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RASSEGNA STAMPA
giovedì 22 maggio 2014
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
L’UNITÀ
AVVENIRE
IL FATTO
REDATTORE SOCIALE
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
ESTERI
del 22/05/14, pag. 3
Voto al via e Le Pen gela Parigi: «Ebola
cura anti-migranti»
L'impennata di euroscettici ed estrema destra, la crisi economica, l’austerità, il presidente
della Commissione Ue scelto dai cittadini e un Europarlamento con veri poteri. Lo slogan
scelto per convincere gli oltre 400 milioni di cittadini europei con diritto di voto a recarsi alle
urne non poteva essere più azzeccato: «Questa volta è diverso». A ricordare a suo modo
la posta in gioco è stato anche Jean-Marie Le Pen, eurodeputato e presidente onorario del
Front National francese. Ieri il vecchio leader dell’estrema destra ha indignato il Continente
affermando che il virus ebola «può risolvere in tre mesi» il problema dell’immigrazione. Le
condanne per la dichiarazione sono arrivate da ogni parte e il capo della delegazione del
Partito socialista al Parlamento europeo, Marc Tarabella, ha detto che l’Assemblea di
Strasburgo è pronta a revocare l’immunità parlamentare all’esponente frontista se verrà
presentata una denuncia contro di lui. Il rischio però è che il Front National guidato dalla
figlia Marine Le Pen venga premiato dagli elettori, visto che i sondaggi lo accreditano
come primo partito di Francia. La risposta arriverà domenica sera quando alle 22 verranno
diffuse le prime proiezioni sulla distribuzione dei 751 seggi dell'Assemblea di Strasburgo.
Poi alle 23, quando si chiuderanno le urne anche in Italia, inizieranno ad essere diffusi i
risultati parziali. Oggi il super week end elettorale è iniziato con l’apertura dei seggi in Gran
Bretagna e Olanda. Domani tocca a Irlanda e Repubblica Ceca. Sabato a Lettonia, Malta
e Slovacchia e domenica a tutti i Paesi restanti. L’idea iniziale era di sincronizzare le
votazioni in tutti e 28 i Paesi Ue in un’unica giornata, ma anche su questo la via
dell’integrazione è ancora lunga. Ognuno vota con la propria elegge elettorale e ognuno
vota i propri candidati. Anche l’idea di creare dei collegi transnazionali resta un progetto
per il prossimo giro. Ad ogni Stato è assegnato un numero di seggi prestabilito, in base
alla popolazione. L’Italia deve eleggere 73 eurodeputati. La grande novità è che questa
volta i partiti politici europei hanno indicato un capolista candidato alla presidenza della
Commissione europea. In questo modo l’incarico più prestigioso in Europa, che è sempre
stato scelto a porte chiuse dai governi, sarà di assegnato indirettamente dai cittadini. A
contendersi la poltrona più importante sono il socialista tedesco Martin Schulz, il
conservatore lussemburghese Jean-Claude Juncker, il liberale belga Guy Verhofstadt, il
leader della sinistra radicale Alexis Tsipras e i verdi Ska Keller e José Bové. La novità è
anche che dopo diversi anni di crisi economica e di contestate politiche di austerità i
cittadini hanno iniziato a parlare di Europa e le elezioni non sono più solo un test per i
partiti nazionali. Non è detto però che questo basterà ad invertire il trend al ribasso
dell’affluenza alle urne. Dalle prime consultazioni europee del 1979, quando la
partecipazione è stata del 61,99% si è arrivati al 43% del 2009.
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del 22/05/14, pag. 12
L’Olanda dei ‘nuovi
barbari’ dà il via al voto
I PARTITI NAZIONALISTI E ANTI-IMMIGRATI CAVALCANO
L’INSOFFERENZA CHE HA MESSO IN CRISI IL MODELLO DI
ACCOGLIENZA E WELFARE
di Andrea Valdambrini
Bruxelles
La scena non poteva essere più efficace e dirompente di così. Nella piazza davanti il
Parlamento europeo di Bruxelles, il leader dell’estrema destra olandese Geert Wilders elegantissimo in completo scuro e cravatta viola - ha sfregiato uno dei (pochi) simboli
dell’unità europea: la bandiera con le 12 stelle. In realtà Wilders ha ritagliato una sola
stella, quella che rappresenta il suo Paese, a significare la separazione da Bruxelles e il
ritorno dell’Olanda alla sovranità nazionale.
I SIMBOLI IN POLITICA contano, questo Wilders lo sa. Il suo Partito della Libertà (Pvv)
che sembra racchiudere tutto quello che nei palazzi dell’Unione fa più paura:
nazionalismo, populismo, euroscetticismo, estrema destra, razzismo, islamofobia. I
sondaggi gli danno ragione. In un’Olanda che va oggi al voto per le Europee - insieme alla
Gran Bretagna -, il Partito di Wilders è dato da alcuni al 12%, mentre altri analisti
prevedono possa addirittura scavalcare laburisti e liberali, insieme nel governo guidato da
Mark Rutte, e posizionarsi primo.
Nei Paesi Bassi come altrove in Europa, moltissimo dipenderà dall’affluenza alle urne, che
potrebbe avvantaggiare sensibilmente una formazione politica piuttosto che un’altra. Il
voto è europeo, ma gli elettori hanno la testa ai problemi nazionali. In un Paese che vede
un’altissima percentuale di immigrati, la proverbiale accoglienza si è trasformata in
insofferenza, espressa da parte di una fetta della popolazione attraverso il voto a Wilders.
L’islamofobia, unita alla difesa dei diritti civili - come quelli dei gay - è una caratteristica
dell’estrema destra olandese, segnata da omicidi come quello di Pim Fortuyn (2002) e del
regista Theo van Gogh (2004), entrambi critici radicali della società multiculturale e
dell’estremismo islamico.
In ogni caso, Wilders sa bene che, per quanti eurodeputati possa ottenere, da solo non
può fare molto a Strasburgo. Non a caso, il leader dell’estrema destra olandese è il perno,
assieme a Marine Le Pen di un’alleanza tra partiti nazionalisti, anti-euro e anti- Unione
europea che comprende anche la Lega Nord di Mattero Salvini e l’ estrema destra
austriaca dell’Fpoe. Si tiene le mani libere, per ora, Nigel Farage, carismatico leader dello
Uk Independence Party , che rischia di arrivare primo nelle elezioni di oggi in Gran
Bretagna. Quanti seggi otterranno i partiti dell’alleanza, quale gruppo parlamentare
formeranno gli eletti all’europarlamento e se riuscirà a formare una minoranza in grado di
bloccare le leggi in aula - questi sono gli interrogativi che potranno e dovranno trovare
risposta nelle settimane post elettorali.
MA GLI ALLEATI euroscettici di Wilders fanno capolino anche in Belgio, perfino nella
stessa capitale dell’Unione europea, Bruxelles. Da un lato c’è l’estrema destra del Vlams
Belang (letteralmente: “inte - resse fiammingo”), accreditata di circa l’8%, anche se gli
indipendentisti fiamminghi della New Flemish Alliance (Nva) di Bart de Wever - che
prenderanno molti più voti - non vogliono avere niente a che fare con Le Pen e Wilders.
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Dall’altro, anche sul fronte francofono c’è Debout les Belges. Si tratta di una formazione
populista nata da poco sotto gli auspici del controverso comico francese Dieudonné,
condannato in Francia per antisemitismo.
del 22/05/14, pag. 12
L’Europa non piace già più: Slovacchia
fra populismi, miliardari e urne vuote
di Pierfrancesco Curzi
Bratislava
C’è una bella atmosfera dentro il FlagShip di Bratislava, cucina tipica slovacca, un ex
teatro trasformato in ristorante. Un piatto di Halusky (gnocchetti conditi a base di latte di
capra e pancetta) davanti, un boccale di Zlaty Basant e con uno strudel a fine pasto, cerco
di riflettere sul senso della parata della vittoria nella II guerra mondiale di qua dell’ex
Cortina di Ferro. Prima degli anni ‘90 a Bratislava e in tutto il territorio sottoposto
all'egemonia sovietica, viali e piazze sarebbero stati riempiti da parate mirabolanti. Oggi, al
contrario, si festeggia il primo decennio di appartenenza alla “grande famiglia” europea. In
Slovacchia l'euro è entrato il 1° gennaio 2009, come in altri 9 Paesi. Sfondo blu e stelle
dorate tappezzano la capitale, al posto di stelle e sfondi rossi, ormai banditi. I timori che la
Slovacchia possa abbandonare un futuro europeista sono mal riposti, ma intanto alle
celebrazioni nel teatro nazionale arrivano a braccetto i vertici di Bruxelles: Herman van
Rompuy, José Manuel Barroso e Martin Schulz . Una parata di stelle, tanto per indicare la
strada da seguire, anche il 25 maggio quando gli aventi diritto dovranno eleggere i 13
europarlamentari slovacchi: “La gente tocca con mano gli aiuti ricevuti dall'Unione europea
– spiega Roberto Rizzo, primo segretario dell'Ambasciata italiana a Bratislava –, i
monumenti e gli edifici restaurati, i mezzi di trasporto. Il 66% è a favore, poi però gli
slovacchi sentono l'Europa lontana dai problemi reali e vanno a votare in pochissimi”.
Ecco perché le previsioni più ottimistiche parlano di un afflusso al voto non superiore al
20%. Se non è euroscetticismo questo. Non aiuta neppure la complessa situazione
politica: “Il voto è in parte frammentato – analizza Pierluigi Solieri che dal 2009 cura
Buongiorno Slovacchia, sito di notizie in italiano – da una parte, sul centrosinistra, il
mastodonte Smer del premier Robert Fico (pronuncia: Fizo), l'equivalente del nostro
Partito democratico, dall'altra una babele di partiti che litigano.
A METTERE D'ACCORDO tutti è stato Andrej Kiska, il nuovo presidente della Repubblica,
eletto dai cittadini e non dal Parlamento, ad aprile. Un imprenditore milionario che ha
venduto le sue aziende e investito parecchio denaro nella campagna elettorale senza
avere un partito alle spalle. Gli slovacchi lo hanno ritenuto credibile e così il filantropo che
ama la beneficenza ha umiliato Fico e tutta la politica”. La minaccia, semmai, arriva dall'est
del Paese orientale, da Banska Bystrica, una delle 8 regioni slovacche. Dall'anno scorso è
guidata da Marian Kotleba, leader del Partito del Popolo, estrema destra, razzista e
omofobo. Alle prossime Europee potrebbe eleggere un suo parlamentare, unendosi alle
altre forze populiste ed estremiste che si stanno ritagliando spazi importanti in Francia,
Ungheria, Grecia ecc. La Slovacchia è uno Stato etnicamente puro. Gli immigrati sono 45
mila di cui due terzi comunitari, gli irregolari 3-4 mila in tutto. In strada non si incontrano
persone di colore, pochi gitani, qualche orientale. Non potendosi sfogare su di loro,
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qualcuno veicola il sangue nazionalista contro la minoranza ungherese, 8-9% della
popolazione. Tolleranza razziale, di genere, di sesso. In molti attendono con ansia il Gay
Pride del 28 giugno a Bratislava. Intolleranza, o meglio la caccia al cosiddetto ‘diverso’ non
piace a tutti per fortuna: “Siamo una società chiusa –ammette Tomas Krissak, della AT&T,
la multinazionale americana delle telecomunicazioni –. Vorrei avere un interscambio
maggiore con immigrati da varie zone del mondo, arricchirmi, uscire dal guscio. Kiska
potrebbe rappresentare la rottura col passato e con Fico”. Intanto a Bratislava è sbocciata
un'estate prematura. Migliaia di turisti in maniche corte siedono ai tavoli di eleganti bar,
passeggiano nelle vie del centro storico o si rilassano sulle sponde del Danubio, all'ombra
del Castello. I visitatori sono ovunque. Ogni anno ne arrivano 50 mila anche dall'Italia e in
2 mila ci vivono. Il programma di Andrei Klapica, 4° in lista alle prossime Europee per il
partito di centrodestra Kdh, punta tutto sul tema della famiglia: “Di recente ci siamo
accordati con lo Smer in ambito costituzionale – sostiene Klapica, 37 anni, studi
universitari a Bologna – noi abbiamo appoggiato un loro disegno sulla giustizia e Smer ci
ha sostenuto per la legge sul matrimonio, riconosciuto solo tra uomo e donna. Ognuno dei
due aveva bisogno dei voti dell'altro. I 3 che stanno davanti a me in lista hanno tutti sopra
60 anni, io sono il nuovo che avanza. Ho molte idee e seguo il modello italiano della
piccola- media impresa, inesistente in Slovacchia. Siamo vicini alle posizioni del partito di
Casini, abbiamo ottimi rapporti con Buttiglione. Ma io sono affascinato da Renzi”.
del 22/05/14, pag. 1/32
Appena il 27% degli italiani ha fiducia nell’Ue e il 12% si considera
avvantaggiato dalla moneta unica Il populismo dilagante nel Vecchio
Continente riflette il disinteresse dei leader verso i loro elettori
L’Europa che vogliamo
Ventotto Paesi vanno alle urne per eleggere i 751 rappresentanti di oltre
500 milioni di persone L’Italia sarà l’ultima a chiudere i seggi: si vota
domenica fino alle 23. Il nuovo Parlamento, schiacciato dalle decisioni
dei governi e dall’ondata di antipolitica dovrà costruire una vera
democrazia
LUCIO CARACCIOLO
DOMENICA si vota per il “Parlamento europeo”. Rigorosamente tra virgolette. Infatti non è
un vero parlamento e non è davvero europeo. Vediamo.
