitive per gestire lo stress derivante dalle molte informazioni e il poco tempo disponibile. Il nuovo rapporto
con il tempo, infatti, s’intreccia con il nuovo rapporto con «lo
sviluppo» delle tecnologie, prima ancora che con le tecnologie
stesse. Uno sviluppo tumultuoso, incessante, di fronte al quale,
al di là di ogni discorso sul digital divide, ci si sente sempre
impreparati e sempre acerbi.
Nella fase che stiamo vivendo, gli inserzionisti si trovano
a dover negoziare l’attenzione del consumatore: offrendo contenuti sotto forma di customer utilities, servizi, esperienze, intrattenimento o vantaggi su misura. Catturare l’interesse delle
persone, significa anche superarne la sazietà, le resistenze, l’indifferenza, il rifiuto della pubblicità stupida, ripetitiva, aggressiva. Significa ingaggiarle, sostituendo al modello ridondante
della tivù generalista (interruzione e ripetizione), quello dell’engagement (contatto e relazione) che ne prevede la partecipazione, anche solo emotiva. Ingaggiare il pubblico significa, inoltre,
seguirlo, guardarlo, osservarlo fino a conoscerlo e studiare i suoi
percorsi per farsi trovare.
È opportuno, a questo punto, far chiarezza sul termine: ingaggio non è adescamento, né pura seduzione; per ingaggiare
è necessario offrire supporting evidences, o per meglio intenderci, «pezze d’appoggio». Occorre fondare le promesse su
argomentazioni reali, tangibili e interessanti. Informazioni,
cioè, che appaiano rilevanti per vita e le passioni individuali.
steneva la teoria del filtro di Broadbent, ma semplicemente attenuati. Per un
approfondimento si vedano D.E. Broadbent, Perception and Communication,
Pergamon Press, London 1958; A. Treisman, Strategies and Models of Selective
Attention, in «Psychological Review», nº 76, 1969, pp. 282-299 e A. Treisman,
Selective Attention in Man, in «British Medical Bulletin», nº 20, 1964, pp.12-16.
26
L’attenzione parziale continua innescherebbe nel nostro organismo una
sovrapproduzione di ormoni dello stress, a partire da noradrenalina e cortisolo.
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È necessario che marche e imprese siano credibili, trasparenti,
interattive e pronte a interagire con un panorama della comunicazione in cui è il consumatore ad avere il controllo.
Quando si parla di «attenzione parziale continua» si fa riferimento a un soggetto che oggi fruisce i diversi media in maniera
indifferenziata, per certi versi fungibile.
Passiamo da uno schermo all’altro, da una connessione
all’altra e il nostro processo di acquisizione delle informazioni è
complesso, fluido e insieme intermittente, reticolare e continuo.
Certamente non lineare.
La tv non è più l’oracolo che fu negli anni Cinquanta e Sessanta. La pubblicità, allora, costituiva, rispetto alla generazione
postbellica, non solo un forte novità, ma soprattutto un elemento
«magico» e seduttivo centrale: è parallela al boom economico e
a un generale «sentimento di rinascita» che non riguarda solo e
necessariamente il prodotto da vendere, quanto una inedita «narrazione». Si pensi solamente al già citato Carosello e più in generale al «tempo» dell’annuncio: lungo, articolato, filmico o teatrale. La cosiddetta réclame trova nella televisione (si potrebbe dire
nell’apparecchio televisivo) il fulcro della famiglia, della stessa
famiglia che prima recitava il rosario davanti al focolare o s’intratteneva a lungo a tavola. Insomma una pubblicità dialogica, visiva
sì, ma anche «letteraria».
Al contrario, oggi, l’apparecchio televisivo è sempre acceso,
quasi che il flusso della programmazione sia una rassicurante
tappezzeria che ci avvolge. Si guarda la televisione, ma nello
stesso tempo, la sera, a casa, sul divano, si accede a Facebook
attraverso il proprio dispositivo mobile, si naviga in Rete, si acquista on line. E c’è chi sostiene che il potere di fascinazione
esercitato dalla televisione negli anni Cinquanta e Sessanta sia
stato assunto dai tablets: un nuovo totem, ancora raro e dunque
attorno al quale ci si riunisce come davanti a un focolare in un
rapporto quasi fisico, di totale compenetrazione, con l’oggetto 27.
