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RASSEGNA STAMPA giovedì 22 maggio 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO L’UNITÀ AVVENIRE IL FATTO REDATTORE SOCIALE PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE ESTERI del 22/05/14, pag. 3 Voto al via e Le Pen gela Parigi: «Ebola cura anti-migranti» L'impennata di euroscettici ed estrema destra, la crisi economica, l’austerità, il presidente della Commissione Ue scelto dai cittadini e un Europarlamento con veri poteri. Lo slogan scelto per convincere gli oltre 400 milioni di cittadini europei con diritto di voto a recarsi alle urne non poteva essere più azzeccato: «Questa volta è diverso». A ricordare a suo modo la posta in gioco è stato anche Jean-Marie Le Pen, eurodeputato e presidente onorario del Front National francese. Ieri il vecchio leader dell’estrema destra ha indignato il Continente affermando che il virus ebola «può risolvere in tre mesi» il problema dell’immigrazione. Le condanne per la dichiarazione sono arrivate da ogni parte e il capo della delegazione del Partito socialista al Parlamento europeo, Marc Tarabella, ha detto che l’Assemblea di Strasburgo è pronta a revocare l’immunità parlamentare all’esponente frontista se verrà presentata una denuncia contro di lui. Il rischio però è che il Front National guidato dalla figlia Marine Le Pen venga premiato dagli elettori, visto che i sondaggi lo accreditano come primo partito di Francia. La risposta arriverà domenica sera quando alle 22 verranno diffuse le prime proiezioni sulla distribuzione dei 751 seggi dell'Assemblea di Strasburgo. Poi alle 23, quando si chiuderanno le urne anche in Italia, inizieranno ad essere diffusi i risultati parziali. Oggi il super week end elettorale è iniziato con l’apertura dei seggi in Gran Bretagna e Olanda. Domani tocca a Irlanda e Repubblica Ceca. Sabato a Lettonia, Malta e Slovacchia e domenica a tutti i Paesi restanti. L’idea iniziale era di sincronizzare le votazioni in tutti e 28 i Paesi Ue in un’unica giornata, ma anche su questo la via dell’integrazione è ancora lunga. Ognuno vota con la propria elegge elettorale e ognuno vota i propri candidati. Anche l’idea di creare dei collegi transnazionali resta un progetto per il prossimo giro. Ad ogni Stato è assegnato un numero di seggi prestabilito, in base alla popolazione. L’Italia deve eleggere 73 eurodeputati. La grande novità è che questa volta i partiti politici europei hanno indicato un capolista candidato alla presidenza della Commissione europea. In questo modo l’incarico più prestigioso in Europa, che è sempre stato scelto a porte chiuse dai governi, sarà di assegnato indirettamente dai cittadini. A contendersi la poltrona più importante sono il socialista tedesco Martin Schulz, il conservatore lussemburghese Jean-Claude Juncker, il liberale belga Guy Verhofstadt, il leader della sinistra radicale Alexis Tsipras e i verdi Ska Keller e José Bové. La novità è anche che dopo diversi anni di crisi economica e di contestate politiche di austerità i cittadini hanno iniziato a parlare di Europa e le elezioni non sono più solo un test per i partiti nazionali. Non è detto però che questo basterà ad invertire il trend al ribasso dell’affluenza alle urne. Dalle prime consultazioni europee del 1979, quando la partecipazione è stata del 61,99% si è arrivati al 43% del 2009. 2 del 22/05/14, pag. 12 L’Olanda dei ‘nuovi barbari’ dà il via al voto I PARTITI NAZIONALISTI E ANTI-IMMIGRATI CAVALCANO L’INSOFFERENZA CHE HA MESSO IN CRISI IL MODELLO DI ACCOGLIENZA E WELFARE di Andrea Valdambrini Bruxelles La scena non poteva essere più efficace e dirompente di così. Nella piazza davanti il Parlamento europeo di Bruxelles, il leader dell’estrema destra olandese Geert Wilders elegantissimo in completo scuro e cravatta viola - ha sfregiato uno dei (pochi) simboli dell’unità europea: la bandiera con le 12 stelle. In realtà Wilders ha ritagliato una sola stella, quella che rappresenta il suo Paese, a significare la separazione da Bruxelles e il ritorno dell’Olanda alla sovranità nazionale. I SIMBOLI IN POLITICA contano, questo Wilders lo sa. Il suo Partito della Libertà (Pvv) che sembra racchiudere tutto quello che nei palazzi dell’Unione fa più paura: nazionalismo, populismo, euroscetticismo, estrema destra, razzismo, islamofobia. I sondaggi gli danno ragione. In un’Olanda che va oggi al voto per le Europee - insieme alla Gran Bretagna -, il Partito di Wilders è dato da alcuni al 12%, mentre altri analisti prevedono possa addirittura scavalcare laburisti e liberali, insieme nel governo guidato da Mark Rutte, e posizionarsi primo. Nei Paesi Bassi come altrove in Europa, moltissimo dipenderà dall’affluenza alle urne, che potrebbe avvantaggiare sensibilmente una formazione politica piuttosto che un’altra. Il voto è europeo, ma gli elettori hanno la testa ai problemi nazionali. In un Paese che vede un’altissima percentuale di immigrati, la proverbiale accoglienza si è trasformata in insofferenza, espressa da parte di una fetta della popolazione attraverso il voto a Wilders. L’islamofobia, unita alla difesa dei diritti civili - come quelli dei gay - è una caratteristica dell’estrema destra olandese, segnata da omicidi come quello di Pim Fortuyn (2002) e del regista Theo van Gogh (2004), entrambi critici radicali della società multiculturale e dell’estremismo islamico. In ogni caso, Wilders sa bene che, per quanti eurodeputati possa ottenere, da solo non può fare molto a Strasburgo. Non a caso, il leader dell’estrema destra olandese è il perno, assieme a Marine Le Pen di un’alleanza tra partiti nazionalisti, anti-euro e anti- Unione europea che comprende anche la Lega Nord di Mattero Salvini e l’ estrema destra austriaca dell’Fpoe. Si tiene le mani libere, per ora, Nigel Farage, carismatico leader dello Uk Independence Party , che rischia di arrivare primo nelle elezioni di oggi in Gran Bretagna. Quanti seggi otterranno i partiti dell’alleanza, quale gruppo parlamentare formeranno gli eletti all’europarlamento e se riuscirà a formare una minoranza in grado di bloccare le leggi in aula - questi sono gli interrogativi che potranno e dovranno trovare risposta nelle settimane post elettorali. MA GLI ALLEATI euroscettici di Wilders fanno capolino anche in Belgio, perfino nella stessa capitale dell’Unione europea, Bruxelles. Da un lato c’è l’estrema destra del Vlams Belang (letteralmente: “inte - resse fiammingo”), accreditata di circa l’8%, anche se gli indipendentisti fiamminghi della New Flemish Alliance (Nva) di Bart de Wever - che prenderanno molti più voti - non vogliono avere niente a che fare con Le Pen e Wilders. 3 Dall’altro, anche sul fronte francofono c’è Debout les Belges. Si tratta di una formazione populista nata da poco sotto gli auspici del controverso comico francese Dieudonné, condannato in Francia per antisemitismo. del 22/05/14, pag. 12 L’Europa non piace già più: Slovacchia fra populismi, miliardari e urne vuote di Pierfrancesco Curzi Bratislava C’è una bella atmosfera dentro il FlagShip di Bratislava, cucina tipica slovacca, un ex teatro trasformato in ristorante. Un piatto di Halusky (gnocchetti conditi a base di latte di capra e pancetta) davanti, un boccale di Zlaty Basant e con uno strudel a fine pasto, cerco di riflettere sul senso della parata della vittoria nella II guerra mondiale di qua dell’ex Cortina di Ferro. Prima degli anni ‘90 a Bratislava e in tutto il territorio sottoposto all'egemonia sovietica, viali e piazze sarebbero stati riempiti da parate mirabolanti. Oggi, al contrario, si festeggia il primo decennio di appartenenza alla “grande famiglia” europea. In Slovacchia l'euro è entrato il 1° gennaio 2009, come in altri 9 Paesi. Sfondo blu e stelle dorate tappezzano la capitale, al posto di stelle e sfondi rossi, ormai banditi. I timori che la Slovacchia possa abbandonare un futuro europeista sono mal riposti, ma intanto alle celebrazioni nel teatro nazionale arrivano a braccetto i vertici di Bruxelles: Herman van Rompuy, José Manuel Barroso e Martin Schulz . Una parata di stelle, tanto per indicare la strada da seguire, anche il 25 maggio quando gli aventi diritto dovranno eleggere i 13 europarlamentari slovacchi: “La gente tocca con mano gli aiuti ricevuti dall'Unione europea – spiega Roberto Rizzo, primo segretario dell'Ambasciata italiana a Bratislava –, i monumenti e gli edifici restaurati, i mezzi di trasporto. Il 66% è a favore, poi però gli slovacchi sentono l'Europa lontana dai problemi reali e vanno a votare in pochissimi”. Ecco perché le previsioni più ottimistiche parlano di un afflusso al voto non superiore al 20%. Se non è euroscetticismo questo. Non aiuta neppure la complessa situazione politica: “Il voto è in parte frammentato – analizza Pierluigi Solieri che dal 2009 cura Buongiorno Slovacchia, sito di notizie in italiano – da una parte, sul centrosinistra, il mastodonte Smer del premier Robert Fico (pronuncia: Fizo), l'equivalente del nostro Partito democratico, dall'altra una babele di partiti che litigano. A METTERE D'ACCORDO tutti è stato Andrej Kiska, il nuovo presidente della Repubblica, eletto dai cittadini e non dal Parlamento, ad aprile. Un imprenditore milionario che ha venduto le sue aziende e investito parecchio denaro nella campagna elettorale senza avere un partito alle spalle. Gli slovacchi lo hanno ritenuto credibile e così il filantropo che ama la beneficenza ha umiliato Fico e tutta la politica”. La minaccia, semmai, arriva dall'est del Paese orientale, da Banska Bystrica, una delle 8 regioni slovacche. Dall'anno scorso è guidata da Marian Kotleba, leader del Partito del Popolo, estrema destra, razzista e omofobo. Alle prossime Europee potrebbe eleggere un suo parlamentare, unendosi alle altre forze populiste ed estremiste che si stanno ritagliando spazi importanti in Francia, Ungheria, Grecia ecc. La Slovacchia è uno Stato etnicamente puro. Gli immigrati sono 45 mila di cui due terzi comunitari, gli irregolari 3-4 mila in tutto. In strada non si incontrano persone di colore, pochi gitani, qualche orientale. Non potendosi sfogare su di loro, 4 qualcuno veicola il sangue nazionalista contro la minoranza ungherese, 8-9% della popolazione. Tolleranza razziale, di genere, di sesso. In molti attendono con ansia il Gay Pride del 28 giugno a Bratislava. Intolleranza, o meglio la caccia al cosiddetto ‘diverso’ non piace a tutti per fortuna: “Siamo una società chiusa –ammette Tomas Krissak, della AT&T, la multinazionale americana delle telecomunicazioni –. Vorrei avere un interscambio maggiore con immigrati da varie zone del mondo, arricchirmi, uscire dal guscio. Kiska potrebbe rappresentare la rottura col passato e con Fico”. Intanto a Bratislava è sbocciata un'estate prematura. Migliaia di turisti in maniche corte siedono ai tavoli di eleganti bar, passeggiano nelle vie del centro storico o si rilassano sulle sponde del Danubio, all'ombra del Castello. I visitatori sono ovunque. Ogni anno ne arrivano 50 mila anche dall'Italia e in 2 mila ci vivono. Il programma di Andrei Klapica, 4° in lista alle prossime Europee per il partito di centrodestra Kdh, punta tutto sul tema della famiglia: “Di recente ci siamo accordati con lo Smer in ambito costituzionale – sostiene Klapica, 37 anni, studi universitari a Bologna – noi abbiamo appoggiato un loro disegno sulla giustizia e Smer ci ha sostenuto per la legge sul matrimonio, riconosciuto solo tra uomo e donna. Ognuno dei due aveva bisogno dei voti dell'altro. I 3 che stanno davanti a me in lista hanno tutti sopra 60 anni, io sono il nuovo che avanza. Ho molte idee e seguo il modello italiano della piccola- media