Nessuno Stato che esibisse come parlamento l’assemblea di Strasburgo, con i suoi limiti
di autorità e potestà legislativa, senza un governo da votare, controllare e sfiduciare,
potrebbe infatti passare il test preliminare di democrazia. Sicché, una volta insediato, i
media di tutto il mondo si disinteressano quasi totalmente di ciò che accade in
quell’esoterico emiciclo. Né si tratta di un’elezione europea in cui ognuno di noi sceglie i
suoi deputati a prescindere dallo Stato di origine. Semmai, di 28 scrutini nazionali. Su liste
composte in base a logiche domestiche nei diversi paesi dell’Ue, cui seguono molto virtuali
campagne elettorali, centrate sui temi che interessano le opinioni pubbliche locali. Le quali
lo considerano un voto nazionale di serie B, un test in vista del vero voto politico, quello
interno.
Di più: non solo non esiste un progetto d’Europa condiviso, manca una discussione su
quali debbano essere i fini dell’esercizio comunitario, oltre alla riproduzione di se stesso.
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Ilvo Diamanti ha misurato lunedì scorso, su queste colonne, il grado di disincanto verso
l’Unione Europea e verso l’euro nei principali paesi europei. Incluso il nostro, il cui
euroscetticismo tocca quote britanniche (solo il 27% degli elettori italiani ha fiducia nell’Ue
e il 12% si considera avvantaggiato dall’euro, secondo un’indagine Demos-Pragma per la
Fondazione Unipolis). Conclusione: se non ci fossero gli antieuropei a farlo, di Europa non
si parlerebbe proprio.
È moda prendersela con i “populisti”. I quali se ne rallegrano e ne traggono profitto. Certo,
va bene deprecare le sguaiatezze di grillini, leghisti o loro simili in altre contrade europee.
Costoro vellicano il più odioso particolarismo, se non addirittura il razzismo che corre sotto
la pelle di noi civilissimi europei. Ma conviene chiederci da dove derivi tale eurofobia
primaria. E come opporvisi. Se vogliamo dare un senso a queste elezioni, anche se
queste elezioni un senso non ce l’hanno, è d’obbligo azzardare una risposta.
Il problema dell’Europa sta nell’offerta non nella domanda. Non serve sdegnarsi per il
senso di noia o financo di deprecazione di cui la sfera semantica di questo termine si è
sovraccaricata. Nessuno pare in grado di determinare in modo univoco che cosa significhi
Europa, quale spazio geografico designi, di quali istituzioni debba dotarsi, quali obiettivi
debba perseguire per i suoi cittadini e quale funzione possa svolgere nel mondo. Ciascuno
ne coltiva idee diverse, più spesso nessuna idea. Perché nessun leader europeo pensa
che questo esercizio possa portargli vantaggio. Anzi, a mostrarsi pro-europei i voti si
perdono — giurano tutti (in privato).
È davvero così? Lo è senz’altro, se si scambia per pro-europeo il vuoto europeismo
retorico, con i suoi discorsi della domenica recitati al modo ottativo intorno agli Stati Uniti
d’Europa e ad altri magnifici ideali mai definiti, senza una road map verificabile. Ma non si
può solo moralizzare intorno al “dover essere”, magari non credendo nemmeno alle
proprie parole. Come si può chiedere a un cittadino elettore di entusiasmarsi per qualcosa
che non siamo nemmeno in grado di definire?
In che senso possiamo considerare democratico un insieme in cui le decisioni che contano
vengono prese non dal Parlamento o dalla Commissione, ma nelle sedute segrete
notturne dei capi di governo che si aprono al tramonto con l’aperitivo, si concludono con il
cappuccino dell’alba, alle quali seguono 28 conferenze stampa parallele in cui ogni leader
si rivolge al suo elettorato per raccontare la sua verità sugli esiti di un negoziato di cui
nemmeno gli storici futuri potranno scandagliare i percorsi, visto che non ne esiste uno
straccio di verbale? In questo modo non si costruisce una democrazia europea. In
compenso, si delegittimano quelle nazionali — anche di qui il rifiorire dei secessionismi in
Spagna, in Gran Bretagna, in Italia e altrove — e si attacca alla radice l’albero della
politica.
A Bruxelles e dintorni resta in auge il precetto del grande europeista Jacques Delors, per
cui «l’Europa avanza mascherata ». Forse, ai suoi tempi. Ma oggi il velo del pudore
europeista contribuisce a farci arretrare verso inconfessabili — o invece agognati? —
fortilizi feudali e corporativi, verso sempre disastrosi nazionalismi. Il “populismo” riflette la
sfiducia dei leader europei nei loro elettori: perché dovrei fidarmi di chi non si fida di me?
Si può sperare in non troppo future elezioni per il Parlamento europeo, senza virgolette?
Si deve. La deriva antipolitica non si ferma da sola. Per invertire la rotta, orientandola
verso una democrazia europea, dunque verso uno Stato europeo a tutto tondo, prodotto
da chi lo vuole e lo può erigere, occorre che ciò che resta delle democrazie e dei
parlamenti nazionali produca un disegno possibile, non per aggirare il consenso, ma per
coagularlo. Scopriremmo forse che, coinvolti in un progetto d’Europa, noi europei ne
premieremmo gli artefici con il nostro voto. L’alternativa non è lo status quo, che non
esiste. Galleggiare a lungo nel mare dell’antipolitica è illusione. E naufragarvi non sarebbe
dolce.
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del 22/05/14, pag. 14
La crisi è prigioniera dei Trattati Ue. Ma
Schulz non lo dice
Gianni Ferrara
Martin Schulz ha sintetizzato i mali dell’Unione europea che vorrebbe sradicare. Sono
quelli della «politica di austerity a senso unico per stati e cittadini». Quelli che avrebbero
trasformato Ue da «un progetto di pace e di prosperità in un insieme di regole». Per cui
l’Ue avrebbe perduto «la capacità di raccontarsi, di entusiasmare e di far guardare al
futuro con ottimismo». A questa Ue il progetto socialdemocratico, di cui è portatore,
oppone non una «unione burocratica ma un’unione politica ed economica». Quanto alla
crisi accusa l’Europa «di essersi aggrappata alle regole» di essere stata «senza
leadership … e di aver utilizzato i Trattati come «giustificazione dell’inazione» Trattati «ove
non è scritto come uscire dalla crisi». (vedi articolo de la Repubblica).
Non va esclusa affatto, e si può anche esser certi della sensibilità sociale del dr. Shulz.
Credo però che queste sue dichiarazioni generino non poche e non infondate perplessità.
Cominciamo dalla prima. La politica di austerity a senso unico non è stata certo inventata
e poi imposta all’Ue da una potenza extra europea. Consegue immediatamente dai Trattati
che non hanno affatto provocato inerzie. Hanno prodotto invece un coerente indirizzo di
politica economica e finanziaria che ne ha attuato principi, fini e norme, mediante atti
esattamente corrispondenti a detti principi. Tutti adottati dalla Commissione e dal Consiglio
e, per quanto di competenza, dal Parlamento europeo, riluttante talvolta, ma certamente
non svincolato dai compiti che i Trattati gli assegnano.
La perdita della capacità di «entusiasmare» ne è stata la conseguenza ineluttabile.
Soprattutto perché il «raccontarsi» come progetto di prosperità era, più che ottimistico,
bugiardo. Bugiardo perché l’unione progettata era esattamente quella burocratica
disegnata per eseguire le norme dei Trattati secondo lo spirito dei Trattati, con la logica
che ne derivava. Univoca, esplicita trasfusa innanzitutto nell’architettura dell’Unione che
faceva, e fa, di tutte le sue istituzioni gli esecutivi dei Trattati. Parlamento compreso, la cui
attività si traduce, infatti, nel potere deliberare solo quello che gli propone la Commissione
il cui compito assorbente e vincolante ogni altro è quello di organo che «vigila
sull’applicazione dei Trattati e delle misure adottate dalle istituzioni in virtù dei Trattati».
(art. 17 del Trattato sull’Unione). Un’architettura quindi che realizza il trionfo degli
esecutivi, rendendoli tutti tali, qualsivoglia nome o veste assumessero ed abbiano assunto.
Esecutivi di che cosa, di quale progetto, di quale principio fondamentale? I Trattati non
nascondono affatto la norma fondamentale dell’Unione. Non la si trova negli articoli 2 e 3
del Trattato sull’Unione che elencano declamazioni inebrianti di valori, principi, fini che
simboleggiano le conquiste della costituzionalismo e della democrazia degli ultimi due
secoli. La norma fondamentale dell’Unione contraddice radicalmente questi valori, principi,
fini. È un po’ nascosta, in verità, forse anche per quel pudore che accompagna spesso
l’ipocrisia. È scritta nel Trattato sul funzionamento dell’Unione, agli articoli 119 e 120,
secondo i quali «l’azione degli Stati membri e dell’Unione comprende …. l’adozione di una
politica economica …. condotta conformemente al principio di un’economia di mercato
aperta ed in libera con concorrenza». La norma fondamentale dell’Ue è questa. Ne
sancisce la dinamica ed il fine. Ha carattere esclusivo ed escludente.
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È questa la norma che non permette che si esca dalla crisi. Non lo permette perché ne è
la causa, la ha provocata. È questa la norma fondamentale da abrogare. Shulz non può
non saperlo. Ma non dice di volerla espungere.
Con Tsipras si può. È una ragione decisiva per votarlo.
del 22/05/14, pag. 7
Kiev prova a smarcarsi dai neonazi e propone
un piano di pace a est
Simone Pieranni
Ucraina. Il documento non è stato firmato dal partito Svoboda
Si va spediti ormai verso le elezioni presidenziali del 25 maggio. Anche la Cnn ha
confermato ieri, lo spostamento di truppe russe dal confine ucraino, segnale rilevante di
come Mosca non voglia pesare sullo svolgimento delle elezioni, su cui per altro aveva già
aperto alcune settimane fa.
Analogamente è parsa muoversi che Kiev, che nei giorni scorsi ha fatto approvare dal
parlamento un memorandum «di pace e reciproca comprensione», che prevede il ritiro
delle truppe ucraine dalle zone dell’est del paese, purché i filorussi abbandonino i luoghi
occupati e conquistati e le armi, e che propone un potenziale tavolo di discussione sulle
future forme di governo del paese.
Un’apertura forte, non condivisa da tutti: il partito di estrema destra di Svoboda e quello
delle Regioni, dell’ex presidente Yanukovich, non l’hanno firmato. Un segnale che anche
all’interno del fronte di Majdan, le posizioni non sono univoche e anzi.
C’è da ragionare inoltre su questa decisione, che avviene forse anche su indicazione dei
consulenti americani a Kiev, leggi Cia, che forse ha deciso di raccogliere i segnali
distensivi giunti da Mosca, decidendo infine per consentire elezioni senza la minaccia di
tank e bombardamenti. Rimane naturalmente l’incognita della partecipazione (meno sul
vincitore che con tutta probabilità sarà l’oligarca Poroshenko) delle regioni orientali del
paese. è altrettanto vero che anche nel fronte dei filorussi non tutti sembrano pensarla allo
stesso modo.
