sostituiscono ed ampliano le pp. 300

Transcript

sostituiscono ed ampliano le pp. 300
Capitolo decimo
___________________________________________________________________
QUESTE PAGINE
(da 300 a 338)
sostituiscono ed ampliano
le pp. 300-305
DELL'EDIZIONE 2004
_____________________________________________________________
tali stagnanti – non pervennero a determinare un decisivo afflusso di
risorse all’investimento di rischio. Che continuò a poggiare sulle risorse
individuali degli imprenditori, o sul credito che questi riuscivano a
strappare alle poche banche del paese. Compito invero arduo, giacché
l’attività bancaria era prevalentemente rivolta alla raccolta dei depositi,
e alla loro collocazione nei più sicuri impieghi dei titoli di stato italiani
o stranieri, e in qualche caso delle obbligazioni ferroviarie americane, o
delle obbligazioni emesse per finanziare grandi opere infrastrutturali nei
più solidi paesi europei, poco lasciando allo stesso credito per le attività
di giro delle imprese (e cioè al c.d. credito commerciale).
Conviene ricordare quale fosse all’epoca l’incerto sistema del credito in
Italia. Esso poggiava su quattro attori fondamentali:
a) I c.d. banchieri privati. Si trattava in genere di grandi operatori mercantili, con una varietà di interessi, anche manifatturieri. Essi non
erano usi a raccogliere risparmio, operando pressoché esclusivamente
con capitali propri e con quelli loro affidati da una ristretta cerchia di amici o di altri uomini d’affari con i quali intrattenevano
rapporti continuativi. Le risorse finanziarie di cui così complessivamente disponevano, non venivano in genere indirizzate alla
erogazione di prestiti alle attività economico-produttive, bensì ad
investimenti in grandi affari (compagnie ferroviarie, assicurative
o singole attività di rischio) nei quali loro stessi, o i loro partners
d’affari, divenivano soci.
b) Le Casse di Risparmio. Queste erano istituti nati con la finalità di difendere il piccolo risparmio, raccolto presso i loro sportelli, e remunerandolo con i proventi derivanti dall’esercizio del credito ipotecario e fondiario, o tramite investimenti poco rischiosi nei titoli del
debito pubblico o nelle obbligazioni ferroviarie, soprattutto statunitensi. Scarse erano invece le erogazioni di credito alle attività
economiche, e solo per importi limitati ed “a vista”22. Essendo istituzioni senza fini di lucro, gli utili derivanti da tali attività andavano in parte ad incrementare il capitale, ed in parte venivano
distribuiti in “beneficienza” ad enti di assistenza, in genere opere
pie. Le prime Casse di Risparmio sorsero nei primi decenni dell’800 in Veneto e in Lombardia (la prima fu la Cassa di Risparmio di Venezia, fondata l’12 gennaio 1822); a promuoverne la
22
La dizione “a vista” richiama il concetto di crediti a breve concessi a piccole attività economiche, e quindi sempre immediatamente revocabili.
300
L’anomalia italiana
c)
fondazione fu in Lombardo-Veneto la corona asburgica, mentre
nelle altre aree della penisola, più o meno nello stesso periodo, ciò
avvenne generalmente ad opera dei Monti di Pietà o di altre istituzioni di beneficenza. Non mancarono tuttavia casi, anche se numericamente limitati, nei quali esse sorsero su iniziativa di esponenti di spicco delle élites cittadine23.
Le Banche di credito ordinario. Queste banche, spesso prosecuzione sotto forma di società azionarie dell’attività di ex-banchieri privati, ed
in realtà non numerose, cominciarono a dedicarsi sia alla raccolta del risparmio privato che all’erogazione di credito “a vista” alle
attività economiche. A queste vanno assimilate alcune banche cosiddette “industriali” che fecero la loro comparsa negli anni ‘60
dell’Ottocento. Le più importanti erano il Credito Mobiliare, fondato nel 1862 a Torino con capitali in gran parte provenienti
dalla Francia, e in particolare dall’omonimo (e ben più consistente Crédit Mobilier francese), e la Banca Generale sorta nel 1871 a
Roma, ed anch’essa con cointeressenze francesi. Si trattava in realtà di vere e proprie banche d’affari che operavano sia nella raccolta di risparmio che nell’esercizio nel credito commerciale24: la
loro prevalente attività era tuttavia quella finanziaria, ovvero la
sottoscrizione di partecipazioni azionarie nei grandi business (ferrovie, acquedotti, imprese di costruzioni generali ecc.), non disdegnando la speculazione borsistica sul valore dei titoli posseduti, con
un’attività che dipendeva perciò prevalentemente dai risultati lì
perseguibili. E che data la scarsa propensione alle società azionarie dei privati investitori, e quindi il limitato numero delle società oggetto di contrattazione, era circoscritta ad un numero ridotto
Capitolo decimo
di titoli, in genere non industriali, ovvero – per usare un linguaggio
contemporaneo – alle utilities25.
d) Le Banche Mutue Popolari (o Banche Popolari). Si trattava di banche,
ancor oggi attive e vivaci, sorte a partire dal 186426 in poi su iniziativa dell’economista veneziano Luigi Luzzatti, più volte deputato del regno d’Italia nonché ministro, e – infine, tra il 1910 e il
1911 – presidente del Consiglio dei Ministri. Ispirate alle Unioni
di Credito avviate in Sassonia all’inizio degli anni ‘50 dell’800 da
Franz Hermann Schulze27, le Banche Popolari, costituite su base
mutualistica in una miriade di centri urbani, divennero presto non
solo formidabile strumento di raccolta del piccolo risparmio, in accanita concorrenza con le Casse di Risparmio, ma anche erogatrici
di crescente credito commerciale alle piccole attività economiche,
sia di piccolo commercio che manifatturiere, ad esso progressivamente affiancando lo sconto di cambiali e di “carte commerciali”
in genere28. Fu così che questi istituti divennero i principali fornitori di credito alle piccole imprese che, a partire dall’ultimo decennio dell’800, cominciarono a insediarsi non più solo lungo le valli del pedemonte ma anche nella pianura padana, rimanendo ancor oggi fondamentali nel nostro sistema economico29.
Di queste quattro tipologie, le banche c.d. “industriali” apparivano nello scorcio degli anni Ottanta del XIX secolo le più solide, non fosse
23
Istituzioni analoghe alla Casse di Risparmio nacquero anche in altri paesi dell’Europa continentale: le Sparkasse in Germania (le più antiche in assoluto), le
Caisses d’Epargne in Francia, las Cajas o Caixas in Spagna. Istituzioni assimilabili
alle Casse italiche furono poi le Savings and loans associations e Credit Unions negli
Stati Uniti, nonché le Savings banks del Regno Unito.
24
E proprio per queste due attività sono qui assimilate alle Banche di credito ordinario, ancorché parte della storiografia economica preferiscano definirle “banche
miste” di tipo francese per distinguerle dalla ben più consistente attività di finanziamento “industriale” delle “banche miste” tedesche.
25
Per utilities o public utilities si intendono i “servizi di pubblica utilità”, in genere
quelli a rete (produzione e distribuzione di gas ed elettricità, acquedotti, trasporto
di merci e di persone, raccolta e trattamento dei rifiuti ecc.), e – per estensione – le
imprese in tali servizi attive.
26
Fu infatti nel 1864 che nacque a Lodi la prima Banca Mutua Popolare, seguita di
lì a poco da quelle di Milano e Cremona. Nel 1878 esistevano già oltre 120 Banche
di questo tipo nel Nord del paese, da lì estendendosi più o meno rapidamente nel
Centro-Sud.
27
Economista e uomo politico prussiano, egli è più noto come Hermann SchulzeDelitzsch, dato che a un certo punto unì al suo nome quello di Delitzsch, la città
della Sassonia nella quale era nato nel 1808.
28
Per qualche approfondimento sulle Banche Popolari luzzattiane, cfr. G. ROVERATO,
L’industria nel Veneto: storia economica di un “caso” regionale, Padova, Esedra editrice,
1996, pp. 104-110.
29
Le Banche Popolari sono attualmente poco meno di un centinaio, alcune capogruppo di altri istituti di credito, e – con i loro 9.500 sportelli – rappresentano nel loro
insieme, e grazie agli organismi associativi che le coordinano, la seconda realtà creditizia del paese con una quota di mercato del 28%.
301
302
L’anomalia italiana
Capitolo decimo
altro che per la loro ingente capitalizzazione. E tuttavia la pessima congiuntura economica (ed i riflessi pesantemente negativi sulle contrattazioni di borsa) dell’inizio degli anni Novanta portarono al fallimento
della quasi totalità di queste esperienze (e in particolare del Credito Mobiliare e della Banca Generale), e alla minaccia di liquidazione della
maggior parte delle banche private di maggior rilievo, alcune delle quali
travolte da gravi scandali. Fu questo il contesto in cui crollò (1892)
anche uno degli istituti di emissione del regno30, la Banca Romana. Lo
stesso principale istituto di emissione sui cinque esistenti, e cioè la Banca
Nazionale nel Regno, che aveva svolto il ruolo tipico di una banca
centrale (e cioè di “prestatore di ultima istanza”) pur non avendone lo
status giuridico, fu costretto a consumare parte delle sue risorse per salvare dal fallimento molte delle imprese bancarie travolte dalla crisi.
Questo fondamentale ruolo – attraverso il quale lo stato italiano, titolare della proprietà di questo come degli altri istituti di emissione, avviò
oltre alla sovvenzione diretta (cfr. l’esempio della Terni) e alla protezione doganale un terzo strumento di intervento economico, e cioè il
“salvataggio dal fallimento” di enti economici privati – valse nel 1893
alla Banca Nazionale la trasformazione in Banca d’Italia, che assorbendo i diritti di emissione di due delle altre quattro banche a ciò autorizzate (la cessata Banca Romana e la Banca Toscana), assumeva di fatto –
ma non ancora formalmente – la leadership del governo del credito. La
ristrutturazione della Banca Nazionale non fu però completa: la nuova
Banca d’Italia rimase ancora un istituto che univa a compiti pubblici
anche attività di banca ordinaria, anche se a poco a poco i primi (manovra sul tasso di sconto, interventi sul mercato valutario, ruolo di prestatore di ultima istanza) presero il sopravvento.
Il fallimento delle due più importanti banche d’affari, e la più generale instabilità del mercato creditizio, portò il governo Crispi a favorire – sollecitandolo nell’ambito delle strette relazioni politiche ormai
esistenti con la Germania imperiale – l’intervento di capitali bancari di
quel paese che, uniti a capitali italiani, diedero vita a due nuovi istituti
vocati – sul modello tedesco della c.d. “banca mista” – all’investimento
industriale. Sorsero così la Banca Commerciale Italiana (1894) con sede
a Milano, e il Credito Italiano (1895) con sede legale a Genova, ma
anch’essa operativa nel capoluogo lombardo31.
Grazie a queste istituzioni, e in presenza di una nuova e più favorevole congiuntura internazionale, lo sviluppo industriale italiano prese
finalmente avvio nel c.d. “triangolo” compreso tra Milano, Genova e
Torino, ma con effetti diffusivi anche in Veneto, Toscana e nell’area
napoletana (Bagnoli).
Questo periodo, noto come età giolittiana per i governi presieduti da
Giovanni Giolitti o da questi direttamente influenzati, fu caratterizzato
dall’irrobustimento della siderurgia, l’avvio dell’industria automobilistica, l’esplosione dell’industria produttrice di energia elettrica e di quella dei macchinari ad essa destinati e dall’ancor timido emergere di
moderne produzioni chimiche. Alle soglie della prima guerra mondiale,
il processo di industrializzazione si era ormai definitivamente affermato
in Lombardia, Liguria e Piemonte, mentre in altre regioni aveva interessato solo aree modeste.
Da tale punto di vista, il ruolo delle “banche miste” – così chiamate
perché accompagnarono al normale credito d’esercizio (o commerciale)
operazioni di credito industriale a medio e lungo termine, intervenendo
in taluni casi nella stessa sottoscrizione azionaria del capitale di imprese
attive in settori innovativi (elettricità, meccanica qualificata, siderurgia)32 – fu importantissimo. Ma comunque non sufficiente ad avvalorare
31
A seguito all’Unità d’Italia, il nuovo governo nazionale ritenne, a compensazione dei traumi politici che la nuova stagione politica provocava più all’interno
dei gruppi dirigenti locali che delle singole popolazioni, di non unificare la potestà
di emissione monetaria in un’unica banca, riservandola invece alle cinque banche
dei principali stati preunitari: la piemontese Banca Nazionale nel Regno, la Banca
Toscana, la Banca Romana, ed i due istituti del Regno delle due Sicilie (il Banco di
Napoli, e il Banco di Sicilia). Con la Banca Nazionale nel Regno in una indefinita
posizione di prima inter pares.
Sulla nascita di questi due istituti, si veda P. HERTNER, Il capitale tedesco in Italia
dall’Unità alla prima guerra mondiale (banche miste e e sviluppo economico italiano),
Bologna, Il Mulino, 1984, in particolare ai capitt. II e III.
32
Quasi mai all’inizio, o raramente, si trattò di partecipazioni “strategiche”, ma
solo di operazioni a mezza via tra il normale impiego di portafoglio (e quindi
liquidabili a breve) e la promozione del collocamento borsistico di azioni di imprese innovative. Secondo l’esperienza tedesca, queste banche svolgevano infatti
anche funzioni di assistenza finanziaria per imprese di nuova formazione, o di
imprese già affermate che desideravano aumentare il loro capitale per affrontare
nuovi e più vasti piani di investimento: per le quali curavano perciò l’emissione
delle azioni, e nelle more del loro collocamento totale sul mercato ne assorbivano
una quota sotto forma di investimento di portafoglio. Un’operazione analoga a
quella che dal secondo dopoguerra in poi si trovò, pressoché unica in Italia, a svolgere Mediobanca assistendo svariate società azionarie nel collocamento di periodici
aumenti di capitale o di emissioni obbligazionarie.
