BELLOFIORE Riccardo - Fondazione Cercare Ancora

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BELLOFIORE Riccardo - Fondazione Cercare Ancora
Riccardo BELLOFIORE
Gli anni vissuti pericolosamente
Parlerò in italiano, ma vista la presenza di ospiti stranieri userò un Power Point in inglese. Perché
purtroppo, non è che ne sia particolarmente lieto, l’inglese è la lingua comune.
Quello che posso fornire in apertura di questa iniziativa è un quadro generale della crisi globale ed
europea, dentro il quale proverò a inserire un discorso sulla disoccupazione e sulla precarietà. In
questo contesto cercherò di accennare al dibattito sulle diverse interpretazioni del capitalismo
contemporaneo, così come a quello sulle diverse alternative di politica economica. I tempi sono
estremamente ristretti, e dunque sarò costretto a darvi più che altro una sorta di estratto, di sintesi
molto generale dell’argomentazione che vorrei portare avanti, e che si può trovare in altri miei
scritti, sia da solo che con Joseph Halevi.
Il capitalismo che è andato in crisi è andato in crisi in realtà non nel settembre del 2008, con il
crollo di Lehman Brothers, ma già a metà del 2007 con la c.d. crisi dei subprime, che peraltro
covava da tempo. Un giornalista del Financial Times, John Authers, forse il foglio più bolscevico
sulla crisi che si può leggere negli ultimi anni, ha definito la crisi dell’estate del 2007 il “momento
Wyle E. Coyote”. Il capitalismo drogato dalla finanza continuava a correre fin oltre il ciglio del
burrone, apparendo pur sempre in splendida forma. Correva fino al momento in cui guardava in
basso: era a quel punto che aveva iniziato a precipitare. Queste erano le lezioni della legge di
gravità, che potete veder ricordate dalla diapositiva del power point.
La crisi 2007-2009 è stata paragonata al Grande Crollo, che dal 1929 si prolunga a tutti gli anni
Trenta del secolo scorso. Gli anni che hanno preceduto l’ultima crisi, che va sotto il nome di Grande
Recessione, sono stati ritenuti da molti come un periodo di stabilità, di Grande Moderazione, come
anche è stata definita. Il perché è presto detto. Moderazione salariale, innanzi tutto: dovuta anche
alla generalizzata precarizzazione del lavoro. Dunque, assenza di pressioni inflazionistiche
provenienti dal mercato del lavoro. Crescita dinamica, poi: non in tutto il globo, certo, ma in aree
significative: gli Stati Uniti, l’Asia, alcuni paesi emergenti. Nel frattempo, dagli inizi degli anni
Novanta, il Giappone è entrato in stagnazione e l’Europa, a partire dalla Germania, viveva una
crescita anemica, causa anche il modo con cui quel paese gestì la Riunificazione, e del come accettò
l’unificazione monetaria imponendo politiche deflattive (inclusa una drastica ristrutturazione
interna del mercato e del processo del lavoro).
La crisi ha avuto varie fasi. Tra la seconda metà del 2007 e i primi mesi del 2008 è apparsa
soprattutto come crisi finanziaria: nata negli Stati Uniti, ma subito globale. I primi disastri sono stati
quelli di banche europee, e di banche tedesche regionali, come le Landesbanken. Questa crisi era
legata alla esplosione delle contraddizioni del debito privato. Non però il debito privato delle
imprese non-finanziarie, soprattutto il debito privato delle famiglie – ci tornerò fra un attimo.
Questa crisi finanziaria, nonostante le illusioni anche di molti a sinistra che si illudevano su un
possibile delinking dell’Europa e dell’Italia dagli Stati Uniti, si è tramutata presto in una crisi reale
che dagli Stati Uniti si è fatta essa stessa globale, e che ha colpito soprattutto i paesi manifatturieri
più esportatori, come la Germania e subito dopo (in Europa) l’Italia. C’è stata persino una fase, tra il
settembre del 2008 ed il marzo-aprile del 2009, in cui il neo-liberismo è morto, è stato dato per
morto, cosa che per mio conto credo sia del tutto vera, se guardiamo al neo-liberismo per come
l’abbiamo conosciuto dalla fine degli anni Ottanta al 2007. Nell’ultimo anno la crisi del debito
privato si è trasformata in crisi del debito sovrano, concentrata in Europa. Ed è infine iniziata
davvero la crisi occupazionale anche da noi (una crisi occupazionale che penso si aggraverà, con
poche eccezioni, negli anni che ci aspettano).
Non starò qui a dibattere se questa crisi sia una crisi innanzitutto finanziaria o innanzitutto reale,
perché credo che sia entrambe, come credo che la crescita reale sia stata frutto esattamente della
finanza perversa, e che non sia possibile in questo capitalismo separare una produzione buona da
una finanza cattiva.
Il punto che vorrei piuttosto sottolineare, perché è una posizione un po’ fuori dal coro, è che quando
noi diciamo neo-liberismo, siamo abituati purtroppo a mettere insieme due cose abbastanza diverse.