Ieri Pavel Gubarev, uno dei leader dell’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk,
ha annunciato la formazione di un partito nuovo di zecca, chiamato La Nuova Russia. I
pro-Mosca dicono inoltre di voler realizzare un nuovo Stato, il nome è lo stesso del partito,
la Nuova Russia, unendo le «repubbliche» separatiste di Donetsk e Lugansk.
Ieri è tornato a parlare di Ucraina anche il vicepresidente Usa Joe Biden, dopo la scoperta
che suo figlio farà parte della più importante compagnia di gas ucraino. «Tutti i Paesi
devono usare la loro influenza per garantire un clima stabile che consenta agli ucraini di
votare domenica in piena libertà», ha specificato Biden in una conferenza stampa a
Bucarest al termine di un colloquio con il presidente romeno Traian Basescu.
Il vicepresidente ha nuovamente dato assicurazioni alla Romania ribadendo l’impegno
degli Usa a rispettare l’articolo 5 del Trattato della Nato sulla difesa collettiva degli stati
membri, e ha sottolineato l’intenzione dell’Alleanza di rafforzare la sua presenza
nell’Europa centrorientale, su terra, mare e cielo. Biden ha quindi confermato i tempi di
realizzazione del progetto di scudo antimissile per il sito romeno di Deveselu, nel sud del
paese.
Il vicepresidente americano ha infine dichiarato a Budapest che saranno necessarie nuove
sanzioni contro la Russia se questa saboterà l’elezione presidenziale di domenica 25 in
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Ucraina. «Se la Russia sabota l’elezione in Ucraina, noi dobbiamo essere determinati a
imporre costi supplementari», ha detto Biden in una conferenza stampa.
Ieri sono proseguiti anche gli incontri del tavolo di unità nazionale, organismo che appare
superato dopo l’ultimo memorandum approvato dal Parlamento, sebbene non da tutti i
partiti. Il premier autoproclamato di Kiev Arseni Yatseniuk, ieri, ha escluso la possibilità di
incontri bilaterali tra Mosca e Kiev per risolvere la crisi in Ucraina. «Nel contesto attuale —
ha detto durante la terza seduta del tavolo di dialogo nazionale a Mikolaiv — credo che le
negoziazioni bilaterali tra l’Ucraina e la Russia non possano essere prese in
considerazione».
Yatseniuk si è però detto a favore di un altro vertice a quattro con i rappresentanti di Usa,
Ue, Ucraina e Russia come quello di Ginevra del 17 aprile. Da capire infine gli effetti che
avrà sulla situazione ucraina lì’accordo storico tra Cina e Russia in materia di fornitura di
gas.
del 22/05/14, pag. 1/13
Russia-Cina il patto del gas che fa paura
all’Occidente
PAOLO GARIMBERTI
SONO passati 45 anni, un soffio per la Storia, da quando russi e cinesi si scambiavano
cannonate dalle due sponde del fiume Ussuri e i soldati di Mao si abbassavano i pantaloni
nel gelo per mostrare i loro sederi nudi alle sentinelle sovietiche: un segno di scherno, che
mascherava l’inferiorità tecnica delle armi con la superiorità fisica della popolazione.
Si detestavano, russi e cinesi, da quando Mao Zedong, già negli anni 50, aveva risposto a
Nikita Krusciov che la Cina non era la seconda potenza comunista del mondo, gregaria
dell’Unione Sovietica, ma semmai la sua rivale. E la lunga tensione ideologica e
diplomatica, fatta di continui dispetti e ripicche, era sfociata nella quasi-guerra dell’Ussuri e
poi, una decina di anni dopo, nella guerra piena per interposto paese — il Vietnam
filosovietico — invaso dalla Cina.
OGGI il passato è stato bruciato nell’inceneritore della Storia, che ha fatto morire l’Urss,
ma ripropone una Russia di nuovo sfidante, dopo anni di decadenza.
Vladimir Putin, che ha sempre ammirato il modello cinese, capace di coniugare
comunismo e capitalismo, ferreo controllo politico e assoluta libertà economica, ha
dichiarato alla stampa cinese, prima di arrivare a Shanghai, che «la Russia pone la Cina al
top dei suoi partner» perché «nel contesto turbolento dell’economia globale il
rafforzamento dei nostri rapporti è di importanza fondamentale». L’accordo per il gas,
firmato con Xi Jinping, è l’anello di fidanzamento da sventolare davanti a tutto il mondo.
Il suo valore commerciale è relativamente modesto. La fornitura iniziale, prevista per il
2018, di 38 miliardi di metri cubi rappresenta il 16 per cento delle attuali esportazioni di
Gazprom e l’interscambio commerciale tra i due paesi è ancora piuttosto basso: quello
della Cina con la Ue è tre volte tanto e con gli Stati Uniti cinque volte più alto. Ma il valore
politico è elevatissimo, tanto che Putin ha imposto ai negoziatori una volata finale per non
dover rinviare la firma alla sua prossima visita in Cina, prevista a novembre. Domenica si
vota in Ucraina: che cosa c’era di meglio per lo zar di mostrare i muscoli gonfi di ormone
della crescita made in China? (che si è ben guardata dall’associarsi alla condanna
dell’annessione della Crimea e ha tenuto complessivamente un atteggiamento di
«benevola negligenza » sulla crisi ucraina).
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Il 6 giugno Putin è atteso in Normandia per il settantesimo anniversario del «D-Day». La
carta cinese gli servirà ad annacquare la minaccia di ulteriori sanzioni quando incontrerà
Barack Obama e Angela Merkel. E magari anche a trovare con loro un compromesso
sull’Ucraina, soprattutto se dalle elezioni uscirà vincitore Petro Poroshenko, il «re del
cioccolato», che nel suo passato politico è stato abile nel barcamenarsi tra essere
favorevole all’Europa senza diventare però contro la Russia (che è il principale mercato
del suoi cioccolatini).
Nel triangolo diplomatico Washington- Mosca- Pechino (ideato dalla perfida abilità di
Henry Kissinger all’inizio degli anni ‘70 con il celebratissimo viaggio di Nixon in Cina), la
Cina, secondo schemi degni di una «pochade» amorosa, è stata usata dagli americani per
ingelosire i russi, pungerli nel loro orgoglio di unica potenza globale capace di interloquire
con gli Stati Uniti. Ora i giochi si sono invertiti, chi conduce le danze non è Washington,
bensì Mosca. Non c’è miglior manifesto del ribaltamento del ruolo di «playmaker»
mondiale della fotografia pubblicata in prima pagina dall’edizione europea del New York
Times che mostra un marinaio cinese con i guanti bianchi mentre accoglie un gruppo di
marinai russi a bordo di un cacciatorpediniere al termine di manovre navali congiunte. La
didascalia della foto sembra averla scritta il ministro degli Esteri di Pechino dichiarando
che le relazioni russo-cinesi «sono entrate nel miglior periodo nella storia».
La svolta a Est di Putin, per uscire dall’isolamento a Ovest provocato dalla crisi ucraina, ha
trovato un terreno fertilissimo nella frustrazione della Cina verso gli Stati Uniti, che non
hanno mai mostrato grande considerazione per il ruolo di Pechino nelle istituzioni
internazionali. Anzi, hanno spesso escluso Pechino da accordi multilaterali, come la
Trans-Pacific Partnership, che include 12 Stati ma non la Cina, che ha provato a
contrapporle un’area di libero scambio (Free Trade Area of Asia-Pacific), accolta
gelidamente da Washington. La Cina è convinta che l’America vuole contenere la sua
espansione globale e ridurre il ruolo militare nel Pacifico. Le ripetute dichiarazioni
dell’amministrazione Obama che l’Asia è un cardine economico e militare per gli Usa
hanno toccato la suscettibilità cinese e irritato Pechino.
E la «pochade» diplomatica ha toccato il suo culmine proprio in questi giorni a Shanghai,
dove la Cina ha resuscitato un’oscura conferenza regionale, inventata quasi vent’anni fa
dal Kazakhstan, il cui acronimo sembra il titolo di uno di quei tormentoni estivi che si
sentono sulle spiagge: Cica (sta per Conference on Interaction and Confidence-building
measures in Asia). Indovinate chi c’era in prima fila ad ascoltare il discorso di apertura di
Xi Jinping? Vladimir Putin, naturalmente.
del 22/05/14, pag. 13
IL NUOVO RAÌS PREPARA IL VOTO
E METTE IN CARCERE MUBARAK
TRE ANNI PER APPROPRIAZIONE INDEBITA ALLA VIGILIA DEL
PLEBISCITO PER AL-SISI
di Francesca Cicardi
Il Cairo
L’ex presidente Hosni Mubarak, che ha governato l'Egitto con pugno di ferro fino alla
rivoluzione del 2011, riappare sempre nei momenti cruciali per il paese. Pochi giorni prima
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delle elezioni presidenziali - le seconde dalla sua caduta - il “faraone” è stato condannato
a 3 anni di carcere per appropriazione indebita di fondi pubblici. Mubarak è stato dichiarato
colpevole di aver sottratto 125 milioni di lire egiziane (circa 12 milioni di euro) destinati alla
ristrutturazione dei palazzi presidenziali, utilizzati poi per le proprietà private della famiglia
Mubarak. Anche i figli dell'ex presidente, Alaa e Gamal, sono stati condannati a 4 anni di
carcere e tutti e tre dovranno restituire i soldi rubati allo stato egiziano, e inoltre pagare
una sanzione di circa 2 milioni di euro.
Le cifre sono ridicole confronto alla fortuna che hanno accumulato durante i 30 anni nei
quali sono stati al potere, però questa è la prima volta che il raìs viene condannato per
corruzione. L'ex presidente, sua moglie Suzanne e i loro pupilli e amici vivevano nel lusso
sfrenato mentre la popolazione diventava sempre più povera. Adesso, il candidato alla
presidenza che probabilmente occuperá il trono dell'Egitto - il maresciallo Abdel Fatah Al
Sisi - ha promesso che le politiche e i tempi di Mubarak non torneranno, ma ci sono molti
indizi per far pensare al contrario, a partire dagli abusi delle forze di sicurezza, che
reprimono, arrestano e torturano brutalmente gli oppositori. Il primo ministro a interim
Ibrahim Mehlab - designato a marzo con la benedizione di Al Sisi - era il manager di una
delle compagnie costruttrici più potenti del paese, che ha presumibilmente mascherato i
lavori di ristrutturazione per i quali sono stati condannati Mubarak e figli.
Gli uomini d'affari che si sono arricchiti durante la dittatura, stanno ritornando al lavoro in
Egitto e finanziano la campagna elettorale di Al Sisi. Inoltre, l'impero economico
dell'Esercito si è esteso notevolmente, da quando i generali hanno cacciato il presidente
islamista Mohamed Morsi il 3 luglio del 2013. I progetti economici e le promesse elettorali
di Al Sisi in realtà sono opera dei militari, come la costruzione di un milione di case per
giovani con poche risorse economiche. L'Egitto si apre quindi a un'altra epoca di
corruzione e ingiustizia, ma gli egiziani hanno una fiducia cieca e una devozione storica
per l'Esercito, e quindi non mettono in dubbio le intenzioni del maresciallo. Nelle ultime
settimane, Al Sisi ha conquistato il cuore degli egiziani con uno stile “popolare”, lontano
dallo snobismo di Mubarak e famiglia, ma usando lo stesso discorso paternalista e
patriottico. Il suo cavallo di battaglia è la lotta contro i Fratelli Mussulmani, che ha
promesso di eliminare definitivamente quando verrà eletto presidente.
Dall'altra parte della frontiera, in Libia, un'altro militare si guarda allo specchio di Al Sisi: è
il generale Khalifa Hifter, che lentamente sta mettendo in atto un ‘colpo di stato’,
promettendo ai libici di “liberare” il paese dalla Fratellanza - al governo a Tripoli - e dagli
islamisti radicali - che stanno dissanguando la Cirenaica.
del 22/05/14, pag. 17
Non troppo «Happy» a Teheran Arrestati per il
video «immorale»
«…Because I’m happy…». Milioni di persone in tutto il mondo sono «colpevoli» di aver
canticchiato la canzone dell’americano Pharrell Williams e migliaia di aver pubblicato
video-tributi su YouTube ballando su quelle note. Ma quando tre ragazzi e tre ragazze di
Teheran si sono uniti al fenomeno globale, nel tentativo di mostrare che si può danzare
spensierati, vestiti da hipster e senza il velo obbligatorio sui capelli anche sui tetti della
capitale iraniana, tra parabole, unità esterne dei climatizzatori e sullo sfondo della torre
Milad, la performance è finita con l’arresto. I sei sono stati identificati, indotti a consegnarsi
alle autorità (è stata fatta arrivare loro la notizia che un amico era stato vittima di un
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incidente per convincerli a presentarsi nel luogo della «retata») e infine l’altro ieri sera si
sono detti pentiti sulla tv di Stato (in cambio, secondo i siti dei dissidenti, del rilascio
avvenuto subito dopo).