303
304
30
L’anomalia italiana
Capitolo decimo
la tesi, avanzata in passato da alcuni studiosi33, che tali banche costituirono il fattore decisivo per l’industrializzazione italiana. È vero,
piuttosto, che esse rappresentarono un canale prezioso per convogliare i
depositi di risparmiatori per nulla inclini all’investimento industriale al
finanziamento del capitale di rischio: e, quindi, per rispondere alla carente capitalizzazione delle imprese. Esse assolsero in sostanza ad una
funzione di volano dell’economia, senza il quale probabilmente il paese
non avrebbe conosciuto l’accelerazione del periodo prebellico. Ma l’azione di tali banche fu efficace in quanto poté essere esplicata in un
contesto in cui le energie individuali dei singoli imprenditori già manifestavano, ancorché in regime di sottocapitalizzazione, una indiscutibile
vivacità. I finanziamenti della banca mista, in sostanza, arrivarono al
momento giusto: esplicando effetti moltiplicatori che solo in quel particolare periodo storico avrebbero potuto manifestarsi: con una accidentalità tipica dei momenti cruciali di un paese.
Con la banca mista si concretizzò quindi quel meccanismo di finanziamento industriale auspicato dal Rossi e dagli industrialisti ottocenteschi: perché, a parte il ruolo svolto nell’erogazione di prestiti a medio-lungo
termine, essa fu la principale stimolatrice dello sviluppo delle società
azionarie in Italia. Le due banche prima menzionate finirono infatti, seguendo l’ottica con cui in Germania operavano le grandi banche d’affari,
per privilegiare negli impieghi le società per azioni, data la formalizzazione della gestione (e quindi la maggior potenziale “trasparenza”) che
la legge imponeva loro. E quindi si adoperarono perché le principali aziende loro clienti assumessero tale forma giuridica, anche al fine di coinvolgere
nel rischio d’impresa un numero più elevato di soggetti. Da qui quell’articolato ruolo di sottoscrittrici dirette di capitale, ma anche di “parcheggio”
di quote azionarie da liberare gradualmente sul mercato finanziario34.
Non furono però tutte rose e fiori: con la guerra mondiale – durante
la quale il capitale tedesco partecipante a tali banche fu dapprima congelato perché appartenente a paese nemico, e quindi italianizzato – e
più ancora con la riconversione postbellica, iniziò un periodo di gravi
turbolenze economiche che portarono le banche miste a sempre più pesanti coinvolgimenti nelle imprese finanziate.
Da un lato le erogazioni alle imprese di prestiti (o più semplicemente
di anticipazioni in conto corrente) aumentarono considerevolmente,
dall’altro queste ultime cominciarono ad essere inadempienti rispetto
alle scadenze dei rimborsi. Si creò una situazione tale per cui questi
istituti si trovarono ad affrontare periodiche (ma fino alla fine degli anni
Venti contenibili) crisi di liquidità, derivanti dalla sfasatura tra una
prevalente raccolta a breve del danaro (i depositi) e gli impieghi a lungo
termine che essi dovevano effettuare per far fronte alle esigenze delle
imprese. Talvolta, furono indotti a preferire all’erogazione di ulteriori
prestiti ad un’azienda (prestiti necessari per non vederla fallire, e quindi
perdere totalmente il credito) la sottoscrizione di quote azionarie, in
quanto queste garantivano una presenza in consiglio di amministrazione, e quindi un teorico controllo sulle scelte gestionali; talaltra si
trovarono a dover capitalizzare (e cioè a trasformare in capitale azionario) crediti divenuti inesigibili data la crisi aziendale, e quindi anche
per questa via ad interessarsi direttamente della gestione d’impresa. Fu
questo insieme di cause che determinò, nel corso del terzo decennio del
Novecento, un circolo vizioso che attribuì alle banche miste un ruolo
determinante nel finanziamento delle imprese maggiori, di molte delle
quali finirono per assumere il controllo azionario, ma al tempo stesso
erose la loro liquidità causandone una crisi irreversibile, cui solo l’intervento dello stato – dapprima (1931) con una politica di salvataggi
gestita dalla Banca d’Italia (divenuta nel 1926 unico istituto di emissione, e perciò “banca centrale” del sistema creditizio), e poi con la
creazione dell’IRI-Istituto di Ricostruzione Industriale (1933) – poté
porre rimedio.
Con l’IRI (che rilevò le partecipazioni di controllo di una moltitudine
di imprese industriali detenute dalle banche miste, e che assunse il controllo di quest’ultime vincolandole al solo credito ordinario) nasceva in
Italia lo “stato imprenditore”35. Uno stato cioè, che non solo operava in
33
È la tesi classica espressa da A. GERSCHENKRON nel volume Il problema storico
dell’arretratezza economica, Torino, Einaudi, 1974 [ediz. orig. Economic Bacwardness
in Historical Perspective, Cambridge (Mass.), 1962], e poi sviluppata da J. COHEN nel
saggio Financing Industrialization in Italy, “Journal of Economic History”, XXVII
(1967), e nel suo contributo Italia (1861-1914) alla miscellanea curata da R. CAMERON, Le banche e lo sviluppo del sistema industriale, Bologna, Il Mulino, 1976. Essa è
stata efficacemente ridimensionata, tra gli altri, dal prezioso studio di A. CONFALONIERI, Banca e industria in Italia 1894-1906, 3 voll., Milano, Banca Commerciale
Italiana, 1974-1976.
34
Cfr. nota 32.
305
35
Cfr. E. CIANCI, Nascita dello stato imprenditore in Italia, Milano, Mursia, 1977; B.
AMOROSO e O.J. OLSEN, Lo stato imprenditore, Bari, Laterza, 1978, nonché i saggi
306
L’anomalia italiana
Capitolo decimo
ambito economico attraverso strumenti di indirizzo politico, ma che
assumeva attraverso un “ente di gestione” – l’IRI, appunto – responsabilità diretta nella produzione di beni e servizi. Aprendo la strada ad un
sistema misto, privato-pubblico, che sostanzialmente perdurò fino agli anni Ottanta del secolo scorso.
L’IRI era stato istituito come ente “provvisorio”. Il suo compito era
quello di risanare le imprese e le banche, e di ricollocarle poi sul mercato. La prima parte fu compiuta in tempi abbastanza rapidi, con processi
di razionalizzazione e di accorpamento “oligopolistico” che ricordano –
pur in situazioni molto diverse, e ad opera non del mercato ma di un
soggetto pubblico – quanto era avvenuto negli Stati Uniti nell’ultimo
decennio dell’800. Imprese inefficienti divennero elementi portanti di un
sistema ancora in faticosa transizione da una prevalente economia agricola ad una economia moderna, anche se bisognò attendere il dopoguerra perché ciò si realizzasse compiutamente.
Più difficile fu invece la seconda parte della mission. Pur procedento in
tempi relativamente rapidi alla “privatizzazione” di un primo stock di aziende attive nel comparto tessile e nella meccanica leggera36, il gruppo
di comando dell’IRI dovette ben presto arrendersi di fronte alla gravità
delle conseguenze italiane della Grande crisi degli anni Trenta. Non esistevano infatti nel sistema capitali in grado di subentrare allo stato nella
proprietà delle imprese, la maggior parte tra quelle in capo all’ente, operanti nei settori pesanti ed invero più moderni (acciaio, cantieristica, elettricità, telefonia ecc.), talché nel 1937 il governo decise di rendere
l’ente “permanente” rendendolo braccio operativo della sua politica economica. Fu anche grazie a questa decisione che, verso la fine del 1938,
cominciò a manifestarsi una qualche timida ripresa, anche grazie alle commesse belliche indirizzate alle imprese “irizzate”. L’attività dell’IRI fu orga-
nizzata attraverso Finanziarie di settore secondo uno schema analogo a
quello delle holding statunitensi: le prime tre furono la Finmare, che raggruppò le varie linee di navigazione possedute dall’ente37; la Finsider, in cui
confluì quasi il 90% di tutta la produzione italiana di acciaio; la STET, che
raggruppò quasi tutte le concessionarie telefoniche interregionali. Seguirono nel tempo la Finmeccanica, la Fincantieri e le Finelettrica38. In questa articolazione l’IRI, pur essendo un ente pubblico, fungeva da holding
detenendo il capitale delle singole Finanziarie (o sub-holdings di settore, come vennero anche chiamate), le quali a loro volta possedevano l’intero capitale delle società operative, o comunque la quota maggioritaria dello
stesso.
Fu questa la conclusione del lungo e contrastato decollo dell’economia italiana, in cui – accanto ad una prevalente presenza di imprese
personali (o appartenenti a gruppi familiari), generalmente legate a settori tradizionali – fecero la loro comparsa un ristretto numero di grandi
concentrazioni finanziario-industriali attive nei settori moderni che, a
parte i pochi casi controllati direttamente da individui o famiglie (FIAT,
Pirelli, Ansaldo), si basavano sulla impersonalità della gestione e del
controllo azionario: con caratteristiche di modernità (il management, pur
se non vivificato dal modello americano), ma anche di arretratezza, di
cui il rapporto di dipendenza dalle banche causato dai limiti strutturali
del nostro mercato mobiliare, costituiva la caratteristica più esplicita.
Tanto che, per divenire davvero un paese industriale, l’Italia dovette
attendere le trasformazioni che maturarono tra gli anni Cinquanta e
Sessanta, e che tuttora vengono evocate con la definizione di “miracolo
economico”: quando cioè, in un intervallo di tempo rapidissimo, da una
prevalente occupazione agricola si passò ad una prevalente occupazione
nelle attività di trasformazione. Con una diffusione del fenomeno imprenditoriale che andò a coinvolgere non solo il vecchio ceto borghese, ma –
con la diffusione a macchia d’olio della piccola impresa – anche settori
crescenti delle vecchie classi subalterne, in una mobilità sociale solo pochi anni prima impensabile.
L’IRI, di cui al momento della nascita dello stato repubblicano i settori politici moderati, più per motivi ideologici che per effettiva congruen-
contenuti in Banca e industria fra le due guerre (ricerca promossa dal Banco di Roma in
occasione del suo primo centenario), 2 voll., Bologna, Banco di Roma/Il Mulino, 1981.
Si veda anche G. TONIOLO, L’economia dell’Italia fascista, Bari, Laterza, 1980, in
particolare al capitolo IV intitolato La nascita dello Stato banchiere e imprenditore.
Sull’argomento, è utile anche la lettura della sintesi dell’intervento pubblico in
Italia fornita dal lavoro di ZAMAGNI, Lo stato italiano e l’economia..., cit. Di V.
ZAMAGNI si veda anche il suo Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica
dell’Italia. 1861-1981, Bologna, Il Mulino, 1990.
36
Ma vi fu anche una cessione “di peso”, quella della Edison, che ritornò così nelle
mani di quegli stessi azionisti che precedentemente la controllavano attraverso la
Banca Commerciale Italiana.
307
37
Tra queste vi erano tutte le linee transoceaniche italiane.
In Finelettrica erano raggruppate la SIP-Società Idroelettrica Piemonte che gestiva il servizio elettrico anche in gran parte della Liguria, e la SME-Società Meridionale di Elettricità che operava in quasi tutto il meridione d’Italia.
38
308
L’anomalia italiana
Capitolo decimo
za economica, avevano avventatamente chiesto lo smantellamento39, giocò un ruolo decisivo nella Ricostruzione del paese. Da un lato fornendo
l’acciaio che consentì una rapida crescita della FIAT nella motorizzazione di massa, dall’altro avviando la costruzione di quella rete autostradale che davvero unificò l’Italia.
Qui ci occuperemo soprattutto di Enrico Mattei42, la cui vicenda di straordinario imprenditore pubblico iniziò, se così si può dire, per caso. Comandante partigiano cattolico in Lombardia, dove egli era approdato in
seguito alla crisi dell’azienda in cui lavorava, al pari di molte altre colpita
dalla deflazione seguita alla rivalutazione della lira voluta da Mussolini, e
nota come quota 90 43, fu nominato dal CLN Alta-Italia, su proposta della
sua Commissione economica44, commissario straordinario e (liquidatore)
di quell’AGIP-Azienda Generale Italiana Petroli, che il governo fascista
aveva costituito nel 1926 affidandole il compito di assicurare l’indipendenza energetica del paese attraverso l’attività di ricerca, estrazione, raffinazione e distribuzione di idrocarburi45.
Anche l’adesione di Mattei all’antifascismo era stata frutto di circostanze fortuite, a partire dal fatto che la sua promettente attività di industriale
privato si era presto scontrata dapprima con i costi elevati dei componenti utilizzati nel suo ciclo produttivo, quasi tutti di origine straniera, e poi
dalla impossibilità di assicurarseli in quantità adeguata stante la limitazione, se non il blocco, delle importazioni di materie prime non strategiche imposte dalla politica autarchica del regime. La sua crescente avversione
al fascismo fu rafforzata dall’amicizia con un suo conterraneo – Marcello
Boldrini – all’epoca docente di statistica e demografia all’Università Cattolica, che lo avvicinò agli ambienti dell’antifascismo moderato, da cui
5. Enrico Mattei, l’ENI-Ente Nazionale Idrocarburi e le grandi dinamiche
economiche degli anni Cinquanta e Sessanta del ‘900
La grande impresa del secondo dopoguerra fu interpretata da tre “imprenditori” d’eccezione, dove il termine imprenditore va inteso nel suo significato schumpeteriano, vale a dire nel ruolo che essi si trovarono a svolgere come decisori strategici e innovatori delle imprese che guidarono, pur
non partecipando alla loro proprietà. Il riferimento è a Vittorio Valletta40,
che guidò la FIAT per conto dell’azionista di riferimento, la famiglia
Agnelli; a Oscar Sinigaglia41, che a capo della Finsider ricostruì e riorganizzò l’industria siderurgica italiana; ed a Enrico Mattei che – da manager
pubblico – diede in pochi anni vita ad un gruppo, l’ENI-Ente Nazionale
Idrocarburi, che, in campi diversi da quelli in cui operava l’IRI, fu ugualmente cruciale nella ripresa economica italiana del dopoguerra.