impresa, inesistente in Slovacchia. Siamo vicini alle posizioni del partito di Casini, abbiamo ottimi rapporti con Buttiglione. Ma io sono affascinato da Renzi”. del 22/05/14, pag. 1/32 Appena il 27% degli italiani ha fiducia nell’Ue e il 12% si considera avvantaggiato dalla moneta unica Il populismo dilagante nel Vecchio Continente riflette il disinteresse dei leader verso i loro elettori L’Europa che vogliamo Ventotto Paesi vanno alle urne per eleggere i 751 rappresentanti di oltre 500 milioni di persone L’Italia sarà l’ultima a chiudere i seggi: si vota domenica fino alle 23. Il nuovo Parlamento, schiacciato dalle decisioni dei governi e dall’ondata di antipolitica dovrà costruire una vera democrazia LUCIO CARACCIOLO DOMENICA si vota per il “Parlamento europeo”. Rigorosamente tra virgolette. Infatti non è un vero parlamento e non è davvero europeo. Vediamo. Nessuno Stato che esibisse come parlamento l’assemblea di Strasburgo, con i suoi limiti di autorità e potestà legislativa, senza un governo da votare, controllare e sfiduciare, potrebbe infatti passare il test preliminare di democrazia. Sicché, una volta insediato, i media di tutto il mondo si disinteressano quasi totalmente di ciò che accade in quell’esoterico emiciclo. Né si tratta di un’elezione europea in cui ognuno di noi sceglie i suoi deputati a prescindere dallo Stato di origine. Semmai, di 28 scrutini nazionali. Su liste composte in base a logiche domestiche nei diversi paesi dell’Ue, cui seguono molto virtuali campagne elettorali, centrate sui temi che interessano le opinioni pubbliche locali. Le quali lo considerano un voto nazionale di serie B, un test in vista del vero voto politico, quello interno. Di più: non solo non esiste un progetto d’Europa condiviso, manca una discussione su quali debbano essere i fini dell’esercizio comunitario, oltre alla riproduzione di se stesso. 5 Ilvo Diamanti ha misurato lunedì scorso, su queste colonne, il grado di disincanto verso l’Unione Europea e verso l’euro nei principali paesi europei. Incluso il nostro, il cui euroscetticismo tocca quote britanniche (solo il 27% degli elettori italiani ha fiducia nell’Ue e il 12% si considera avvantaggiato dall’euro, secondo un’indagine Demos-Pragma per la Fondazione Unipolis). Conclusione: se non ci fossero gli antieuropei a farlo, di Europa non si parlerebbe proprio. È moda prendersela con i “populisti”. I quali se ne rallegrano e ne traggono profitto. Certo, va bene deprecare le sguaiatezze di grillini, leghisti o loro simili in altre contrade europee. Costoro vellicano il più odioso particolarismo, se non addirittura il razzismo che corre sotto la pelle di noi civilissimi europei. Ma conviene chiederci da dove derivi tale eurofobia primaria. E come opporvisi. Se vogliamo dare un senso a queste elezioni, anche se queste elezioni un senso non ce l’hanno, è d’obbligo azzardare una risposta. Il problema dell’Europa sta nell’offerta non nella domanda. Non serve sdegnarsi per il senso di noia o financo di deprecazione di cui la sfera semantica di questo termine si è sovraccaricata. Nessuno pare in grado di determinare in modo univoco che cosa significhi Europa, quale spazio geografico designi, di quali istituzioni debba dotarsi, quali obiettivi debba perseguire per i suoi cittadini e quale funzione possa svolgere nel mondo. Ciascuno ne coltiva idee diverse, più spesso nessuna idea. Perché nessun leader europeo pensa che questo esercizio possa portargli vantaggio. Anzi, a mostrarsi pro-europei i voti si perdono — giurano tutti (in privato). È davvero così? Lo è senz’altro, se si scambia per pro-europeo il vuoto europeismo retorico, con i suoi discorsi della domenica recitati al modo ottativo intorno agli Stati Uniti d’Europa e ad altri magnifici ideali mai definiti, senza una road map verificabile. Ma non si può solo moralizzare intorno al “dover essere”, magari non credendo nemmeno alle proprie parole. Come si può chiedere a un cittadino elettore di entusiasmarsi per qualcosa che non siamo nemmeno in grado di definire? In che senso possiamo considerare democratico un insieme in cui le decisioni che contano vengono prese non dal Parlamento o dalla Commissione, ma nelle sedute segrete notturne dei capi di governo che si aprono al tramonto con l’aperitivo, si concludono con il cappuccino dell’alba, alle quali seguono 28 conferenze stampa parallele in cui ogni leader si rivolge al suo elettorato per raccontare la sua verità sugli esiti di un negoziato di cui nemmeno gli storici futuri potranno scandagliare i percorsi, visto che non ne esiste uno straccio di verbale? In questo modo non si costruisce una democrazia europea. In compenso, si delegittimano quelle nazionali — anche di qui il rifiorire dei secessionismi in Spagna, in Gran Bretagna, in Italia e altrove — e si attacca alla radice l’albero della politica. A Bruxelles e dintorni resta in auge il precetto del grande europeista Jacques Delors, per cui «l’Europa avanza mascherata ». Forse, ai suoi tempi. Ma oggi il velo del pudore europeista contribuisce a farci arretrare verso inconfessabili — o invece agognati? — fortilizi feudali e corporativi, verso sempre disastrosi nazionalismi. Il “populismo” riflette la sfiducia dei leader europei nei loro elettori: perché dovrei fidarmi di chi non si fida di me? Si può sperare in non troppo future elezioni per il Parlamento europeo, senza virgolette? Si deve. La deriva antipolitica non si ferma da sola. Per invertire la rotta, orientandola verso una democrazia europea, dunque verso uno Stato europeo a tutto tondo, prodotto da chi lo vuole e lo può erigere, occorre che ciò che resta delle democrazie e dei parlamenti nazionali produca un disegno possibile, non per aggirare il consenso, ma per coagularlo. Scopriremmo forse che, coinvolti in un progetto d’Europa, noi europei ne premieremmo gli artefici con il nostro voto. L’alternativa non è lo status quo, che non esiste. Galleggiare a lungo nel mare dell’antipolitica è illusione. E naufragarvi non sarebbe dolce. 6 del 22/05/14, pag. 14 La crisi è prigioniera dei Trattati Ue. Ma Schulz non lo dice Gianni Ferrara Martin Schulz ha sintetizzato i mali dell’Unione europea che vorrebbe sradicare. Sono quelli della «politica di austerity a senso unico per stati e cittadini». Quelli che avrebbero trasformato Ue da «un progetto di pace e di prosperità in un insieme di regole». Per cui l’Ue avrebbe perduto «la capacità di raccontarsi, di entusiasmare e di far guardare al futuro con ottimismo». A questa Ue il progetto socialdemocratico, di cui è portatore, oppone non una «unione burocratica ma un’unione politica ed economica». Quanto alla crisi accusa l’Europa «di essersi aggrappata alle regole» di essere stata «senza leadership … e di aver utilizzato i Trattati come «giustificazione dell’inazione» Trattati «ove non è scritto come uscire dalla crisi». (vedi articolo de la Repubblica). Non va esclusa affatto, e si può anche esser certi della sensibilità sociale del dr. Shulz. Credo però che queste sue dichiarazioni generino non poche e non infondate perplessità. Cominciamo dalla prima. La politica di austerity a senso unico non è stata certo inventata e poi imposta all’Ue da una potenza extra europea. Consegue immediatamente dai Trattati che non hanno affatto provocato inerzie. Hanno prodotto invece un coerente indirizzo di politica economica e finanziaria che ne ha attuato principi, fini e norme, mediante atti esattamente corrispondenti a detti principi. Tutti adottati dalla Commissione e dal Consiglio e, per quanto di competenza, dal Parlamento europeo, riluttante talvolta, ma certamente non svincolato dai compiti che i Trattati gli assegnano. La perdita della capacità di «entusiasmare» ne è stata la conseguenza ineluttabile. Soprattutto perché il «raccontarsi» come progetto di prosperità era, più che ottimistico, bugiardo. Bugiardo perché l’unione progettata era esattamente quella burocratica disegnata per eseguire le norme dei Trattati secondo lo spirito dei Trattati, con la logica che ne derivava. Univoca, esplicita trasfusa innanzitutto nell’architettura dell’Unione che faceva, e fa, di tutte le sue istituzioni gli esecutivi dei Trattati. Parlamento compreso, la cui attività si traduce, infatti, nel potere deliberare solo quello che gli propone la Commissione il cui compito assorbente e vincolante ogni altro è quello di organo che «vigila sull’applicazione dei Trattati e delle misure adottate dalle istituzioni in virtù dei Trattati». (art. 17 del Trattato sull’Unione). Un’architettura quindi che realizza il trionfo degli esecutivi, rendendoli tutti tali, qualsivoglia nome o veste assumessero ed abbiano assunto. Esecutivi di che cosa, di quale progetto, di quale principio fondamentale? I Trattati non nascondono affatto la norma fondamentale dell’Unione. Non la si trova negli articoli 2 e 3 del Trattato sull’Unione che elencano declamazioni inebrianti di valori, principi, fini che simboleggiano le conquiste della costituzionalismo e della democrazia degli ultimi due secoli. La norma fondamentale dell’Unione contraddice radicalmente questi valori, principi, fini. È un po’ nascosta, in verità, forse anche per quel pudore che accompagna spesso l’ipocrisia. È scritta nel Trattato sul funzionamento dell’Unione, agli articoli 119 e 120, secondo i quali «l’azione degli Stati membri e dell’Unione comprende …. l’adozione di una politica economica …. condotta conformemente al principio di un’economia di mercato aperta ed in libera con concorrenza». La norma fondamentale dell’Ue è questa. Ne sancisce la dinamica ed il fine. Ha carattere esclusivo ed escludente. 7 È questa la norma che non permette che si esca dalla crisi. Non lo permette perché ne è la causa, la ha provocata. È questa la norma fondamentale da abrogare. Shulz non può non saperlo. Ma non dice di volerla espungere. Con Tsipras si può. È una ragione decisiva per votarlo. del 22/05/14, pag. 7 Kiev prova a smarcarsi dai neonazi e propone un piano di pace a est Simone Pieranni Ucraina. Il documento non è stato firmato dal partito Svoboda Si va spediti ormai verso le elezioni presidenziali del 25 maggio. Anche la Cnn ha confermato ieri, lo spostamento di truppe russe dal confine ucraino, segnale rilevante di come Mosca non voglia pesare sullo svolgimento delle elezioni, su cui per altro aveva già aperto alcune settimane fa. Analogamente è parsa muoversi che Kiev, che nei giorni scorsi ha fatto approvare dal parlamento un memorandum «di pace e reciproca comprensione», che prevede il ritiro delle truppe ucraine dalle zone dell’est del paese, purché i filorussi abbandonino i luoghi occupati e conquistati e le armi, e che propone un potenziale tavolo di discussione sulle future forme di governo del paese. Un’apertura forte, non condivisa da tutti: il partito di estrema destra di Svoboda e quello delle Regioni, dell’ex presidente Yanukovich, non l’hanno firmato. Un segnale che anche all’interno del fronte di Majdan, le posizioni non sono univoche e anzi. C’è da ragionare inoltre su questa decisione, che avviene forse anche su indicazione dei consulenti americani a Kiev, leggi Cia, che forse ha deciso di raccogliere i segnali distensivi giunti da Mosca, decidendo infine per consentire elezioni senza la minaccia di tank e bombardamenti. Rimane naturalmente l’incognita della partecipazione (meno sul vincitore che con tutta probabilità sarà l’oligarca Poroshenko) delle regioni orientali del paese. è altrettanto vero che anche nel fronte dei filorussi non tutti sembrano pensarla allo stesso modo. Ieri Pavel Gubarev, uno dei leader dell’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk, ha annunciato