La prima è il neo-liberismo degli anni Ottanta, soprattutto dei primissimi anni di quel decennio e
poi sempre di meno, è il neo-liberismo propriamente a dominante “monetarista”: quello che ha
anocra sempre e solo in mente la sinistra quando ne parla. Contrazione dell’offerta di moneta,
caduta degli investimenti privati, perché aumenta in modo drammatico il costo del denaro (in
termini nominali e reali), attacco alla spesa pubblica, innanzitutto a quella sociale, attacco al
sindacato e al lavoro, dunque precipitoso aumento della disoccupazione di massa e caduta del
salario (come quota, ma anche selvaggia compressione del salario reale individuale). La vera
domanda è allora: come mai la Grande Crisi per insufficienza della domanda effettiva non si è
manifestata già in questi anni? Anni in cui cadono gli investimenti, cade la spesa pubblica, cade la
domanda da consumi proveniente dal salario. E’ chiaro che non se ne può uscire con le esportazioni
nette, visto che il pianeta come un tutto non può certo esportare sulla luna. La risposta è che in
realtà gli Stati Uniti e lo stesso secondo Reagan hanno costituito una potente contro-tendenza
politica alla stagnazione, con i c.d. twin deficit, i disavanzi gemelli. Disavanzo della spesa pubblica
non coperta dalle imposte all’interno - e, ovviamente, una spesa pubblica fatta di guerre stellari, di
spesa militare, e così via. Ma anche disavanzo con l’esterno, commerciale e di parte corrente, che
provvedeva domanda ai neo-mercantilismi in giro per il mondo, e lo ha fatto sino al 2007.
Neomercantilismo significa che quei paesi - che anch’essi praticano salari relativamente bassi
all’interno - ottengono profitti dall’esportazione al netto delle importazioni, profitti che vengono
reinvestiti altrove. Un meccanismo, per così dire, Luxemburg-Kalecki. Il Giappone, il Sud Est
asiatico, soprattutto la Germania e i suoi “satelliti” sono stati rappresentativi del neomercantilismo,
prima dell’entrata in scena anche della Cina.
Questo è il primo neoliberismo. Ma il neo-liberismo che noi conosciamo sempre più dalla seconda
metà degli Ottanta in poi, diciamo l’era di Greenspan, quindi in germe addirittura dal 1987, è una
cosa abbastanza diversa: forse è proprio un altro animale. E’ un neo-liberismo che ha trovato un
modo tutto suo, alquanto paradossale, di uscire dalla stagnazione. Qui mi concentro essenzialmente
sul luogo trainante, sul centro e sul cuore, di questo neo-liberismo, e cioè sul capitalismo anglosassone, in particolare sugli Stati Uniti. Il modello del capitalismo anglo-sassone si basa su un asse
che, per usare un’immagine che spero condensi in poco tempo l’essenziale del processo, è fatto di
tre soggetti interrelati. Il primo sono i “lavoratori traumatizzati”, come esito della ristrutturazione
sui luoghi di lavoro, come conseguenza della precarizzazione generalizzata. Ma poi anche i
“risparmiatori in fase maniacale”. E qui stiamo parlando in fondo dello stesso mondo del lavoro,
cioè del fatto che le famiglie, anche della classe media e infine anche le famiglie povere, sono state
in qualche modo incluse in modo subalterno nel mondo della finanza: dunque, sono state legate alle
sorti della speculazione sulle attività finanziarie (che si tratti di azioni sui mercati finanziari o di
prezzi delle case sui mercati immobiliari). I “consumatori indebitati”, infine, cioè i lavoratori che
hanno potuto reggere sul terreno del consumo soltanto indebitatosi con banche e intermediari
finanziari perché le trasformazioni, le innovazioni della finanza glielo consentivano.
Di che cosa si tratta? “Lavoratori traumatizzati”, badate, non è termine mio. E’ una espressione, si
narra, impiegata da Alan Greenspan, nel 1995. Stava cominciando a tornare, mettiamolo nella
maniera più secca, la piena occupazione nel capitalismo. Ma questa piena occupazione era in realtà
nient’altro che una sotto-occupazione di lavoratori sempre più precarizzati. Intanto, il capitalismo
istituzionale, il capitalismo dei fondi pensione, il capitalismo dei gestori finanziari, quello che
Minsky chiama il money manager capitalism, faceva affluire quei fondi prima sui mercati azionari,
poi sui mercati immobiliari. Così, mentre i prezzi delle merci non crescevano per colpa dei salari,
andavano crescendo i prezzi delle attività capitale, i c.d. capital asset. Questo ha fatto sì che le
famiglie hanno visto crescere la loro ricchezza in termini “fittizi”, direbbero i marxisti, e hanno
cominciato a consumare sempre di più, perché quella ricchezza virtuale poteva essere usata come
“collaterale” per indebitarsi. Intanto, le stesse grosse imprese “produttive” diventavano in realtà
delle conglomerate finanziarie, i loro investimenti crescevano percentualmente di più nei mercati
delle attività finanziarie che non nella acquisizione di nuovi beni di investimento: una situazione
che Jan Toporowski definisce “sovracapitalizzazione”. Il paradosso è che quando i risparmiatori
diventano “maniacali”, credendo di avere accumulato un risparmio reale facilmente liquidabile a
prezzi crescenti, non risparmiano più sul reddito.