27
Lo rivela una ricerca commissionata dall’UPA (Utenti Pubblicità Associati) che attribuisce un’insperata valenza di fascinazione alle immagini digitali
veicolate attraverso l’iPad e tutti i devices concorrenti. In particolare si rimanda a
G. Lonardi, L’efficacia dei messaggi sulla «tavoletta apre un nuovo mercato alla
pubblicità, in «la Repubblica Affari e Finanza», 22 novembre 2010.
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Siamo sempre connessi, e forse, sempre più disattenti. Probabilmente, come scrive Franco Ferrarotti, siamo un «popolo di
informatissimi idioti» 28. Eppure la nostra mente ha – di fatto
– imparato a «surfare» la vastissima superficie della conoscenza; a fare acrobazie e slalom tra l’infinità di segnali e la mole
poderosa di contenuti, messaggi e suggestioni da «smistare». La
cultura contemporanea, accrescendo la complessità, non fa altro
che imporre agli individui nuove sfide cognitive 29. E la pubblicità dovrà sempre più tenerne conto.
2.3 Multitasking: l’integrazione parte dal basso
C’è un trait d’union che congiunge una serie di contributi teorici che hanno affrontato il tema dei media negli ultimi
sessant’anni a partire da Innis passando per McLuhan, Ong e
Meyrowitz fino a Negroponte, Castells e Jenkins 30. È l’idea
che a ogni cambiamento tecnologico nella comunicazione sia
sempre corrisposto un cambiamento di percezione del mondo,
di organizzare l’esistenza, di agire e interagire all’interno dello
spazio sociale. In definitiva, un cambiamento di cultura. Questa metamorfosi giunge sino a noi e descrive il «paesaggio»
degli ultimi anni con un mutamento radicale nella fruizione dei
media che «perturba» incisivamente l’agire sociale e che non
28
Un popolo di informatissimi idioti?, in F. Ferrarotti, Homo sentiens.
Giovani e musica. La rinascita della comunità dallo spirito della nuova musica,
Liguori, Napoli 2002.
29
Secondo Steven Johnson tali sfide cognitive corrisponderebbero a una naturale evoluzione degli individui: siamo più intelligenti e più svegli delle generazioni che ci hanno preceduto grazie alla nuova cultura popolare, all’overload
informativo e alla «pressione» dell’innovazione tecnologica sconosciuti sino a
trent’anni fa. Per un approfondimento si veda S. Johnson, Everything Bad is
Good for You: How Today’s Popular Culture is Actually Making Us Smarter,
Penguin, London 2005.
30
In particolare ci riferiamo ad alcuni grandi «classici» come H.A. Innis,
Impero e comunicazioni, Meltemi, Roma 2001; M. McLuhan, Gli strumenti del
comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967; W. Ong, Oralità e scrittura, Il Mulino,
Bologna 1986; J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. Come i media elettronici
influenzano il comportamento sociale, Baskerville Bologna, 1993; N. Negroponte, Being digital, Random House, New York 1995; M. Castells, La nascita
della società in rete, Egea, Milano 2002; H. Jenkins, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007.
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può non ripercuotersi nei linguaggi e nelle forme espressive
della pubblicità.
Basti pensare alla rapidità con cui i giovani hanno ormai praticamente superato il limite della separazione tra virtuale e reale,
tipico del web 2.0, trasformando la Rete in una sorta di estensione del proprio spazio vitale e di quello sociale. C’è chi sostiene,
che oggi, all’epoca dei social media, questa dualità non abbia più
senso, perché la società non è né on line né off line, è semplicemente «aumentata». E gli individui che la abitano sono «cyborg».
Così, la realtà aumentata e popolata dai cyborgs non sarebbe altro
che un nuovo territorio in cui le realtà digitale e materiale si cocostruiscono dialetticamente. Ciò che è certo è che abbiamo a che
fare con un individuo mobile, zigzagante, distratto, multicanale
e digitale. Un soggetto che impone una severa revisione dell’approccio alla comunicazione, specie quella di marca e d’impresa.