Il video è l’ennesimo segnale che i ragazzi della Teheran benestante e liberal osano di più:
da sempre abituati a ballare insieme e senza veli nelle feste private, oggi non si
nascondono. Sono gli elettori del presidente Rouhani, che esigono la svolta moderata da
lui promessa. Altri due esempi recenti sono: la valanga di foto di ragazze iraniane senza
velo pubblicate su una pagina Facebook e una campagna di solidarietà di donne e uomini
con la testa rasata contro gli abusi nella prigione di Evin. D’altra parte, nella risposta dura
delle autorità al filmato, che il capo della polizia ha definito «volgare» e «un’offesa alla
morale», si legge la preoccupazione della parte più oltranzista del regime, contraria alle
aperture e timorosa che tramite Internet i giovani se le stiano conquistando da soli, come
osserva l’iranista Anna Vanzan, docente all’Università degli Studi di Milano. Le
dichiarazioni della polizia di aver «lanciato un’inchiesta, con l’aiuto delle autorità
giudiziarie, che ha condotto all’identificazione dei responsabili in due ore e all’arresto in sei
ore» sono un avvertimento chiaro: le sfide — non solo in piazza ma anche sul web — non
saranno tollerate.
Una reazione però che agli occhi del mondo è sproporzionata e fa apparire la polizia come
il cattivo esagerato di Despicable Me (animazione per cui la canzone Happy è stata
scritta). La giornalista iraniana Golnaz Esfandiari dà voce a questo sentimento twittando:
«L’Iran, il Paese dove essere felici è un crimine». A livello di immagine sarebbe stato certo
meno dannoso lasciar parlare la giovane Neda, una delle ragazze del filmato: «Volevamo
mostrare che a Teheran ci sono giovani gioiosi anche se vivono tra mille difficoltà e che
non è un posto cupo come appare all’esterno». A differenza della sua omonima uccisa in
piazza nel 2009, questa Neda non manifesta contro il regime ma si rivolge alla sua parte
più moderata per avere maggiori spazi di libertà personale.
Viviana Mazza
del 22/05/14, pag. 15
LA POLEMICA USA, UE ONU CHIEDONO CHIAREZZA
Uccisi 2 adolescenti palestinesi bufera su
Israele dopo il video
FABIO SCUTO
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME .
Un video di meno due minuti scuote i rapporti fra Usa, Ue, Onu e Israele. È stato girato da
una telecamera di sicurezza di un negozio giovedì della scorsa settimana durante il
“Nakba Day” – il Giorno della Catastrofe – con il quale i palestinesi ricordano la nascita di
Israele, la prima guerra arabo-israeliana e l’inizio della tragedia dei profughi. Mancano
pochi minuti alle 15 e le proteste fuori del carcere israeliano di Ofer – dove sono in cella
centinaia di palestinesi – sono già sfociate nella violenza: sassaiole contro soldati e
polizia, copertoni in fiamme. In un’area distante centinaia di metri dal carcere, un gruppo di
adolescenti cerca riparo all’ombra di uno stabile dai gas lacrimogeni sparati senza
risparmio. Parlottano, si muovono, ma nessuno tira un sasso. Di colpo due figure si
accasciano, sono due ragazzi di 15 e 17 anni, centrati in petto e alle spalle da pallottole
vere.
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Il video, diffuso dalla Ong israeliana B’Tselem e da Defense for Children International
Palestine e ripreso ieri dai media israeliani, indica che le vittime erano lontane dagli scontri
e non erano impegnate in un confronto diretto con i soldati. «Non sembra», scrive Haaretz,
«che rappresentassero una minaccia per nessuno al momento della sparatoria». La
missione Ue a Gerusalemme esprime «profonda preoccupazione per la morte dei due
adolescenti, con l'uso da parte israeliana di armi letali in manifestazioni di piazza». Gli
Stati Uniti chiedono un'indagine imparziale, mettendo in discussione la «proporzionalità
dell'uso della forza in relazione alla minaccia posta dai manifestanti». L'Onu invita Israele
a seguire «rigorosamente i principi sull'uso della forza e delle armi da fuoco». Il ministro
della Difesa israeliano Yaalon giustifica il comportamento delle forze di sicurezza di fronte
a «un episodio di violenza in cui bottiglie incendiarie e pietre sono state lanciate contro
agenti e soldati, che sentendosi minacciati hanno reagito come dovevano fare».
L'agenzia Onu per l'assistenza ai rifugiati palestinesi (Unrwa) segnala «un incremento
netto del numero di rifugiati palestinesi uccisi e feriti» dalle forze israeliane in Cisgiordania,
«con munizione vere». Nel 2013 i morti palestinesi in circostanze analoghe sono stati 27,
quest’anno siamo già a 11.
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INTERNI
del 22/05/14, pag. 1
Squadristi digitali
I cecchini non finiscono mai
«Assassina maledetta», «Dovevano lasciarti marcire sotto 300 metri di terra», «Guardati le
spalle», «Parassita», «Ingrata verso la Patria», «Se vieni a Riccione, avrai una bella
sorpresa», tralasciando le minacce infami e sessiste. Dulcis in fundo, la foto di una pistola
e l’invito a «bruciare in piazza» il suo ultimo libro sulla Primavera Araba. Obiettivo del
cecchinaggio verbal-intimidatorio è la nostra Giuliana Sgrena.
Il continuo delirio squadrista della destra estrema — basta vedere l’inneggiare a Hitler dei
siti in questione — sarebbe «motivato» dai giudizi sulla crisi dei «due Marò». Per la quale
Giuliana, memore della sua vicenda irachena, ha più volte denunciato, contro
l’insopportabile coro generale, che l’Italia preferisce «far valere l’obsoleta consuetudine
dello zaino e della bandiera (un militare risponde solo al paese di provenienza) e
considerare danno collaterale la morte di due pescatori indiani disarmati».
Le aggressioni insistono anche sulla tragedia della morte di Calipari. Della quale, per le
farneticazioni degli squadristi su web — scatenati appena Giuliana ha annunciato la sua
candidatura nella Lista Tsipras — sarebbe responsabile lei, non i soldati Usa e i governi
guerrafondai di Bush e Berlusconi in Iraq. Questa storia parla di noi, non solo di queste
perverse elezioni: è la storia del manifesto che si riconosce nel lavoro di Giuliana.
La pensiamo allo stesso modo. Insultateci tutti
del 22/05/14, pag. 8
La destra in frantumi offre il Piemonte a
democratici e M5S
Nella foto del groviglio laocoontico ci sono tutti. L’unico che non si vede è l’autore del gol
decisivo. Roberto Cota è sepolto dagli abbracci e dai corpi degli altri «cari amici» del
centrodestra. Con le grisaglie e i gessati al posto delle divise da calciatori, ma l’esultanza
da stadio di quella notte del 29 marzo 2010 aveva solidissime ragioni per essere tale. La
vittoria era stata insperata, giunta ai supplementari dopo conteggi e riconteggi che
avevano sancito l’inattesa sconfitta del Pd e della sua zarina Mercedes Bresso. E che
stadio, poi. L’alleanza Lega Nord, Pdl e Udc nelle sue varie declinazioni festeggiava in
quella piazza Castello simbolo delle istituzioni torinesi abituate a guardare dall’alto al
basso i politici che vengono da fuori, dalla provincia.
A riguardare il taccuino di quella notte spuntano frasi scolpite nel marmo del monumento
all’Alfiere dell’esercito sardo che osservava la scena. «Il Piemonte è un esempio, uniti si
vince sempre». «Su questo trionfo sarà costruita la casa del centrodestra del futuro».
«Non ci separeremo mai». Piazza Castello è ancora il salotto della politica subalpina.
Beppe Grillo ha lanciato qui la sua prova di forza, domani ci sarà la replica di Sergio
Chiamparino, il favorito della vigilia. Mancano gli altri, i reduci del 2010. Nel Piemonte che
dopo anni neri registra piccoli segnali di ripresa con la produzione industriale che nel primo
trimestre del 2014 è salita del 3,5 per cento, la grande anomalia della politica è
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l’implosione del centrodestra. In ordine sparso alle elezioni regionali, con poca voglia e
tanti candidati, ognuno con le stesse possibilità di vittoria, nulle o quasi.
«Una figura patetica. Abbiamo scelto di non combattere. Nessuno ha osato attaccare
Chiamparino perché tutti in cuor loro sperano di fargli da stampella». Guido Crosetto è il
più loquace dei tre presunti tenori dell’ex Casa delle libertà. La stanchezza nella sua voce
è data anche dalla consapevolezza di aver fatto corsa «di pura testimonianza», sotto le
insegne di Fratelli d’Italia. «Peggio di così non potevamo fare» dice con riferimento al
«suo» centrodestra. Le premesse da divisi alla meta erano pessime, ma lo spettacolo di
questi ultimi giorni ha un retrogusto hobbesiano. Tutti contro tutti. A farne le spese è
Gilberto Pichetto, già alleato di Cota, gentiluomo biellese scelto di persona da Silvio
Berlusconi, che in zona Cesarini si vede costretto al gioco d’attacco con slogan come «la
sinistra racconta balle» conditi da appelli al voto utile che mandano in bestia gli ex
compagni di cordata. Il terzo protagonista della guerra dei Roses al gianduia è l’alfaniano
Enrico Costa, da Mondovì, sottosegretario alla Giustizia, che ha affrontato la gara con lo
stesso entusiasmo riservato all’estrazione di un molare. Crosetto: «È la plastica
rappresentazione del patto di non belligeranza con il centrosinistra siglato a Roma dal
Nuovo centrodestra».
Anche Chiamparino ha le sue foto. Sul trattore alla Fiera agricola di Savigliano, con il
cappello da alpino, all’Unione Ciechi, nelle bocciofile. L’ex sindaco di Torino ha totalizzato
quindicimila chilometri, quasi tutti a bordo della sua Fiat 16 bianca. A renderlo inquieto è
l’album di famiglia. Il suo attivismo ha finito per rendere nervoso il Pd, del quale dopo anni
di Aventino ha ripreso la tessera. A sancire l’eterno status da separato in casa è stata la
nascita di una lista civica, con tanto di Monviso colorato di rosso, che ha la funzione di
contenitore del voto moderato nelle provincie, il Piemonte profondo fatale alla Bresso nel
2010 e storicamente poco propenso ad aprire le braccia a un ex comunista. La prova di
una coabitazione difficile è arrivata due giorni fa, con le espulsioni dei dirigenti pd candidati
in liste comunali contrapposte a quella scelta dal partito. A Chiamparino è successo
spesso di trovarsi preso in mezzo, trascinato prima al banchetto di una lista civica e poi a
quello dei rivali, entrambi titolari di una fetta del Pd. Dopo anni di inerzia, l’iniziativa dei
vertici democratici non brilla per tempistica e invito alla coesione nelle urne, ma è segno di
un equilibrio precario, a geometria variabile. Nella popolosa Nichelino, 49 mila abitanti, i
candidati della famiglia pd che si contendono la carica da sindaco sono tre. A Susa, nella
valle che è granaio del Movimento 5 Stelle, invece non ce n’è neppure uno. L’unico
aspirante sindaco munito di tessera democratica è Sandro Plano, ma corre con gli
avversari della lista No Tav. A Biella il vincitore delle primarie del Pd deve guardarsi dalla
lista appoggiata da Giancarlo Susta, ex vicepresidente della Regione per conto del partito.