Avventatamente, ancorché inutilmente, dato che – come già negli anni Trenta – non
esisteva capitale di rischio in grado di rilevare né in tutto né in parte il complesso di
imprese possedute dall’IRI, nemmeno quelle dell’acciaio, il cui esercizio – pur dopo
le profonde ristrutturazioni apportate – non risultava all’epoca economicamente
conveniente agli operatori privati. Per una visione d’insieme, ed ancora attuale,
di quello che fu uno dei grandi conglomerati mondiali di produzioni industriali, si
veda P. SARACENO, Il sistema delle imprese a partecipazione statale nell'esperienza italiana, Milano, Giuffré, 1975. Pur di taglio diverso, e circoscritto al dopoguerra, risulta di interesse anche il volume di N. PERRONE, Il dissesto programmato. Le partecipazioni statali nel sistema di consenso democristiano, Bari, Dedalo, 1992.
40
Valletta (1883-1967), già docente di ragionieria e poi commercialista, nel 1921 fu
chiamato dal sen. Giovanni Agnelli in FIAT come direttore centrale. Una rapida
carriera lo portò a divenire nel 1928 direttore generale, e nel 1939 amministratore
delegato. Nel 1946 assunse la carica di presidente, mantendola per vent’anni, durante i quali rese l’azienda torinese la più grande impresa italiana. Nel 1966 il capo
dello stato dell’epoca, G. Saragat, lo nominò senatore a vita.
41
Sinigaglia (1877-1955), ingegnere, dirigente industriale attivo nel settore siderurgico, entrò all’IRI fin dal momento della sua costituzione, ricoprendovi incarichi di
rilievo.
42
Mattei (1906-1962), già giovanissimo direttore di una conceria a Matelica, nelle
Marche dove era nato, si trasferì nel 1929 a Milano dove diede vita a una sua impresa (Industria chimica lombardi e saponi) attiva nella produzione di coloranti e
solventi per l’industria conciaria.
43
“Quota 90” sta a rappresentare il rapporto di 90 lire per una sterlina che Mussolini
annunciò a Pesaro nell’agosto 1926 come obiettivo irrinunciabile della rivalutazione
della lira che il suo governo intendeva perseguire. All’epoca il rapporto di cambio
era di 153 lire contro una sterlina. A fine giugno 1927 la lira esso era sceso a poco
più di 88 lire contro la sterlina, poi per un certo periodo oscillando sul valore di 90.
Tale rivalutazione, che colpì duramente le esportazioni italiane fu inutilmente contrastata dagli ambienti industriali, e dallo stesso ministro delle Finanze Giuseppe
Volpi, il quale anni dopo – quando gli veniva chiesto, magari da qualche esportatore che da quella misura era stato penalizzato, perché non avesse bloccato quella rivalutazione – usava rispondere, in dialetto veneziano, che quando “el paron”
[il padrone] ordinava, non restava altro che obbedire…
44
Presidente della Commissione era Cesare Merzagora, che dopo una lunga carriera iniziata nel 1920 alla Banca Commerciale, dirigendo anche alcune sue filiali
estere, approdò come Amministratore Delegato alla Pirelli, dove il suo ufficio fu spesso sede di riunioni cospirative.
45
La delibera di nomina è del 28 aprile 1945, a ridosso dell’Insurrezione nazionale.
309
310
39
L’anomalia italiana
Capitolo decimo
derivò poi la scelta di Mattei per la lotta partigiana, divenendo presto uno
degli esponenti di punta delle formazioni cattoliche.
La sua esperienza di imprenditore efficace, ancorché di piccola taglia,
ma anche di notevole organizzatore partigiano, convinse Merzagora che
lui fosse la persona più idonea a sciogliere il nodo della più “fascista” delle imprese pubbliche, l’AGIP appunto. Questa, nonostante le risorse di cui
ricorrentemente la dotò il governo, non aveva raggiunto risultati apprezzabili: i giacimenti di idrocarburi messi a frutto in Italia erano pochi, e
le ricerche sviluppate sia in Libia che in Albania non avevano portato ad
alcun risultato, talché la società si era ridotta a fare da semplice intermediatrice di petrolio straniero, in impari concorrenza con le compagnie estere che operarono in Italia fino all’ingresso del nostro paese nel conflitto
mondiale.
Gli scarsi risultati operativi dell’AGIP derivavano in parte dalla forte
influenza esercitata dal Partito nazionale fascista che la considerava quasi una sua dipendenza; una influenza che invece questo non poté avere
all’interno dell’IRI, stante la matrice fortemente tecnocratica che riuscì a
imprimergli il suo ideatore, e primo presidente, Alberto Beneduce, preservandolo dalle pressioni dei dignitari del regime46. Nonostante l’ano-
mala burocratizzazione, e le assunzioni “politiche”, all’interno dell’azienda non mancò l’emergere di specifiche professionalità nel campo geologico
della ricerca (e della conseguente “introspezione”) degli idrocarburi, testimoniata dalla cospicua documentazione tecnico-scientifica che si trovò
di fronte Mattei, in particolare riferita alla ipotizzata esistenza di importanti giacimenti di gas naturale (metano) e di petrolio in piena valle padana, dove – a Cavriaga, presso Lodi – si era avviata qualche perforazione ricognitiva, presto interrotta sia per causa bellica che per la inadeguatezza delle attrezzature disponibili.
Mattei rimase fortemente colpito: e con un intuito da imprenditore di
razza, decise che – prima di liquidare l’azienda, che peraltro era costata
all’erario cifre non indifferenti – era necessario riavviare al più presto, completandole, le prospezioni geologiche e geofisiche. Cosa facile a dirsi, ma
difficile da realizzarsi, stante che molti interessi, anche di società petrolifere straniere, si attendevano la chiusura dell’azienda “fascistissima”, e
quindi la libertà di ricerca e di sfruttamento degli (eventuali) giacimenti di
idrocarburi italiani. Mattei non si arrese, e riprese le perforazioni, rivolgendosi – dopo alcuni primi risultati incoraggianti – allo stesso presidente
del Consiglio dell’epoca, Ferruccio Parri, scongiurandolo di salvare l’AGIP,
alla quale – classico gioco di rilancio, in realtà un po’ temerario dato lo
stato di avanzamento delle prospezioni – avrebbe dovuto essere assegnato
il monopolio della ricerca e della valorizzazione economica degli idrocarburi della pianura padana, dato che a sua opinione solo un’azienda pubblica era in grado di operare nell’interesse generale di una nazione povera
di risorse energetiche.
Un bluff, quindi? Forse, ma in quella sollecitazione si ritrova l’anticipazione di quella mission che avrebbe poi portato l’imprenditore marchigiano
a costruire un gruppo integrato attivo nella ricerca, estrazione e distribuzione degli idrocarburi tramite gasdotti e oleodotti, nonché in una capillare rete di stazioni di servizio per la vendita di carburanti al consumatore finale, affiancandovi poi la petrolchimica, che egli vedeva come tassello strategico per contrastare le posizioni egemoni della Montecatini
nella chimica.
Questa impostazione, alla fine assecondata dai governi guidati da
Alcide De Gasperi, aprì uno scontro senza precedenti tra lo stato e i settori privati dell’economia, alla fine vinto da Mattei con la costituzione
dell’ENI (1953). In realtà, a favore di questo risultato giocò anche il personale ruolo politico da lui svolto come deputato nella prima legislatura repubblicana, carica dalla quale si dimise poche settimane prima dell’ema-
46
A. Beneduce (1877-1944), matematico attuariale di formazione, fu essenzialmente un grande commis de l’état, indisponibile a scendere a compromessi con l’impostazione di elevato rigore tecnico con cui egli era solito affrontare i nodi che era
chiamato ad affrontare e a risolvere. Ciò sia in età liberale, quando si dedicò alla costituzione dell’INA-Istituto Nazionale Assicurazioni e poi del CREDIOP-Consorzio
di Credito per le Opere Pubbliche, sia in epoca fascista dando vita ad alcuni istituti
di credito “speciale”, tra i quali l’ICIPU-Istituto di Credito per le Imprese di Pubblica
Utilità, mettendo a punto quelle emissioni obbligazionarie finalizzate per singoli
interventi che poi gli tornarono utili nell’approvvigionamento finanziario per il
risanamento delle imprese industriali pervenute all’IRI. Molto ascoltato da Mussolini,
notoriamente digiuno di cognizioni finanziarie, di Beneduce si è spesso detto che
era l’unica persona in grado di avere l’ultima parola col capo del fascismo. Questo
rapporto privilegiato gli consentì di portare all’IRI solo persone di estrema competenza, fossero fascisti o (più spesso) antifascisti. Lui stesso non era fascista.
Socialista riformista, fu eletto deputato nel 1919, divenendo nel 1921 ministo del
Lavoro nel governo Bonomi. Nonostante ciò, si trovò dal 1924 a collaborare col
governo fascista per dare il suo contributo tecnico in una difficile situazione economica per il paese. Probabilmente la sua azione va letta nel quadro di una concezione
dello stato che prescinde dalla parte politica che temporalmente lo guida. Nominato
Senatore del Regno nel 1939, al termine del suo mandato di presidente dell’IRI,
Beneduce fu anche consigliere d’amministrazione delle maggiori imprese private
italiane: FIAT, Pirelli, Montecatini, Edison e Generali.
311
312
L’anomalia italiana
Capitolo decimo
nazione della legge istitutiva dell’ente che si apprestava a presiedere 47. Il
che la dice lunga sul suo essere stato anche intelligente “imprenditore
politico”. La sua influenza politica, tuttavia, non si esaurì con le dimissioni. Legato alla corrente sociale cristiana della Democrazia Cristiana,
egli continuò a fare azione di lobby a favore dell’ENI, spesso non disdegnando l’uso disinvolto del potere economico di cui era detentore per
“agevolare” l’approvazione dei provvedimenti legislativi che potevano favorirne l’espansione. Di Mattei si è spesso scritto come di un “grande corruttore”48, e – nella interpretazione più benevola – di aver sempre
avuto (finanziandone l’elezione con fondi ENI) una propria personale
rappresentanza in Parlamento, nonché una delegazione amica all’interno del governo. Era vera sia l’una che l’altra cosa: Mattei fu imprenditore d’assalto in un paese la cui vetusta legislazione, e l’arretrata organizzazione burocratica, impediva di cogliere (e sfruttare) in tempi ragionevoli
le opportunità di un business che, o si coglievano subito, o rapidamente
sfumavano, ed egli era portato invece a superare gli ostacoli nei modi che
un paese zeppo di leggi non sempre rispettate consentiva49. E tuttavia sen-
za tali (discutibili) comportamenti, l’Italia non avrebbe conseguito la crescita rapida e virtuosa che invece conobbe proprio grazie alle risorse energetiche con le quali l’ENI supportò l’imminente “miracolo economico”.
Mattei fu perciò, nel bene e nel male, un personaggio che ruppe gli
schemi rigidi di un paese statico. E in questa sua azione fu, con modalità
diversificate e distinte, affiancato da Valletta e da Sinigaglia. Non che tra i
tre esistesse una strategia comune, ma sorsero episodiche sinergie nel segno della modernizzazione. Ad esempio tra Valletta e Sinigaglia, durante
una importante audizione della Commissione economica del Ministero
per la Costituente (fine 1945), quando il primo rafforzò l’opinione del
secondo circa il fatto che in Italia esisteva in prospettiva spazio per una
produzione annua d’acciaio fino a 8 milioni di tonnellate: una valutazione
apparentemente azzardata, stante che sino ad allora non si erano mai superati i tre milioni. Indubbiamente Valletta, che già pensava ad una
evoluzione della produzione automobilistica in direzione della motorizzazione di massa, aveva bisogno degli acciai speciali cui Sinigaglia stava
lavorando per il nuovo impianto di Cornigliano50: e tuttavia tale sostegno rivelava la medesima fiducia del capo di FINSIDER nella ripresa del
paese51. Mattei e Valletta, o meglio i loro gruppi di riferimento, si ritrovarono invece nel 1953 soci nella SIST-Sviluppo Iniziative Stradali Italiane assieme alla Pirelli e alla Italcementi; questa società progettò il percorso Milano-Bologna dell’Autostrada del Sole. Con Sinigaglia il rap-
47
Mattei si dimise il 5 marzo 1953, tre mesi prima della fine naturale della legislatura. La legge, n. 136 del 10 febbraio 1953, fu invece pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 27 marzo 1953.
48
Esiste al proposito una nota intervista a Mattei, sintetizzata in un veloce scambio
di battute nel bel film di Francesco Rosi del 1972 intitolato “Il caso Mattei”, nella
quale al giornalista che gli chiedeva come mai un ex-capo partigiano finanziasse
attraverso una holding pubblica anche il Movimento Sociale Italiano, il partito neofascista, egli rispondeva che per lui era come prendere un taxi: saliva, si faceva
condurre dove desiderava e, una volta giunto a destinazione, pagava la corsa e scendeva. Espressione un po’ cinica, quanto efficace: l’interesse dell’E NI – e quindi,
nell’opinione di Mattei, anche quello del paese – necessitava anche di tali (veniali?)
compromissioni…
49
Purtroppo, nella molta letteratura esistente su Mattei, l’analisi della sua vicenda
è spesso appiattita sugli aspetti più politici, e sulla sua spregiudicatezza operativa,
più che sul profilo imprenditoriale e profondamente innovativo del suo “fare impresa pubblica”. Cfr., però: M. BOLDRINI, Mattei, in Enciclopedia del petrolio e del gas naturale, Roma, Colombo, 1969; F. ROSI, E. SCALFARI, Il caso Mattei: un corsaro al servizio della Repubblica, Bologna, Cappelli, 1972; G. GALLI, La sfida perduta: biografia
politica di Enrico Mattei, Milano, Bompiani, 1976; M. COLITTI, Energia e sviluppo in
Italia: la vicenda di Enrico Mattei, De Donato, Bari, 1979 ; I. PIETRA, Mattei, la pecora
nera, Milano, Sugarco, 1987; G. SAPELLI e F.CARNEVALI, Uno sviluppo tra politica e
strategia. Eni (1953-1985), Milano, FrancoAngeli, 1992; G. SAPELLI, L. ORSENIGO,
P.A. TONINELLI e C. CORDUAS, Nascita e trasformazione d’impresa. Storia dell’Agip
Petroli, Bologna, Il Mulino, 1993; N. PERRONE, Enrico Mattei, Bologna, Il Mulino,
313
2001; S. TERRANOVA, La Pira e Mattei nella politica italiana 1945-1962, Troina, Oasi
Editrice, 2001; D. GUARNIERI (a cura di), Enrico Mattei. Il comandante partigiano,
l'uomo politico, il manager di stato, Pisa, BFS, 2007.