Questo è ciò che chiamo, con un termine che allude alla (e innova la) teoria marxiana, una
“sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito”. Non sono i grandi azionisti che comandano i
manager, né i manager che decidono indipendentemente dai grandi azionisti, sempre con una
sostanziale passività dei piccoli risparmiatori (veniva definito un tempo il parco buoi). Sono i
piccoli risparmiatori che contano, e contano molto, attraverso un meccanismo di profonda
alienazione – ovvero attraverso la loro delega ai money manager al fine della massimizzazione più
veloce possibile della loro ricchezza (è il primato del cosiddetto shareholder value). Questa
situazione si traduce, ancora marxianamente, in una “centralizzazione senza concentrazione”. Non è
che torni la piccola impresa, naturalmente, ma neanche prosegue una pura crescita dimensionale
con una sempre maggiore integrazione verticale. Il capitalismo si struttura “a rete”. Luciano Gallino
esprime questo in modo efficace: in questa nuova situazione non c’è più unità di luogo, unità di
contratto, unità di padrone. E’ una situazione che vede un modo del lavoro sempre più frammentato,
sempre più indebolito: una vera e propria “decostruzione” della forza del lavoro.
Provocatoriamente, ho chiamato questa configurazione del capitalismo un “keynesismo
privatizzato”, già nel 2005 – in uno scritto con Joseph Halevi che forniva in anticipo una critica
puntuale delle analisi di quegli economisti della rive gauche a cui la sinistra radicale tutta, mentre si
divideva, ha sempre ostinatamente fatto riferimento, nelle sue varie anime ferocemente in contrasto
su tutto il resto. Era, ed è, quella una analisi che riduce il capitalismo ai suoi problemi distributivi e
di domanda, senza vederne le radici nella nuova dinamica della produzione e della finanza. Le
proposte di politica economica non potevano che essere deboli, e la comprensione della crisi falsata.
Tant’è che dopo la Lehman Brothers quegli economisti, giunti al capolinea, hanno dovuto
precipitosamente assumere una analisi nella sostanza simile a quella di Halevi e mia, ma torcendola
in senso ancora una volta “sottoconsumista”. E la sinistra radicale si limita a grattare la superficie
dei problemi e ad essere costantemente in ritardo sul terreno interpretativo e propositivo. Per quel
che mi riguarda quella analisi risale in realtà ai miei primi articoli sulla rivista del manifesto,
dunque al 1999-2000. “Keynesismo privatizzato” è un termine che si è ora diffuso, perché è stato
impiegato, dal 2008-2009, del tutto indipendentemente, da Colin Crouch, un importante scienziato
politico; ma di keynesismo fondato sul traino delle bolle finanziarie ha parlato negli stessi anni
anche Robert Brenner.
Perché “keynesismo”, sia pure “privatizzato”? Perché si tratta di tutto meno che di un capitalismo
senza politica, di un capitalismo “liberista”, come ancora insistono a definirlo politici e sindacalisti
della nostra sinistra radicale. E’ un capitalismo governato dalla politica, e più specificamente
governato da una politica economica estremamente attiva: altro che laisser faire! Una politica
economica evidentemente anch’essa “nuova”, diversa dal passato. E’ eminentemente, anche se non
esclusivamente, almeno a livello “macro”, la politica monetaria. Come scrive Marcello De Cecco,
la Banca Centrale è diventata il prestatore di prima istanza, il lender of first resort. Fa affluire
endogenamente moneta, e accompagna la crescita della liquidità. Si è sicuri che i prezzi delle merci
non aumenteranno in forza di spinte salariali praticamente inesistenti (visto il “lavoro in frantumi”
che è stato ferocemente costruito politicamente). Si può dunque “accomodare” con nuova moneta di più, si può produrre – una bolla dopo l’altra. Un meccanismo ritenuto “virtuoso” visto che
indirettamente crea domanda e traina la produzione di lavoratori sempre più sfruttati. Il buon
“vecchio” sfruttamento che si intensifica sempre più nel “nuovo” capitalismo.
Qualche volta, in questa configurazione del capitalismo, c’è effettivamente domanda di nuovi beni
di investimento. Voglio dire: non è che non esistano spinte “schumpeteriane” nella new economy.
Ma non bastano. I prezzi relativi dei beni capitali si riducono (questo corrisponde a quella
“svalorizzazione” del capitale che spiega, in conformità con la stessa teoria marxiana del valore,
perché l’interpretazione della crisi attuale nei termini della tradizionale caduta del saggio del
profitto, in termini cioè di aumento della composizione del capitale, non è convincente). Oggi,
perché il circuito monetario si chiuda dal lato della domanda occorre che aumentino altre
componenti della domanda autonoma oltre all’investimento. La domanda pubblica però si cerca di
comprimerla, e le esportazioni nette non esistono a livello globale. La domanda proveniente dal
reddito, dai salari, è derivata, non può mai essere il traino dell’economia sul terreno degli sbocchi,
anche se può rendere più forte l’effetto moltiplicativo delle componenti autonome della spesa.