L’eterna vocazione del Pd a complicarsi la vita è vento nelle vele di Davide Bono, 33 anni,
medico di base, consigliere regionale durante la giunta Cota, pentastellato tendenza
Casaleggio. Ha preso l’impegno sul serio, con tanto di camper in giro per il Piemonte,
pubblicità sulle fiancate dei taxi, e dieci punti di programma già scritti come fossero
proposte di legge. «Chiamparino ha problemi nel partito. E quando devi guardarti alle
spalle, la sorpresa è dietro l’angolo». In caso di vittoria propone il blocco del Tav e degli
inceneritori, la politica del no elevata a forma di governo. Schermaglie. Il vero obiettivo è
impedire al favorito una maggioranza autosufficiente, obbligarlo all’alleanza con il
centrodestra e risolvere così l’equazione del «sono tutti uguali». Una corsa a due, con i
vincitori della passata edizione ad assistere in tribuna. Da qualche parte deve esserci
ancora quella vecchia foto. L’ultimo avvistamento di Roberto Cota, capitano della squadra
del 2010 che adesso cerca una maglia in Europa, risale a pochi giorni fa. L’ex governatore
leghista era nel Canavese ad agitare i campanacci davanti alla villa di famiglia dell’ex
ministro Elsa Fornero. In casa non c’era nessuno.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 22/05/14, pag. 16
L’ultimo mistero su Falcone
“In quel computer il diario segreto”
I pm di Caltanissetta a caccia di file nel pc del giudice manomesso dopo
Capaci
ATTILIO BOLZONI
SALVO PALAZZOLO
DAI NOSTRI INVIATI
CALTANISSETTA .
Esiste ancora qualche traccia del diario di Falcone? L’hanno cancellato del tutto o una
parte dei suoi appunti sono recuperabili? I familiari del giudice, ventidue anni dopo Capaci,
stanno per consegnare un computer alla magistratura. Vogliono sapere se, lì dentro, si
possono ritrovare alcuni dei suoi scritti più segreti.
Nonostante il tempo passato e nonostante la «pulizia» dei supporti informatici operata
dalle solite manine subito dopo la strage, la sorella Maria ha incaricato ieri i suoi avvocati
di depositare un Toshiba alla procura di Caltanissetta, quella che indaga sui massacri
palermitani del 1992. È un piccolo portatile, violato qualche giorno dopo l’attentato con un
programma usato per riportare in salvo o per eliminare definitivamente i file. Una prima
perizia di tanti anni fa aveva accertato «manomissioni», le prove di un sabotaggio. Ma ora
i familiari del magistrato, confortati da nuovi sistemi di ripescaggio dei dati attraverso
tecnologie avanzate, sperano che gli esperti possano riesumare annotazioni perse anche
nelle memorie più remote. Dice Maria Falcone alla vigilia delle celebrazioni in memoria del
fratello: «Spero che troveranno qualcosa, sarà un altro passo verso la verità».
Il Toshiba, in un primo momento scomparso e poi riapparso misteriosamente nella sua
abitazione palermitana di via Notarbartolo, nel 1993 è stato restituito alla famiglia e
custodito nello studio legale di Francesco Crescimanno. Lì c’è rimasto per oltre due
decenni. Ora, sta per finire a sorpresa nella cassaforte del procuratore capo della
repubblica di Caltanissetta Sergio Lari. È un estremo tentativo per raggiungere la
documentazione più riservata del giudice, una quantità enorme di informazioni e di nomi
che qualcuno aveva provveduto a rimuovere subito dopo la bomba di Capaci.
Ma cosa, realisticamente, potrebbe contenere ancora il Toshiba? Quali notizie top secret o
confidenziali il giudice avrebbe registrato in quel pc? Sarà una nuova perizia a scoprirlo
se, dopo tutti questi anni, si riuscirà a scovare ancora qualcosa. Dell’archivio di Falcone si
è ritrovato ben poco e fra quel poco ci sono stralci del suo diario, due fogli che il giudice ha
affidato qualche mese prima di morire a una sua amica («Non si sa mai, ci sono fatti che
preferisco registrare a futura memoria»), la giornalista Liana Milella, nel 1992 inviata del
Sole 2-4 Ore e poi a Repubblica. È l’unica testimonianza personale che Falcone ci ha
lasciato per iscritto. Due fogli dove il giudice ricostruiva il clima avvelenato della procura di
Palermo di quegli anni, gli scontri con il procuratore Piero Giammanco, le umiliazioni che
era costretto a subire in quell’ufficio tanto da chiedere — per poter continuare la sua
attività — il trasferimento alla direzione generale degli Affari penali del ministero di Grazia
e Giustizia.
Dove sono finite tutte le altre parti del diario? Si ricomincia dalla perizia sul Toshiba,
un’altra indagine sull’indagine che arriva più di un ventennio dopo per chiarire misteri mai
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risolti. E quello intorno al Toshiba è solo uno dei tanti. Tutti i computer di Falcone sono
stati «forzati» nelle ore e nei giorni successivi a Capaci: anche il computer fisso Olivetti e
un portatile Compaq, che erano al ministero. È stata trovata vuota persino la memoria di
un databank Casio, anche questo scomparso e poi misteriosamente riapparso. Una
distruzione a tutto campo per non lasciare nulla di Falcone dopo la sua morte.
L’inchiesta iniziale è stata segnata da tanti «errori» e «dimenticanze ». Un’indagine
approssimativa, i procuratori di Caltanissetta del 1992 non hanno ascoltato testi importanti,
decisivi. Come Giovanni Paparcuri, il più stretto collaboratore del giudice. Oggi dice: «Ogni
giorno vedevo Falcone annotare i suoi pensieri su quel Casio e di tanto in tanto trasferivo il
materiale del databank ai pc. Una volta, mi chiese di andare ad acquistare un’estensione
di memoria per il Casio». Neanche questa ram card si è mai più trovata. E sono scomparsi
pure una ventina dei cento floppy disk su cui Paparcuri aveva trasferito l’archivio di
Falcone, prima della sua partenza per Roma. Sono accadute cose strane al ministero
della Giustizia, in via Arenula, a Roma. La sera del 23 maggio, poche ore dopo la strage,
la stanza di Falcone viene «sigillata» per ordine dei procuratori di Caltanissetta. Ma
nessuno, incredibilmente, si preoccupa di sequestrare i computer e i supporti informatici
che ci sono in quell’ufficio. Sette giorni dopo, il 30 maggio, si procede alla «ricognizione»
dei reperti nella stanza del giudice ma — ancora un’inspiegabile gaffe della procura di
Caltanissetta — non si effettua alcun sequestro dei computer. Un mese dopo, il 23 giugno,
i computer vengono finalmente sequestrati. Ma nel frattempo, esattamente il 6, il 10 e il 19
giugno — come accerteranno le perizie successive — qualcuno si inserisce nel computer
di Giovanni Falcone (la stanza è formalmente chiusa con provvedimento giudiziario) e
lascia traccia del suo passaggio. Alle 15.08 del 19 giugno i periti scoprono che quel
qualcuno entra nel programma Perseo — sviluppato per il ministero della Giustizia — e
apre il file contenente gli elenchi di Gladio e alcuni appunti di Falcone. Qualcuno che
conosce la password per entrare negli archivi di Falcone: «Joe».
Per quasi vent’anni tutte queste vicende sono rimaste sospese e le indagini abbandonate.
Dopo tanto tempo riusciranno i magistrati di Caltanissetta a trovare frammenti di verità in
questo computer o altrove? Rispondeva qualche mese fa il procuratore Sergio Lari:
«Stiamo setacciando tutto quello che è in nostro possesso, questa è l’ultima spiaggia. O
scopriamo ora qualcosa sui misteri del 1992 o non la scopriremo mai più».
del 22/05/14, pag. 1/17
ANTONIO IOVINE È IL CAPO DEI CASALESI
Cade il muro di Gomorra si pente il super
boss
ROBERTO SAVIANO
ILBOSS Antonio Iovine ha deciso di pentirsi: non è uno qualunque.
È un capo, è “il ministro dell’economia” della camorra. È stato condannato all’ergastolo nel
processo Spartacus e a 21 anni e sei mesi nel processo Normandia.
ORA vuole collaborare con la giustizia: è una notizia che rischia di cambiare per sempre la
conoscenza delle verità su imprenditoria e criminalità organizzata non solo in Campania,
non solo in Italia. Antonio Iovine detto ’ o ninno per il suo viso di bambino ma soprattutto
per aver raggiunto i vertici del clan da giovanissimo non è un quadro intermedio, un
riciclatore delle famiglie, non un solo capo militare. È uno che sa tutto. E quindi ora tutto
potrebbe cambiare. La terra trema per una grossa parte dell’imprenditoria, della politica,
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per interi comparti delle istituzioni. Le aziende grandi e piccole che hanno ricevuto, che
sono nate e che hanno prosperato grazie ai flussi di danaro provenienti da Antonio Iovine,
si sentono come in una stanza le cui pareti si stringono sempre più.
Il talento di Iovine è sempre stato quello di saper far fruttare il flusso di danaro del
narcotraffico, delle estorsioni, delle truffe oltre che sfruttare alla grande gli appalti statali.
Tutto il segmento nero diventava investimento vivo, costruzione vera: imprese edili,
ristoranti, import-export.
Uno dei primi colpi di ’ o ninno fu proprio l’acquisto della discoteca Gilda a Roma: una
delle sue prime mosse personali nella capitale. Seguendo l’indicazione del padrino
Bardellino, Roma era la vera fortezza da espugnare e Iovine l’ha sempre saputo. Ed è qui
che si è legato ai tre settori cardine della capitale: cemento, intrattenimento, politica. Ha
provato a scalare la squadra di calcio della Lazio, riciclando 21 milioni di euro provenienti
dall’Ungheria, attraverso il suo parente Mario Iovine detto Rififì, a Roma ha investito nel
settore del gioco d’azzardo legale.
Esistono molti boss della mafia pentiti. Ma nella camorra è diverso: Iovine è stato ai vertici
dei Casalesi per oltre dieci anni, non esistono precedenti simili, se non forse quello di
Pasquale Galasso, capo della Nuova famiglia. L’altro pentito del clan dei Casalesi che ha
cambiato la storia è stato Carmine Schiavone ma era un capo della vecchia generazione,
marginalizzato nell’ultima fase, che decise di pentirsi proprio perché estromesso dai
vertici, lui che era fondatore del gruppo. Iovine è l’organizzazione. Perché ha deciso di
collaborare? A dicembre scorso ‘ o ninno ha revocato i suoi avvocati. La prima cosa che
ho pensato è stata che si sarebbe pentito. L’ho scritto e, come speso accade fui deriso e
preso per visionario. Invece è successo ma non riesco ancora a capire perché.
Sicuramente gran parte del merito ce l’ha Antonello Ardituro il pm che da anni
instancabilmente segue le vicende del Ninno . I grandi capi del clan dei Casalesi
Francesco “Sandokan” Schiavone e Francesco Bidognetti si fanno il carcere, sepolti vivi,
detengono il potere nel silenzio. Quando un capo è al 41bis sa che non può più realmente
comandare ma il suo silenzio è l’assicurazione sui soldi della famiglia e soprattutto è un
valore generazionale. Un boss non ragiona in anni ma in epoche. Il silenzio di un boss ha
un valore inestimabile per i suoi nipoti. È la vera dote. Un investimento sul futuro. Ma ‘ o
ninno è sempre stato un boss sui generis. A differenza di Zagaria definito “il monaco” per
l’attenzione maniacale a una vita moderata e disciplinata, Iovine non ha fatto una latitanza
da recluso. In 14 anni di latitanza, prima di essere arrestato a Casal di Principe il 17
novembre 2010 si è molto mosso soprattutto in Francia, in Emilia e in Toscana e a Roma,
ha seguito il flusso del danaro e i reinvestimenti.
Non ha ancora compiuto 50 anni (è nato il 20 settembre del ’64), ha figli giovani, attivissimi
su Facebook, e che sono a pieno titolo nella vita sociale della borghesia casertana e
romana, una figlia amica di presentatrici tv, importanti imprenditori edili da sempre a stretto
contatto con il suo gruppo familiare e suo figlio Oreste che recentemente è finito in galera
per traffico di droga, perché dopo l’arresto del padre ha voluto prendere in mano
l’organizzazione senza averne davvero le capacità. Enrichetta Avallone, sua moglie
condannata a 8 anni, gestiva la sua rete di comunicazione e il Ninno dovrà spiegare come
mai un uomo dei servizi segreti le faceva da autista.
Non sappiamo ora cosa potrà accadere nell’agro aversano, come reagiranno i clan visto
che i figli di Schiavone Sandokan sono legatissimi ai figli di Iovine. Potrebbe
essere l’inizio di un cambiamento epocale. Iovine potrà chiarire molto, moltissimo: potrà
parlare delle voci che lo hanno descritto (senza mai nessuna conferma giudiziaria) come il
burattinaio dietro la scalata di Ricucci, Coppola e Statuto. Potrebbe chiarire il potere della
famiglia Cosentino e dei rapporti con tutta la politica degli ultimi vent’anni. Potrebbe
persino raccontare alcune verità che spiegheranno i retroscena alla caduta del governo di
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centro sinistra. Ricordate? Il governo di centrosinistra nel gennaio 2008 cadde perché
Mastella ritirò la fiducia dopo che la moglie venne indagata per tentata concussione. Era
successo che Nicola Ferraro (poi condannato per concorso esterno in associazione
mafiosa) dirigente Udeur e consigliere regionale chiese a Luigi Annunziata direttore
generale dell’Ospedale di Caserta di Caserta di mettere Carmine Iovine cugino del ninno
come capo della direzione sanitaria dell’ospedale di Caserta. Solo O’ ninno ora potrà
spiegare.