50
A Sinigaglia un sostegno diretto da parte di Valletta sarebbe derivato anche, ed
in modo economicamente più concreto, dall’impegno di acquistare da Cornigliano
laminati per alcune centinaia di migliaia di tonnellate annue, «fornendo così al nuovo stabilimento le condizioni essenziali per un livello minimo di economicità»: almeno così viene sostenuto in F. AMATORI e A. COLLI, Impresa e industria in Italia dall’Unità a oggi, Venezia, Marsilio, 1999, p. 239. Personalmente ritengo che il vantaggio
fosse innanzitutto della FIAT, dato che una simile quantità di laminati non era reperibile altrove in Italia, ma credo anche che essa non sia stata sufficiente – almeno
a leggere i Bilanci FINSIDER – a dare un contributo decisivo al conto economico
della grande acciaieria ligure.
51
La previsione di Sinigaglia e Valletta si rilevò corretta. Nel 1960 l’Italia superò, ancorché di poco, gli 8 milioni di tonnellate di acciaio prodotto, di cui il 17% nell’impianto di Conigliano. Nel mix produttivo di quest’ultimo, rilevava peraltro il
50% dell’intera produzione italiana di laminati, in gran parte indirizzati proprio a
FIAT.
314
L’anomalia italiana
Capitolo decimo
porto di Mattei nacque invece grazie alla celere fornitura da parte di
Cornigliano delle condotte di cui necessitava la SNAM 52, nel momento più
acuto dello scontro con la Montecatini e le compagnie petrolifere straniere a questa collegate.
Furono le condotte che consentirono all’impresa controllata dall’AGIP
di stendere in tempi rapidi una prima parte della rete distributiva, che
inizialmente raggiunse l’area milanese, in particolare l’importante polo
industriale di Sesto San Giovanni, poi ramificandosi nel resto della pianura padana53. L’estrazione di metano, 500 milioni di mc ne1 195054,
crebbe esponenzialmente raggiungendo i 5 miliardi nel 1958. Sulla scia di
questi risultati, Mattei stava intanto dilatando l’ambito d’azione dell’ENI,
a partire dall’inglobamento nel gruppo (1954) di una vecchia impresa fiorentina sull’orlo del fallimento, il Pignone officina meccanica e fonderia, trasformandola in una moderna azienda meccanica al servizio del
ciclo degli idrocarburi55. Il passo successivo fu la realizzazione, completata nel 1957, dell’impianto petrolchimico di Ravenna destinato alla produzione di gomma sintetica e, soprattutto, di fertilizzanti azotati. Si trattò
di un investimento cospicuo dovuto al ricorso a tecnologie innovative,
le quali consentirono all’ENI di collocare sul mercato concimi a prezzi
inferiori del 10-15% rispetto a quelli della Montecatini, rompendo così il
monopolio da questa da molti decenni detenuto56.
Si è detto della spregiudicatezza con la quale Mattei perseguiva gli obiettivi che egli riteneva utili per l’ENI, e quindi – era un assioma! – per l’Italia.
Fu per sostenere tali obiettivi, e gli interessi ad essi connessi, che egli de-
cise di dotarsi di un quotidiano che veicolasse alla pubblica opinione il
punto di vista dell’ente petrolifero, e ciò sia sul fronte della politica interna che, soprattutto, su quella della politica internazionale. Fu così che nell’agosto del 1956 l’ENI rilevò il milanese Il Giorno, il quale – dopo pochi
mesi di vita57 – aveva accumulato un tale passivo da convincere l’editore ad
accettare la conveniente offerta che gli venne avanzata. Non dall’ENI, tuttavia, bensì da un non meglio noto Istituto Bancario Romano che, pare,
liquidò l’operazione in contanti. Mattei non desiderava infatti, almeno non
in quel momento, che l’ente petrolifero ne apparisse il proprietario58. La
testata divenne subito un elemento di punta del giornalismo italiano, sia
per l’aggressività della sua impostazione che per le “inchieste” su un vasto spettro di temi di attualità, politici e soprattutto sociali, cui essa subito
si dedicò, progressivamente erodendo quote di lettori alle paludate testate dell’epoca. Articoli stringati e un modo di scrivere immediato, ancorché stilisticamente corretto, divennero un nuovo modo di fare cronaca o,
meglio, di raccontare la realtà: tanto che il giornale divenne una sorta di
palestra (o, se vogliamo, una scuola) del giornalismo di qualità. Nella
sua redazione si formò una generazione di giornalisti che, quando – come
capitò non poche volte – migrarono in altre testate, le contaminarono delle innovazioni lì affinate.
Il Giorno rappresentò, in sostanza, una innovazione nella comunicazione scritta coerente con il modo di fare impresa di Mattei, e con la stessa
comunicazione isituzionale dell’ente petrolifero: snella, mai retorica, e
perciò di immediata assimilazione da parte del fruitore. Fu così anche
per le ricorrenti campagne pubblicitarie che l’ENI dedicò alle sue iniziative o ai suoi prodotti, nelle quali la semplicità (e l’efficacia) del segno
grafico contavano più del testo scritto.
Una storia a parte meriterebbe – ma qui ci limitiamo a poche righe, e ad
alcune immagini – il modo con il quale si arrivò alla creazione del marchio
52
La SNAM-Società Nazionale Metanodotti era una società costituita nell’ottobre
1941 da Ente Nazionale Metano, AGIP (che con Mattei ne assunse il controllo),
Terme di Salsomaggiore e SURGAI-Società Anonima Utilizzazione e Ricerca Gas Idrocarburati.
53
La rete, ovvero la condotta di adduzione, che aveva superato nel 1949 i 350 km,
a fine 1951 aveva ormai raggiunto i 1.300 di estensione.
54
L’estrazione, di 20 milioni nel 1946, era salita a 305 nel 1949.
55
G. ROVERATO, Nuovo Pignone. Le sfide della maturità, Bologna, Il Mulino, 1991.
56
L’investimento ravennate (60 miliardi di lire dell’epoca) fu tre volte superiore a
quello messo in campo dalla Montecatini per la costruzione, pochi anni prima, di un
impianto similare a Ferrara: che, tuttavia, quello dell’ENI rese virtualmente obsoleto, rinfocolando le polemiche sulla invasività della mano pubblica in economia.
Che di ciò si trattasse è indubbio, e tuttavia a vantaggio non di un monopolista pubblico che si sostituiva a quello privato, bensì a favore del mercato, vale a dire di quel
vasto ceto di agricoltori che di fertilizzanti a costi più ragionevoli aveva primaria
necessità.
315
57
Il primo numero era uscito il 21 aprile 1956, e faceva capo all’editore Cino del Duca
che con tale testata si proponeva di fare diretta concorrenza al Corriere della Sera,
il principale quotidiano del paese. Idea ambiziosa, quanto irrealistica: e tuttavia
Il Giorno presentava una impostazione accattivante, sia grafica che di contenuti,
che rivoluzionava il modo stesso di fare informazione. Una impostazione che gli
uomini di Mattei confermarono, amplificandola in maniera dirompente.
58
In realtà lo schermo dell’inesistente banca romana svanì presto, anche per il taglio di non pochi articoli apertamente favorevoli all’ENI. Cosicché nel 1959 venne
rivelato l’effettivo assetto proprietario: 49% ENI (cui era affidato il controllo della
gestione societaria), 49% IRI ed il 2% Ministero del Tesoro.
316
L’anomalia italiana
Capitolo decimo
con la quale l’AGIP veicolò, a partire dal 1953, i propri carburanti e lubrificanti per autotrazione.
A Mattei venne l’idea, di grande effetto comunicativo, di bandire allo scopo un concorso nazionale59, che individuò come più efficace un bozzetto
raffigurante uno strano cane a sei zampe, che volgendo la sua testa all’indietro
emetteva dalla bocca una lunga fiammata di colore rosso. Il cane a sei zampe
divenne dapprima il marchio della benzina AGIP, e poi dell’ENI e delle sue
società operative, tale rimanendo – pur rivisitato – ancor oggi.
Una breve scorsa alle immagini ben rende la continuità di tale marchio60,
che rappresenta un caso più unico che raro (ancorché di straordinaria efficacia) nelle tecniche di comunicazione di una impresa multinazionale:
il marchio AGIP nei primi anni ‘60
il bozzetto originale con la fiammata di colore rosso
il marchio ENI nel 1972
1998
1953 - il cartellone della benzina “Supercortemaggiore”
(fondo giallo, fiamma del cane e “Supercortemaggiore” in rosso)
oggi (2010)
Ma ritorniamo, dopo questa digressione, al tema dal quale ero partito,
vale a dire la necessità per Mattei di dotarsi di uno strumento di comunicazione giornalistica.
Egli all’epoca stava intensificando la sua non faci-le acquisizione di
concessioni petrolifere nei paesi produttori, a partire dalla Persia (l’attuale Iran) dove, grazie al sovrano dell’epoca, M. Reza Pahlavi, l’ENI strappò le prime concessioni basate sul ricordato contratto Fifty-Fifty. Matttei
iniziò poi contatti con una Libia, inizialmente ostile dati i trascorsi
coloniali italiani, e quindi con l’Egitto dove incontrò notevole interesse,
foriero di successivi (positivi) sviluppi. La sua azione proseguì successivamente con la Giordania, il Libano, la Tunisia e il Marocco, in una
59
Il concorso riguardava l’elaborazione di un logo da destinare sia a cartelloni stradali per la pubblicità della benzina “Supercortemaggiore” che alla decorazione delle
colonnine erogatrici della stessa. Arrivarono oltre 4.000 bozzetti, e a giudicarli fu
chiamata una giuria di assoluto rilievo. I suoi componenti erano Antonio Baldini
(scrittore e critico letterario), Mino Maccari (scrittore e disegnatore), Silvio Negro
(autorevole capo della redazione romana del “Corriere della Sera”), Gio Ponti (architetto prestigioso, tra l’altro poi progettista del grattacielo della Pirelli a Milano,
noto come il “Pirellone”) e Mario Sironi (pittore, e tra i fondatori del gruppo
“Novecento”).
60
La continuità è rappresentata dalla persistenza del colore rosso della fiammata
del cane, e dallo sfondo giallo sui cui si staglia il logo
317
318
L’anomalia italiana
Capitolo decimo
sorta di “campagna” volta a costituire teste di ponte nel c.d., per usare
il gergo ENI, "fronte mediterraneo"; e fu un’azione volta a instaurare una
sorta di “diplomazia parallela” rispetto a quella del governo italiano, ufficialmente più sensibile alle logiche di uno stretto rapporto con l’alleato
statunitense che a favorire l’insediamento dell’ente petrolifero di stato nel
mondo arabo.
Solo “ufficialmente”, però, dato che l’influenza politica di Mattei ottenne più di qualche appoggio sotterraneo alla penetrazione da egli
perseguita: anche perché le concessioni di perforazioni in Persia stavano
aprendo, dopo i primi contatti, favorevoli prospettive in tutta l’area.
Anche se a prezzo di contrasti con le compagnie petrolifere americane, o meglio con il Dipartimento di stato di Washington che le tutelava, il governo italiano decise alla fine – pur all’interno di notevoli perplessità – di “coprire” l’attivismo dell’ente di cui il Tesoro deteneva
l’intera proprietà. E ciò fu conseguito, oltre che con le relazioni dirette
che Mattei intratteneva con parte dell’esecutivo, anche grazie ai molti
servizi giornalistici che Il Giorno dedicò all’operatività estera dell’ENI. La
“chiave” era sempre la stessa: lo sviluppo del paese dipendeva dalle risorse energetiche che solo l’ente petrolifero era in grado di recuperare…
In questa sfida di crescita/modernizzazione dell’Italia industriale,
Mattei ovviamente non fu attore isolato. Valletta alla FIAT, e l’IRI, con
FINSIDER ma anche con le altre sub-holdings, fecero la loro parte. La logica
della casa torinese fu ovviamente privatistica, ma i progressi che essa raggiunse contribuirono a quella transizione da una economia ancora a
struttura agricolo-industriale, quale era l’Italia all’inizio degli anni Cinquanta, a un paese compiutamente industriale come ormai appariva a
“miracolo economico compiuto” (1958-63)61.