Questo è vero sia per Marx che per Keynes. Per questo l’idea di una crescita “trainata dai salari”
non può essere una idea marxiana, una idea keynesiana. Visto che la soluzione non potevano essere
i consumi provenienti dal reddito, il nuovo meccanismo si è incentrato su consumi “autonomi”, cioè
appunto indipendenti dal reddito, stimolati dall’esplosione di questa ricchezza fittizia, il cui
aumento sempre più rapido era legato a filo doppio alla nuova politica monetaria. A questo si deve
anche la nuova forma del circuito monetario del capitalismo: la “finanza” entra adesso, non solo,
ma principalmente, via indebitamento delle famiglie. Si tratta di un finanziamento alle imprese
mascherato, che assieme alla trasformazione della “finanziarizzazione”, ha un potente effetto
ideologico, ma non solo. Legando mani e piedi il destino del mondo del lavoro, nella produzione e
nella riproduzione, alla finanza e al debito, spinge a lavorare di più, più intensamente; e a chiedere,
via gestione dei fondi istituzionali, una corporate governance che approfondisca lo sfruttamento di
altri lavoratori, in un circolo infernale che non può colpire tutti come un boomerang.
Su questo si è basato quel “nuovo consenso” nella teoria e nella politica economica che ha dominato
l’ultimo ventennio, il periodo della Grande Moderazione. Qualcosa, di nuovo, che gli economisti
della sinistra radicale hanno visto con estremo ritardo, limitandosi a riprodurre posizioni tipiche di
un conflittualismo e di un keynesismo tradizionale, entrambi sostanzialmente datati. Il che equivale
alla nostalgia dei bei tempi andati, e fa da contraltare speculare a quelle analisi e proposte della
galassia post-operaista che è, per suo conto, talmente affascinata dalle novità da finire con il fornire
invece una apologia dell’attuale capitalismo, visto come nient’altro che una espropriazione della
naturale cooperazione del mondo del lavoro, la cui figura centrale sarebbe costituita dai c.d.
knowledge worker.
Vorrei telegraficamente ricordare che questo capitalismo è un capitalismo in cui si verificano due
paradossi che è bene avere presenti. Primo, gli squilibri sono stabilizzanti: non per sempre,
evidentemente, ma per molti e molti anni, addirittura decenni, su una scala incomprensibile se si
parte dalle teorie economiche che hanno come asse centrale un qualche paradigma dell’equilibrio.
Gli squilibri sui mercati finanziari, le varie ondate della capital asset inflation - il fatto, insomma,
che un eccesso di domanda e il conseguente aumento dei prezzi non riduce quello scarto ma
addirittura lo aggrava - sono stabilizzanti perché conducono ad un aumento della domanda di
consumo (e in parte di investimenti, direttamente o indirettamente. Dunque, non solo fanno vendere
le imprese, ma rimpinguano le loro casse, raddrizzano la loro esposizione debitoria, sino a che
divengono addirittura creditori netti invece che debitori netti. Il secondo paradosso è che gli
squilibri nei conti correnti dei vari paesi li si è potuti ,non solo sostenere sempre più facilmente, ma
addirittura approfondire, a prima vista senza limiti. Non c’è stato nessun meccanismo che abbia
imposto il riaggiustamento su scala globale, e dunque le c.d. global imbalances si sono riprodotte.
Anche e soprattutto grazie ai movimenti della finanza (vedi i carry trade vecchi e nuovi).
In Europa, abbiamo avuto su questo terreno qualcosa di simile agli Stati Uniti. Introdotto l’euro,
l’equivalente dei subprime è stato qui l’instaurarsi di un mondo di bassi tassi d’interesse, e
soprattutto l’appiattimento drastico dei premi sul rischio dei diversi debitori, inclusi gli stati più
indebitati. I capitali, in cerca di rendimenti più elevati, hanno per esempio acquistato i titoli di stato
greci. Schizzando una caricatura, possiamo dire che la Grecia ha effettuato spese pubbliche in
disavanzo, dove, tra l’altro, il capitale tedesco è stato privilegiato, perché molta di quella spesa
pubblica (in infrastrutture, aeroporti, eccetera), è andata a comprare merci tedesche. Quando c’è un
debitore, c’è però anche un creditore. E nel mezzo della crisi greca si è scoperto che il creditore
principale erano, guarda un po’, le banche tedesche assieme alle banche francesi. Questo
meccanismo si blocca soltanto quando la crisi esplode. Prima, questo meccanismo è stabilizzante, il
risultato è la Grande Moderazione. Tutto appare rovesciato. L’instabilità è repressa, la fragilità
aumenta. Visto che questo capitalismo è, si direbbe in inglese, “insostenibile”, prima o poi le
contraddizioni debbono emergere: ma è impossibile dire come e quando con precisione.
Per questo è abbastanza ridicolo il dibattito sul se si sia previsto con precisione la data e la
dimensione dell’esplosione: si può solo, sensatamente, chiarire la natura dei processi in atto. Chi
scrive, per esempio, si sarebbe aspettato una crisi più grave e più lunga come esito dello
sgonfiamento della dotcom economy, e dopo ha ritenuto invece che il bilanciamento tra forze
stabilizzanti e forze destabilizzanti fosse “aperto” nel suo esito a breve-medio termine, pur sempre
insistendo sulla sua insostenibilità a termine. In effetti, proprio l’uscita (solo) apparentemente poco
dolorosa dalla crisi della dotcom economy dà ragione della hubris della politica economica: della
illusione che si fosse trovata la formula magica che consentirebbe di far correre le bolle sino alla
loro esplosione, tanto si sa come far pulizia dopo, si sa come far ripartire la nuova economia con
una nuova bolla.