la formazione di un partito nuovo di zecca, chiamato La Nuova Russia. I pro-Mosca dicono inoltre di voler realizzare un nuovo Stato, il nome è lo stesso del partito, la Nuova Russia, unendo le «repubbliche» separatiste di Donetsk e Lugansk. Ieri è tornato a parlare di Ucraina anche il vicepresidente Usa Joe Biden, dopo la scoperta che suo figlio farà parte della più importante compagnia di gas ucraino. «Tutti i Paesi devono usare la loro influenza per garantire un clima stabile che consenta agli ucraini di votare domenica in piena libertà», ha specificato Biden in una conferenza stampa a Bucarest al termine di un colloquio con il presidente romeno Traian Basescu. Il vicepresidente ha nuovamente dato assicurazioni alla Romania ribadendo l’impegno degli Usa a rispettare l’articolo 5 del Trattato della Nato sulla difesa collettiva degli stati membri, e ha sottolineato l’intenzione dell’Alleanza di rafforzare la sua presenza nell’Europa centrorientale, su terra, mare e cielo. Biden ha quindi confermato i tempi di realizzazione del progetto di scudo antimissile per il sito romeno di Deveselu, nel sud del paese. Il vicepresidente americano ha infine dichiarato a Budapest che saranno necessarie nuove sanzioni contro la Russia se questa saboterà l’elezione presidenziale di domenica 25 in 8 Ucraina. «Se la Russia sabota l’elezione in Ucraina, noi dobbiamo essere determinati a imporre costi supplementari», ha detto Biden in una conferenza stampa. Ieri sono proseguiti anche gli incontri del tavolo di unità nazionale, organismo che appare superato dopo l’ultimo memorandum approvato dal Parlamento, sebbene non da tutti i partiti. Il premier autoproclamato di Kiev Arseni Yatseniuk, ieri, ha escluso la possibilità di incontri bilaterali tra Mosca e Kiev per risolvere la crisi in Ucraina. «Nel contesto attuale — ha detto durante la terza seduta del tavolo di dialogo nazionale a Mikolaiv — credo che le negoziazioni bilaterali tra l’Ucraina e la Russia non possano essere prese in considerazione». Yatseniuk si è però detto a favore di un altro vertice a quattro con i rappresentanti di Usa, Ue, Ucraina e Russia come quello di Ginevra del 17 aprile. Da capire infine gli effetti che avrà sulla situazione ucraina lì’accordo storico tra Cina e Russia in materia di fornitura di gas. del 22/05/14, pag. 1/13 Russia-Cina il patto del gas che fa paura all’Occidente PAOLO GARIMBERTI SONO passati 45 anni, un soffio per la Storia, da quando russi e cinesi si scambiavano cannonate dalle due sponde del fiume Ussuri e i soldati di Mao si abbassavano i pantaloni nel gelo per mostrare i loro sederi nudi alle sentinelle sovietiche: un segno di scherno, che mascherava l’inferiorità tecnica delle armi con la superiorità fisica della popolazione. Si detestavano, russi e cinesi, da quando Mao Zedong, già negli anni 50, aveva risposto a Nikita Krusciov che la Cina non era la seconda potenza comunista del mondo, gregaria dell’Unione Sovietica, ma semmai la sua rivale. E la lunga tensione ideologica e diplomatica, fatta di continui dispetti e ripicche, era sfociata nella quasi-guerra dell’Ussuri e poi, una decina di anni dopo, nella guerra piena per interposto paese — il Vietnam filosovietico — invaso dalla Cina. OGGI il passato è stato bruciato nell’inceneritore della Storia, che ha fatto morire l’Urss, ma ripropone una Russia di nuovo sfidante, dopo anni di decadenza. Vladimir Putin, che ha sempre ammirato il modello cinese, capace di coniugare comunismo e capitalismo, ferreo controllo politico e assoluta libertà economica, ha dichiarato alla stampa cinese, prima di arrivare a Shanghai, che «la Russia pone la Cina al top dei suoi partner» perché «nel contesto turbolento dell’economia globale il rafforzamento dei nostri rapporti è di importanza fondamentale». L’accordo per il gas, firmato con Xi Jinping, è l’anello di fidanzamento da sventolare davanti a tutto il mondo. Il suo valore commerciale è relativamente modesto. La fornitura iniziale, prevista per il 2018, di 38 miliardi di metri cubi rappresenta il 16 per cento delle attuali esportazioni di Gazprom e l’interscambio commerciale tra i due paesi è ancora piuttosto basso: quello della Cina con la Ue è tre volte tanto e con gli Stati Uniti cinque volte più alto. Ma il valore politico è elevatissimo, tanto che Putin ha imposto ai negoziatori una volata finale per non dover rinviare la firma alla sua prossima visita in Cina, prevista a novembre. Domenica si vota in Ucraina: che cosa c’era di meglio per lo zar di mostrare i muscoli gonfi di ormone della crescita made in China? (che si è ben guardata dall’associarsi alla condanna dell’annessione della Crimea e ha tenuto complessivamente un atteggiamento di «benevola negligenza » sulla crisi ucraina). 9 Il 6 giugno Putin è atteso in Normandia per il settantesimo anniversario del «D-Day». La carta cinese gli servirà ad annacquare la minaccia di ulteriori sanzioni quando incontrerà Barack Obama e Angela Merkel. E magari anche a trovare con loro un compromesso sull’Ucraina, soprattutto se dalle elezioni uscirà vincitore Petro Poroshenko, il «re del cioccolato», che nel suo passato politico è stato abile nel barcamenarsi tra essere favorevole all’Europa senza diventare però contro la Russia (che è il principale mercato del suoi cioccolatini). Nel triangolo diplomatico Washington- Mosca- Pechino (ideato dalla perfida abilità di Henry Kissinger all’inizio degli anni ‘70 con il celebratissimo viaggio di Nixon in Cina), la Cina, secondo schemi degni di una «pochade» amorosa, è stata usata dagli americani per ingelosire i russi, pungerli nel loro orgoglio di unica potenza globale capace di interloquire con gli Stati Uniti. Ora i giochi si sono invertiti, chi conduce le danze non è Washington, bensì Mosca. Non c’è miglior manifesto del ribaltamento del ruolo di «playmaker» mondiale della fotografia pubblicata in prima pagina dall’edizione europea del New York Times che mostra un marinaio cinese con i guanti bianchi mentre accoglie un gruppo di marinai russi a bordo di un cacciatorpediniere al termine di manovre navali congiunte. La didascalia della foto sembra averla scritta il ministro degli Esteri di Pechino dichiarando che le relazioni russo-cinesi «sono entrate nel miglior periodo nella storia». La svolta a Est di Putin, per uscire dall’isolamento a Ovest provocato dalla crisi ucraina, ha trovato un terreno fertilissimo nella frustrazione della Cina verso gli Stati Uniti, che non hanno mai mostrato grande considerazione per il ruolo di Pechino nelle istituzioni internazionali. Anzi, hanno spesso escluso Pechino da accordi multilaterali, come la Trans-Pacific Partnership, che include 12 Stati ma non la Cina, che ha provato a contrapporle un’area di libero scambio (Free Trade Area of Asia-Pacific), accolta gelidamente da Washington. La Cina è convinta che l’America vuole contenere la sua espansione globale e ridurre il ruolo militare nel Pacifico. Le ripetute dichiarazioni dell’amministrazione Obama che l’Asia è un cardine economico e militare per gli Usa hanno toccato la suscettibilità cinese e irritato Pechino. E la «pochade» diplomatica ha toccato il suo culmine proprio in questi giorni a Shanghai, dove la Cina ha resuscitato un’oscura conferenza regionale, inventata quasi vent’anni fa dal Kazakhstan, il cui acronimo sembra il titolo di uno di quei tormentoni estivi che si sentono sulle spiagge: Cica (sta per Conference on Interaction and Confidence-building measures in Asia). Indovinate chi c’era in prima fila ad ascoltare il discorso di apertura di Xi Jinping? Vladimir Putin, naturalmente. del 22/05/14, pag. 13 IL NUOVO RAÌS PREPARA IL VOTO E METTE IN CARCERE MUBARAK TRE ANNI PER APPROPRIAZIONE INDEBITA ALLA VIGILIA DEL PLEBISCITO PER AL-SISI di Francesca Cicardi Il Cairo L’ex presidente Hosni Mubarak, che ha governato l'Egitto con pugno di ferro fino alla rivoluzione del 2011, riappare sempre nei momenti cruciali per il paese. Pochi giorni prima 10 delle elezioni presidenziali - le seconde dalla sua caduta - il “faraone” è stato condannato a 3 anni di carcere per appropriazione indebita di fondi pubblici. Mubarak è stato dichiarato colpevole di aver sottratto 125 milioni di lire egiziane (circa 12 milioni di euro) destinati alla ristrutturazione dei palazzi presidenziali, utilizzati poi per le proprietà private della famiglia Mubarak. Anche i figli dell'ex presidente, Alaa e Gamal, sono stati condannati a 4 anni di carcere e tutti e tre dovranno restituire i soldi rubati allo stato egiziano, e inoltre pagare una sanzione di circa 2 milioni di euro. Le cifre sono ridicole confronto alla fortuna che hanno accumulato durante i 30 anni nei quali sono stati al potere, però questa è la prima volta che il raìs viene condannato per corruzione. L'ex presidente, sua moglie Suzanne e i loro pupilli e amici vivevano nel lusso sfrenato mentre la popolazione diventava sempre più povera. Adesso, il candidato alla presidenza che probabilmente occuperá il trono dell'Egitto - il maresciallo Abdel Fatah Al Sisi - ha promesso che le politiche e i tempi di Mubarak non torneranno, ma ci sono molti indizi per far pensare al contrario, a partire dagli abusi delle forze di sicurezza, che reprimono, arrestano e torturano brutalmente gli oppositori. Il primo ministro a interim Ibrahim Mehlab - designato a marzo con la benedizione di Al Sisi - era il manager di una delle compagnie costruttrici più potenti del paese, che ha presumibilmente mascherato i lavori di ristrutturazione per i quali sono stati condannati Mubarak e figli. Gli uomini d'affari che si sono arricchiti durante la dittatura, stanno ritornando al lavoro in Egitto e finanziano la campagna elettorale di Al Sisi. Inoltre, l'impero economico dell'Esercito si è esteso notevolmente, da quando i generali hanno cacciato il presidente islamista Mohamed Morsi il 3 luglio del 2013. I progetti economici e le promesse elettorali di Al Sisi in realtà sono opera dei militari, come la costruzione di un milione di case per giovani con poche risorse economiche. L'Egitto si apre quindi a un'altra epoca di corruzione e ingiustizia, ma gli egiziani hanno una fiducia cieca e una devozione storica per l'Esercito, e quindi non mettono in dubbio le intenzioni del maresciallo. Nelle ultime settimane, Al Sisi ha conquistato il cuore degli egiziani con uno stile “popolare”, lontano dallo snobismo di Mubarak e famiglia, ma usando lo stesso discorso paternalista e patriottico. Il suo cavallo di battaglia è la lotta contro i Fratelli Mussulmani, che ha promesso di eliminare definitivamente quando verrà eletto presidente. Dall'altra parte della frontiera, in Libia, un'altro militare si guarda allo specchio di Al Sisi: è il generale Khalifa Hifter, che lentamente sta mettendo in atto un ‘colpo di stato’, promettendo ai libici di “liberare” il paese dalla Fratellanza - al governo a Tripoli - e dagli islamisti radicali - che stanno dissanguando la Cirenaica. del 22/05/14, pag. 17 Non troppo «Happy» a Teheran Arrestati per il video «immorale» «…Because I’m happy…». Milioni di persone in tutto il mondo sono «colpevoli» di aver canticchiato la canzone dell’americano Pharrell Williams e migliaia di aver pubblicato video-tributi su YouTube ballando su quelle note. Ma quando tre ragazzi e tre ragazze di Teheran si sono uniti al fenomeno globale, nel tentativo di mostrare che si può danzare spensierati, vestiti da hipster e senza il velo obbligatorio sui capelli anche sui tetti della capitale iraniana, tra parabole, unità esterne dei climatizzatori e sullo sfondo della torre Milad, la performance è finita con l’arresto. I sei sono stati identificati, indotti a