Anatolia

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Anatolia
Tutti i diritti riservati
Copyright ©2012 Oltre edizioni
ISBN 978-88-97264-17-0
Titolo originale dell’opera:
Anatolia
di Andrea De Pascale
Collana * passato remoto
diretta da Roberto Maggi
Prima edizione dicembre 2012
http://edizioni.oltre.it
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L'autore, Andrea De Pascale, è titolare
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alle domande dei lettori.
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L'autore: Andrea De Pascale
Andrea De Pascale è archeologo, Conservatore del Museo Archeologico del Finale
(Finale Ligure Borgo - SV). Laureato in Conservazione dei Beni Culturali (indirizzo
archeologico) presso l'Università degli Studi di Genova, ha conseguito nello stesso
Ateneo un Dottorato di Ricerca in Scienze Storiche. Svolge diversi progetti di ricerca,
in Italia e in Turchia, nei quali si occupa di preistoria e protostoria, archeologia ambientale, archeologia delle cavità artificiali, storia della ricerca archeologica. Intensa
la sua partecipazione a congressi scientifici nazionali e internazionali con presentazione di relazioni, oltre allo svolgimento di conferenze, seminari e lezioni presso istituti
di cultura e scuole di ogni ordine e grado. Pone particolare attenzione alla divulgazione scientifica, curando eventi per il Festival della Scienza di Genova e realizzando
articoli per le riviste Archeo, Medioevo e Il Giornale dell'Arte. È Ispettore Onorario
del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, membro del Centro Studi Sotterranei
di Genova e della Commissione Nazionale Cavità Artificiali della Società Speleologica Italiana, rappresentante delegato dell'Istituto Internazionale di Studi Liguri presso
l'Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria. È co-curatore di 4 volumi e autore di oltre
100 articoli su monografie, atti di convegni, riviste scientifiche italiane e straniere.
Il suo blog sul sito di Oltre edizioni: http://oltreblog.com/
Note bibliografiche
Monografie
2008 - DE PASCALE A., AROBBA D. (a cura di), Il Neolitico - Le Guide del Museo Archeologico del Finale, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Finale Ligure, 152 pp.
2008 - DE PASCALE A., DEL LUCCHESE A., RAGGIO O. (a cura di), La nascita della
Paletnologia in Liguria: personaggi, scoperte e collezioni tra XIX e XX secolo, Atti del
Convegno (Finale Ligure Borgo, 22-23 settembre 2006), Bordighera-Finale Ligure, 384 pp.
2011 - AROBBA D., DE PASCALE A., MURIALDO G., Guida al Museo. Un racconto iniziato
350mila anni fa… - Le Guide del Museo Archeologico del Finale, Istituto Internazionale di
Studi Liguri, Finale Ligure, 32 pp.
2011 - BIXIO R., DE PASCALE A. (a cura di/eds), Ahlat 2007: indagini preliminari sulle
strutture rupestri / Ahlat 2007: preliminary surveys on the underground structures, BAR British Archaeological Reports - International Series 2293, Oxford, 170 pp.
In preparazione
2012 - BIXIO R., DE PASCALE A. (a cura di/eds), Ahlat 2008: seconda campagna di indagini
sulle strutture rupestri / Ahlat 2008: second campaign of surveys on the underground structures, BAR - British Archaeological Reports - International Series, Oxford.
Articoli e saggi di studio (selezione tra oltre 100 titoli)
A. DE PASCALE, 2002, “Enrico Alberto D’Albertis: come un semplice touriste diventa dilettante archeologo”, in G. DEVOTO (a cura di), “Trasparenze”, 16/2002, Edizioni San Marco
dei Giustiniani, Genova, pp. 87-94.
A. DE PASCALE, 2004, “Studio preliminare dei mazzuoli litici della miniera preistorica di
Monte Loreto. Analisi formale e classificazione”, in E. GIANNICHEDDA (a cura di), “Metodi e pratica della Cultura Materiale: produzione e consumo dei manufatti” - Atti della
Scuola Interdisciplinare delle Metodologie Archeologiche (S.I.M.A.), IISL, Bordighera,
pp. 53-58.