Per descrivere questo passaggio epocale, ricorriamo a quanto scrivono
due autori particolarmente attenti a tale evoluzione:
lizzare tra 1950 e 1960 un aumento di cinque volte nella produzione giornaliera media. L’adozione su larga scala di processi automatizzati fa sì
che un operaio produca 1,22 kg per ora nel 1948 mentre arrivi a 5,15
nel 1956. Nello stesso periodo l’incidenza del monte stipendi e salari
sul fatturato scende dal 39 al 23 %. Lo stabilimento di Cornigliano è tre
volte più vasto di quello che i tedeschi hanno smantellato nel ‘43. Grazie a una difficile e imponente opera di interramento della superficie
marina, si estende per circa un milione di metri quadrati e quando
entra in funzione nel 1953 è costato più di 100 miliardi. Di questi, 37
vengono spesi per i treni continui62. […]
[…Tali processi innovativi richiedono una tale mole di capitale fisso
che impone, per la loro redditività, l’eliminazione di] qualsiasi vischiosità organizzativa si opponga al flusso continuo tra fabbrica e mercato,
pena il crollo dell’intero edificio imprenditoriale. La FIAT punta sulla
piena applicazione di metodi di lavoro fordisti, sulla massiccia immissione dell’operaio comune, sulla preparazione di fedelissimi quadri intermedi, sul ferreo controllo dei fornitori […]
[…Nell’impianto IRI di Cornigliano] – separato dalle altre imprese della FINSIDER anche dal punto di vista societario per non pregiudicarne il
ruolo eversivo rispetto alle vecchie routines della siderurgia italiana – si
assiste al passaggio da una organizzazione basata sull’empirismo e sulla delega all’abilità degli operai […] a una che sull’esempio americano
prevede prescrittívità operativa e perfetta “visibilità” dello stabilimento
da parte dei vertici aziendali. Corollario della nuova struttura, l’esatta
definizione del lavoro operaio (job evaluation), dei costi di produzione
(centri di costo), la formazione di quadri intermedi (programma TwI,
training within industry). Per l’ENI invece critico è il disegno organizzativo generale del gruppo, così da realizzare una completa integrazione verticale. Sotto la holding operano l’AGIP Mineraria che procura le
materie prime, la SNAM che le trasporta [attraverso le sue condotte],
l’ANIC che le trasforma, l’AGIP che le distribuisce. Una seria strozzatura potrebbe essere rappresentata dalla carenza di petrolio la cui
ricerca in Italia è vana, ed ecco Mattei costituire la sua famosa e rischiosamente innovativa rete di rapporti con i paesi produttori.
Valletta, Sinigaglía, Mattei sanno rischiare investimenti che il senso comune faceva ritenere a dir poco azzardati. Dal primo anno di pace al
1960 1a FIAT spende 500 miliardi in nuovi impianti e macchinari per reaConviene ricordare che per miracolo economico (o boom economico) va inteso quel
quinquennio nel quale l’occupazione mutò di segno, ed il paese – grazie a sostenuti
tassi di crescita annua del prodotto interno lordo – vide le persone attive gradatamente spostarsi dal lavoro agricolo a quello industriale, talché al termine di questa trasformazione la maggioranza della popolazione occupata risultava stabilmente impiegata nelle attività di trasformazione.
62
Nei processi siderurgici, o – meglio – nella produzione di laminati siderurgici,
per “treni” si intendono quei processi di lavorazione continua che presentano una
serie di coppie di rulli successivi (gabbie di laminazione) che consentono di ottenere il risultato finale (il “laminato”) procedendo sempre in un solo verso, con la
variante che – in un laminatoio per profili tondi o quadri, ad esempio – le gabbie risultano solitamente disposte alternando le coppie di rulli orizzontali con quelli verticali, fino a raggiungere la sagoma desiderata.
319
320
61
L’anomalia italiana
Capitolo decimo
Investimenti di dimensioni mai viste ed efficacia organizzativa provocano risultati che segnano cesure storiche. Il record della produzione
automobilistica italiana d’anteguerra era stato di 77 mila unità. In un
quasi continuo crescendo dal 1950, la FIAT ne produce più di un milione nel 1963. Nel 1955 la casa torinese presenta la prima vera utilitaria
al prezzo di 590 mila lire, la “600”. Un evento anche più importante in
questa direzione è l’uscita nel 1957 della “nuova 500” a un costo inferiore al mezzo milione: in 15 anni se ne vendono 3.678.000. Alla fine
degli anni Sessanta circolerà in Italia una vettura ogni 5,4 abitanti, un
esito che negli anni fra le due guerre veniva considerato un miraggio,
un traguardo raggiungibile solo oltreoceano. Il balzo in avanti dell’industria automobilistica va di pari passo con l’altrettanto notevole crescita produttiva che si registra in siderurgia. La produzione di laminati
piatti tra il 1955 e il 1964 passa da 1.300.000 tonnellate a 3.500.000 di
cui 2 milioni provenienti dalla FINSIDER legata […] alla FIAT da contratti di fornitura. L’Italia che all’inizio degli anni Cinquanta era il nono produttore siderurgico mondiale, alla fine del decennio è il sesto.
Intanto l’ENI, che nell’anno in cui scompare Mattei 63, il 1962, è in grado
di offrire mezzo milione di tonnellate di idrocarburi liquidi e 7 miliardi
di tonnellate di metano, nel 1960 porta benzina e gasolio al livello di
prezzo più basso d’Europa.
L’impetuosa crescita della domanda e la disponibilità di nuove tecnologie per la produzione di massa enfatizzano la concentrazione da parte
delle imprese delle proprie risorse su un solo settore per sfruttare appieno le economie di scala e forzare limiti di mercato che sembravano
invalicabili. Diviene quindi obsoleta quella strategia che aveva carat-
terizzato dalla prima guerra mondiale una parte rilevante della grande
industria italiana e che […] aveva [avuto] quale esito l’espansione in
diversi rami produttivi, anche non correlati, più alla ricerca di una posizione di forza nei confronti del potere politico che non per ragioni
strettamente economiche. Di questo tipo di impresa polisettoriale negli
anni fra le due guerre la Terni [controllata dall’IRI] rappresentava l’esempio più chiaro. Riusciva così ad evitare il declino, e anzi, […]dal 1944
al 1947, in una situazione di generale scarsezza di risorse, la presenza
di più settori (la Terni possedeva anche una cementeria e due miniere
di lignite) all’interno del complesso aziendale [che comprendeva anche
la produzione e vendita di energia elettrica] rappresentò una scorciatoia per la ricostruzione. Ma il vantaggio era di breve periodo, di fatto
impediva di considerare realisticamente le serie debolezze del modello
polisettoriale che la rendita elettrica, sempre più cruciale per la sua sopravvivenza, impediva emergessero in tutta la loro gravità. All’inizio
degli anni Cinquanta la Terni realizza un progetto coltivato da lungo tempo, l’entrata in funzione della linea Terni-Genova con la quale diviene
l’unica cerniera del sistema elettrico italiano, una vera e propria trappola per la società quando si profila la nazionalizzazione dell’energia elettrica che in effetti si concretizza nel 1962 con la nascita dell’ENEL64. Di
fronte alla minaccia di un’autentica decapitazione, la Terni sostenne di
fornire più della metà dell’energia prodotta ai propri stabilimenti e a
quelli dell’IRI […], rientrando quindi nel caso delle imprese autoconsumatrici per le quali la legge di nazionalizzazione non prevedeva l’esproprio. La posizione strategica dei suoi impianti nella rete elettrica del
paese vanifica queste argomentazioni, mentre l’appartenenza all’IRI non
rende possibile la piena disponibilità degli indennizzi. Impossibile si
rivela anche la permanenza nella chimica [altra diversificazione della
Terni, da questa considerata] […] un ramo “di risulta” che si giovava
dell’approvvigionamento a bassi costi d’energia elettrica e dell’esistenza di un regime consortile per la vendita di fertilizzanti agli agricoltori. È l’azione dell’ENI a infliggere un colpo decisivo alla Terni
chimica sia con la decisione di non fornire metano nell’Italia centrale
63
Mattei scomparve in un incidente areo, mentre ritornava con un aereo dell’ENI
dalla Sicilia alla sede lombarda dell’Ente, da dove doveva poi raggiungere la sua
abitazione a Milano. Il 1962 fu un anno di durissimi scontri tra l’ente petrolifero di
stato con le grandi multinazionali del petrolio (le c.d. “Sette Sorelle”), le quali vedevano fortemente insidiata la loro presenza oligopolistica nei paesi di estrazione
del greggio dall’aggressiva politica di Mattei, che a partire dall’Iran era andato proponendo ai paesi produttori contratti Fifty-Fifty, vale a dire la ripartizione al 50%
del valore del greggio estratto, contro la consolidata pratica delle grandi compagnie di riconoscere agli stessi solo il 25%. L’incidente, anomalo stante la perizia
del pilota e le condizioni atmosferiche al momento dell’impatto del veivolo, fece
subito parlare di un possibile attentato, magari commissionato tramite la mafia
americana da qualche “servizio di sicurezza” delle compagnie concorrenti dell’ENI.
Le inchieste giudiziarie succedutesi nel tempo, una anche relativamente recente, non
hanno portato a risultati conclusivi, anche se la tesi dell’attentato è stata valutata in
qualche procedimento come verosimile, pur senza che ciò approdasse a una qualche
certezza.
64
L’ENEL-Ente Nazionale per l’Energia Elettrica, costituito nel 1962, diventò operativo agli inizi dell’anno successivo, quando iniziò il graduale assorbimento delle
imprese eletttriche allora esistenti, o meglio dei loro impianti produttivi, dato che
la nazionalizzazione non riguardò le imprese in quanto tali ma solo i loro apparati
produttivi e distributivi. A partire da quelli delle grandi concessionarie interregionali (Edison, SADE, SIP, SME), l’ENEL alla fine inglobò gli impianti i 1.270 enti proprietari, esclusi quelli degli “autoconsumatori”, ovvero delle imprese che producevano elettricità prevalentemente, anche se non esclusivamente, per uso dei propri cicli industriali.
321
322
L’anomalia italiana
Capitolo decimo
privilegiando l’industria settentrionale, sia utilizzando essa stessa il
metano per offrire concimi azotati a basso prezzo, ponendo fuori mercato le produzioni che la società umbra otteneva nelle fabbriche di
Nera Montoro e di Papigno con tecniche che non potevano competere
con i nuovi procedimenti petrolchimici. Non restava che tornare,
aggiornandola, alla vecchia vocazione siderurgica; in effetti fra il 1953
e il 1958 si spesero 16 miliardi per nuovi impianti come un treno di
laminazione a profilati e per il rinnovo della fabbricazione di getti fucinati, stampati, condotte forzate. Non si seppe però compiere una scelta
decisa fra produzioni di massa e produzioni speciali tanto che l’acciaieria continuò a rivelarsi un insieme di impianti poco omogenei e in complesso scarsamente efficienti. L’opzione su un numero ristretto di produzioni – lamierini magnetici e laminati piatti inossidabili – venne
perseguita con determinazione tra il 1960 e il 1961 quando si lanciò un
programma di investimenti di portata storica per l’azienda. Tuttavia non
si superò mai definitivamente la stratificazione e l’eterogeneità di
impianti e di esperienze tecniche. Tutto ciò insieme alla già accennata
incompleta disponibilità delle risorse finanziarie corrisposte dall’ENEL
fece scivolare la Terni su posizioni marginali nell’ambito della grande industria italiana.
Sebbene si collocasse ai vertici del sistema industriale italiano, all’indomani della seconda guerra mondiale, ad uno sguardo attento erano evidenti le debolezze [anche] della Montecatini, al di fuori di un contesto
autarchico e fortemente regolamentato.
Il peso dell’abnorme complesso chimico-minerario, mai messo in discussione dopo il 1945 dai successori di Donegani65, diventa insosteni-
bile con l’avvento della petrolchimica e l’apparire di due agguerriti concorrenti quali l’ENI e la Edison, la maggiore impresa elettrica che nella
chimica cerca un paracadute per attenuare gli effetti della prevedibile nazionalizzazione del suo settore d’origine. La reazione della Montecatini
non è adeguata a una sfida che richiede risposte urgenti. Ancora nel 1960
[essa] dichiara di tenere in vita produzioni scarsamente remunerative in
omaggio ad una antica tradizione, mentre […] ammette di spendere per
la ricerca meno del 3% del fatturato. Intanto lo stabilimento petrolchimico di Ferrara che dopo dieci anni dall’entrata in funzione nel 1950
non è ancora avviato al pareggio, appare nettamente sottodimensionato, causa, questa, non secondaria della débàcle che la Montecatini subisce nel ramo dei concimi azotati. Nel ‘50 la società copriva l’80% della
produzione nazionale, quindici anni dopo era scesa al 30%, superata
dall’ANIC [dell’ENI] che ne controllava il 35. Come nel periodo fra le due
guerre il gruppo dirigente mira a imbrigliare la competizione mediante
accordi di cartello con le imprese rivali e a premere sul Governo perché
amministri i prezzi in senso favorevole ai produttori. Quando risulta evidente che questo atteggiamento è improponibile nelle nuove condizioni
economiche e tecnologiche, alla fine degli anni Cinquanta il vertice della Montecatini intende replicare con la costruzione a Brindisi del più
grande e moderno stabilimento petrolchimico italiano. Ma è la mossa
disperata di un’impresa non abituata alle asprezze della competizione.
Viene sottovalutata la necessità di nuove infrastrutture, non è tenuto in
considerazione il rapidissimo cambiamento tecnologico del settore – si
progettano impianti di cracking da 70mila tonnellate annue, quando all’estero si mettono in opera analoghi apparati produttivi da 250mila –
non si riesce ad attivare una produzione importante come quella di acetilene [che diverrà praticamente un “monopolio” del petrolchimico nel
frattempo costruito dall’ENI a Porto Marghera, nel veneziano]. Brindisi
entra in funzione solo nel 1964 e costa 60 miliardi in più rispetto ai 100
previsti. È questa la sconfitta che porta la Montecatini in posizione
subalterna alla più grande fusione della storia industriale italiana,
Montedison66. L’altra componente del gigantesco merger, la Edison, poteva vantare le considerevoli risorse finanziarie che le derivavano dopo la
65
Guido Donegani (1877-1947) entrò alla Montecatini, società mineraria fondata
nel 1888, poco dopo essersi laureato in ingegneria al Politecnico di Torino. Nel 1910
ne divenne amministratore delegato, e nel 1918 ne assunse la presidenza, imprimendole una forte diversificazione in direzione della chimica, a partire dalla produzione di fertilizzanti fosfatici ma estendendone presto l’attività anche ai coloranti organici, ai prodotti farmaceutici e poi alle resine sintetiche. Fu anche presidente della Banca Commerciale Italiana, prima del suo crollo e del suo assorbimento nell’IRI. Nel 1943 fu nominato senatore del regno. Perseguito dopo la Liberazione per collaborazionismo col regime fascista, lasciò la guida della Montecatini,
non ritornandovi pur dopo l’assoluzione con formula piena dall’accusa. Il che – ma
ciò riguardò numerosi altri imprenditori e managers italiani (capitò anche a Vittorio
Valletta e a Giuseppe Volpi) – non stava tanto a significare la non collaborazione con il potere dell’epoca ma, semplicemente, a stabilire che essi non avevano
tratti vantaggi o arricchimenti illeciti dal rapporto con il regime. Donegani fu, comunque, per trentacinque anni il dominus assoluto di un’azienda che in molti pro-
dotti, e soprattutto nella sua diversificazione chimica, acquisì posizioni di sostanziale monopolio.