Il modello europeo, di contro, è di natura“neo-mercantilista”. Non ci insisterò più di tanto, più che
altro per ragioni di tempo, ma anche perché, vivendoci dentro, lo conosciamo bene. L’asse è
costituito dalla Germania e dai suoi satelliti. “Satelliti” non è un insulto, come ho sentito dire in un
convegno a Maastricht nel 1994. Se ricordo bene, si trattava di Paul de Grauwe, che lo disse in un
convegno come questo; stava proprio in un paese satellite, dunque se ne uscì dicendo che si trattava
di un termine “tecnico”. Tra questi satelliti non ci sono solo paesi centro-europei, c’è anche l’area
scandinava. Sono paesi che esportano, esportano nel mondo, ma esportano anche e soprattutto
all’interno dell’Europa. E’ chiaro che se c’è un’area in avanzo, ci deve essere anche un’area in
disavanzo. E dunque la Germania con i suoi satelliti non si è, fino ad oggi, potuta sganciare dalla
domanda delle aree in disavanzo. Queste esportazioni nette producono profitti che vengono investiti
all’estero. Oltre a queste esportazioni nette all’interno dell’area europea, un’area con una forte
gerarchia regionale interna, l’area di sbocco tradizionale erano gli Stati Uniti, un po’ l’America
Latina e la Russia. Ma l’America Latina e la Russia hanno avuto, alla fine degli anni Ottanta-inizio
degli anni Novanta, una seria crisi. L’Asia, in particolare la Cina, sono diventate sempre più
significative. In Cina, la Germania in particolare (che vende macchinari avanzati e beni di consumo
di alta qualità), ma anche una fetta del manifatturiero italiano, hanno trovato un mercato di sbocco,
ma con importazioni che supera le esportazioni.
Questo meccanismo funziona soltanto fino a che c’è una “locomotiva” che traina. Quando la
locomotiva costituita dal capitalismo anglosassone, in particolare dagli Stati Uniti, crolla con la
crisi, anche il neo-mercantilismo deve crollare di conseguenza. E quando crollano le aree forti del
neo-mercantilismo, di rimbalzo entrano in grave sofferenza le aree periferiche (anche dell’Europa:
dunque, in sequenza, Grecia e Irlanda, poi Portogallo, magari domani la Spagna e noi). Ci si può
chiedere cosa sta succedendo adesso, quali siano le strategie attuali dentro la crisi. Credo che stiamo
vivendo nel bel mezzo di una grande illusione di buona parte della borghesia tedesca,
probabilmente maggioritaria, una illusione - che però è condivisa anche dalla parte più dinamica del
capitalismo italiano (diciamo, quella del c.d. “quarto capitalismo”). L’idea che ci si possa un po’
emancipare dal mercato interno europeo, perché la ripresa, e una ripresa, sarà forte e ci sarà altrove:
in parte negli Stati Uniti, ma soprattutto nei mercati emergenti, e in Cina. Ancora una volta
scontando che questo meccanismo sia un meccanismo stabile, cioè proiettando nel futuro la realtà
del momento. Ci si scorda che si è usciti dalla crisi con una forte iniezione di keynesismo, che è
venuta non da Obama ma dalla Cina, con grandi spese pubbliche in disavanzo, infrastrutturali, con
una crescita che nutre anche una bolla immobiliare sostenuta, e che rischia di deragliare o
implodere. E ci si culla nel sogno che la nuova area di importazione netta possa essere costituita
quasi integralmente dai paesi emergenti (con l’eccezione della Cina, che però dovrebbe comunque
aumentare la domanda interna e il consumo), e che gli Stati Uniti divengano anch’essi esportatori
netti. Vedremo.
Ora, se noi guardiamo su questo sfondo cosa è successo alla disoccupazione e al lavoro, noi
possiamo – devo essere qui molto schematico – registrare una sorta di stratificazione. La cosiddetta
“età d’oro” del capitalismo - il termine non mi piace tanto, in verità – i trenta anni tra il 1945 e il
1975, spesso viene qualificata come un’epoca di compromesso tra le classi. Ma quando mai! Era
un’epoca di dominio forte da parte del capitale, un comando sul lavoro, dentro cui, con il conflitto e
con l’antagonismo, si sono, nel corso della seconda metà degli anni Sessanta soprattutto e primi
anni Settanta, strappate una serie di conquiste. Il fatto che tanto i governi conservatori quanto quelli
più di centro-sinistra abbiano perseguito politiche di bassa disoccupazione lo si deve alla storia
tragica dell’Europa nel Novecento; e poi alla competizione di un sistema, che non ha mai avuto la
mia simpatia, che era il sistema sovietico, e che però imponeva all’Occidente di stare al passo. In
quel trentennio, prima ancora che i keynesiani in senso stretti divenissero consiglieri espliciti dei
governi (avverrà soprattutto con Kennedy e Johnson), esiste una piena occupazione e una
contrattazione collettiva, un lavoro decente secondo la definizione dell’ILO, e salari
progressivamente crescenti in termini reali.