consegnarsi alle autorità (è stata fatta arrivare loro la notizia che un amico era stato vittima di un 11 incidente per convincerli a presentarsi nel luogo della «retata») e infine l’altro ieri sera si sono detti pentiti sulla tv di Stato (in cambio, secondo i siti dei dissidenti, del rilascio avvenuto subito dopo). Il video è l’ennesimo segnale che i ragazzi della Teheran benestante e liberal osano di più: da sempre abituati a ballare insieme e senza veli nelle feste private, oggi non si nascondono. Sono gli elettori del presidente Rouhani, che esigono la svolta moderata da lui promessa. Altri due esempi recenti sono: la valanga di foto di ragazze iraniane senza velo pubblicate su una pagina Facebook e una campagna di solidarietà di donne e uomini con la testa rasata contro gli abusi nella prigione di Evin. D’altra parte, nella risposta dura delle autorità al filmato, che il capo della polizia ha definito «volgare» e «un’offesa alla morale», si legge la preoccupazione della parte più oltranzista del regime, contraria alle aperture e timorosa che tramite Internet i giovani se le stiano conquistando da soli, come osserva l’iranista Anna Vanzan, docente all’Università degli Studi di Milano. Le dichiarazioni della polizia di aver «lanciato un’inchiesta, con l’aiuto delle autorità giudiziarie, che ha condotto all’identificazione dei responsabili in due ore e all’arresto in sei ore» sono un avvertimento chiaro: le sfide — non solo in piazza ma anche sul web — non saranno tollerate. Una reazione però che agli occhi del mondo è sproporzionata e fa apparire la polizia come il cattivo esagerato di Despicable Me (animazione per cui la canzone Happy è stata scritta). La giornalista iraniana Golnaz Esfandiari dà voce a questo sentimento twittando: «L’Iran, il Paese dove essere felici è un crimine». A livello di immagine sarebbe stato certo meno dannoso lasciar parlare la giovane Neda, una delle ragazze del filmato: «Volevamo mostrare che a Teheran ci sono giovani gioiosi anche se vivono tra mille difficoltà e che non è un posto cupo come appare all’esterno». A differenza della sua omonima uccisa in piazza nel 2009, questa Neda non manifesta contro il regime ma si rivolge alla sua parte più moderata per avere maggiori spazi di libertà personale. Viviana Mazza del 22/05/14, pag. 15 LA POLEMICA USA, UE ONU CHIEDONO CHIAREZZA Uccisi 2 adolescenti palestinesi bufera su Israele dopo il video FABIO SCUTO DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME . Un video di meno due minuti scuote i rapporti fra Usa, Ue, Onu e Israele. È stato girato da una telecamera di sicurezza di un negozio giovedì della scorsa settimana durante il “Nakba Day” – il Giorno della Catastrofe – con il quale i palestinesi ricordano la nascita di Israele, la prima guerra arabo-israeliana e l’inizio della tragedia dei profughi. Mancano pochi minuti alle 15 e le proteste fuori del carcere israeliano di Ofer – dove sono in cella centinaia di palestinesi – sono già sfociate nella violenza: sassaiole contro soldati e polizia, copertoni in fiamme. In un’area distante centinaia di metri dal carcere, un gruppo di adolescenti cerca riparo all’ombra di uno stabile dai gas lacrimogeni sparati senza risparmio. Parlottano, si muovono, ma nessuno tira un sasso. Di colpo due figure si accasciano, sono due ragazzi di 15 e 17 anni, centrati in petto e alle spalle da pallottole vere. 12 Il video, diffuso dalla Ong israeliana B’Tselem e da Defense for Children International Palestine e ripreso ieri dai media israeliani, indica che le vittime erano lontane dagli scontri e non erano impegnate in un confronto diretto con i soldati. «Non sembra», scrive Haaretz, «che rappresentassero una minaccia per nessuno al momento della sparatoria». La missione Ue a Gerusalemme esprime «profonda preoccupazione per la morte dei due adolescenti, con l'uso da parte israeliana di armi letali in manifestazioni di piazza». Gli Stati Uniti chiedono un'indagine imparziale, mettendo in discussione la «proporzionalità dell'uso della forza in relazione alla minaccia posta dai manifestanti». L'Onu invita Israele a seguire «rigorosamente i principi sull'uso della forza e delle armi da fuoco». Il ministro della Difesa israeliano Yaalon giustifica il comportamento delle forze di sicurezza di fronte a «un episodio di violenza in cui bottiglie incendiarie e pietre sono state lanciate contro agenti e soldati, che sentendosi minacciati hanno reagito come dovevano fare». L'agenzia Onu per l'assistenza ai rifugiati palestinesi (Unrwa) segnala «un incremento netto del numero di rifugiati palestinesi uccisi e feriti» dalle forze israeliane in Cisgiordania, «con munizione vere». Nel 2013 i morti palestinesi in circostanze analoghe sono stati 27, quest’anno siamo già a 11. 13 INTERNI del 22/05/14, pag. 1 Squadristi digitali I cecchini non finiscono mai «Assassina maledetta», «Dovevano lasciarti marcire sotto 300 metri di terra», «Guardati le spalle», «Parassita», «Ingrata verso la Patria», «Se vieni a Riccione, avrai una bella sorpresa», tralasciando le minacce infami e sessiste. Dulcis in fundo, la foto di una pistola e l’invito a «bruciare in piazza» il suo ultimo libro sulla Primavera Araba. Obiettivo del cecchinaggio verbal-intimidatorio è la nostra Giuliana Sgrena. Il continuo delirio squadrista della destra estrema — basta vedere l’inneggiare a Hitler dei siti in questione — sarebbe «motivato» dai giudizi sulla crisi dei «due Marò». Per la quale Giuliana, memore della sua vicenda irachena, ha più volte denunciato, contro l’insopportabile coro generale, che l’Italia preferisce «far valere l’obsoleta consuetudine dello zaino e della bandiera (un militare risponde solo al paese di provenienza) e considerare danno collaterale la morte di due pescatori indiani disarmati». Le aggressioni insistono anche sulla tragedia della morte di Calipari. Della quale, per le farneticazioni degli squadristi su web — scatenati appena Giuliana ha annunciato la sua candidatura nella Lista Tsipras — sarebbe responsabile lei, non i soldati Usa e i governi guerrafondai di Bush e Berlusconi in Iraq. Questa storia parla di noi, non solo di queste perverse elezioni: è la storia del manifesto che si riconosce nel lavoro di Giuliana. La pensiamo allo stesso modo. Insultateci tutti del 22/05/14, pag. 8 La destra in frantumi offre il Piemonte a democratici e M5S Nella foto del groviglio laocoontico ci sono tutti. L’unico che non si vede è l’autore del gol decisivo. Roberto Cota è sepolto dagli abbracci e dai corpi degli altri «cari amici» del centrodestra. Con le grisaglie e i gessati al posto delle divise da calciatori, ma l’esultanza da stadio di quella notte del 29 marzo 2010 aveva solidissime ragioni per essere tale. La vittoria era stata insperata, giunta ai supplementari dopo conteggi e riconteggi che avevano sancito l’inattesa sconfitta del Pd e della sua zarina Mercedes Bresso. E che stadio, poi. L’alleanza Lega Nord, Pdl e Udc nelle sue varie declinazioni festeggiava in quella piazza Castello simbolo delle istituzioni torinesi abituate a guardare dall’alto al basso i politici che vengono da fuori, dalla provincia. A riguardare il taccuino di quella notte spuntano frasi scolpite nel marmo del monumento all’Alfiere dell’esercito sardo che osservava la scena. «Il Piemonte è un esempio, uniti si vince sempre». «Su questo trionfo sarà costruita la casa del centrodestra del futuro». «Non ci separeremo mai». Piazza Castello è ancora il salotto della politica subalpina. Beppe Grillo ha lanciato qui la sua prova di forza, domani ci sarà la replica di Sergio Chiamparino, il favorito della vigilia. Mancano gli altri, i reduci del 2010. Nel Piemonte che dopo anni neri registra piccoli segnali di ripresa con la produzione industriale che nel primo trimestre del 2014 è salita del 3,5 per cento, la grande anomalia della politica è 14 l’implosione del centrodestra. In ordine sparso alle elezioni regionali, con poca voglia e tanti candidati, ognuno con le stesse possibilità di vittoria, nulle o quasi. «Una figura patetica. Abbiamo scelto di non combattere. Nessuno ha osato attaccare Chiamparino perché tutti in cuor loro sperano di fargli da stampella». Guido Crosetto è il più loquace dei tre presunti tenori dell’ex Casa delle libertà. La stanchezza nella sua voce è data anche dalla consapevolezza di aver fatto corsa «di pura testimonianza», sotto le insegne di Fratelli d’Italia. «Peggio di così non potevamo fare» dice con riferimento al «suo» centrodestra. Le premesse da divisi alla meta erano pessime, ma lo spettacolo di questi ultimi giorni ha un retrogusto hobbesiano. Tutti contro tutti. A farne le spese è Gilberto Pichetto, già alleato di Cota, gentiluomo biellese scelto di persona da Silvio Berlusconi, che in zona Cesarini si vede costretto al gioco d’attacco con slogan come «la sinistra racconta balle» conditi da appelli al voto utile che mandano in bestia gli ex compagni di cordata. Il terzo protagonista della guerra dei Roses al gianduia è l’alfaniano Enrico Costa, da Mondovì, sottosegretario alla Giustizia, che ha affrontato la gara con lo stesso entusiasmo riservato all’estrazione di un molare. Crosetto: «È la plastica rappresentazione del patto di non belligeranza con il centrosinistra siglato a Roma dal Nuovo centrodestra». Anche Chiamparino ha le sue foto. Sul trattore alla Fiera agricola di Savigliano, con il cappello da alpino, all’Unione Ciechi, nelle bocciofile. L’ex sindaco di Torino ha totalizzato quindicimila chilometri, quasi tutti a bordo della sua Fiat 16 bianca. A renderlo inquieto è l’album di famiglia. Il suo attivismo ha finito per rendere nervoso il Pd, del quale dopo anni di Aventino ha ripreso la tessera. A sancire l’eterno status da separato in casa è stata la nascita di una lista civica, con tanto di Monviso colorato di rosso, che ha la funzione di contenitore del voto moderato nelle provincie, il Piemonte profondo fatale alla Bresso nel 2010 e storicamente poco propenso ad aprire le braccia a un ex comunista. La prova di una coabitazione difficile è arrivata due giorni fa, con le espulsioni dei dirigenti pd candidati in liste comunali contrapposte a quella scelta dal partito. A Chiamparino è successo spesso di trovarsi preso in mezzo, trascinato prima al banchetto di una lista civica e poi a quello dei rivali, entrambi titolari di una fetta del Pd. Dopo anni di inerzia, l’iniziativa dei vertici democratici non brilla per tempistica e invito alla coesione nelle urne, ma è segno di un equilibrio precario, a geometria variabile. Nella popolosa Nichelino, 49 mila abitanti, i candidati della famiglia pd che si contendono la carica da sindaco sono tre. A Susa, nella valle che è granaio del Movimento 5 Stelle, invece non ce n’è neppure uno. L’unico aspirante sindaco munito di tessera democratica è Sandro Plano, ma corre con gli avversari della lista No Tav. A Biella il vincitore delle primarie del Pd deve guardarsi dalla lista appoggiata da Giancarlo Susta, ex vicepresidente della Regione per conto del partito. L’eterna vocazione del Pd a complicarsi la vita è vento nelle vele di Davide Bono, 33 anni, medico di base, consigliere regionale durante la giunta Cota, pentastellato tendenza Casaleggio. Ha preso l’impegno sul serio, con tanto di camper in giro per il Piemonte, pubblicità sulle fiancate dei taxi, e dieci punti di programma già scritti come fossero proposte di legge. «Chiamparino ha problemi nel partito. E quando devi guardarti alle spalle, la sorpresa è dietro l’angolo». In caso di vittoria propone il blocco del Tav e degli inceneritori, la politica del no elevata a forma di governo. Schermaglie. Il vero obiettivo è impedire al favorito una maggioranza autosufficiente, obbligarlo all’alleanza con il centrodestra e risolvere così l’equazione del «sono tutti uguali». Una corsa a due, con i vincitori della passata edizione ad assistere in tribuna. Da qualche parte deve esserci ancora quella vecchia foto. L’ultimo avvistamento di Roberto Cota, capitano della squadra del 2010 che adesso cerca una maglia in Europa, risale a pochi giorni fa. L’ex governatore leghista era nel Canavese ad agitare i campanacci davanti alla villa di famiglia dell’ex ministro Elsa Fornero. In casa non c’era nessuno. 