A. DE PASCALE, 2004, “«Hammerstones from early copper mines»: sintesi dei ritrovamenti
nell'Europa e nel Mediterraneo orientale e prime considerazioni sui mazzuoli di Monte
Loreto (IV millennio BC - Liguria)”, in Rivista di Studi Liguri, LXIX (2003), Bordighera,
pp. 5-42.
A. DE PASCALE, 2004, “I Liguri. Un antico popolo europeo tra Alpi e Mediterraneo”, in R.
C. DE MARINIS - G. SPADEA (a cura di), “I Liguri. Un antico popolo europeo tra Alpi e
Mediterraneo”, Guida breve della mostra, Skira, Milano, 48 pp.
A. DE PASCALE - R. MAGGI - C. MONTANARI - D. MORENO, 2006, “Pollen, herds, jasper
and copper mines: economic and environmental changes during the IV and III millennium
BC in Liguria (NW Italy)”, in Environmental Archaeology - The Journal of Human Palaeoecology, 11-1, pp. 115-124.
L. CORTESOGNO - A. DE PASCALE - L. GAGGERO - R. MAGGI - M. PEARCE, 2006,
“Strumenti litici per estrazione mineraria: il caso di Monte Loreto (IV millennio BC)”,
in Atti XXXIX Riunione Scientifica Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, “Materie
prime e scambi nella preistoria italiana” (Firenze, 25-27 novembre 2004), Firenze, pp. 683695.
R. MAGGI - A. DE PASCALE - M. A. GUIDO - T. MANNONI - C. MONTANARI - D. MORENO, 2006, “Per un’archeologia delle Cinque Terre”, in S. F. MUSSO - G. FRANCO (a
cura di), “Guida agli interventi di recupero dell’edilizia diffusa nel Parco Nazionale delle
Cinque Terre”, Marsilio Editori, pp. 45-59.
A. DE PASCALE, 2007, “Spunti e riflessioni per una storia delle prime ricerche paletnologiche
nel Finalese”, in Rivista di Scienze Preistoriche LVII (2007), Firenze, pp. 379-398.
R. BIXIO - A. DE PASCALE - S. SAJ - M. TRAVERSO, 2007, “Tre acquedotti sotterranei in
provincia di Genova”, in Opera Ipogea 1/2007 - Carta degli Antichi Acquedotti Italiani, pp.
85-94.
R. BIXIO - A. DE PASCALE - S. SAJ - M. TRAVERSO, 2008, “Sotto il cuore delle città.
Speleologia urbana”, in L. CAPOCACCIA ORSINI - C. IACOPOZZI (a cura di), “Acque
sotterranee delle grotte, dei ghiacciai e delle città”, Erga Edizioni, pp. 169-202.
A. DE PASCALE - M. VENTURINO GAMBARI - S. BOARO, 2009, “Giovanni Battista
Amerano e la sua collezione”, in D. GANDOLFI - M. VENTURINO GAMBARI (a cura
di), “Colligite fragmenta: aspetti e tendenze del collezionismo archeologico ottocentesco
in Piemonte”, Atti del Convegno (Tortona, 19-20 gennaio 2007), Bordighera, pp. 217-228.
A. DE PASCALE, 2009, “Enrico Alberto D’Albertis (1846-1932) e la sua collezione archeologica”, in D. GANDOLFI - M. VENTURINO GAMBARI (a cura di), “Colligite fragmenta:
aspetti e tendenze del collezionismo archeologico ottocentesco in Piemonte”, Atti del Convegno (Tortona, 19-20 gennaio 2007), Bordighera, pp. 325-330.
R. BIXIO - A. DE PASCALE, 2009, “Archeologia delle cavità artificiali: le ricerche del Centro
Studi Sotterranei di Genova in Turchia”, in Archeologia Medievale, XXXVI, pp. 129-154.
A. DE PASCALE, 2010, “Sille, Mahkemeağcin e Yeşilöz: tre aree con cavità artificiali nella
Turchia centrale”, in “Opera Ipogea”, 2/2010, pp. 27-42.