La fase del neo-liberismo monetarista è la fase che risponde alla crisi di questo capitalismo
“keynesiano”, che è anche una caduta da sinistra, una caduta dovuta anche ad un conflitto sociale,
ad un conflitto del lavoro in cui i lavoratori non accettano di farsi usare come strumento di
produzione, come cose, magari risarciti con la piena occupazione e un “equo” salario (lo aveva di
nuovo intuito Kalecki). Quella piena occupazione viene criticata duramente anche se non
soprattutto da sinistra. Vigeva solo in una parte del mondo e solo per un genere, quello maschile,
dentro una mercificazione generale a cui si deve ricondurre anche la distruzione accelerata degli
equilibri ecologici. L’epoca della reazione capitalistica, è l’epoca di una nuova disoccupazione di
massa, che è legata però non soltanto al problema della carenza della domanda effettiva, ma alla
ristrutturazione della produzione da parte del capitale, alla ridefinizione dei rapporti di forza sul
mercato del lavoro. Il fatto è che poi – come ho sostenuto - c’è un secondo neo-liberismo,
all’insegna della flessibilità, ma in realtà della precarietà, e della globalizzazione, un concetto
questo che non esiste, che non ha concretezza, è pura ideologia che la sinistra ha assorbito senza
difese e senza intelligenza (lo stesso è avvenuto con post-fordismo). Questo neo-liberismo, con
queste due bandiere false, è stato in grado di produrre una nuova “piena occupazione”. Il tasso di
disoccupazione negli Stati Uniti torna ai livelli degli anni Sessanta, e anzi si abbassa ulteriormente,
in Europa si riduce drasticamente. E’ in realtà una sotto-occupazione di lavoratori precari, di
lavoratori part-time, di lavoratori con contratti atipici, di bassi salari (ma non sempre). Ci sono
anche aree di un lavoro qualificato, ma la cui autonomia è fortemente limitata, dall’alto e dal basso,
dalla gestione delle imprese e dalla dinamica dei mercati.
Di fronte a questo la sinistra avanza purtroppo delle false soluzioni. Per esempio la riduzione
dell’orario di lavoro come formula rigida, non cioè nell’arco vitale (con bassi salari ciò si
tradurrebbe, se va bene, doppio lavoro; e una riduzione d’orario che regga dovrebbe accompagnarsi
a una ridefinizione della struttura dell’offerta). Oppure il c.d. basic income, su cui c’è molta
confusione. Una cosa per esempio è il basic income in senso proprio, cioè un reddito di esistenza
incondizionato, una cosa è il salario minimo, una cosa ancora è un sussidio ai precari (il massimo di
confusione lo si ha con il concetto di salario sociale impiegato dalla sinistra radicale anni fa).
Giovanna Vertova ha aperto anni fa un dibattito rivelatore sul manifesto (in cui intervenimmo anche
Halevi ed io). I sostenitori del basic income in quel dibattito dicevano che esisteva ormai un
capitalismo della conoscenza (giorni fa è uscito sul New York Times, e da noi su Repubblica, un
illuminante articolo di Krugman, che smonta questo mito) e un lavoro immateriale (un concetto, di
nuovo, incredibilmente inconsistente: Sergio Bologna, del tutto a ragione, ci racconta spesso la dura
materialità di chi produce merci immateriali). Esisterebbe una produttività generalizzata, che è
ormai proprietà della nuda vita. La ricchezza sarebbe là, sarebbe solo da ridistribuire, non da mutare
nella sua natura e nel suo modo di produzione.
E’ chiaro che questa ideologia avrebbe dovuto essere spazzata via dalla crisi. Ed è invero
testimonianza del triste stato della sinistra che tutte le confusioni dei quindici anni passati, pur
smentite con durezza dalla realtà dei fatti, siano ancora dibattute come se niente fosse:
globalizzazione, postfordismo, fine del lavoro, fine dello stato, liberismo risorgente, Impero, basic
income, e così via. Tutte queste posizioni, e il loro correlato di politica economica, presuppongono
la stabilità di una crescita, di una produzione di plusvalore, che, ovviamente, non si è data affatto.
Altra cosa è – come scriveva proprio Vertova in conclusione del dibattito - la richiesta reddito per
ogni lavoratore. Una richiesta giusta, che sta nel DNA del movimento dei lavoratori. Non solo per
ogni lavoratore, per ogni essere umano, come parte potenziale della forza lavoro, anche quando non
è in grado di lavorare. L’idea, che è stata attribuita sulla stampa (autocriticamente) a Maurizio
Landini sulla stampa, secondo cui nella tradizione del movimento operaio il reddito è legato al
lavoro, proprio non ci sta, non la capisco. Basta leggere quell’autore un po’ barbuto dell’Ottocento
che ha scritto un’opera un po’ lunghetta, ma che vale pur sempre la pena di leggersi (come politici e
sindacalisti della sinistra), Il Capitale, e lo si vede con estrema chiarezza. Il reddito va rivendicato, e
va rivendicato del tutto indipendentemente dalla produttività, che è un dato truccato, dipende dal
capitale, dalla controparte. Semmai, un salario in eccesso sulla produttività potrebbe proprio essere
uno stimolo all’innovazione (Per gli italiani: ho scritto un articolo sulla questione del salario e el
reddito sulla rivista Alternative per il socialismo, che chiarisce questi nodi). Sta al capitale garantire
la sussistenza, comunque. Per tutti. E la sussistenza è un concetto relativo, sociale.