Potrebbe essere una vittoria dello Stato importantissima. La verità può essere vicina:
imprenditoria politica, giustizia, giornalismo tutto sta per essere attraversato dalle
confessioni del Ninno. Costringere i capi dei clan a raccontare la verità perché ormai non
hanno più scampo, perché ormai sanno di non poter più vincere_ questa potrebbe essere
una vittoria della democrazia.
Una delle più belle.
del 22/05/14, pag. 9
Appello in favore del procuratore: “Il Csm chiuda il caso” Firmano
anche Pomarici e Nobili, Robledo resta solo
Procura di Milano con Bruti Liberati si
schierano 62 pm
PIERO COLAPRICO
MILANO .
Una lettera spunta al quarto piano del palazzo di giustizia milanese. E può servire a
delineare meglio i confini dello scontro che l’aggiunto Alfredo Robledo ha aperto, ormai lo
scorso marzo, contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati: «Non possiamo non
intervenire », dicono infatti magistrati milanesi della pubblica accusa. E sono in
sessantadue, su settantacinque. Una maggioranza assoluta con firme di peso: come
quelle di alcuni aggiunti invocati da Robledo nelle sue lettere continue al Csm (Ferdinando
Pomarici, Alberto Nobili, Nunzia Gatto, Alberto Nobili), con quelle degli altri «vecchi» Pietro
Forno e Maurizio Romanelli che firmano questo appello con Francesco Greco, e cioè con
l’aggiunto inviso a Alfredo Robledo; come Fabio De Pasquale, che insieme a Robledo
aveva avviato il caso Mills e poi l’ha finito da solo sino ad ottenere la condanna in
cassazione; come i tanti titolari di indagini che spaziano dal terrorismo al crimine, dalla
corruzione alle rapine. E tutto questo vasto mondo dell’accusa milanese, più che rivolgersi
al Consiglio superiore della magistratura, intende spiegare a chi ha letto e ascoltato di una
procura spaccata, di «faide» (termine usato per i mafiosi), di collasso della catena di
comando, che non è così. Anzi la procura — proprio questa procura — ha lavorato
secondo le regole di legge e «ne sono testimonianza — scrivono i pubblici ministeri — i
riscontri che in sede di giudizio, di primo grado, di appello e di cassazione, hanno ottenuto
le indagini condotte dalla procura di Milano nelle sue diverse articolazioni».
La lettera aperta (senza le firme dei «coinvolti» Ilda Boccassini, Bruti e Robledo) non fa
nomi e cognomi, ma puntualizza fatti e stati d’animo: «Da oltre due mesi — scrivono i
magistrati dell’accusa — è all’esame delle competenti commissione del Csm» il caso che
riguarda i «criteri di organizzazione» degli uffici. E se — scrivono sempre i pm — «non
intendiamo entrare nel merito di tali questioni », però «auspichiamo con forza che la
pratica trovi rapidamente la sua conclusione».
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È un appello che al Csm è già stato rivolto anche dal suo vicepresidente, Michele Vietti,
ma che la componente di Magistratura indipendente, legata al sottosegretario quota
centrodestra e magistrato Cosimo Ferri, non accetta. Anzi, per oggi il Csm ha convocato
ancora Nobili, a proposito del fascicolo Ruby, che Robledo rivendicava come suo
(nonostante, nel 2010, avesse chiesto a Silvio Berlusconi un risarcimento in sede civile per
500 mila euro).
I firmatari della petizione sanno della «non fretta» del Csm, ma non demordono:
«Non possiamo non intervenire in ordine alla rappresentazione mediatica non
corrispondente al vero che viene offerta alla pubblica opinione con l’immagine di una
Procura della Repubblica dilaniata da contrapposizioni interne». E, nella loro certezza di
addetti ai lavori, «Respingiamo — dicono — ogni tentativo di delegittimazione complessiva
dell’operato della nostra procura che, diversamente dall’esercizio del diritto di critica,
rischia di danneggiarne la credibilità e, dunque, di compromettere l’efficacia della sua
azione».
A margine delle parole, pesanti, una circostanza: è stato il neo-procuratore capo di Torino,
Armando Spataro — una carriera nell’antiterrorismo, nell’antimafia, e, da ultimo,
nell’inchiesta sul sequestro del terrorista Abu Omar da parte della Cia — a scrivere
materialmente la lettera e a raccogliere le firme dei colleghi.
del 22/05/14, pag. 10
Maroni: “Scrissi a Scajola che Biagi era in
pericolo” Si indaga per omicidio
La procura di Bologna: ucciso anche dalle omissioni L’ex ministro di FI
disse: nessuno mi ha chiesto la scorta
LUIGI SPEZIA
BOLOGNA .
«Sono io ad aver scritto una lettera al ministro dell’Interno Claudio Scajola. Chiedevo di
estendere la scorta a Marco Biagi, anche a Bologna, dove viveva ». Roberto Maroni, ex
ministro del Welfare, svela che partì dal suo ufficio la richiesta di aiuto per proteggere il
suo consulente. Ma non servì: Biagi, nel mirino delle nuove Br che avevano già eliminato
tre anni prima Massimo D’Antona, venne ucciso il 19 marzo 2002. Proprio a Maroni, Biagi
aveva scritto parole che appaiono come una tragica premonizione: «Se dovesse
malauguratamente occorrermi qualcosa, desidero si sappia che avevo inutilmente
informato le autorità di queste ripetute telefonate minatorie, senza che venissero presi
provvedimenti ».
La lettera di cui oggi Maroni rivendica la paternità è stata ritrovata tra le carte di Scajola
dalla Finanza. Vistata da lui, nonostante che in seguito alla morte del giuslavorista, l’ex
ministro dell’Interno abbia sostenuto pubblicamente di non aver avuto conoscenza diretta
dei rischi che correva Biagi. Lo disse in Parlamento nell’aprile del 2002. Lo ripetè l’estate
successiva, quando dette le dimissioni per quella frase, «Biagi era un rompicoglioni ».
Disse: «La tragica morte di Biagi non è avvenuta per colpa mia. Nessuno mi ha mai
informato dei suoi messaggi disperati ».
Scajola ammise poi nel 2004, ma dopo che tutto era ormai stato archiviato, che «c’era
stata sottovalutazione» nella decisione di non dare la scorta: «Io penso di avere la
coscienza a posto — si difese — . Ho sofferto molto, anche se non è un ministro che nega
o concede la scorta». Ora quella scorta negata è al centro di un’inchiesta della procura di
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Bologna con un titolo di reato pesantissimo: omicidio per omissione. Non contro le Br, già
condannate, ma contro persone — per ora ignote — delle istituzioni che non concessero
la scorta al professor Biagi. Un’inchiesta per arrivare a capire se qualcuno, a partire
proprio da Scajola, abbia posto le condizioni, negando la scorta, affinché avvenisse
l’omicidio dello studioso di diritto del lavoro. «Non impedire un evento, che si ha l’obbligo
giuridico di impedire, equivale a cagionarlo »: sono queste le due righe di testo del codice
penale tenute presenti dalla procura di Bologna nel riaprire un caso scottante, già
archiviato dieci anni fa tra molte perplessità. Allora il giudice Gabriella Castore, nel
chiudere il caso su richiesta dei pm che non arrivarono a trovare prove convincenti su due
funzionari dell’Antiterrorismo e sul prefetto e il questore di Bologna di allora, fu comunque
durissima nel denunciare le sottovalutazioni e gli errori che portarono a morte un «obiettivo
indifeso».
La procura di Bologna ci riprova partendo da un verbale di interrogatorio di Luciano
Zocchi, segretario di Scajola, a casa del quale nel luglio scorso vennero rinvenuti dalla
Finanza faldoni di documenti riservati, in parte in possesso anche di un agente segreto.
C’erano appunti manoscritti sul caso Biagi e c’era quella lettera di richiesta di protezione a
favore di Biagi inviata a Scajola.
Mentre prende corpo la nuova inchiesta, il senatore del Nuovo Centrodestra Nico D’Ascola
ha deciso di rinunciare alla difesa di Scajola. Aveva ricevuto l’incarico solo pochi giorni fa
ed ha abbandonato per la polemica, definita «falsa e strumentale», su un presunto
conflitto di interessi.
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SOCIETA’
del 22/05/14, pag. 5
«Liberalizziamo la cannabis»
Eleonora Martini
Droghe. Il sindaco di Roma: il proibizionismo ha fallito, dico sì all’uso
terapeutico e personale. Mentre il senatore Carlo Giovanardi insiste:
«Serpelloni deve rimanere capo del Dipartimento»
«Sono favorevole alla liberalizzazione della cannabis per uso curativo o personale». Parla
da medico prima ancora che da responsabile della salute dei suoi concittadini (e a una
platea di studiosi che non credono ai «buchi nel cervello»), il sindaco di Roma, Ignazio
Marino, ma è solo l’ultimo di una lunga serie di sindaci statunitensi, sudamericani, olandesi
(in 35, solo qualche mese fa, hanno chiesto di legalizzare la coltivazione della marijuana),
tedeschi o spagnoli che sostengono la fine del proibizionismo più oscurantista per
combattere le narcomafie e sconfiggere il dilagare delle tossicodipendenze. Eppure, nel
giorno in cui entra in vigore la nuova tabellazione delle sostanze stupefacenti, col ripristino
della differenza tra droghe leggere e pesanti come era fino al 2006, prima della legge FiniGiovanardi abrogata dalla Consulta – una differenziazione che contribuirà anche ad
alleviare il sovraffollamento carcerario a causa del quale, come ha avvertito proprio ieri
Strasburgo, l’Italia rischia dal 27 maggio prossimo una sanzione per ciascuno dei 6829
ricorsi già pronti sul tavolo della Corte europea dei diritti umani – le ragionevoli posizioni
del primo cittadino romano suscitano un vespaio nel centrodestra. Che in realtà ronzava
da tempo, e sul tema è pronto ad esplodere, come dimostra l’irrequieto senatore Ncd
Carlo Giovanardi che ieri ha chiesto un assist alla ministra della Salute Beatrice Lorenzin
per ritornare al vecchio regime sanzionatorio e soprattutto per scongiurare il
“pensionamento” dell’ex capo Dipartimento antidroga, Giovanni Serpelloni, sospeso già
dal 9 aprile scorso.
È una posizione chiave, quella della presidenza del Dpa. E Serpelloni garantisce la
continuità con le politiche proibizioniste tanto care alla destra, vecchia e nuova. Quelle
politiche che secondo Ignazio Marino, intervenuto al Cnr in apertura dei lavori della
conferenza annuale dell’International Society for the Study of Drug Policy, «non hanno
portato nessun risultato nella prevenzione del drammatico aumento nell’uso di droga».
«Nel 2011 più di un milione di piante sono state confiscate nel nostro Paese contro le
73mila in Francia», ha aggiunto, mentre «la criminalità organizzata ancora gestisce grandi
porzioni del traffico internazionale e ci sono abbastanza ragioni per riaprire il dibattito oggi
in Italia». Dopo aver fotografato il tempo attuale «in cui una riforma delle leggi sulle droghe
è necessaria a livello nazionale e internazionale», il sindaco democratico ha esplicitato le
sue convinzioni: «La depenalizzazione della marijuana deve essere considerata un punto
di partenza» e «nuove forme di legalizzazione potrebbero essere sperimentate in medicina
per la salute delle persone ma anche per colpire la criminalità organizzata».
Un punto di vista che però ha innervosito non solo l’ala destra del parlamento: «Una volta
tanto che abbiamo raggiunto un punto di equilibrio, con la cannabis che non è più
contenuta all’interno della tabella 1 delle sostanze stupefacenti, penso che ora dobbiamo
fermarci a riflettere», sbotta la compagna di partito del sindaco, Emilia Grazia De Biasi,
presidente della commissione Sanità del Senato che ha lavorato gomito a gomito con
Giovanardi, relatore del provvedimento che classifica 500 sostanze entrate in commercio
dal 2006 ad oggi pubblicato ieri in Gazzetta ufficiale.