A. DE PASCALE - R. BIXIO, 2011, “Under and inside Ahlat: the KA.Y.A. (Kaya Yerleşimleri
Ahlat) Project”, in A. BAŞ - R. DURAN - O. ERAVŞAR - Ş. DURSUN (eds.), “XIV.
Ortaçağ ve Türk Dönemi Kazıları ve Sanat Tarihi Araştırmaları Sempozyumu Bildirileri
(Proceedings of the XIV. Symposium of Medieval and Turkish Period Excavations and Art
Historical Researches - 20/22 Ekim/October 2010), Selçuk Üniversitesi - Edebiyat Fakültesi - Sanat Tarihi Bölümü, Kömen Yayınları, Konya, pp. 173-190.
A. DE PASCALE, 2011, “La Preistoria e la nascita dei musei in Italia. Un intenso dialogo”, in
Forma Urbis, Anno XVI, 11, Editorial Service System, Roma, pp. 18-24.
R. BIXIO - F. BULGARELLI - A. DE PASCALE - M. TRAVERSO, 2011, “Problemi metodologici e tecniche speleologiche applicate all’archeologia: il caso del pozzo romano di Vado
Ligure (Savona)”, in Opera Ipogea”, 1-2/2011, pp. 275-282.
Introduzione di Andreas M. Steiner
Con "Anatolia. Le origini", l'autore ha tagliato un traguardo. Ed è riuscito a farlo
non soltanto cimentandosi in un'impresa nient'affatto scontata – quella di presentare
un argomento nuovo, con il quale il lettore italiano, fino ad oggi, non ha mai potuto
coltivare alcuna consuetudine – ma anche, e soprattutto, perché ha scritto un libro. Mi
spiego meglio: le pagine che seguono sintetizzano, grazie alla raccolta e all'esposizione di una mole impressionante di dati, le conoscenze su un territorio chiave per la preistoria e protostoria del Vicino Oriente antico e, come si vedrà, dell'umanità in genere;
sono il risultato di letture, di ricerche, di colloqui con i protagonisti delle scoperte, di
numerosi viaggi e di sopralluoghi compiuti nel paese e nei diversi siti archeologici.
Più di quanto basterebbe, dunque, per assolvere al compito di redigere un ottimo testo
scientifico, di cui, in verità, si avvertiva da tempo la necessità (unica altra fonte di
consultazione agile cui possono ricorrere gli stessi studiosi – e il pubblico interessato
– è, in lingua inglese, l'Oxford Handbook of Ancient Anatolia, pubblicato nel 2011).
La vera intenzione dell'autore – ne siamo più che convinti – non era però solo di
scrivere un erudito handbook di preistoria, ma di affrontare il "racconto", o meglio "i
racconti", di un epoca che, paradossalmente, per sua stessa definizione rifugge dalla
possibilità di essere "narrata". È proprio la costante attenzione dell'autore verso la
componente narrativa che fa di "Anatolia. Le origini" non solo un ottimo manuale –
e, nella seconda parte del volume in cui sono elencati tutti i siti e i musei preistorici
della Turchia, una vera e propria guida del territorio – ma, principalmente, un libro da
leggere come un romanzo, dalla prima all'ultima pagina.
Mi piace pensare che alla riuscita del volume abbia contribuito, anche solo in minima
parte, la frequentazione ormai pluriennale dell'autore con le pagine della nostra rivista
"Archeo". Sono invece certo che la motivazione principale a compiere l'impresa sia da
ricercare proprio là, in quella terra non troppo lontana, in quel ponte tra Europa e Asia
che è, oggi, la moderna Turchia, e nelle sue straordinarie rivelazioni archeologiche: ai
"messaggi criptati" del celebre insediamento neolitico di Çatal Höyük – pietra miliare
dell'archeologia preistorica e vera "scoperta del secolo" scorso (nel luglio di quest'anno il sito è stato inserito nella lista del Patrimonio dell'Umanità dell'UNESCO) – si
sono aggiunte, in anni recentissimi, le immagini scolpite sui pilastri monolitici del
complesso di Göbekli Tepe.