Si tocca qui un tema alquanto importante poiché questo nuovo
soggetto, che è anche il destinatario dei messaggi pubblicitari, è,
come abbiamo visto, capace di mettere in pratica strategie cognitive che gli consentono di affrontare la mole sterminata di informazioni che giungono da più fronti e si manifestano in varie forme.
L’atteggiamento descritto nel precedente paragrafo, quello
dell’attenzione parziale e continua, è motivato dal desiderio di
«non perdere nulla», non lasciarsi sfuggire alcun segnale, messaggio o contenuto perché tutto potenzialmente può essere utile
e interessante. Gli psicanalisti parlerebbero a tal proposito di
una coazione a «trattenere». È una specie di vigilanza labile, ma
persistente. Così esaminiamo costantemente ogni opportunità,
come radar, senza soffermarci troppo sulle singole opzioni. In
questo modo, si plana sulla superficie della conoscenza, sfiorandola, evitando di scendere in profondità.
V’è poi un secondo fenomeno, che val la pena considerare,
quello del multitasking, motivato invece dal desiderio di essere
più produttivi e più efficienti. In particolare, il termine media multitasking si riferisce all’«uso simultaneo di più media» 31. È que-
31
«The use of more than one type of medium at time»: la definizione (nostra
traduzione) è tratta da: A.L. Gutnick – M. Robb – L. Takeuchi – J. Kotler, Always Connected. The new digital media habits of young children, The Joan Ganz
Cooney Center at Sesame Workshop, New York 2010, p. 11.
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sta simultaneità il dato antropologicamente più rilevante, ed è qui
che risiede il cambio di paradigma, a nostro avviso. Perché essere
multitasking nell’uso dei media significa combinare i media con
un’interazione nella vita reale (ad esempio, mandare sms mentre
si è a tavola o si sta ascoltando la lezione all’università); utilizzare due o più tipi di supporti allo stesso tempo (come guardare
il nostro programma preferito in tivù mentre ci si scambia file in
Rete e si parla al telefono); svolgere più attività all’interno di un
singolo media (come l’ascolto della radio in streaming quando si
studia o si lavora al computer) 32. E allora, chi non lo è?
Viviamo in una società nella quale portare con sé un Blackberry o un iPhone è come ammettere che il nostro impegno verso
l’attività corrente sarà solo parziale: infatti, nello stesso tempo,
controlleremo la posta, faremo una capatina su Facebook, acquisteremo on line, manderemo messaggi istantanei. Ma questo
comportamento oggi è socialmente accettabile. D’altra parte,
come già osservava Silverstone, i media ci offrono «pietre di paragone e punti di riferimento per la conduzione della vita di tutti i
giorni, per la produzione e il mantenimento del senso comune» 33.
Così, da un lato, lo «strumento» è utile per lavorare, dall’altro, consente di comunicare sempre, comunque, con chiunque,
dovunque. Ne deriva l’idea di un’infinita potenza comunicativa: tema, a ben vedere, che lascia da un lato stupefatti, dall’altro impone riflessioni anche diverse e non necessariamente positive. È come se a ogni attività – non importa se un colloquio
vis à vis o una conversazione elettronica, una partita al videogame o l’invio di un’emoticon – si assegnasse la stessa priorità, senza curarsi troppo delle buone maniere e del grado di
importanza. Così, parafrasando Norbert Elias, potremmo dire
che nella nuova società digitalizzata e frammentata, cambiano
i costumi, in un mutevole rapporto tra istinto e controllo sociale, tra spontaneità e educazione 34.
32
Per un approfondimento si veda C. Wallis, The impacts of media multitasking on children’s learning & development, The Joan Ganz Cooney Center and
Stanford University, Stanford 2010.
33
R. Silverstone, Perché studiare i media?, Il Mulino, Bologna 2002, p. 24.
34
N. Elias, La civiltà delle buone maniere. La trasformazione dei costumi
nel mondo aristocratico occidentale, trad. it. di G. Panzieri, Il Mulino, Bologna
1998.