15 LEGALITA’DEMOCRATICA del 22/05/14, pag. 16 L’ultimo mistero su Falcone “In quel computer il diario segreto” I pm di Caltanissetta a caccia di file nel pc del giudice manomesso dopo Capaci ATTILIO BOLZONI SALVO PALAZZOLO DAI NOSTRI INVIATI CALTANISSETTA . Esiste ancora qualche traccia del diario di Falcone? L’hanno cancellato del tutto o una parte dei suoi appunti sono recuperabili? I familiari del giudice, ventidue anni dopo Capaci, stanno per consegnare un computer alla magistratura. Vogliono sapere se, lì dentro, si possono ritrovare alcuni dei suoi scritti più segreti. Nonostante il tempo passato e nonostante la «pulizia» dei supporti informatici operata dalle solite manine subito dopo la strage, la sorella Maria ha incaricato ieri i suoi avvocati di depositare un Toshiba alla procura di Caltanissetta, quella che indaga sui massacri palermitani del 1992. È un piccolo portatile, violato qualche giorno dopo l’attentato con un programma usato per riportare in salvo o per eliminare definitivamente i file. Una prima perizia di tanti anni fa aveva accertato «manomissioni», le prove di un sabotaggio. Ma ora i familiari del magistrato, confortati da nuovi sistemi di ripescaggio dei dati attraverso tecnologie avanzate, sperano che gli esperti possano riesumare annotazioni perse anche nelle memorie più remote. Dice Maria Falcone alla vigilia delle celebrazioni in memoria del fratello: «Spero che troveranno qualcosa, sarà un altro passo verso la verità». Il Toshiba, in un primo momento scomparso e poi riapparso misteriosamente nella sua abitazione palermitana di via Notarbartolo, nel 1993 è stato restituito alla famiglia e custodito nello studio legale di Francesco Crescimanno. Lì c’è rimasto per oltre due decenni. Ora, sta per finire a sorpresa nella cassaforte del procuratore capo della repubblica di Caltanissetta Sergio Lari. È un estremo tentativo per raggiungere la documentazione più riservata del giudice, una quantità enorme di informazioni e di nomi che qualcuno aveva provveduto a rimuovere subito dopo la bomba di Capaci. Ma cosa, realisticamente, potrebbe contenere ancora il Toshiba? Quali notizie top secret o confidenziali il giudice avrebbe registrato in quel pc? Sarà una nuova perizia a scoprirlo se, dopo tutti questi anni, si riuscirà a scovare ancora qualcosa. Dell’archivio di Falcone si è ritrovato ben poco e fra quel poco ci sono stralci del suo diario, due fogli che il giudice ha affidato qualche mese prima di morire a una sua amica («Non si sa mai, ci sono fatti che preferisco registrare a futura memoria»), la giornalista Liana Milella, nel 1992 inviata del Sole 2-4 Ore e poi a Repubblica. È l’unica testimonianza personale che Falcone ci ha lasciato per iscritto. Due fogli dove il giudice ricostruiva il clima avvelenato della procura di Palermo di quegli anni, gli scontri con il procuratore Piero Giammanco, le umiliazioni che era costretto a subire in quell’ufficio tanto da chiedere — per poter continuare la sua attività — il trasferimento alla direzione generale degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia. Dove sono finite tutte le altre parti del diario? Si ricomincia dalla perizia sul Toshiba, un’altra indagine sull’indagine che arriva più di un ventennio dopo per chiarire misteri mai 16 risolti. E quello intorno al Toshiba è solo uno dei tanti. Tutti i computer di Falcone sono stati «forzati» nelle ore e nei giorni successivi a Capaci: anche il computer fisso Olivetti e un portatile Compaq, che erano al ministero. È stata trovata vuota persino la memoria di un databank Casio, anche questo scomparso e poi misteriosamente riapparso. Una distruzione a tutto campo per non lasciare nulla di Falcone dopo la sua morte. L’inchiesta iniziale è stata segnata da tanti «errori» e «dimenticanze ». Un’indagine approssimativa, i procuratori di Caltanissetta del 1992 non hanno ascoltato testi importanti, decisivi. Come Giovanni Paparcuri, il più stretto collaboratore del giudice. Oggi dice: «Ogni giorno vedevo Falcone annotare i suoi pensieri su quel Casio e di tanto in tanto trasferivo il materiale del databank ai pc. Una volta, mi chiese di andare ad acquistare un’estensione di memoria per il Casio». Neanche questa ram card si è mai più trovata. E sono scomparsi pure una ventina dei cento floppy disk su cui Paparcuri aveva trasferito l’archivio di Falcone, prima della sua partenza per Roma. Sono accadute cose strane al ministero della Giustizia, in via Arenula, a Roma. La sera del 23 maggio, poche ore dopo la strage, la stanza di Falcone viene «sigillata» per ordine dei procuratori di Caltanissetta. Ma nessuno, incredibilmente, si preoccupa di sequestrare i computer e i supporti informatici che ci sono in quell’ufficio. Sette giorni dopo, il 30 maggio, si procede alla «ricognizione» dei reperti nella stanza del giudice ma — ancora un’inspiegabile gaffe della procura di Caltanissetta — non si effettua alcun sequestro dei computer. Un mese dopo, il 23 giugno, i computer vengono finalmente sequestrati. Ma nel frattempo, esattamente il 6, il 10 e il 19 giugno — come accerteranno le perizie successive — qualcuno si inserisce nel computer di Giovanni Falcone (la stanza è formalmente chiusa con provvedimento giudiziario) e lascia traccia del suo passaggio. Alle 15.08 del 19 giugno i periti scoprono che quel qualcuno entra nel programma Perseo — sviluppato per il ministero della Giustizia — e apre il file contenente gli elenchi di Gladio e alcuni appunti di Falcone. Qualcuno che conosce la password per entrare negli archivi di Falcone: «Joe». Per quasi vent’anni tutte queste vicende sono rimaste sospese e le indagini abbandonate. Dopo tanto tempo riusciranno i magistrati di Caltanissetta a trovare frammenti di verità in questo computer o altrove? Rispondeva qualche mese fa il procuratore Sergio Lari: «Stiamo setacciando tutto quello che è in nostro possesso, questa è l’ultima spiaggia. O scopriamo ora qualcosa sui misteri del 1992 o non la scopriremo mai più». del 22/05/14, pag. 1/17 ANTONIO IOVINE È IL CAPO DEI CASALESI Cade il muro di Gomorra si pente il super boss ROBERTO SAVIANO ILBOSS Antonio Iovine ha deciso di pentirsi: non è uno qualunque. È un capo, è “il ministro dell’economia” della camorra. È stato condannato all’ergastolo nel processo Spartacus e a 21 anni e sei mesi nel processo Normandia. ORA vuole collaborare con la giustizia: è una notizia che rischia di cambiare per sempre la conoscenza delle verità su imprenditoria e criminalità organizzata non solo in Campania, non solo in Italia. Antonio Iovine detto ’ o ninno per il suo viso di bambino ma soprattutto per aver raggiunto i vertici del clan da giovanissimo non è un quadro intermedio, un riciclatore delle famiglie, non un solo capo militare. È uno che sa tutto. E quindi ora tutto potrebbe cambiare. La terra trema per una grossa parte dell’imprenditoria, della politica, 17 per interi comparti delle istituzioni. Le aziende grandi e piccole che hanno ricevuto, che sono nate e che hanno prosperato grazie ai flussi di danaro provenienti da Antonio Iovine, si sentono come in una stanza le cui pareti si stringono sempre più. Il talento di Iovine è sempre stato quello di saper far fruttare il flusso di danaro del narcotraffico, delle estorsioni, delle truffe oltre che sfruttare alla grande gli appalti statali. Tutto il segmento nero diventava investimento vivo, costruzione vera: imprese edili, ristoranti, import-export. Uno dei primi colpi di ’ o ninno fu proprio l’acquisto della discoteca Gilda a Roma: una delle sue prime mosse personali nella capitale. Seguendo l’indicazione del padrino Bardellino, Roma era la vera fortezza da espugnare e Iovine l’ha sempre saputo. Ed è qui che si è legato ai tre settori cardine della capitale: cemento, intrattenimento, politica. Ha provato a scalare la squadra di calcio della Lazio, riciclando 21 milioni di euro provenienti dall’Ungheria, attraverso il suo parente Mario Iovine detto Rififì, a Roma ha investito nel settore del gioco d’azzardo legale. Esistono molti boss della mafia pentiti. Ma nella camorra è diverso: Iovine è stato ai vertici dei Casalesi per oltre dieci anni, non esistono precedenti simili, se non forse quello di Pasquale Galasso, capo della Nuova famiglia. L’altro pentito del clan dei Casalesi che ha cambiato la storia è stato Carmine Schiavone ma era un capo della vecchia generazione, marginalizzato nell’ultima fase, che decise di pentirsi proprio perché estromesso dai vertici, lui che era fondatore del gruppo. Iovine è l’organizzazione. Perché ha deciso di collaborare? A dicembre scorso ‘ o ninno ha revocato i suoi avvocati. La prima cosa che ho pensato è stata che si sarebbe pentito. L’ho scritto e, come speso accade fui deriso e preso per visionario. Invece è successo ma non riesco ancora a capire perché. Sicuramente gran parte del merito ce l’ha Antonello Ardituro il pm che da anni instancabilmente segue le vicende del Ninno . I grandi capi del clan dei Casalesi Francesco “Sandokan” Schiavone e Francesco Bidognetti si fanno il carcere, sepolti vivi, detengono il potere nel silenzio. Quando un capo è al 41bis sa che non può più realmente comandare ma il suo silenzio è l’assicurazione sui soldi della famiglia e soprattutto è un valore generazionale. Un boss non ragiona in anni ma in epoche. Il silenzio di un boss ha un valore inestimabile per i suoi nipoti. È la vera dote. Un investimento sul futuro. Ma ‘ o ninno è sempre stato un boss sui generis. A differenza di Zagaria definito “il monaco” per l’attenzione maniacale a una vita moderata e disciplinata, Iovine non ha fatto una latitanza da recluso. In 14 anni di latitanza, prima di essere arrestato a Casal di Principe il 17 novembre 2010 si è molto mosso soprattutto in Francia, in Emilia e in Toscana e a Roma, ha seguito il flusso del danaro e i reinvestimenti. Non ha ancora compiuto 50 anni (è nato il 20 settembre del ’64), ha figli giovani, attivissimi su Facebook, e che sono a pieno titolo nella vita sociale della borghesia casertana e romana, una figlia amica di presentatrici tv, importanti imprenditori edili da sempre a stretto contatto con il suo gruppo familiare e suo figlio Oreste che recentemente è finito in galera per traffico di droga, perché dopo l’arresto del padre ha voluto prendere in mano l’organizzazione senza averne davvero le capacità. Enrichetta Avallone, sua moglie condannata a 8 anni, gestiva la sua rete di comunicazione e il Ninno dovrà spiegare come mai un uomo dei servizi segreti le faceva da autista. Non sappiamo ora cosa potrà accadere nell’agro aversano, come reagiranno i clan visto che i figli di Schiavone Sandokan sono legatissimi ai figli di Iovine. Potrebbe essere l’inizio di un cambiamento epocale. Iovine potrà chiarire molto, moltissimo: potrà parlare delle voci che lo hanno descritto (senza mai nessuna conferma giudiziaria) come il burattinaio dietro la scalata di Ricucci, Coppola e Statuto. Potrebbe chiarire il potere della famiglia Cosentino e dei rapporti con tutta la politica degli ultimi vent’anni. Potrebbe persino raccontare