66
La Montedison S.p.A., come fu ridenominata nel 1969, nacque nel 1966 come
Montecatini Edison S.p.A. dalla fusione tra la Montecatini e la ex impresa elettrica
Edison, che portò in essa i cospicui indennizzi derivanti dalla nazionalizzazione
dei suoi impianti elettrici. Ne risultò un conglomerato che, a partire dal prevalente
business chimico, deteneva interessi in numerosi altri e dispersivi settori (minerario,
farmaceutico, energia, metallurgia, agroalimentare, assicurazioni, editoria).
323
324
L’anomalia italiana
Capitolo decimo
nascita dell’ENEL dall’essere stata la maggior azienda elettrica del paese, ma certo non si trovava in floride condizioni dal punto di vista industriale. Eppure la Edison temendo sin dal dopoguerra la nazionalizzazione, giovandosi dell’opera di Angelo Fornara, un tecnico di prim’ordine proveniente dalla Montecatini, aveva con prontezza diretto
verso il settore chimico le sue vaste possibilità di investimento e dal
1955 era entrata con decisione nella petrolchimica. A differenza della
Montecatini che aveva rigorosamente utilizzato una tecnologia “fatta
in casa” (fra le ragioni, si è visto, della disfatta di Brindisi), la Edison si
era associata a consolidate imprese americane del settore, la Monsanto,
la Union Carbide, la Chemstrand. Costruisce quindi con rapidità importanti stabilimenti a Porto Marghera, a Mantova e a Priolo, in Sicilia,
impegnandosi particolarmente nella produzione di fertilizzanti e di fibre sintetiche. Con i vantaggi del late corner diviene in breve assieme all’ENI un serissimo concorrente per la Montecatiní. Tuttavia all’inizio
degli anni Sessanta le attività chimiche della Edison presentano una
redditività bassissima e quasi tutte le sue consociate in questo comparto
sono in perdita. Il fatto è che proprio la nuova competizione che la stessa Edison contribuisce a provocare nell’ambito della chimica italiana,
richiede al nuovo entrante una dedizione assoluta, mentre la vecchia
società elettrica intende garantirsi dai rischi dell’esproprio con una
eccessiva diversificazione degli investimenti produttivi, nella meccanica, nell’elettronica, nei materiali da costruzione, nel tessile, nell’alimentare, nella grande distribuzione, finendo per costruire una incontrollabile conglomerata. Sembra del tutto fondato il giudizio espresso nel 1973
da Eugenio Cefis allora presidente della Montedison il quale sottolineerà: «la estrema difficoltà per un management abituato a un settore relativamente tranquillo e privo di concorrenti come quello elettrico, di scoprirsi nuove vocazioni in settori industriali a lui sconosciuti, [nonché la
mancanza dell’]esperienza necessaria per gestire con metodi moderni
dei gruppi operanti in settori fortemente diversificati»67.
L’Italia del “miracolo economico” fu davvero un irripetibile momento di crescita, con elevati tassi di incremento nella produzione e nei consumi di semilavorati, mai raggiunti in precedenza, ma anche grazie – e non
solo – alla disponibilità di un “esercito industriale di riserva”, ovvero di
una crescente manodopera a basso costo pronta a spostarsi dalle zone meno favorite del sud (invero quasi tutte68) ai centri industriali del nord. Vi
giocarono però anche altri fattori, tra i quali una imponente mobilitazione di risorse pubbliche e di risparmio privato.
Oltre agli spettacolari risultati della siderurgia pubblica e a quelli dell’industria automobilistica, stavano sorgendo nuovi settori, sia nel comparto dei beni durevoli di largo consumo – ad esempio in quello degli elettrodomestici69 e in altri comparti della manifattura leggera (la meccanica
Il lungo testo qui riportato è tratto da F. AMATORI e A. COLLI, Impresa e industria in
Italia…, cit., pp. 240-245, autori dei quali sono, ovviamente e doverosamente, debitore. Gli incisi tra parentesi quadre, in genere esplicativi, così come le note al testo
riportato, sono di chi scrive. Le parole attribuite a Cefis sono tratte da E. SCALFARI e
G. TURANI, Razza padrona, Milano, Feltrinelli, 1974, p. 155. E. Cefis (1921-2004), fu
al pari di Mattei comandante partigiano in una formazione cattolica, e gli fu
accanto nella ristrutturazione/salvataggio dell’AGIP e poi nell’avvio dell’ENI, svolgendo perciò tutta la sua carriera di manager all’interno dell’ente petrolifero. Ne
diventò presidente nel 1967, dopo Marcello Boldrini, il professore amico di Mattei
che era stato chiamato a sotituirlo al momento della sua tragica scomparsa. Cefis
– in accordo con Cuccia, il capo di Mediobanca, che era forte creditrice di Monte-
dison – scalò con le risorse dell’ENI la conglomerata chimica divenendone (1971)
presidente, ma abbandonando la guida dell’ente petrolifero che, tuttavia, rimase
per un po’ di tempo azionista di riferimento con l’insolito patronage di Mediobanca
la cui mission (o, meglio, quella di Cuccia) era invece usualmente il privilegiato
sostegno al grande capitalismo familiare. Inutile, nell’economia di questo volume, ripercorrere le vicende successive che, sempre per volontà di Mediobanca, videro la
veloce emarginazione dell’ENI dal capitale di controllo di Montedison, mentre Cefis
continuò a presiederla fino al suo improvviso abbandono nel 1977, non senza aver
nel frattempo capitalizzato il suo ruolo divenendo (1974) vicepresidente di Confindustria nella gestione di Gianni (Giovanni) Agnelli, il nipote di quel sen. G. Agnelli
che è capitato di citare in nota 40. Gianni Agnelli era dal 1966, anno nel quale Valletta uscì di scena, il presidente della FIAT, rappresentantando direttamente (e
autorevolmente) la famiglia che ne era azionista di riferimento, e quindi di controllo.
68
“Quasi tutte”, stante il sostanziale – ed ahimè rapidissimo – esaurirsi della speranza che la Cassa per il Mezzogiorno avviata nel 1950 potesse innescare, per il solo fatto di aver creato nuove infrastrutture di comunicazione, l’emergere di autoctone
energie impenditoriali in grado di dare una risposta alla atavica fame di lavoro delle popolazioni meridionali. Così non fu, e nemmeno i successivi provvedimenti di incentivazione per attrarre capitali dal nord, o di obbligo legislativo che imponeva che buona parte dei nuovi investimenti delle imprese partecipate dallo stato attraverso l’IRI o l’ENI fossero destinate al sud, diedero esito positivo. Certo, gli investimenti delle imprrese pubbliche non mancarono, e anzi furono rilevanti, ma
tutti concentrati nella creazione di quelle “cattedrali nel deserto” (grandi impianti
attivi nelle produzioni di base) che secondo chi le aveva concepite in assonanza
alle teorie economiche internazionali sui c.d. poli di sviluppo da creare nei paesi
arretrati, avrebbero dovuto creare un naturale indotto industrializzante a valle. Che
però non vi fu.
69
Dove emersero marchi che, pur con diverso assetto proprietario, ancora esistono in
Italia: Indesit, Zoppas e Rex. Questi ultimi due sono oggi raggruppati nella divisione
325
326
67
L’anomalia italiana
Capitolo decimo
strumentale con quelle “macchine utensili” nelle quali l’Italia entrò in vivace concorrenza con l’industria tedesca, od alcuni segmenti della elettromeccanica) – sia in settori “di frontiera” quali l’elettronica e la chimica avanzata.
Qualche riflessione merita l’elettronica, nella quale fu particolarmente
attiva la Olivetti di Ivrea, fabbrica di macchine per ufficio70, con una sfida di eccezionale portata, che alla fine perdette per la miopia del ceto
politico, o meglio del governo del paese, e di un sistema bancario pubblico insensibile alle enormi potenzialità del business nel quale l’azienda si
era con grande preparazione avviata. Artefice della diversificazione in direzione dell’elettronica fu Adriano O.71, figlio del fondatore. A capo dell’azienda di famiglia dal 1938, egli – anche grazie alle esperienze accumulate in un lungo soggiorno negli Stati Uniti – ne aveva rivoluzionato i sistemi produttivi, rendendo quello di Ivrea tra i più moderni impianti meccanici d’Europa.
All’inizio degli anni Cinquanta, Adriano O. decise di cimentare la sua
impresa nel campo del calcolo elettronico, avviando – era il 1954 – una
startegica collaborazione con l’Università di Pisa per la progettazione di un
elaboratore, cui seguì nel 1957 – per la produzione della necessaria componentistica – la costituzione, al 50% con Telettra72, della SCS-Società Ge-
nerale Semiconduttori. Nel 1959 venne presentato alla Fiera di Milano
1’Elea 9003, un grande elaboratore che poneva 1’azienda italiana all’avanguardia mondiale del settore, dato che la sua potenza di calcolo risultava superiore a quella raggiunta all’epoca dalle macchine della statunitense IBM. Ne furono venduti alcuni prototipi a primarie aziende italiane, tra le quali la Marzotto di Valdagno, ma il suo successivo sviluppo,
e conseguente espansione sul mercato mondiale, subì una (colpevole, e
definitiva) battuta d’arresto con il rifiuto delle grandi BIN (le Banche di
Interesse Nazionale, controllate dall’IRI, e quindi dallo stato) di aumentare le linee di credito. E tuttavia – testardaggine di un imprenditore innovativo, restio ad arrendersi alle difficoltà – la Olivetti proseguì nella sua
attività, dedicandosi allo sviluppo di un progetto apparentemente minore: una macchina di calcolo personale (la prima idea al mondo di personal computer) il cui prototipo – il mod. 101 – presentava caratteristiche,
in termini di potenza e versatilità, decisamente superiori a quelle che poi
furono del Pc lanciato sul mercato mondiale dalla IBM.
La precoce scomparsa di Adriano prima, le incertezze poi degli eredi
su quale strada intraprendere al riguardo, e infine il rinnovarsi della diffidenza bancaria sul business del calcolo automatico, misero in ginocchio
l’azienda, peraltro già oberata dal difficile risanamento dell’americana
Underwood, acquisita nel 1959 come testa di ponte per lo sbarco dei
prodotti d’Ivrea sul mercato statunitense. La “Divisione Elettronica”
divenne perciò un peso e fu, virtualmente, congelata: gli ingegneri migliori, circa 300, migrarono verso altre imprese, in particolare alla Honeywell France. A metà degli anni Sessanta, Mediobanca decise, anche su
sollecitazione del governo, di organizzare un “gruppo di salvataggio”,
composto da FIAT, IMI73 e Pirelli, che intervenne con un programma di
risanamento imperniato sulla cessione delle attivita finanziariamente piu
onerose, a cominciare da quanto rimaneva della Divisione Elettronica
che passò alla statunitense General Electric. Finiva così un grande, irripetibile, sogno, con l’Italia definitivamente tagliata fuori da quella che,
italiana della svedese Electrolux: su qualche aspetto della loro evoluzione negli anni
Cinquanta e Sessanta del ‘900, cfr. G. ROVERATO, Il Nordest delle grandi imprese familiari: Marzotto, Zanussi e Zoppas, in Atti del Convegno “1969-2009” - Analisi, riflessioni e giudizi a quarant’anni dall’“autunno caldo”, Firenze, Associazione Biondi-Bartolini, 2010.
70
La Olivetti & C. nacque nel 1908 ad Ivrea, come evoluzione di una precedente
attività (la C.G.S., fabbrica di strumenti di misura elettrici) dell’ing. Camillo O.
(1868-1943), il fondatore. Il suo oggetto sociale riguardava la produzione di macchine
per scrivere, e la grande insegna subito apposta sul frontone dello stabilimento la indicava come “Prima Fabbrica Nazionale di Macchine per Scrivere”, cosa che peraltro
corrispondeva al vero. L’impresa ebbe subito successo, diversificandosi poi nella produzione di macchine da calcolo per ufficio.
71
Adriano Olivetti (1901-1960) fu personaggio di notevole rilievo. Vero e proprio
“umanista d’impresa”, fu il divulgatore italiano della sociologia di matrice statunitense, e con essa delle tecniche di gestione scientifica del lavoro, impropriamente
note come taylorismo, grazie ad una casa editrice (“Edizioni di comunità”) cui egli
diede vita sul finire degli anni Quaranta. Modernizzò gli impianti di produzione
della sua azienda, perseguendo l’idea dell’impresa come “comunità” di lavoratori,
modellandone in tale direzione sia l’organizzazione che la stessa costruzione dei
nuovi impianti.
72
La Telettra (acronimo di Telefonia, Elettronica, Radio) fu fondata nel 1946 dall’ingegnere V. Floriani nel settore delle telecomunicazioni, accumulando nel tempo
327
un numero rilevante di brevetti internazionali. Essa fu ceduta nel 1976 al culmine
del suo sviluppo, quando ormai occupava circa 10.000 addetti, alla FIAT, dalla quale
passò poi (1990) alla francese Alcatel.
73
L’IMI-Istituto Mobiliare Italiano era un “istituto di credito speciale”, costituito dallo stato come Ente di diritto pubblico nel 1931 e finalizzato al credito a medio-lungo
termine alle imprese. Fu molto attivo nel dopoguerra, a partire dalla fase di ricostruzione postbellica. Privatizzato nel 1998, esso è ora una banca d’affari all’interno del
gruppo Intesa San Paolo.