Ci sono state, come ho ricordato, delle risposte nazionali un po’ ovunque, e questo è vero anche in
Europa. La Grande Recessione ha visto sì un aumento della disoccupazione, però minore di quanto
ci si sarebbe potuti aspettare, anche quando il capitalismo è stato in caduta libera. Perché si è
intervenuti, quali che fossero le proclamazioni ideologiche In parte perché c’è ancora un Grande
Governo, come lo chiamava Minsky, ovvero c’è pur sempre un peso elevato dello stato
nell’economia, e perché ci sono gli “stabilizzatori automatici”. Ma poi anche perché persino la
signora Merkel, forse soprattutto la signora Merkel, e poi la Francia e altri governi, hanno fatto un
bel po’ di interventi “attivi”, talora intelligenti, sul mercato del lavoro, come la settimana corta
finanziata da stato, sindacato e lavoratori in Germania, o come sussidi condizionati all’industria
dell’auto come in Francia (e non come la generica rottamazione, come in Italia). Si sono fatti
interventi specifici sui settori. Si pongono condizioni al privato, in termini di occupazione, in
termini di esportazioni, ecc. Le politiche sono state diverse, variegate, come lo è la realtà della
disoccupazione. Questi interventi sono però stati interrotti quando si è creduto di vedere dei
“germogli” della ripresa. E’ a questo punto che si è impennata la disoccupazione, lasciata al suo
destino. Per questo sono personalmente convinto che la crisi della disoccupazione sia
sostanzialmente di fronte a noi, non alle nostre spalle. Siamo in una nuova fase, ci avviciniamo ad
una “nuova normalità” in cui si torna, come in un pendolo, alla disoccupazione di massa. Questa
sarà però a questo punto la disoccupazione di massa di lavoratori precari. Una miscela ancora più
pericolosa che nel passato. Insieme all’attacco al lavoro nelle grandi concentrazioni operaie, c’è
oggi anche e soprattutto l’attacco nel pubblico impiego.
E’ questo compatibile con la democrazia? A me non pare. In verità, penso da molto tempo che il
capitalismo sia intrinsecamente autoritario, che la democrazia gli venga – per così dire – “da fuori”.
Non credo, però, che basti innalzare la bandiera della democrazia violata, come fa la nostra sinistra.
Perché i diritti richiedono dei poteri, delle coalizioni del lavoro, e non solo, che li difendano. Se no
sono solo parole vuote, un imbroglio. Nella reazione a questo attacco al lavoro e alla democrazia
spesso si dice: Il lavoro è un “bene comune”, come l’acqua. Il titolo di questa slide che vi propongo,
non l’ho saputa tradurre in inglese, perché non so come si possa tradurre. E’ una espressione
italiana: “La classe non è acqua”. Si è espresso molto bene il primo oratore Patrick Le Hyaric – lui
ha fatto una cosa che in genere a sinistra non si fa, non ha mai utilizzato la parola “lavoro”
genericamente. Ha sempre distinto con cura “forza lavoro” (potenza di lavoro), “lavoro” in senso
proprio (attività che è prestata dalla forza lavoro), e “lavoratori/lavoratrici” in carne e ossa e
cervello (portatori/portatrici della forza lavoro). E’ l’ABC, forse l’unico punto veramente
irrinunciabile di Marx, perché da lì discende tutto. Per questo il lavoro non è, non può essere un
bene comune.
La discussione di politica economica prima della crisi ha visto la contrapposizione tra i neo-liberisti
e i social-liberisti. I primi non sono mai stati autentici fautori del libero mercato (dubito peraltro che
il “liberismo” sia qualcosa che abbia mai avuto esistenza storica). Lo si vede subito. Bush e
Berlusconi sono monopolisti, non vogliono la concorrenza sul mercato dei beni e dei servizi. E lo i
disavanzi pubblici li hanno promossi, non combattuti, come il (loro) primato della politica
sull’economia. Il laisser faire lo vogliono per il lavoro e per il welfare. I social-liberisti, che qualche
cosa del lavoro e del welfare vogliono difendere, sono invece veri liberisti, almeno quando si tratta
di mercato delle merci e dei servizi (è la cultura dell’antitrust, delle “lenzuolate”). Loro sì vogliono
limitare i disavanzi e i debiti pubblici (difendono Maastricht e il Patto di stabilità). Solo ora hanno
riscoperto la regolazione della finanza (è Clinton, un social-liberista, che ha dato gli ultimi colpi di
piccone alla regolazione della finanza roosveltiana). Il paradosso è che la crisi ha spazzato via i
social-liberisti (per fortuna), la fine della crisi forse ce li riporterà (purtroppo). Con il neo-liberismo
in crisi verticale, come a fine 2008-inizio 2009, sono stati i neo-liberisti, come Bernanke, ad aver
gestito la fine del neo-liberismo come lo abbiamo conosciuto in qualcos’altro, con politiche del
tutto originali.