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Ma l’autore della vecchia legge cassata dalla Corte costituzionale, insieme alla stessa
ministra Lorenzin e all’ex capo antidroga Serpelloni, sono per un’altra linea: differenziare
almeno la «marijuana di una volta» da quella «ogm», come la chiamano, ossia quella con
«principio attivo arricchito», collocando quest’ultima nella stessa tabella della cocaina e
dell’eroina in modo da parificare il regime sanzionatorio con le droghe pesanti e — cosa
molto più importante — dirottare per legge un gran numero di consumatori abituali di
cannabis sulla strada delle comunità (private) di recupero per tossicodipendenti.
Ecco perché è necessario che Serpelloni rimanga al suo posto. Perché anche se l’Unodc,
l’agenzia Onu per la droga e il crimine, lancia l’allarme sull’«espansione senza precedenti»
delle droghe sintetiche (348 nuove sostanze legali in 94 Paesi del mondo, 100 delle quali
introdotte solo nell’ultimo anno), in particolare su quelle droghe psicoattive che imitano gli
effetti della cannabis, passate da 60 nel 2012 a 110 nel 2013, l’unico problema da noi
deve continuare a rimanere la marijuana. E non è una questione ideologica.
del 22/05/14, pag. 21
Le famiglie di Pomezia: non si risparmia sulla pelle dei bambini Il primo
cittadino 5Stelle: attacchi strumentali, io non discrimino
“Il sindaco è razzista”
La città si ribella alle mense di serie B
MARIA NOVELLA DE LUCA
DAL NOSTRO INVIATO
POMEZIA .
Fosse soltanto per quei quaranta centesimi. «La verità è che i nostri figli mangiano roba
schifosa, la pasta è una colla, la carne una suola da scarpe, i piatti arrivano freddi, scotti,
insipidi. E adesso il sindaco grillino vuole pure dividere i bambini tra i “ricchi” che avranno il
dolce e i “poveri” che resteranno a guardare. Questo è razzismo. L’abbiamo votato in tanti,
ma adesso una cosa è certa: ci ha deluso, deve dimettersi ». Angelo, due figli alla scuola
elementare Trilussa di Pomezia, «un papà molto inc... «, non ha dubbi: «Qui un sacco di
gente ha perso il lavoro, c’è chi non sa più come mangiare, ma i bambini in classe devono
essere tutti uguali, non permetteremo che vengano discriminati per una fetta di torta ».
Pomezia, agro pontino, cinquantamila abitanti, una distesa di fabbriche e capannoni in
disfacimento, altissimo tasso di immigrazione e disoccupazione. La “guerra delle
merendine”, caduta come un macigno sulla vigilia elettorale del Movimento Cinque Stelle,
alluvionato da una pioggia di critiche da destra e da sinistra, parte da questo comune
impoverito e guidato da un anno da un sindaco pentastellato, Fabio Fucci, 35 anni, un
passato da programmatore software, una semi-laurea nel cassetto, eletto con oltre il 63%
dei voti. La sua giunta ha deciso che dal prossimo anno nelle scuole materne ed
elementari saranno presenti due menù: uno con il dolce, al costo di 4 euro e 40 centesimi,
e un altro, senza dessert, da 4 euro. Insomma, chi vuole la crostatina pagherà un extra.
«È veramente una scelta razzista», commenta Elisa, mamma giovane e bionda davanti
all’entrata dell’asilo. «Ho votato i Cinquestelle, ci credevo, ma sono delusa. Che senso ha
dare il dolce ad alcuni e ad altri no? Di certo impediremo che nelle nostre classi qualcuno
resti senza, magari lo elimineremo per tutti, oppure lo pagheremo noi. Ma non è così che
si comporta un sindaco». E Barbara, tre figli dai cinque ai dieci anni, incalza: «Vogliono
risparmiare sulla pelle dei nostri bambini, già ci tassiamo per tutto, la carta igienica, il
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sapone, i materiali, paghiamo duecento euro al mese la mensa per del cibo immangiabile.
Cosa altro vogliono da noi?».
Parole dure, pietre, macigni. A cui si aggiungono le critiche politiche bipartisan. Zingaretti:
«Immorale negare il dolce ai piccoli meno abbienti». Fassino: «Introdurre la selezione del
dolce è ridicolo e umiliante per i bambini». Meloni: «Le follie dei Cinquestelle diventano
azioni amministrative». Tajani: «Il Movimento 5Stelle fa cassa sulla pelle dei bimbi». Arriva
anche la censura del ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, che aveva difeso in nome
dell’autonomia scolastica, la scelta del sindaco Fucci. «È un provvedimento iniquo. Da
mamma, da insegnante e da ministro, dico che a scuola non ci deve essere una prima
classe e una classe turistica».
Chiuso per tutto il giorno in Comune il giovane sindaco Fabio Fucci si difende. E denuncia
dietro la “guerra delle merendine” «un complotto politico ordito dal Pd alla vigilia delle
elezioni europee». Afferma anzi che il «bando comunale con i due menù era stato
approvato nel dicembre scorso all’unanimità, e comunque il Comune aiuterà le famiglie
che non possono pagare il dolce ai propri bambini». Insimma, sembra di capire ora, non ci
sarà nessuna discriminazione tra ricchi e poveri, perché per i meno abbienti ci penserà
l’amministrazione comunale a versare i 40 centesimi extra a pasto. Speriamo. Perché è di
centesimi, yogurt e crostatine in busta che stiamo parlando. Di una battaglia cioè sul filo
dell’indigenza. E basta camminare per le strade di questa cittadina che tra gli anni
Settanta e Ottanta, grazie alla cassa del Mezzogiorno, era diventata una sorta di polo
tecnologico industriale, per capire quanto la parola “ricchezza” sia del tutto fuori posto.
Strade sconnesse, muri scrostati, case popolari fatiscenti. «Oggi noi siamo una famiglia
monoreddito, e l’unica a guadagnare è mia moglie», racconta Gianfranco, ex quadro di
una delle industrie farmaceutiche oggi in dismissione e padre di due ragazzi di 12 e 14
anni. «Pomezia è in caduta libera. Fino a dieci anni fa c’era ancora un benessere medio,
la città era curata, le scuole funzionavano. Adesso metà dei commercianti è nelle mani
degli usurai, è tutto incolto, abbandonato, gli edifici scolastici sono prefabbricati che
cadono a pezzi, d’inverno si gela, d’estate si fa la sauna. C’era una grande attesa per i
Cinquestelle qui. Finalmente il rinnovamento, ho pensato anch’io. Invece è tutto uguale.
Anzi peggio. Come questa tristissima storia del dolce per i bambini di serie A ma non per
quelli di serie B, cioè i più poveri. Che delusione».
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 22/05/14, pag. 14
Fukushima, l’acqua radioattiva sversata in
mare
A Fukushima, la Tepco rigetta l’acqua in mare. La società che gestisce la centrale
nucleare nipponica ha deciso ieri di sversare in mare centinaia di metri cubi d’acqua
sotterranea pompata dai reattori. «Abbiamo iniziato lo sversamento alle 10.25 (le 3.25 in
Italia, ndr)», ha reso noto la società. «Una pattuglia ha fatto la prima supervisione alle
10.30 e non è stata constatata alcuna fuga», ha aggiunto. La Tepco ha sversato
nell’Oceano Pacifico in tutto circa 560 metri cubi d’acqua. «È una fase importante per la
gestione dell’acqua alla centrale di Fukushima Daiichi: questo problema rappresenta per
noi la più grande priorità attuale», hanno dichiarato i vertici dell’azienda. La società ha
assicurato che, se i valori di cesio 134 e 137 dovessero superare i limiti prefissati, il
riversamento verrà bloccato.
FALDE SOTTERRANEE
Com’è noto, la situazione nella centrale si è stabilizzata dopo che i reattori furono
danneggiati nel terremoto e tsunami del marzo 2011. Per mantenere l’equilibrio, la Tepco
continua a rovesciare acqua sui reattori in avaria per raffreddarli e impedire la ripresa delle
reazioni nucleari:mai reattori stessi sono bucati. L’acqua - diventata fortemente radioattiva
- ne esce, riempie i sotterranei degli edifici, si infiltra nel sottosuolo e poi finisce in mare.
Per sopperire a questo problema, la Tepco ha cominciato a pompare l’acqua sotterranea
per poi stoccarla. L’accumulo di quest’acqua è uno dei problemi principali che i gestori
devono affrontare. La società ha fatto sapere che lo spazio si sta esaurendo e una parte
dell’acqua deve essere rilasciata in mare. Più di 400 tonnellate di acqua contaminata sono
attualmente conservate in oltre un migliaio di giganteschi serbatoi montati in fretta nel
complesso della centrale atomica. La Tepco continua a installarne circa 40 al mese per
tenere il passo con il continuo flusso di liquido proveniente dal sottosuolo del sito e dai
refrigeratori dei reattori danneggiati. Ma il deflusso di acqua contaminata è maggiore della
capacità di costruire nuovi serbatoi. Così, dopo essere stata immagazzinato
temporaneamente in una cisterna, una parte del liquido stata ritenuto sufficientemente
pulito per essere sversato nell’oceano senza essere sottoposta a nessun tipo di
trattamento. Lo sversamento di acqua sotterranea fa parte del cosiddetto «sistema di
bypass» per la gestione dell’acqua contaminata. Il programma era stato ritardato a causa
di numerosi problemi, tra i quali diverse perdite dalle cisterne situate vicino alle pompe. Il
direttore della centrale, Naohiro Masuda, ha fatto sapere in una nota che la soluzione del
problema dell’acqua contaminata è fondamentale per lo smantellamento dell’impianto, che
secondo funzionari potrebbe richiedere diversi decenni. Se si rivelerà efficace, il «sistema
di bypass» potrebbe permettere di ridurre l’afflusso dell’acqua sotterranea di un quarto. Ma
le organizzazioni ecologiste non sono così ottimiste: «La decisione di rigettare in mare
l’acqua sotterranea si basa sullo scenario “non abbiamo altra scelta”, e non su una
soluzione pensata sul lungo periodo per gli abitanti di Fukushima e del Giappone», ha
protestato un responsabile di Greenpeace, Kazue Susuki. L’organizzazione ecologista ha
chiesto a Tepco di migliorare significativamente il modo in cui vengono resi pubblici i livelli
di radioattività dell’acqua, giudicando che parti terze devono poter controllare le operazioni
in maniera indipendente non soltanto al momento dello sversamento ma durante tutto il
processo.
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CULTURA E SCUOLA
del 22/05/14, pag. 27
Bimbi sui banchi già a cinque anni Ma è
giusto anticipare la scuola ?
A cinque anni l’americano Kristoffer Von Hassel ha scoperto che il suo videogioco aveva
una grossa «falla» informatica. E per questo è stato pure premiato, poche settimane fa,
dall’azienda produttrice. Ma chissà se è già pronto per andare a scuola. Sì, secondo
Olanda, Regno Unito, Ungheria e Cipro. Decisamente no per altri Paesi come Svezia,
Danimarca e Finlandia, dove tra i banchi ci si sede a 7 anni. E per l’Italia? Oggi la Primaria
(le vecchie elementari) inizia a 6. Ma ai microfoni di Radio Capital il ministro dell’Istruzione
Stefania Giannini ha riaperto il dibattito sull’età. «Bisognerebbe dare la possibilità di
mandare i figli a scuola un anno prima», ha detto.
L’ipotesi di un’anticipazione non va giù ai sindacati. Cisl scuola e Flc-Cgil dicono di no.
L’Anief, invece, appoggia il ministro: «Bisogna adeguarsi ai tempi che cambiano,
sbagliano gli altri ad essere conservatori». Gli esperti si dividono. I genitori, in tutto questo,
si chiedono cosa sia meglio fare per i propri figli.
La questione, in realtà, non è nuova. Se ne parlava già alla fine degli anni Novanta,
quando il dicastero dell’Istruzione era guidato da Luigi Berlinguer. A un certo punto
comparve pure una bozza con tempi e costi, ma poi tutto si bloccò: troppo difficile mettere
in pratica.