328
L’anomalia italiana
Capitolo decimo
indubbiamente, costituiva all’epoca (ma ciò è ancora attuale) la più straordinaria rivoluzione tecnologica degli ultimi decenni74.
Due (finali) annotazioni di cronaca: la prima è che all’inizio degli anni ‘80 la Olivetti, ormai controllata da Carlo De Benedetti, oggi probabilmente più noto come editore del gruppo La Repubblica-Espresso, ritornò
a produrre personal computers: ironia del destino si trattava di un modello
basato su tecnologia IBM…
La seconda riguarda il passato, ed ha a che fare con l’immagine di copertina di questo volume, che riproduce una affiche pubblicitaria dei primi anni
Sessanta: essa propagandava uno straordinario prodotto, la macchina per
scrivere portatile commercializzata dall’inizio degli anni ‘50 con il nome di
“Lettera 22”. Fu un successo internazionale, sia per le dimensioni (cm 28,9
di profondità, 32,4 di larghezza e 8,3 di altezza) che per il peso (4,4 kg) che
la rendevano di assoluta e (rivoluzionaria) trasportabilità. Per la raffinatezza
del design, essa è inserita nella collezione permanente del Museum of Contemporary Art di New York quale simbolo “grafico” del made in Italy, del quale
costituisce uno dei primi “segni” distintivi.
A proposito di alcuni degli appuntamenti mancati, gli autori cui già
eravamo precedentemente ricorsi per velocizzare la nostra narrazione, così scrivono:
doppia, e petrolio, metano, gas liquido affiancano e progressivamente
sostituiscono le fonti tradizionali ovvero il carbone e l’idroelettricità. Se
nel 1950 poco meno di un terzo dell’energia deriva da gas naturale e prodotti petroliferi, dieci anni dopo la percentuale è più che raddoppiata,
grazie soprattutto al forte ribasso nei prezzi del greggio sul mercato
mondiale ma anche al fatto che gli avvenimenti politici a livello internazionale (l’embargo all’Iran di Mossadeq e la crisi di Suez) avevano
permesso all’Italia di sfruttare la propria collocazione geografica nel Mediterraneo e di assumere il ruolo di “raffineria d’Europa” con una capacità effettiva calcolata intorno ai 43 milioni di tonnellate. La produzione e l’esportazione di idrocarburi consentiva inoltre di riequilibrare il
pesante passivo nella bilancia energetica mentre i residui della raffinazione venivano impiegati come succedanei del carbone nella produzione di energia termoelettrica, senza contare che il petrolio era una
materia prima indispensabile per diverse lavorazioni chimiche.
Alla crescente importanza raggiunta dalle nuove fonti energetiche non
corrispondeva tuttavia una politica di settore coordinata ed efficiente
che permettesse di attenuare la minaccia costituita dalla totale dipendenza dell’Italia dalle importazioni di petrolio. Mattei, parallelamente allo
sfruttamento delle risorse soprattutto metanifere disponibili nel sottosuolo nazionale, si andava impegnando nella costruzione di una fitta
rete di alleanze e di rapporti con i Paesi produttori nel tentativo di inserirsi in un mercato sino a quel momento monopolio esclusivo delle
grandi multinazionali straniere ma che un diffuso processo di “decolonizzazione” e l’affermazione di movimenti nazionalistici rendevano contendibíle. A tal fine, in contrasto con quanto praticato dal cartello petrolifero internazionale, l’ENI offriva condizioni particolarmente favorevoli […] per i Paesi produttori, i quali erano inoltre parte attiva e non
più semplici “colonie”, dovendosi accollare parte dei costi di ricerca.
Mattei puntava a fare dell’ENI una sorta di “ente unico per l’energia”
in grado di attuare strategie diversificate di ricerca, approvvigionamento, raffinazione e distribuzione di idrocarburi e gas naturale; un
compito che non poteva essere lasciato alle imprese private ma che doveva essere svolto da un organismo pubblico che poteva fornire le necessarie garanzie in un campo in cui erano in gioco gli interessi vitali del
paese. Parte di tale progetto riguardava anche l’esplorazione delle possibilità offerte dalle nuove fonti energetiche e in questa prospettiva va
collocato l’ingresso nel nucleare, con la nascita (1956) dell’AGIP Nucleare e l’avvio della costruzione della centrale di Latina.
La morte di Mattei nel 1962 imprime una battuta d’arresto a questi ambiziosi progetti, sebbene già da qualche tempo l’ENI cominciasse a
mostrare qualche debolezza soprattutto dal punto di vista finanziario:
Il mancato compimento di alcuni “disegni di arditissimo sviluppo”75 contribuì a modellare la fisionomia dell’industria nazionale attorno alle industrie oggi dominanti del made in Italy, mentre «il salto in una dimensione produttiva e tecnologica più avanzata, mancato allora, non era
destinato ad essere riproposto anche in seguito»76.
Enrico Mattei “incarna” il progetto di una grande e incisiva politica in
campo energetico, indispensabile nella fase di intensa crescita degli anni Cinquanta quando il fabbisogno civile, ma soprattutto industriale, rad74
Adriano O. aveva, poco tempo dopo l’avvio della sfida del calcolo elettronico, sostenuto che «la tecnica elettronica potrà avere nel futuro notevoli ripercussioni
sul metodo di fabbricazione di prodotti attualmente realizzati in via meccanica:
esiste quindi una ragione fondamentale di sicurezza che ci consiglia di non lasciarci cogliere impreparati quando la tecnica permetterà di trasformare alcuni
dei nostri prodotti da meccanici ad elettronici»: cit. in L. SORIA, Informatica:
un’occasione perduta. La divisione elettronica dell’Olivetti nei primi anni del centrosinistra, Bari, Laterza, 1994.
75
L’espressione è usata in M. PIRANI, Tre appuntamenti mancati dell’industria italiana,
“Il Mulino”, 6, 1991, pp. 1045-51.
76
Ibidem, p. 1046.
329
330
L’anomalia italiana
Capitolo decimo
I problemi – affermò in seguito Eugenio Cefis, il successore di Mattei
– erano tanti, perché l’ENI era in una fase di tumultuoso sviluppo in
più direzioni e in Italia stava mutando il quadro politico ed
economico in generale. Il problema principale era senza dubbio
quello di una situazione finanziaria overstretcbed della quale Mattei era
perfettamente consapevole [...] Le cause si riassumevano nella forbice
che si era andata aprendo tra le disponibilità dei mezzi finanziari da
un lato – quelli dell’autofinanziamento, quelli attinti al mercato (il
governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, non autorizzava più
l’emissione di prestiti obbligazionari dal ’60) e quelli ottenuti in prestito dalle banche – e dall’altro l’entità degli investimenti complessivi,
che erano a redditività incerta o comunque differita [...]77.
E. CEFIS, La crisi degli anni Sessanta e la scalata alla Montedison, in F. VENANZI e
M. FAGGIANI (a cura di), ENI: un’autobiografia. La storia di una grande impresa
raccontata dagli uomini di Enrico Mattei, Milano, Sperling & Kupfer, 1994, pp. 258-59.
78
La SADE-Società Adriatica di Elettricità era, per dimensioni e capitalizzazioni, la
terza compagnia elettrica del paese, ed era stata fondata nel 1905 da G. Volpi, che
sarà poi, tra il 925 e il 1928, ministro delle Finanze di Mussolini. Imprenditore di
grandi intuizioni, concepì la realizzazione (1917-22) del Porto Industriale di Venezia, poi noto come Porto Marghera dal nome della località dove fu costruito.
gramma Euratom a livello comunitario, per tutti gli anni Cinquanta
non si giungeva ad alcuna realizzazione concreta; le richieste di finanziamento presentate dal Comitato restavano in gran parte insoddisfatte,
né venivano approvati i progetti di sviluppo via via da esso proposti.
All’inizio del decennio successivo sia lo stato che i privati avviavano comunque la costruzione di centrali nucleari: 1’IRI, quella del Garigliano,
1’ENI a Latina e l’Edison a Trino Vercellese per una potenza complessiva di oltre 500 megawatt, oltre il 10% del totale mondiale.
Dopo il 1962 1’Ente nazionale per 1’energia elettrica (ENEL), che grazie alla nazionalizzazione era entrato in possesso anche delle centrali,
avrebbe potuto costituire il perno per una politica innovativa basata
sulla diversificazione nello sfruttamento di fonti energetiche primarie.
Tutto cio non poteva tuttavia non provocare forti opposizioni da parte
di quanti temevano che un’eccessiva enfasi su una nuova tecnologia
avrebbe finito per porre in discussione consolidati privilegi, in particolare quelli di cui godevano i gruppi petroliferi privati, italiani e stranieri, divenuti nel frattempo i principali fornitori degli impianti termoelettrici dell’ente pubblico […].
[…] l’azione del CNEN subì [presto] una netta battuta d’arresto. Nonostante il fatto che le due violente crisi petrolifere degli anni Settanta avessero con chiarezza mostrato la necessità di individuare fonti alternative, in
quindici anni fu realizzata una sola nuova centrale, quella di Caorso,
entrata in attività nel 1982; 1’Italia piombò così fatalmente nelle posizioni di rincalzo fra i produttori mondiali di energia nucleare sino alla
seconda metà degli anni Ottanta quando un referendum – che a seguito
dell’incidente nella centrale russa di Chernobyl ebbe un esito pressoché
plebiscitario – sancì 1’abbandono definitivo de1 nucleate. Già dai primi
anni Ottanta, però, il calo del prezzo del greggio e 1’allontanarsi della
crisi aveva contribuito a radicare nella mentalità della classe dirigente
una sorta di “monocultura” che non contemplava 1’impiego di fonti alternative a quella petrolifera né l’effettuazione di investimenti diretti ad
accrescere la produttivita degli input utilizzati e che finiva per costringere 1’ENEL, che operava in regime di tariffe amministrate, a subire in
termini reddituali ogni fluttuazione nei prezzi del petrolio.
[…]
Le imprese pubbliche erano state senza dubbio alcuno fra i protagonisti
di maggior peso del miracolo economico. La formula ideata da Alberto
Beneduce negli anni Trenta che prevedeva la proprietà statale per
aziende operanti come le altre sul mercato, sembrava 1’apriti sesamo per
un paese impegnato nella rincorsa di quelli di prima fila, che non disponesse però di risorse finanziarie e manageriali private sufficienti per
le necessità dell’industria e in particolare dei settori ad alta intensità di
capitale: essa ci veniva invidiata e copiata. Sull’onda dei successi otte-
331
332
Cefis avviò da subito una profonda ristrutturazione del gruppo, riducendo gli impegni nella ricerca e lasciando maggior spazio ai privati nell’attività di raffinazione, per concentrarsi invece sulla commercializzazione del greggio, la distribuzione dei prodotti petroliferi e la petrolchimica.
Il fallimento del progetto di Mattei fu reso ancor più grave dal contemporaneo insuccesso delle iniziative nel campo del nucleare. Dell’utilizzo dell’energia atomica per scopi pacifici si cominciò a parlare in Italia
immediatamente dopo la fine della guerra, quando nel 1946 viene costituito il CISE (Centro informazioni studi esperienze) per iniziativa dei
maggiori gruppi elettrocommerciali (Edison e SADE 78) e di alcuni grandi
autoproduttori come FIAT, Cogne, Montecatini, Terni e Falck. Il CISE
restò l’unico ente attivo nella ricerca nucleare sino a tutto il 1951 quando fu affiancato dal Comitato nazionale per le ricerche nucleari (CNRN)
– dal 1959 Comitato nazionale per l’energia nucleare (CNEN) – di emanazione pubblica a capo del quale fu posto Felice Ippolito, docente di
geologia all’Università di Napoli e convinto sostenitore di una decisa
politica pubblica in campo atomico.
Nonostante 1’interesse manifestato dalla Banca mondiale, che aveva individuato nell’ltalia un Paese particolarmente favorevole per 1’installazione di centrali elettronucleari ed era disposta a concedere cospicui finanziamenti in tal senso, e sebbene dal 1958 avesse preso avvio il pro77
L’anomalia italiana
Capitolo decimo
nuti in campo petrolchimico, siderurgico, automobilistico, lo Stato
Imprenditore era avviato alla sua massima espansione. Nel 1956 per
consolidare il sistema e renderlo del tutto indipendente dai condizionamenti dei privati, nasceva il ministero delle Partecipazioni statali.
Negli anni Sessanta 1’IRI ampliava notevolmente le sue capacità industriali con la creazione del nuovo centro siderurgico di Taranto e della
fabbrica di automobili di Pomigliano d’Arco presso Napoli mentre realizzava la rete autostradale e il sistema di teleselezione nazionale.
Acquisendo il controllo della Montedison, nel 1968,1’ENI dimostrava
di poter assumere il ruolo di prima impresa chimica del Paese. Intanto sorgevano due nuove holdings pubbliche. Nel 1962 [un ente, sorto quindici
anni prima per sostenere il settore stremato dalla guerra, si trasforma
assumendo la denominazone di] EFIM, e pur avendo come perno la
grande azienda di meccanica pesante Breda, si diversifica nei comparti
dell’alluminio, del vetro e dell’alimentare. Nel 1971 diviene operativo
l’EGAM (Ente autonomo di gestione per le aziende minerarie), che si
distingue soprattutto per il salvataggio di aziende obsolete della vecchia
Montecatini e che in breve sconfina anch’esso in settori diversi da
quello originario, la metallurgia e la produzione di macchine per l’industria tessile. In definitiva alla metà degli anni Settanta il sistema delle
Partecipazioni statali era un colosso da più di 700mila addetti e con un
fatturato – 17mila miliardi – che rappresentava il 35% di quello [delle
maggiori imprese italiane, come fotografato annualmente da un rapporto a campione] di Mediobanca. Tuttavia già da allora non mancavano segnali di difficoltà, tanto che nel ‘78 l’EGAM, vero e proprio contenitore di disastri industriali, veniva sciolto. Del resto la crisi economica
che si abbatteva sul Paese dopo lo shock petrolifero del 1973 e gli esplosivi conflitti sociali di quegli anni, colpivano in particolare le imprese
pubbliche che scelte politiche, anche in funzione anticiclica, volevano
mantenere di dimensioni troppo vaste, rispetto alle esigenze del mercato.