alcune verità che spiegheranno i retroscena alla caduta del governo di 18 centro sinistra. Ricordate? Il governo di centrosinistra nel gennaio 2008 cadde perché Mastella ritirò la fiducia dopo che la moglie venne indagata per tentata concussione. Era successo che Nicola Ferraro (poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa) dirigente Udeur e consigliere regionale chiese a Luigi Annunziata direttore generale dell’Ospedale di Caserta di Caserta di mettere Carmine Iovine cugino del ninno come capo della direzione sanitaria dell’ospedale di Caserta. Solo O’ ninno ora potrà spiegare. Potrebbe essere una vittoria dello Stato importantissima. La verità può essere vicina: imprenditoria politica, giustizia, giornalismo tutto sta per essere attraversato dalle confessioni del Ninno. Costringere i capi dei clan a raccontare la verità perché ormai non hanno più scampo, perché ormai sanno di non poter più vincere_ questa potrebbe essere una vittoria della democrazia. Una delle più belle. del 22/05/14, pag. 9 Appello in favore del procuratore: “Il Csm chiuda il caso” Firmano anche Pomarici e Nobili, Robledo resta solo Procura di Milano con Bruti Liberati si schierano 62 pm PIERO COLAPRICO MILANO . Una lettera spunta al quarto piano del palazzo di giustizia milanese. E può servire a delineare meglio i confini dello scontro che l’aggiunto Alfredo Robledo ha aperto, ormai lo scorso marzo, contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati: «Non possiamo non intervenire », dicono infatti magistrati milanesi della pubblica accusa. E sono in sessantadue, su settantacinque. Una maggioranza assoluta con firme di peso: come quelle di alcuni aggiunti invocati da Robledo nelle sue lettere continue al Csm (Ferdinando Pomarici, Alberto Nobili, Nunzia Gatto, Alberto Nobili), con quelle degli altri «vecchi» Pietro Forno e Maurizio Romanelli che firmano questo appello con Francesco Greco, e cioè con l’aggiunto inviso a Alfredo Robledo; come Fabio De Pasquale, che insieme a Robledo aveva avviato il caso Mills e poi l’ha finito da solo sino ad ottenere la condanna in cassazione; come i tanti titolari di indagini che spaziano dal terrorismo al crimine, dalla corruzione alle rapine. E tutto questo vasto mondo dell’accusa milanese, più che rivolgersi al Consiglio superiore della magistratura, intende spiegare a chi ha letto e ascoltato di una procura spaccata, di «faide» (termine usato per i mafiosi), di collasso della catena di comando, che non è così. Anzi la procura — proprio questa procura — ha lavorato secondo le regole di legge e «ne sono testimonianza — scrivono i pubblici ministeri — i riscontri che in sede di giudizio, di primo grado, di appello e di cassazione, hanno ottenuto le indagini condotte dalla procura di Milano nelle sue diverse articolazioni». La lettera aperta (senza le firme dei «coinvolti» Ilda Boccassini, Bruti e Robledo) non fa nomi e cognomi, ma puntualizza fatti e stati d’animo: «Da oltre due mesi — scrivono i magistrati dell’accusa — è all’esame delle competenti commissione del Csm» il caso che riguarda i «criteri di organizzazione» degli uffici. E se — scrivono sempre i pm — «non intendiamo entrare nel merito di tali questioni », però «auspichiamo con forza che la pratica trovi rapidamente la sua conclusione». 19 È un appello che al Csm è già stato rivolto anche dal suo vicepresidente, Michele Vietti, ma che la componente di Magistratura indipendente, legata al sottosegretario quota centrodestra e magistrato Cosimo Ferri, non accetta. Anzi, per oggi il Csm ha convocato ancora Nobili, a proposito del fascicolo Ruby, che Robledo rivendicava come suo (nonostante, nel 2010, avesse chiesto a Silvio Berlusconi un risarcimento in sede civile per 500 mila euro). I firmatari della petizione sanno della «non fretta» del Csm, ma non demordono: «Non possiamo non intervenire in ordine alla rappresentazione mediatica non corrispondente al vero che viene offerta alla pubblica opinione con l’immagine di una Procura della Repubblica dilaniata da contrapposizioni interne». E, nella loro certezza di addetti ai lavori, «Respingiamo — dicono — ogni tentativo di delegittimazione complessiva dell’operato della nostra procura che, diversamente dall’esercizio del diritto di critica, rischia di danneggiarne la credibilità e, dunque, di compromettere l’efficacia della sua azione». A margine delle parole, pesanti, una circostanza: è stato il neo-procuratore capo di Torino, Armando Spataro — una carriera nell’antiterrorismo, nell’antimafia, e, da ultimo, nell’inchiesta sul sequestro del terrorista Abu Omar da parte della Cia — a scrivere materialmente la lettera e a raccogliere le firme dei colleghi. del 22/05/14, pag. 10 Maroni: “Scrissi a Scajola che Biagi era in pericolo” Si indaga per omicidio La procura di Bologna: ucciso anche dalle omissioni L’ex ministro di FI disse: nessuno mi ha chiesto la scorta LUIGI SPEZIA BOLOGNA . «Sono io ad aver scritto una lettera al ministro dell’Interno Claudio Scajola. Chiedevo di estendere la scorta a Marco Biagi, anche a Bologna, dove viveva ». Roberto Maroni, ex ministro del Welfare, svela che partì dal suo ufficio la richiesta di aiuto per proteggere il suo consulente. Ma non servì: Biagi, nel mirino delle nuove Br che avevano già eliminato tre anni prima Massimo D’Antona, venne ucciso il 19 marzo 2002. Proprio a Maroni, Biagi aveva scritto parole che appaiono come una tragica premonizione: «Se dovesse malauguratamente occorrermi qualcosa, desidero si sappia che avevo inutilmente informato le autorità di queste ripetute telefonate minatorie, senza che venissero presi provvedimenti ». La lettera di cui oggi Maroni rivendica la paternità è stata ritrovata tra le carte di Scajola dalla Finanza. Vistata da lui, nonostante che in seguito alla morte del giuslavorista, l’ex ministro dell’Interno abbia sostenuto pubblicamente di non aver avuto conoscenza diretta dei rischi che correva Biagi. Lo disse in Parlamento nell’aprile del 2002. Lo ripetè l’estate successiva, quando dette le dimissioni per quella frase, «Biagi era un rompicoglioni ». Disse: «La tragica morte di Biagi non è avvenuta per colpa mia. Nessuno mi ha mai informato dei suoi messaggi disperati ». Scajola ammise poi nel 2004, ma dopo che tutto era ormai stato archiviato, che «c’era stata sottovalutazione» nella decisione di non dare la scorta: «Io penso di avere la coscienza a posto — si difese — . Ho sofferto molto, anche se non è un ministro che nega o concede la scorta». Ora quella scorta negata è al centro di un’inchiesta della procura di 20 Bologna con un titolo di reato pesantissimo: omicidio per omissione. Non contro le Br, già condannate, ma contro persone — per ora ignote — delle istituzioni che non concessero la scorta al professor Biagi. Un’inchiesta per arrivare a capire se qualcuno, a partire proprio da Scajola, abbia posto le condizioni, negando la scorta, affinché avvenisse l’omicidio dello studioso di diritto del lavoro. «Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo »: sono queste le due righe di testo del codice penale tenute presenti dalla procura di Bologna nel riaprire un caso scottante, già archiviato dieci anni fa tra molte perplessità. Allora il giudice Gabriella Castore, nel chiudere il caso su richiesta dei pm che non arrivarono a trovare prove convincenti su due funzionari dell’Antiterrorismo e sul prefetto e il questore di Bologna di allora, fu comunque durissima nel denunciare le sottovalutazioni e gli errori che portarono a morte un «obiettivo indifeso». La procura di Bologna ci riprova partendo da un verbale di interrogatorio di Luciano Zocchi, segretario di Scajola, a casa del quale nel luglio scorso vennero rinvenuti dalla Finanza faldoni di documenti riservati, in parte in possesso anche di un agente segreto. C’erano appunti manoscritti sul caso Biagi e c’era quella lettera di richiesta di protezione a favore di Biagi inviata a Scajola. Mentre prende corpo la nuova inchiesta, il senatore del Nuovo Centrodestra Nico D’Ascola ha deciso di rinunciare alla difesa di Scajola. Aveva ricevuto l’incarico solo pochi giorni fa ed ha abbandonato per la polemica, definita «falsa e strumentale», su un presunto conflitto di interessi. 21 SOCIETA’ del 22/05/14, pag. 5 «Liberalizziamo la cannabis» Eleonora Martini Droghe. Il sindaco di Roma: il proibizionismo ha fallito, dico sì all’uso terapeutico e personale. Mentre il senatore Carlo Giovanardi insiste: «Serpelloni deve rimanere capo del Dipartimento» «Sono favorevole alla liberalizzazione della cannabis per uso curativo o personale». Parla da medico prima ancora che da responsabile della salute dei suoi concittadini (e a una platea di studiosi che non credono ai «buchi nel cervello»), il sindaco di Roma, Ignazio Marino, ma è solo l’ultimo di una lunga serie di sindaci statunitensi, sudamericani, olandesi (in 35, solo qualche mese fa, hanno chiesto di legalizzare la coltivazione della marijuana), tedeschi o spagnoli che sostengono la fine del proibizionismo più oscurantista per combattere le narcomafie e sconfiggere il dilagare delle tossicodipendenze. Eppure, nel giorno in cui entra in vigore la nuova tabellazione delle sostanze stupefacenti, col ripristino della differenza tra droghe leggere e pesanti come era fino al 2006, prima della legge FiniGiovanardi abrogata dalla Consulta – una differenziazione che contribuirà anche ad alleviare il sovraffollamento carcerario a causa del quale, come ha avvertito proprio ieri Strasburgo, l’Italia rischia dal 27 maggio prossimo una sanzione per ciascuno dei 6829 ricorsi già pronti sul tavolo della Corte europea dei diritti umani – le ragionevoli posizioni del primo cittadino romano suscitano un vespaio nel centrodestra. Che in realtà ronzava da tempo, e sul tema è pronto ad esplodere, come dimostra l’irrequieto senatore Ncd Carlo Giovanardi che ieri ha chiesto un assist alla ministra della Salute Beatrice Lorenzin per ritornare al vecchio regime sanzionatorio e soprattutto per scongiurare il “pensionamento” dell’ex capo Dipartimento antidroga, Giovanni Serpelloni, sospeso già dal 9 aprile scorso. È una posizione chiave, quella della presidenza del Dpa. E Serpelloni garantisce la continuità con le politiche proibizioniste tanto care alla destra, vecchia e nuova. Quelle politiche che secondo Ignazio Marino, intervenuto al Cnr in apertura dei lavori della conferenza annuale dell’International Society for the Study of Drug Policy, «non hanno portato nessun risultato nella prevenzione del drammatico aumento nell’uso di droga». «Nel 2011 più di un milione di piante sono state confiscate nel nostro Paese contro le 73mila in Francia», ha aggiunto, mentre «la criminalità organizzata ancora gestisce grandi porzioni del traffico internazionale e ci sono abbastanza ragioni per riaprire il dibattito oggi in Italia». Dopo aver fotografato il tempo attuale «in cui una riforma delle leggi sulle droghe è necessaria a livello nazionale e internazionale», il sindaco democratico ha esplicitato le sue convinzioni: «La depenalizzazione della marijuana deve essere considerata un punto di partenza» e «nuove forme di legalizzazione potrebbero essere sperimentate in medicina per la salute delle persone ma anche per colpire la criminalità organizzata». Un punto di vista che però ha innervosito non solo l’ala destra del parlamento: «Una volta tanto che abbiamo raggiunto un punto di equilibrio, con la cannabis che non è più contenuta all’interno della tabella 1 delle sostanze stupefacenti, penso che ora dobbiamo fermarci a riflettere», sbotta la compagna di partito del sindaco, Emilia Grazia De Biasi, presidente della commissione Sanità del Senato che ha lavorato gomito a gomito con Giovanardi, relatore del provvedimento che classifica 500 sostanze entrate in commercio dal 2006 ad oggi pubblicato ieri in Gazzetta ufficiale. 