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Si mangia (anche al ristorante) tra documenti e dispositivi
mobili. Si scola la pasta mentre si parla al telefono. Può capitare
persino, come è accaduto a chi scrive, che il medico che vi stia
visitando mandi messaggi dal suo smartphone mentre siete distesi sul lettino dell’ambulatorio, seminudi.
Tutto questo è diventato un processo automatico, quasi interiorizzato. A volte abbiniamo attività meno impegnative (come
camminare per strada o guardare la televisione) ad altre che
richiedono più concentrazione (come scrivere una e-mail o
parlare al telefono).
E c’è chi sostiene che il media multitasking, oltre che a un
«istinto di produttività», corrisponda alla volontà di ottimizzare
il proprio time budget, vale a dire le risorse di tempo a disposizione. Insomma che serva a ritagliarsi più tempo per sé, per
rilassarsi. Non siamo del tutto convinti di questo. Soprattutto se
si osserva quanto tale atteggiamento sia diffuso tra i giovanissimi. A tal proposito vale la pena citare una ricerca pubblicata nel
2010 dalla Kaiser Family Foundation, secondo la quale i giovani
americani tra gli 8 e i 18 anni dedicano una media di 7 ore e
38 minuti all’utilizzo di «entertainment media» in una giornata
tipo. Ci si riferisce, in particolare, ad attività come guardare la
televisione, giocare a videogames o computer games, ascoltare
musica, mandare messaggi istantanei, navigare su Internet, leggere libri. Considerato che tale tempo è speso in forme di media
multitasking, in realtà, in quelle sette ore e mezzo, i giovani riescono a confezionare un totale di 10 ore e 45 minuti in contenuti multimediali. È interessante osservare il processo in una
serie storica: 1999, 2004 e 2009. In questo decennio, il tempo
globalmente speso utilizzando entertainment media è aumentato
di un’ora e diciassette minuti al giorno (da 6 ore e 21 a 7 ore e
38), e – proprio a causa della fruizione multitasking – la quantità totale di contenuti multimediali consumati durante il periodo considerato è passata dalle 8 ore e 33 del 2004 alle 10 e 45
del 2010 35. E allora, se la gente utilizza i media in maniera così
simultanea per certi versi integrata, perché gli operatori della
Per un approfondimento si veda V.J. Rideout – U.G. Foehr – D.F. RoGeneration M2. Media in the lifes of 8-18 years old, Henry J. Kaiser
Family Foundation, Menlo Park California 2010.
35
berts,
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comunicazione sono così restii ad adottare lo stesso approccio
«sistematico» e integrato?
Fabris, già nel 1992, distingueva due tipi di comunicazione
emessa dall’impresa. Da un lato, quella in cui le diverse componenti del mix comunicativo siano state consapevolmente e strategicamente attivate. In questo caso la comunicazione che raggiungerà il consumatore sarà incisiva, chiara e molto probabilmente,
efficace. E dall’altro, quella in cui le diverse componenti del mix
comunicativo non siano state consapevolmente e strategicamente
attivate dall’impresa e «con tutta probabilità, sarà un balbettio
confuso da cui faranno fatica del levarsi le singole componenti
del mix di comunicazione singolarmente corrette» 36. Nondimeno, oggi gli individui combinano le informazioni (ufficiali e non)
che ricevono sui prodotti, indipendentemente dal fatto che sia la
stessa azienda a integrare i messaggi pubblicitari e promozionali
attraverso i vari mezzi di comunicazione.
Secondo Naik e Raman, «per evitare che i consumatori integrino le informazioni in modo incoerente, le aziende dovrebbero
farsi carico di questo processo» 37.
Il presente lavoro vuole indagare proprio il tema – a nostro
modo di vedere ancora ampiamente inesplorato – dell’integrazione strategica del mix di mezzi e, più in generale, del mix comunicativo da parte dell’impresa e della marca.
G. Fabris, La pubblicità. Teorie e prassi, cit., p. 546.
P.A. Naik – K. Raman, Understanding the Impact of Synergy in Multimedia Communications, in «Journal of Marketing Research», vol. 40, November
2003, p. 342.
36
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