Sui banchi già a 5 anni quindi? «Assolutamente sì», esordisce Silvia Vegetti Finzi,
psicoterapeuta per i problemi dell’infanzia. «Ma bisogna fare attenzione: abbiamo
comunque a che fare con degli esseri fragili». Per questo, «quando verrà il momento,
bisognerà ripensare tutta la prima elementare: il programma didattico dovrà essere
rielaborato e avere una funzione di collegamento con quello che si è fatto all’Infanzia». Se
questo non succede, avverte Vegetti Finzi, «la novità può essere addirittura
controproducente».
In una possibile prima elementare a 5 anni, secondo la psicoterapeuta, «si deve mettere
da parte l’idea di un rapporto verticale cattedra-banco: non si può imporre a insegnanti e
alunni così piccoli di avere un rapporto gerarchico, serve molta elasticità». A livello
didattico, poi, «bisognerebbe puntare molto sulle attività manuali, sul disegno, sulla
musica, sul canto. Un programma rigido non serve a nessuno».
Certo — concede Vegetti Finzi — i bimbi oggi «hanno molte più competenze cognitive,
sono abituati a vivere in mezzo alle persone, socializzano bene». Ma ciò non toglie che «il
programma del primo anno debba fare molta attenzione ai loro sentimenti: si tratta
comunque di esseri umani che sono degli analfabeti emotivi». E deve ricordarsi che i bimbi
«conoscono poco il proprio corpo, anche nelle cose magari quotidiane come arrampicarsi
su un albero, lanciare un sasso, correre».
«Quella del ministro Giannini è una buona idea: bisogna anticipare di un anno la fine del
ciclo scolastico per allinearsi agli altri Paesi», ragiona Andrea Gavosto, direttore della
Fondazione Giovanni Agnelli. Che, però, parla di «obbligo flessibile», perché ognuno la
sua storia e il suo percorso. Per farlo Gavosto racconta la sua esperienza personale. «Io
ho tre figli — dice —. La bimba l’ho iscritta già a 5 anni. Mi sembrava pronta e devo dire
che i risultati, negli anni, l’hanno confermato». Ma il ragionamento non è stato lo stesso
per gli altri. «Uno dei miei figli non l’avrei mai fatto iniziare a 5 anni: non mi sembrava
avesse ancora le caratteristiche adatte». Ecco perché, secondo il presidente, «la
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soluzione migliore sarebbe lasciare libertà ai genitori: decidano loro quando iscriverlo, la
famiglia è il miglior giudice».
L’unico risvolto negativo, Gavosto lo vede nella matematica. «C’è un problema tecnico: in
questo modo si verificherà l’“onda anomala” con due generazioni di studenti che finiranno
per frequentare lo stesso anno scolastico». E a quel punto, «passando da 500 mila a un
milione in pochi mesi, bisognerà raddoppiare tutto: le aule, gli insegnanti…».
Anna Oliverio Ferraris, psicologa e docente all’Università La Sapienza di Roma, però
schiaccia il freno. «Non sono mai per accelerare le cose: i bimbi imparano in modi e tempi
diversi. Molti di loro non sono pronti, hanno tempo di attenzione limitati e imparano
facendo cose, muovendosi: tutte cose inesistenti in questa prima elementare». Non solo.
«Se li iscriviamo già a 5 anni togliamo loro l’elemento giocoso». Se però, alla fine, si
dovesse decidere per il cambiamento, secondo Ferraris «la didattica del primo e del
secondo anno dovrebbe imitare il programma della scuola dell’Infanzia: molti lavori
manuali, ricreazione più lunga, tante esperienze all’aperto, in mezzo alla natura». «E che
non si mettano a dare i voti — conclude —. I piccoli non sono pronti ad affrontare lo stress
emotivo».
Sulla stessa linea anche Susanna Mantovani, docente di Pedagogia generale
all’Università Bicocca di Milano. «Non ha senso mandarli a studiare a 5 anni», dice. Anche
perché «la nostra scuola dell’Infanzia non va affatto male. Certo, ci sono dei problemi qua
e là per l’Italia, ma le valutazioni internazionali ci dicono che va già bene così, perché
dobbiamo condannare i piccoli a stare un anno in meno in un posto così bello dove
possono imparare tanto?». A confortare la sua posizione, sostiene Mantovani, «ci sono le
realtà degli altri Paesi: Svezia e Finlandia fanno iniziare più tardi, a 7 anni». E così, se
proprio si vuole intervenire in quella fascia d’età, «sarebbe molto meglio potenziare proprio
l’Infanzia, anche introducendo l’elemento della lingua straniera. In alcune regioni ci sono
delle eccellenze in questo senso: basterebbe copiarle e applicarle nel resto del Paese,
senza stravolgere tutto».
Leonard Berberi
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ECONOMIA E LAVORO
del 22/05/14, pag. 12
Tasi, un altro slittamento
L’Anci: scadenza a ottobre
Per Fassino serve un mese in più per i Comuni che non hanno
deliberato ● Dall’Economia non confermano ● Ci vorrà qualche giorno
per decidere
Nuova scadenza per la Tasi. I Comuni che non hanno ancora deliberato le aliquote e le
detrazioni potrebbero far pagare la prima rata a metà ottobre, e non a settembre come
sembrava in un primo momento. l'annuncio arriva dal presidente dell'Anci e sindaco di
Torino, Piero Fassino, ai microfoni di Radio 24.ma la data non è confermata dal ministero
dell’Economia, che solo due giorni fa aveva diffuso la nota con lo slittamento a settembre.
È molto probabile che la decisione resti aperta ancora per qualche giorno. Non è neanche
detto che la questione si affronti in modo definitivo nel consiglio dei ministri convocato per
oggi. In ogni caso il messaggio del rinvio è stato inviato: i cittadini sanno se a giugno sono
chiamati a pagare o no.
È chiaro che i Comuni chiedono tempi più lunghi. «Il 16 settembre - ha precisato Fassino
riferendosi alla data ipotizzata in precedenza - era troppo vicino e con le elezioni
amministrative e agosto di mezzo si sarebbe rischiata la confusione. Il 16 giugno, dunque,
pagheranno i cittadini delle città che hanno fissato le aliquote, tra queste quasi tutti i grandi
capoluoghi, a ottobre sarà la volta degli altri Comuni». In ballo ci sono anche le risorse,
che i sindaci vogliono anticipate fin da giugno dal ministero per evitare ammanchi di cassa.
Sull'anticipo che lo Stato verserà ai Comuni per il mancato introito dell'intero ammontare
della Tasi, il presidente Anci sottolinea come sia «già accaduto. Se un tributo previsto a
norma di legge viene prorogato, si fa ricorso a una anticipazione per evitare una crisi
liquidità ai soggetti che questo tributo dovevano incassarlo». Molto più cauti i tecnici di Via
XX Settembre, che parlano di somme molto contenute trattandosi di pochi mesi, che
saranno reperite attraverso un anticipo dal fondo di solidarietà dei Comuni.
Fassino è intervenuto anche nel merito del confronto tra la Tasi e la vecchia Imu,
sostenendo che «fanno testo le aliquote. Quelle dell'Imu andavano da un minimo del 4 per
mille per attestarsi in media intorno al 5-6 - sostiene il presidente Anci - Ora l'aliquota Tasi
è del 2,5 per mille, aumentabile a discrezione del sindaco fino allo 0,8 per mille. Quindi la
Tasi sarà massimo del 3,3 per mille». Sul piede di guerra il Codacons, che ha inviato oggi
una «formale diffida» al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e al ministro
dell'Economia, Pier Carlo Padoan, in merito «al caos sulla Tasi venutosi a determinare a
causa dei Comuni che ancora non hanno deliberato le aliquote. Nell'atto - spiega una nota
- l'associazione non solo diffida il governo a non introdurre scadenze diversificate sul
territorio per il pagamento la tassa, ma suggerisce come unica possibile soluzione al
problema di posticipare per tutti i contribuenti la scadenza della Tasi ad ottobre ». La
partita sull’imposta sugli immobili ha sempre un’eco politica forte, soprattutto con
l’avvicinarsi delle elezioni. Dalla maggioranza il presidente dei senatori del Nuovo
Centrodestra Maurizio Sacconi avverte che «la tassazione sugli immobili da parte dei
Comuni deve esseremoderata, sostenibile da famiglie e piccole imprese, tale da non
deprimere ulteriormente il mercato immobiliare. Tasi e Tares non possono diventare lo
strumento con cui i Comuni fanno pagare la loro inefficienza. Ncd - aggiunge Sacconi 28
pretende che il governo imponga un tetto alle aliquote compatibile con queste esigenze
pena la crisi della coalizione». Anche Fabrizio Cicchitto alza la voce: evidente il tentativo di
captare gli elettori di FI. Tanto che dai berlusconiani arriva un messaggio molto chiaro:
speriamo che vadano fino in fondo. Come dire: le «sentinelle» anti-Tasi sono i forzisti.
Dimenticando che proprio i berlusconiani, con la pretesa di cancellare l’Imu sulla prima
casa, hanno data vita alla saga sulla Tasi.
del 22/05/14, pag. 12
Sindacati a congresso, Camusso: «Basta
austerità»
● A Berlino il segretario Cgil traccia la linea per combattere le
diseguaglianze: «Creare lavoro» austerità e disuguaglianza non
cresceremo.
Bisogna creare lavoro perché è l'unica condizione per far ripartire l'economia
».SusannaCamussoè intervenuta ieri mattina dal palco del congresso del sindacato
mondiale - l’Ituc (International trade unions confederation), che raggruppa 325
organizzazioni sindacali, in 161 paesi, con una affiliazione totale di 176 milioni di lavoratrici
e lavoratori - in corso a Berlino fino a domani. Nel suo intervento l’appena rieletta
segretaria generale della Cgil ha sottolineato come «nella crisi - ha ricordato Camusso –
sono peggiorate, mentre l’unico lavoro che cresce in tanti Paesi è quello povero», citando
la tragedia di pochi giorni fa in Turchia nella miniera di Soma, le tragedie dell’Asia, le
nuove forme di schiavismo che riemergono dalle campagne. Quando le multinazionali
hanno preso il sopravvento su quelle dei Paesi, per Camusso l’unica strada per il
«sindacato mondiale non può che essere la contrattazione mondiale che si contrappone
alle politiche delle multinazionali. Da questo punto di vista - ha detto - è molto importante
sapere come il negoziato multilaterale, e quelli che sono in corso sul piano delle relazioni
commerciali (il patto Europa-Usa, il cosiddetto Ttip, ndr), non diventino un ulteriore alibi e
libertà per le multinazionali in grado di avere tribunali autonomi e non passare così per le
regole dei paesi”. E allora "Building worker's power" - «costruire la forza dei lavoratori», lo
slogan del congresso berlinese - significa «difendere il diritto di sciopero, rafforzare la
contrattazione collettiva e costruire eguaglianza. Sono questi gli strumenti di cui
disponiamo, i nostri strumenti che dobbiamo usare perché si crei più lavoro, perché le
nostre società possano crescere e vivere in eguaglianza».
Nelle conclusioni del suo intervento Camusso ha rilanciato l'importante tema della
democrazia. «La sfida vera che abbiamo davanti è come si possa generare contrattazione
e come, attraverso le condizioni di lavoro e il contrasto alle politiche di diseguaglianza, il
sindacato non solo si rafforza come componenti, ma determina lavoro dignitoso come
condizione per tutti i paesi», ha concluso Camusso.
Il congresso si concluderà dell’Ituc si concluderà domani. Nel documento finale si fissano
gli obiettivi futuri: il primo è una crescita della sindacalizzazione, ora stimata al 7 per cento
del totale dei cosidetti lavoratori formali (senza contare l’8 per cento - 238 milioni - di iscritti
al sindacato cinese), poi c’è la richiesta di globalizzazione dei diritti «per un lavoro
dignitoso», mentre specie in Europa i diritti sono sotto attacco, e - infine - la lotta contro il
cambiamento climatico.
BURROW CRITICATA MA RICOFERMATA
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«L’attacco al dialogo sociale è comune a gran parte dei Paesi presenti al congresso spiega da Berlino Leopoldo Tartaglia, coordinatore Politiche globali della Cgil - . Quello
che ci conforta è che dove i sindacati sono più forti, la diseguaglianza sociale è minore. E
dove c’è ancora un buon welfare state, ad esempio in Nord Europa, la crescita economica
è migliore ». La segretaria uscente dell’Ituc - l’australiana Sharan Burrow - sarà quasi
certamente confermata. Ma non sono mancate le critiche alla sua gestione centralistica.
«Serve più collegialità, più occasioni per far valere le ragioni di tutti, far conoscere e
valorizzare le tante esperienze », ha spiegato Susanna Camusso.
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