22 Ma l’autore della vecchia legge cassata dalla Corte costituzionale, insieme alla stessa ministra Lorenzin e all’ex capo antidroga Serpelloni, sono per un’altra linea: differenziare almeno la «marijuana di una volta» da quella «ogm», come la chiamano, ossia quella con «principio attivo arricchito», collocando quest’ultima nella stessa tabella della cocaina e dell’eroina in modo da parificare il regime sanzionatorio con le droghe pesanti e — cosa molto più importante — dirottare per legge un gran numero di consumatori abituali di cannabis sulla strada delle comunità (private) di recupero per tossicodipendenti. Ecco perché è necessario che Serpelloni rimanga al suo posto. Perché anche se l’Unodc, l’agenzia Onu per la droga e il crimine, lancia l’allarme sull’«espansione senza precedenti» delle droghe sintetiche (348 nuove sostanze legali in 94 Paesi del mondo, 100 delle quali introdotte solo nell’ultimo anno), in particolare su quelle droghe psicoattive che imitano gli effetti della cannabis, passate da 60 nel 2012 a 110 nel 2013, l’unico problema da noi deve continuare a rimanere la marijuana. E non è una questione ideologica. del 22/05/14, pag. 21 Le famiglie di Pomezia: non si risparmia sulla pelle dei bambini Il primo cittadino 5Stelle: attacchi strumentali, io non discrimino “Il sindaco è razzista” La città si ribella alle mense di serie B MARIA NOVELLA DE LUCA DAL NOSTRO INVIATO POMEZIA . Fosse soltanto per quei quaranta centesimi. «La verità è che i nostri figli mangiano roba schifosa, la pasta è una colla, la carne una suola da scarpe, i piatti arrivano freddi, scotti, insipidi. E adesso il sindaco grillino vuole pure dividere i bambini tra i “ricchi” che avranno il dolce e i “poveri” che resteranno a guardare. Questo è razzismo. L’abbiamo votato in tanti, ma adesso una cosa è certa: ci ha deluso, deve dimettersi ». Angelo, due figli alla scuola elementare Trilussa di Pomezia, «un papà molto inc... «, non ha dubbi: «Qui un sacco di gente ha perso il lavoro, c’è chi non sa più come mangiare, ma i bambini in classe devono essere tutti uguali, non permetteremo che vengano discriminati per una fetta di torta ». Pomezia, agro pontino, cinquantamila abitanti, una distesa di fabbriche e capannoni in disfacimento, altissimo tasso di immigrazione e disoccupazione. La “guerra delle merendine”, caduta come un macigno sulla vigilia elettorale del Movimento Cinque Stelle, alluvionato da una pioggia di critiche da destra e da sinistra, parte da questo comune impoverito e guidato da un anno da un sindaco pentastellato, Fabio Fucci, 35 anni, un passato da programmatore software, una semi-laurea nel cassetto, eletto con oltre il 63% dei voti. La sua giunta ha deciso che dal prossimo anno nelle scuole materne ed elementari saranno presenti due menù: uno con il dolce, al costo di 4 euro e 40 centesimi, e un altro, senza dessert, da 4 euro. Insomma, chi vuole la crostatina pagherà un extra. «È veramente una scelta razzista», commenta Elisa, mamma giovane e bionda davanti all’entrata dell’asilo. «Ho votato i Cinquestelle, ci credevo, ma sono delusa. Che senso ha dare il dolce ad alcuni e ad altri no? Di certo impediremo che nelle nostre classi qualcuno resti senza, magari lo elimineremo per tutti, oppure lo pagheremo noi. Ma non è così che si comporta un sindaco». E Barbara, tre figli dai cinque ai dieci anni, incalza: «Vogliono risparmiare sulla pelle dei nostri bambini, già ci tassiamo per tutto, la carta igienica, il 23 sapone, i materiali, paghiamo duecento euro al mese la mensa per del cibo immangiabile. Cosa altro vogliono da noi?». Parole dure, pietre, macigni. A cui si aggiungono le critiche politiche bipartisan. Zingaretti: «Immorale negare il dolce ai piccoli meno abbienti». Fassino: «Introdurre la selezione del dolce è ridicolo e umiliante per i bambini». Meloni: «Le follie dei Cinquestelle diventano azioni amministrative». Tajani: «Il Movimento 5Stelle fa cassa sulla pelle dei bimbi». Arriva anche la censura del ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, che aveva difeso in nome dell’autonomia scolastica, la scelta del sindaco Fucci. «È un provvedimento iniquo. Da mamma, da insegnante e da ministro, dico che a scuola non ci deve essere una prima classe e una classe turistica». Chiuso per tutto il giorno in Comune il giovane sindaco Fabio Fucci si difende. E denuncia dietro la “guerra delle merendine” «un complotto politico ordito dal Pd alla vigilia delle elezioni europee». Afferma anzi che il «bando comunale con i due menù era stato approvato nel dicembre scorso all’unanimità, e comunque il Comune aiuterà le famiglie che non possono pagare il dolce ai propri bambini». Insimma, sembra di capire ora, non ci sarà nessuna discriminazione tra ricchi e poveri, perché per i meno abbienti ci penserà l’amministrazione comunale a versare i 40 centesimi extra a pasto. Speriamo. Perché è di centesimi, yogurt e crostatine in busta che stiamo parlando. Di una battaglia cioè sul filo dell’indigenza. E basta camminare per le strade di questa cittadina che tra gli anni Settanta e Ottanta, grazie alla cassa del Mezzogiorno, era diventata una sorta di polo tecnologico industriale, per capire quanto la parola “ricchezza” sia del tutto fuori posto. Strade sconnesse, muri scrostati, case popolari fatiscenti. «Oggi noi siamo una famiglia monoreddito, e l’unica a guadagnare è mia moglie», racconta Gianfranco, ex quadro di una delle industrie farmaceutiche oggi in dismissione e padre di due ragazzi di 12 e 14 anni. «Pomezia è in caduta libera. Fino a dieci anni fa c’era ancora un benessere medio, la città era curata, le scuole funzionavano. Adesso metà dei commercianti è nelle mani degli usurai, è tutto incolto, abbandonato, gli edifici scolastici sono prefabbricati che cadono a pezzi, d’inverno si gela, d’estate si fa la sauna. C’era una grande attesa per i Cinquestelle qui. Finalmente il rinnovamento, ho pensato anch’io. Invece è tutto uguale. Anzi peggio. Come questa tristissima storia del dolce per i bambini di serie A ma non per quelli di serie B, cioè i più poveri. Che delusione». 24 BENI COMUNI/AMBIENTE del 22/05/14, pag. 14 Fukushima, l’acqua radioattiva sversata in mare A Fukushima, la Tepco rigetta l’acqua in mare. La società che gestisce la centrale nucleare nipponica ha deciso ieri di sversare in mare centinaia di metri cubi d’acqua sotterranea pompata dai reattori. «Abbiamo iniziato lo sversamento alle 10.25 (le 3.25 in Italia, ndr)», ha reso noto la società. «Una pattuglia ha fatto la prima supervisione alle 10.30 e non è stata constatata alcuna fuga», ha aggiunto. La Tepco ha sversato nell’Oceano Pacifico in tutto circa 560 metri cubi d’acqua. «È una fase importante per la gestione dell’acqua alla centrale di Fukushima Daiichi: questo problema rappresenta per noi la più grande priorità attuale», hanno dichiarato i vertici dell’azienda. La società ha assicurato che, se i valori di cesio 134 e 137 dovessero superare i limiti prefissati, il riversamento verrà bloccato. FALDE SOTTERRANEE Com’è noto, la situazione nella centrale si è stabilizzata dopo che i reattori furono danneggiati nel terremoto e tsunami del marzo 2011. Per mantenere l’equilibrio, la Tepco continua a rovesciare acqua sui reattori in avaria per raffreddarli e impedire la ripresa delle reazioni nucleari:mai reattori stessi sono bucati. L’acqua - diventata fortemente radioattiva - ne esce, riempie i sotterranei degli edifici, si infiltra nel sottosuolo e poi finisce in mare. Per sopperire a questo problema, la Tepco ha cominciato a pompare l’acqua sotterranea per poi stoccarla. L’accumulo di quest’acqua è uno dei problemi principali che i gestori devono affrontare. La società ha fatto sapere che lo spazio si sta esaurendo e una parte dell’acqua deve essere rilasciata in mare. Più di 400 tonnellate di acqua contaminata sono attualmente conservate in oltre un migliaio di giganteschi serbatoi montati in fretta nel complesso della centrale atomica. La Tepco continua a installarne circa 40 al mese per tenere il passo con il continuo flusso di liquido proveniente dal sottosuolo del sito e dai refrigeratori dei reattori danneggiati. Ma il deflusso di acqua contaminata è maggiore della capacità di costruire nuovi serbatoi. Così, dopo essere stata immagazzinato temporaneamente in una cisterna, una parte del liquido stata ritenuto sufficientemente pulito per essere sversato nell’oceano senza essere sottoposta a nessun tipo di trattamento. Lo sversamento di acqua sotterranea fa parte del cosiddetto «sistema di bypass» per la gestione dell’acqua contaminata. Il programma era stato ritardato a causa di numerosi problemi, tra i quali diverse perdite dalle cisterne situate vicino alle pompe. Il direttore della centrale, Naohiro Masuda, ha fatto sapere in una nota che la soluzione del problema dell’acqua contaminata è fondamentale per lo smantellamento dell’impianto, che secondo funzionari potrebbe richiedere diversi decenni. Se si rivelerà efficace, il «sistema di bypass» potrebbe permettere di ridurre l’afflusso dell’acqua sotterranea di un quarto. Ma le organizzazioni ecologiste non sono così ottimiste: «La decisione di rigettare in mare l’acqua sotterranea si basa sullo scenario “non abbiamo altra scelta”, e non su una soluzione pensata sul lungo periodo per gli abitanti di Fukushima e del Giappone», ha protestato un responsabile di Greenpeace, Kazue Susuki. L’organizzazione ecologista ha chiesto a Tepco di migliorare significativamente il modo in cui vengono resi pubblici i livelli di radioattività dell’acqua, giudicando che parti terze devono poter controllare le operazioni in maniera indipendente non soltanto al momento dello sversamento ma durante tutto il processo. 