La sinistra radicale si è presentata a questo appuntamento con un’analisi elementare, e sbagliata. Il
problema, si è detto, è il mondo dei bassi salari che producono bassa domanda. Questa è senz’altro
una parte della storia. L’errore è però partire da distribuzione e domanda – teoricamente è un
miscuglio di Ricardo e Malthus. La lezione di Marx, ma anche di Keynes, è ben altra. Bisogna
partire da finanza e produzione – per questo Sweezy e Minsky sono molto più interessanti. E’ su
questo che ho insistito infatti in questa sede. Oggi, vi è chi propone un neo-protezionismo (come
nella Lettera degli economisti) addirittura su base nazionale interna all’Europa. L’opposizione
libero scambio / protezionismo è però una falsa opposizione, perché nessuno, indipendentemente da
quello che proclama, è veramente “liberoscambista”, viviamo quasi sempre nel commercio
manovrato. Qual è la scala su cui si dovrebbe ragionare? La scala può essere solo quella europea.
Sulla scala europea, credo, però, che la sinistra abbia fatto degli errori forse irrecuperabili. L’euro,
com’è stato istituito, è uno di questi errori. Non avevamo bisogno di una moneta “unica” nel senso
di moneta circolante. Avevamo bisogno di una moneta “comune” nel senso del Keynes del 1944:
una moneta comune alle banche centrali, dentro un meccanismo che obbligasse i paesi in avanzo a
crescere di più, non quelli in disavanzo a comprimere reddito e occupazione.
Mi sembra anche fuori fuoco l’idea di Oskar Lafontaine (un politico che ammiro), che ha purtroppo
imitatori da noi, l’idea di risolvere il problema delle global imbalances con un agganciamento
(come? per legge?) dei salari alla produttività. E non solo perché il dato riferimento è dubbio, o
perché se ci si mette su quella strada si deve piuttosto rivendicare l’eccesso del salario sulla
produttività come stimolo all’innovazione. Perché evidentemente equivale a sancire lo
sventagliamento delle condizioni sociali dei salariati europei. E perché la sinistra dovrebbe
preoccuparsi del denominatore (la produttività) prima ancora del numeratore (il salario). E perché
ancora, se si vuole fare della questione della natura e della questione del genere l’asse di una diversa
economia, di uno sviluppo qualitativo, non di una crescita quantitativa, la sinistra dovrebbe semmai
proprio discutere di come usare lo scarto tra produttività (reale) e salario (nominale). Spostare il
contenuto del salario, da un primato del valore di scambio a un primato del valore d’uso.
Abbiamo bisogno, per risolvere il problema dell’occupazione, non solo di una intelligente riduzione
dell’orario di lavoro nell’arco vitale, non solo di attutire gli effetti delle crisi con un sostegno al
reddito. Abbiamo bisogno di distinguere tra “cattivi” disavanzi e “buoni” disavanzi, come sostiene
Alain Parguez. Non penso che sia corretta la demonizzazione dei disavanzi pubblici. Ma penso
anche che si debba dire a sinistra che ci sono cattivi disavanzi e buoni disavanzi. I cattivi disavanzi
sono tali perché sono automatici, perché hanno a che vedere con la nostra incapacità di gestire le
economie, perché i loro contenuti, i contenuti della spesa e delle entrate, sono talora orrendi. Sul
terreno della spesa come dell’imposta la sinistra non può rinunciare ad una battaglia che ne metta in
questione la struttura. La vera questione è che il pubblico, il governo, dovrebbero intervenire su
cosa, come, quanto produrre. E’ il tema degli investimenti infrastrutturali, della ricerca,
dell’educazione, della sanità – tutte cose che non vanno viste come costo ma come una risorsa. E’ il
tema di una nuova produzione rispettosa della natura, di una diversa mobilità. E’ così che si incide
sul denominatore, sulla produttività, e si riempie di contenuto il “verde” e il “rosa” che devono
attraversare il “rosso” di una politica economica alternativa.
Noi abbiamo bisogno oggi di una “socializzazione dell’investimento”, come scriveva Keynes (ma
radicalizzata, come argomentava Minsky già nel 1975), di una “socializzazione dell’occupazione”
in cui lo Stato si fa occupatore di prima istanza (un termine efficace che prendo a prestito da
Emiliano Brancaccio: nello stesso senso, richiamando Sylos Labini e Ernesto Rossi, Halevi ed io
parlavamo di “piano del lavoro”, di “esercito del lavoro”), di una “socializzazione delle banche”,
che vanno ridotte a public utilities (come argomenta e bene da tempo Leo Panitch.
Ma su scala europea. Perché l’Europa ha una struttura economica compatta, integrata, come in
piccolo la ha Germania, come in grande la ha Cina. Questo richiede, evidentemente, controlli dei
capitali, regolazione stretta della finanza. Si potrà dire che è utopia, e forse lo è davvero. Vi segnalo
però che tutte queste cose sono avvenute, ma da destra. Durante la crisi, vi è stata in qualche modo
una socializzazione dell’occupazione, pure una socializzazione della banca (non nella forma
corretta, della nazionalizzazione, ma in quella del salvataggio indiscriminato), si è addirittura
parlato del ritorno della spesa pubblica e di un green New Deal. In fondo, appunto, una
socializzazione dell’investimento. I controlli di capitale stanno emergendo ovunque, e lo stesso
Fondo Monetario non li demonizza, e così la regolazione della finanza. O la sinistra recupera il
senso dell’utopia, il senso della possibilità contro il senso della realtà, o è un morto che cammina.