Dal 1977 Governo e Parlamento creavano numerose commissioni di
studio sul malessere delle Partecipazioni statali. Tutte raccomandavano
di tornare allo spirito imprenditoriale degli anni Cinquanta, ma la
realtà era più forte delle indicazioni degli studiosi. Nei tre lustri successivi l’intero edificio scricchiolava paurosamente. Nel 1988 la FINSIDER,
di fatto, doveva dichiarare bancarotta sotto il peso di 25mila miliardi di
debiti. Passività non dissimili costringevano quattro anni più tardi a
porre l’EFIM in liquidazione. Nello stesso 1992 la pressione di un referendum popolare cancellava il ministero, mentre IRI e ENI, che negli anni Ottanta avevano dovuto cedere importanti aziende quali l’Alfa Romeo e la Lanerossi, per rendere possibile una [loro] privatizzazione
erano trasformate in società per azioni. Solo nell’immediato dopo-
guerra lo Stato Imprenditore aveva […]dovuto subire un attacco altrettanto vigoroso. Ne volevano la fine i liberisti, allora vincenti sia sul
piano culturale sia su quello politico, ma erano prevalse le esigenze
della ricostruzione e della riconversione industriale e la consapevolezza
delle profonde radici dell’intervento pubblico nella storia economica
del paese.
Se a proposito delle origini dello Stato Imprenditore si può discutere se
abbia prevalso l’improvvisazione su un consapevole programma, tale
dibattito ha poco senso per l’Italia degli anni Cinquanta, quando, superata la confusione del dopoguerra, emerge chiaramente una strategia o
meglio una serie di strategie tese a utilizzare questa forma di intervento
pubblico. Si possono identificare tre tendenze, la prima delle quali è rappresentata dal nazionalismo economico. È una corrente che non coincide con un partito, ma che è erede di una lunga tradizione politica e
ideologica nella storia italiana. Nelle fasi cruciali – il Risorgimento, la
Grande Guerra, la Resistenza – il nazionalismo ha coinvolto imprenditori e manager. Oscar Sinigaglia ed Enrico Mattei, i più importanti
condottieri dell’industria pubblica, sono un eccellente esempio in
questo senso: Sinigaglia, che dona la sua industria allo Stato per partecipare al primo conflitto mondiale, che è a fianco di D’Annunzio nell’impresa fiumana, che sostiene con la massima energia il dovere dello
Stato di affrontare direttamente la più importante questione industriale
del paese, quella dell’acciaio, data l’incapacità di risolverla da parte dei
privati; Mattei, certamente influenzato dalle dottrine sociali del cattolicesimo, ma soprattutto ossessionato dall’idea dell’inferiorità economica italiana nell’arena internazionale, non è lontanissimo dal Mussolini
che tuona contro le plutocrazie occidentali quando inveisce contro
l’avidità delle grandi compagnie petrolifere internazionali, le Sette
Sorelle. Una seconda strategia che mira a strumentalizzare l’impresa
pubblica, si ritrova all’interno del partito di maggioranza, la Democrazia cristiana. In realtà il partito cattolico è una federazione di gruppi
politici di diverso orientamento; sono le sinistre democristiane che
spingono per l’intervento pubblico in funzione dello sviluppo economico
e del superamento dell’arretratezza del Sud. Ezio Vanoni ministro delle
Finanze, uno dei loro leaders, è il più convinto e importante sostenitore
dell’opera:a di Enrico Mattei. Ma forse, dall’interno della Democrazia
cristiana, il più incisivo supporto all’impresa pubblica viene da Amintore Fanfani, segretario del partito dal 1954, il quale si trovò ad
affrontare la concorrenza di un aggressivo e ottimamente organizzato
Partito comunista. La paura di Stalin aveva portato la Democrazia cristiana a una trionfale maggioranza assoluta alle votazioni del 1948, ma
cinque anni dopo lo stesso partito aveva visto crollare di dieci punti
percentuali il suo elettorato. Fanfani vide nel sistema delle Parteci-
333
334
L’anomalia italiana
Capitolo decimo
pazioni statali sia uno strumento per ottenere consenso politico (specialmente nel Mezzogiorno) sia una buona fonte di risorse finanziarie
per costruire un partito “leninista”, ossia composto da professionisti
della politica, impegnati in essa a tempo pieno, un’organizzazione in
grado di affrontare con successo la sfida comunista. Sotto questo profilo era importante sottrarsi alla tutela della grande impresa privata che
poteva condizionare il partito in senso eccessivamente conservatore. I
risultati più significativi dell’azione politica della Democrazia cristiana
in favore dello Stato Imprenditore, sono l’istituzione dell’ENI nel 1953,
la creazione tre anni più tardi del ministero delle Partecipazioni statali
per ottenere un più stretto controllo delle imprese pubbliche, la normativa che a queste imponeva di collocare nel Mezzogiorno almeno il
60% dei nuovi investimenti industriali (e il 40% della loro totalità).
Negli anni Trenta e nei primi anni del dopoguerra, socialisti e comunisti guardavano con sospetto al sistema di imprese pubbliche sorte con
la grande crisi, considerandolo un semplice strumento del capitale monopolistico italiano. Nonostante ciò ragioni ideologiche non consentivano
di rifiutare appoggio a Enrico Mattei nella sua battaglia contro le multinazionali, o di ostacolare la legislazione a favore dello sviluppo del
Mezzogiorno, e neanche di impedire la costituzione di un ministero
che separava le aziende pubbliche dagli interessi degli imprenditori privati. Di fatto le Sinistre sostennero o almeno non intralciarono tutte queste
misure. La loro unica e decisa opposizione si esercitò nei confronti dell’iniziativa di Fanfani che nel 1958 mirava a trasformare 1’ENI di
Mattei in un ente unico per l’energia: questa mossa avrebbe attribuito
alla Democrazia cristiana un controllo eccessivo dell’economia nazionale. In ogni caso grazie a imprenditori pervasi da ideali nazionalistici,
a ferventi sostenitori dello sviluppo in funzione di una società più equa,
ad ambiziosi leaders di partito, la creazione di Beneduce si consolidò e
si espanse: anche 1’ENI ne accettò la formula. Essa però fu caricata di
obiettivi troppo pesanti da sostenere per organizzazioni definite imprese economiche.
Al momento della sua massima espansione, alla metà degli anni Settanta, il sistema delle Partecipazioni statali appariva una gigantesca
conglomerata, ovvero un insieme di aziende appartenenti a settori diversi, non correlati, sia considerato nel suo insieme, sia se si osservavano le diverse super-holdings, l’IRI, l’ENI, l’EFIM, l’EGAM. Grandi gruppi di questo tipo sono una realtà del nostro tempo sia nelle economie
avanzate sia in quelle che provano a raggiungerle. Sorgono per diversi
motivi: evitare le sabbie mobili di settori saturati, non rischiare sanzioni
dalla normativa antitrust, diversificare per l’impossibilità di sfruttare le
economie di scala in mercati interni ristretti, o infine possono essere il
risultato della peculiare vicenda di un Paese, come nel caso dell’IRI per
l’Italia o degli zaibatsu per il Giappone. Dalla fine della seconda guerra
mondiale due sembrano essere le tipologie più significative di questa
forma d’impresa: la conglomerata americana e il keiretsu giapponese.
Esse si differenziano per il tipo di controllo esercitato dal vertice. Nel
caso americano il quartier generale sulla base di rapporti finanziari (il
cosiddetto management by numbers) pretende di determinare la politica
dell’intero gruppo e di riallocare le risorse fra le varie imprese. Nel
gruppo orizzontale giapponese invece, l’autonomia delle aziende è quasi totale: decidono su mercati, investimenti, orizzonti temporali. Di
fatto il quartier generale è rappresentato da incontri periodici nel corso
dei quali i capi delle maggiori imprese del gruppo si scambiano informazioni, mentre un ruolo di primo piano è svolto dalla banca
principale del keiretsu che garantendo la solidità degli assetti azionari
assicura la stabilità del management. La scelta della conglomerata di separare il vertice dai dirigenti operanti nelle aziende costituisce uno dei
punti deboli dell’economia americana, mentre il keiretsu79 rappresenta
una pietra angolare del successo giapponese.
La lezione che si può trarre è che un grande gruppo fortemente diversificato deve essere il più possibile acefalo e lasciare il più ampio spazio
all’autonomia del management delle imprese che controlla. Per evitare
serie fratture fra azienda e quartier generale quest’ultimo deve essere
quanto mai “leggero” mentre decisa è la sua posizione di garante del
management.
Era orgoglio di Beneduce aver limitato le dimensioni dell’ufficio centrale dell’IRI a quelle di un semplice appartamento al centro di Roma e
di aver operato contornandosi di un piccolo staff di collaboratori. «La
presenza dell’IRI si sentiva poco – scrive Gian Lupo Osti, assistente di
Sinigaglia e fra i massimi dirigenti della siderurgia pubblica fino agli anni Settanta, in un magnifico racconto autobiografico –. L’IRI era formata da poche persone, una cinquantina, se ricordo correttamente, tutte
molto capaci e preparate». Si diceva che Menichella, 1’uomo pin vicino
a Beneduce, per molti anni direttore generale dell’IRI, non volesse assolutamente che questa fosse coinvolta nella formulazione della strategia
delle singole imprese. Doveva semplicemente valutare con serietà le previsioni preparate dalle holdings settoriali, i loro rapporti di fine anno,
certificandone la veridicità. Menichella era assolutamente contrario a
visite di ispettori dell’IRI presso gli stabilimenti. «Non capireste nulla –
soleva dire Menichella ai suoi collaboratori – e i tecnici delle aziende vi
prenderebbero in giro»80. Infatti negli anni Cinquanta, 1’età dell’oro per
335
79
Sui kereitsu, cfr. capitolo IX, paragrafo 4.
G.L. OSTI e R. RANIERI, L’industria di Stato dall’ascesa al degrado, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 115.
80
336
L’anomalia italiana
Capitolo decimo
le Partecipazioni statali, 1’IRI era debole, forti le finanziarie di settore,
ancora più robuste le aziende che si collocavano al livello sottostante
[…]81.
svilupparsi di estese gerarchie manageriali in grado di operare efficacemente quando il comando unitario venne meno in seguito alla morte del
fondatore. Per cui passò del tempo prima che l’ente petrolifero, pur gestito da suoi fedelissimi, trovasse una nuova dimensione operativa.
La vicenda dell’ENI, che pure determinò forti innovazioni nel modo
di fare impresa nel nostro paese, va letta anche alla luce dei limiti che il
comando personalistico lì realizzato determinò nella fase della (traumatica) successione. E che richiama alle défaillances tipiche cui sono soggette le imprese familiari al momento del cambio generazionale: un bel paradosso per quello che fu, indubitabilmente, il più moderno conglomerato
produttivo del nostro paese: il che apre riflessioni qui non affrontabili, e
che tuttavia vanno segnalate come uno dei (tanti) elementi del ritardo
italiano.
Va da sé che questa ultima affermazione estremizza una (corretta) posizione operativa del management di punta dell’IRI, che ben applicava il
principio di non interferenza nell’azione concreta di chi aveva la responsabilità di applicare alla periferia del sistema le linee strategiche comunque elaborate dall’alta Direzione. Era in quell’appartamento, non proprio
piccolo, di via Veneto che venivano decisi i budget, e gli obiettivi, da assegnare alle finanziarie di settore, ed era lì che si autorizzavano le emissioni
obbligazionarie che, ben più delle linee di credito bancario, andavano ad
alimentare gli investimenti pogrammati. Ed anche se nessuno al centro si
sarebbe mai sognato di intervenire nella gestione delle singole aziende controllate dalle finanziarie, non è dubbio che – almeno per le imprese
più significative della galassia IRI – il vertice romano sapeva esercitare, e
infatti ampiamente esercitava, una moral suasion difficilmente eludibile dai
suoi destinatari. Anche perché le carriere dei singoli manager di linea dipendevano in buona parte dall’assenso di chi in via Veneto – pur con basso, bassissimo profilo – quotidianamente operava.
In buona sostanza, quindi, il vertice IRI aveva interiorizzato, e praticava, la netta distinzione tra responsabilità funzionali (le proprie), e
quelle responsabilità gerarchiche che stavano a valle, a partire dalle finanziarie controllate. Magari usando, prima del “degrado” evocato da Osti
e Ranieri nel loro bel saggio82, la classica “mano di ferro in guanto di velluto”: poi cambiò tutto, con l’irruzione dei partiti che fecero scempio di
professionalità individuali, come – ahimè – di imprese. …
Di natura completamente diverso fu il sistema di comando che Mattei
instaurò dapprima all’AGIP, e poi – fino alla sua scomparsa – all’ENI, e
che non trova riscontro in nessuna altra grande impresa. Vale a dire un
sistema tutto incentrato sulla figura capo-azienda, onnipresente fin nei
minimi dettagli operativi, tanto da far apparire l’AGIP o la SNAM, come
poi la capogruppo, più imprese di tipo imprenditoriale che manageriale.
Le deleghe cui pure Mattei ricorreva, erano sempre precarie, o comunque sub judice, riservandosi egli inevitabilmente l’ultima parola. Fu un
ele-mento di forza nel momento della crescita, che tuttavia impedì lo
81
La lunga citazione è tratta, ancora una volta, da F. AMATORI e A. COLLI, Impresa
e industria in Italia…, cit., pp. 265-269 e 281-286.
82
OSTI- RANIERI, L’industria di Stato dall’ascesa al degrado, cit.
337
338