25 CULTURA E SCUOLA del 22/05/14, pag. 27 Bimbi sui banchi già a cinque anni Ma è giusto anticipare la scuola ? A cinque anni l’americano Kristoffer Von Hassel ha scoperto che il suo videogioco aveva una grossa «falla» informatica. E per questo è stato pure premiato, poche settimane fa, dall’azienda produttrice. Ma chissà se è già pronto per andare a scuola. Sì, secondo Olanda, Regno Unito, Ungheria e Cipro. Decisamente no per altri Paesi come Svezia, Danimarca e Finlandia, dove tra i banchi ci si sede a 7 anni. E per l’Italia? Oggi la Primaria (le vecchie elementari) inizia a 6. Ma ai microfoni di Radio Capital il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha riaperto il dibattito sull’età. «Bisognerebbe dare la possibilità di mandare i figli a scuola un anno prima», ha detto. L’ipotesi di un’anticipazione non va giù ai sindacati. Cisl scuola e Flc-Cgil dicono di no. L’Anief, invece, appoggia il ministro: «Bisogna adeguarsi ai tempi che cambiano, sbagliano gli altri ad essere conservatori». Gli esperti si dividono. I genitori, in tutto questo, si chiedono cosa sia meglio fare per i propri figli. La questione, in realtà, non è nuova. Se ne parlava già alla fine degli anni Novanta, quando il dicastero dell’Istruzione era guidato da Luigi Berlinguer. A un certo punto comparve pure una bozza con tempi e costi, ma poi tutto si bloccò: troppo difficile mettere in pratica. Sui banchi già a 5 anni quindi? «Assolutamente sì», esordisce Silvia Vegetti Finzi, psicoterapeuta per i problemi dell’infanzia. «Ma bisogna fare attenzione: abbiamo comunque a che fare con degli esseri fragili». Per questo, «quando verrà il momento, bisognerà ripensare tutta la prima elementare: il programma didattico dovrà essere rielaborato e avere una funzione di collegamento con quello che si è fatto all’Infanzia». Se questo non succede, avverte Vegetti Finzi, «la novità può essere addirittura controproducente». In una possibile prima elementare a 5 anni, secondo la psicoterapeuta, «si deve mettere da parte l’idea di un rapporto verticale cattedra-banco: non si può imporre a insegnanti e alunni così piccoli di avere un rapporto gerarchico, serve molta elasticità». A livello didattico, poi, «bisognerebbe puntare molto sulle attività manuali, sul disegno, sulla musica, sul canto. Un programma rigido non serve a nessuno». Certo — concede Vegetti Finzi — i bimbi oggi «hanno molte più competenze cognitive, sono abituati a vivere in mezzo alle persone, socializzano bene». Ma ciò non toglie che «il programma del primo anno debba fare molta attenzione ai loro sentimenti: si tratta comunque di esseri umani che sono degli analfabeti emotivi». E deve ricordarsi che i bimbi «conoscono poco il proprio corpo, anche nelle cose magari quotidiane come arrampicarsi su un albero, lanciare un sasso, correre». «Quella del ministro Giannini è una buona idea: bisogna anticipare di un anno la fine del ciclo scolastico per allinearsi agli altri Paesi», ragiona Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Giovanni Agnelli. Che, però, parla di «obbligo flessibile», perché ognuno la sua storia e il suo percorso. Per farlo Gavosto racconta la sua esperienza personale. «Io ho tre figli — dice —. La bimba l’ho iscritta già a 5 anni. Mi sembrava pronta e devo dire che i risultati, negli anni, l’hanno confermato». Ma il ragionamento non è stato lo stesso per gli altri. «Uno dei miei figli non l’avrei mai fatto iniziare a 5 anni: non mi sembrava avesse ancora le caratteristiche adatte». Ecco perché, secondo il presidente, «la 26 soluzione migliore sarebbe lasciare libertà ai genitori: decidano loro quando iscriverlo, la famiglia è il miglior giudice». L’unico risvolto negativo, Gavosto lo vede nella matematica. «C’è un problema tecnico: in questo modo si verificherà l’“onda anomala” con due generazioni di studenti che finiranno per frequentare lo stesso anno scolastico». E a quel punto, «passando da 500 mila a un milione in pochi mesi, bisognerà raddoppiare tutto: le aule, gli insegnanti…». Anna Oliverio Ferraris, psicologa e docente all’Università La Sapienza di Roma, però schiaccia il freno. «Non sono mai per accelerare le cose: i bimbi imparano in modi e tempi diversi. Molti di loro non sono pronti, hanno tempo di attenzione limitati e imparano facendo cose, muovendosi: tutte cose inesistenti in questa prima elementare». Non solo. «Se li iscriviamo già a 5 anni togliamo loro l’elemento giocoso». Se però, alla fine, si dovesse decidere per il cambiamento, secondo Ferraris «la didattica del primo e del secondo anno dovrebbe imitare il programma della scuola dell’Infanzia: molti lavori manuali, ricreazione più lunga, tante esperienze all’aperto, in mezzo alla natura». «E che non si mettano a dare i voti — conclude —. I piccoli non sono pronti ad affrontare lo stress emotivo». Sulla stessa linea anche Susanna Mantovani, docente di Pedagogia generale all’Università Bicocca di Milano. «Non ha senso mandarli a studiare a 5 anni», dice. Anche perché «la nostra scuola dell’Infanzia non va affatto male. Certo, ci sono dei problemi qua e là per l’Italia, ma le valutazioni internazionali ci dicono che va già bene così, perché dobbiamo condannare i piccoli a stare un anno in meno in un posto così bello dove possono imparare tanto?». A confortare la sua posizione, sostiene Mantovani, «ci sono le realtà degli altri Paesi: Svezia e Finlandia fanno iniziare più tardi, a 7 anni». E così, se proprio si vuole intervenire in quella fascia d’età, «sarebbe molto meglio potenziare proprio l’Infanzia, anche introducendo l’elemento della lingua straniera. In alcune regioni ci sono delle eccellenze in questo senso: basterebbe copiarle e applicarle nel resto del Paese, senza stravolgere tutto». Leonard Berberi 27 ECONOMIA E LAVORO del 22/05/14, pag. 12 Tasi, un altro slittamento L’Anci: scadenza a ottobre Per Fassino serve un mese in più per i Comuni che non hanno deliberato ● Dall’Economia non confermano ● Ci vorrà qualche giorno per decidere Nuova scadenza per la Tasi. I Comuni che non hanno ancora deliberato le aliquote e le detrazioni potrebbero far pagare la prima rata a metà ottobre, e non a settembre come sembrava in un primo momento. l'annuncio arriva dal presidente dell'Anci e sindaco di Torino, Piero Fassino, ai microfoni di Radio 24.ma la data non è confermata dal ministero dell’Economia, che solo due giorni fa aveva diffuso la nota con lo slittamento a settembre. È molto probabile che la decisione resti aperta ancora per qualche giorno. Non è neanche detto che la questione si affronti in modo definitivo nel consiglio dei ministri convocato per oggi. In ogni caso il messaggio del rinvio è stato inviato: i cittadini sanno se a giugno sono chiamati a pagare o no. È chiaro che i Comuni chiedono tempi più lunghi. «Il 16 settembre - ha precisato Fassino riferendosi alla data ipotizzata in precedenza - era troppo vicino e con le elezioni amministrative e agosto di mezzo si sarebbe rischiata la confusione. Il 16 giugno, dunque, pagheranno i cittadini delle città che hanno fissato le aliquote, tra queste quasi tutti i grandi capoluoghi, a ottobre sarà la volta degli altri Comuni». In ballo ci sono anche le risorse, che i sindaci vogliono anticipate fin da giugno dal ministero per evitare ammanchi di cassa. Sull'anticipo che lo Stato verserà ai Comuni per il mancato introito dell'intero ammontare della Tasi, il presidente Anci sottolinea come sia «già accaduto. Se un tributo previsto a norma di legge viene prorogato, si fa ricorso a una anticipazione per evitare una crisi liquidità ai soggetti che questo tributo dovevano incassarlo». Molto più cauti i tecnici di Via XX Settembre, che parlano di somme molto contenute trattandosi di pochi mesi, che saranno reperite attraverso un anticipo dal fondo di solidarietà dei Comuni. Fassino è intervenuto anche nel merito del confronto tra la Tasi e la vecchia Imu, sostenendo che «fanno testo le aliquote. Quelle dell'Imu andavano da un minimo del 4 per mille per attestarsi in media intorno al 5-6 - sostiene il presidente Anci - Ora l'aliquota Tasi è del 2,5 per mille, aumentabile a discrezione del sindaco fino allo 0,8 per mille. Quindi la Tasi sarà massimo del 3,3 per mille». Sul piede di guerra il Codacons, che ha inviato oggi una «formale diffida» al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e al ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, in merito «al caos sulla Tasi venutosi a determinare a causa dei Comuni che ancora non hanno deliberato le aliquote. Nell'atto - spiega una nota - l'associazione non solo diffida il governo a non introdurre scadenze diversificate sul territorio per il pagamento la tassa, ma suggerisce come unica possibile soluzione al problema di posticipare per tutti i contribuenti la scadenza della Tasi ad ottobre ». La partita sull’imposta sugli immobili ha sempre un’eco politica forte, soprattutto con l’avvicinarsi delle elezioni. Dalla maggioranza il presidente dei senatori del Nuovo Centrodestra Maurizio Sacconi avverte che «la tassazione sugli immobili da parte dei Comuni deve esseremoderata, sostenibile da famiglie e piccole imprese, tale da non deprimere ulteriormente il mercato immobiliare. Tasi e Tares non possono diventare lo strumento con cui i Comuni fanno pagare la loro inefficienza. Ncd - aggiunge Sacconi 28 pretende che il governo imponga un tetto alle aliquote compatibile con queste esigenze pena la crisi della coalizione». Anche Fabrizio Cicchitto alza la voce: evidente il tentativo di captare gli elettori di FI. Tanto che dai berlusconiani arriva un messaggio molto chiaro: speriamo che vadano fino in fondo. Come dire: le «sentinelle» anti-Tasi sono i forzisti. Dimenticando che proprio i berlusconiani, con la pretesa di cancellare l’Imu sulla prima casa, hanno data vita alla saga sulla Tasi. del 22/05/14, pag. 12 Sindacati a congresso, Camusso: «Basta austerità» ● A Berlino il segretario Cgil traccia la linea per combattere le diseguaglianze: «Creare lavoro» austerità e disuguaglianza non cresceremo. Bisogna creare lavoro perché è l'unica condizione per far ripartire l'economia ».SusannaCamussoè intervenuta ieri mattina dal palco del congresso del sindacato mondiale - l’Ituc (International trade unions confederation), che raggruppa 325 organizzazioni sindacali, in 161 paesi, con una affiliazione totale di 176 milioni di lavoratrici e lavoratori - in corso a Berlino fino a domani. Nel suo intervento l’appena rieletta segretaria generale della Cgil ha sottolineato come «nella crisi - ha ricordato Camusso – sono peggiorate, mentre l’unico lavoro che cresce in tanti Paesi è quello povero», citando la tragedia di pochi giorni fa in Turchia nella miniera di Soma, le tragedie dell’Asia, le nuove forme di schiavismo che riemergono dalle campagne. Quando le multinazionali hanno preso il sopravvento su quelle dei Paesi, per Camusso l’unica strada per il «sindacato mondiale non può che essere la contrattazione mondiale che si contrappone alle politiche delle multinazionali. Da questo punto di vista - ha detto - è molto importante sapere come il negoziato multilaterale, e quelli che sono in corso sul piano delle relazioni commerciali (il patto Europa-Usa, il cosiddetto Ttip, ndr), non diventino un ulteriore alibi e libertà per le multinazionali in grado di avere tribunali autonomi e non passare così per le regole dei paesi”. E allora "Building worker's power" - «costruire la forza dei lavoratori», lo slogan del congresso berlinese - significa «difendere il diritto di sciopero, rafforzare la contrattazione collettiva e costruire eguaglianza. Sono questi gli strumenti di cui disponiamo, i nostri strumenti che dobbiamo usare perché si crei più lavoro, perché le nostre società possano crescere e vivere in eguaglianza». Nelle conclusioni del suo intervento Camusso ha rilanciato l'importante tema della democrazia. «La sfida vera che abbiamo davanti è come si possa generare contrattazione e come, attraverso le condizioni di lavoro e il contrasto alle politiche di diseguaglianza, il sindacato non solo si rafforza come componenti, ma determina lavoro dignitoso come condizione per tutti i paesi», ha concluso Camusso. Il congresso si concluderà dell’Ituc si concluderà domani. Nel documento finale si fissano gli obiettivi futuri: il primo è una crescita della sindacalizzazione, ora stimata al 7 per cento del totale dei cosidetti lavoratori formali (senza contare l’8 per cento - 238 milioni - di iscritti al sindacato cinese), poi c’è la richiesta di globalizzazione dei diritti «per un lavoro dignitoso», mentre specie in Europa i diritti sono sotto attacco, e - infine - la lotta contro il cambiamento climatico. BURROW CRITICATA MA RICOFERMATA 29 «L’attacco al dialogo sociale è comune a gran parte dei Paesi presenti al congresso spiega da Berlino Leopoldo Tartaglia, coordinatore Politiche globali della Cgil - . Quello che ci conforta è che dove i sindacati sono più forti, la diseguaglianza sociale è minore. E dove c’è ancora un buon welfare state, ad esempio in Nord Europa, la crescita economica è migliore ». La segretaria uscente dell’Ituc - l’australiana Sharan Burrow - sarà quasi certamente confermata. Ma non sono mancate le critiche alla sua gestione centralistica. «Serve più collegialità, più occasioni per far valere le ragioni di tutti, far conoscere e valorizzare le tante esperienze », ha spiegato Susanna Camusso. 30