Un primo bilancio delle esplorazioni dei monumenti nei pressi di Şanliurfa, in Turchia sud-orientale, è stato presentato in un volume di questa collana (Klaus Schmidt,
Costruirono i primi templi, Oltre Edizioni, 2011). Databili al X millennio a.C., si
tratta, come ricorda Andrea De Pascale – dei "più antichi esempi di architettura religiosa conosciuti finora" e che "dal punto di vista dell'organizzazione sociale e della
complessità tecnologica che sono state alla base per la loro realizzazione" possiamo
confrontare solo "con edifici assai più 'moderni' di alcune migliaia di anni, come la
celebre Stonehenge". Il significato dirompente delle scoperte di Göbekli Tepe – come
sostiene Roberto Maggi nella premessa al volume appena citato – "va ben oltre i
confini disciplinari dell'archeologia". E per avvicinarsi alla comprensione di questo
luogo "speciale" – e del suo ruolo potenzialmente rivelatore per la ricostruzione di
quel momento epocale rappresentato dalla cosiddetta "rivoluzione neolitica" – i lettori
italiani dispongono oggi, con il presente volume, della migliore delle guide possibili.
Andreas M. Steiner
Direttore di Archeo – Attualità del Passato
Nota linguistica
Nella stesura del libro si è cercato di riportare con attenzione i nomi dei luoghi secondo l’ortografia della lingua turca. Per facilitare la comunicazione con i madrelingua
turchi, qualora il lettore si trovasse a chiedere loro informazioni su una località, si
riportano di seguito alcune indicazioni necessarie a pronunciare correttamente i nomi.
Nel Turco moderno, nato dalla riforma linguistica avviata nel 1928 su impulso del
partito nazionalista e del padre fondatore della Repubblica di Turchia Mustafa Kemal
Atatürk, sono impiegati i caratteri dell’alfabeto latino in sostituzione di quelli arabi
precedentemente adottati. Le parole turche non hanno un vero e proprio accento, ma
generalmente l’ultima sillaba viene letta accentata.
L’alfabeto turco è composto da 29 lettere e a ciascuna corrisponde un suono preciso.
Di queste 8 sono vocali (a, e, i, ı, o, ö, u, ü).
Le lettere che hanno piena corrispondenza in italiano e in turco, ossia che si pronunciano allo stesso modo, sono: a, b, d, e, f, i, l, m, n, o, p, r, t, u, v.
Le lettere c, g, h, s, z, pur esistenti in italiano, non hanno la nostra stessa pronuncia
mentre le lettere ç, ğ, ı, j, k, ş, y, ö, ü, non esistenti in italiano, hanno ovviamente pronuncia propria, ottenibile secondo gli esempi seguenti:
c = si pronuncia sempre come la “g” palatale italiana, ossia come “ge”, “gi”; esempio:
cam (vetro) si dice giàm.
ç = ha il suono della “c” palatale italiana, ossia “ce”, “ci”, “cia”, “cio”, “ciu”; esempio: çok (molto) si dice cioc.
g = ha il suono della “g” gutturale italiana, ossia duro come quello di “gh”; esempio:
gece (notte) si dice ghegè.
ğ con accento circonflesso rovesciato = non si pronuncia, ma prolunga il suono della
vocale che la precede; esempio: çağ (epoca) si dice ciaa.
h = ha un suono aspirato.
ı = non ha un suono corrispondente in italiano. Il suono è una sorta di “uh” gutturale,
prodotto tenendo la lingua piatta nella parte posteriore della bocca. È simile al suono
che si crea se si prova a leggere la parola italiana “frate” staccando la “f “dalla “r”: f
(ı) rate.
j = corrisponde alla “j” francese di jeune, simile alla seconda “g” di garage.
k = ha il suono della “c” gutturale italiana, ossia duro come in “ca”, “co”, “cu”, “chi”,
“che”; esempio: kedi (gatto) si pronuncia chedì.
ö = è simile al “eu” del francese o alla “ö” tedesca; esempio: göz (occhio) si dice geuz.
s = corrisponde sempre in italiano alla “s” dura, ad esempio di sabbia e se al centro
della parola va calcata prolungandone leggermente il suono.
ş = si pronuncia “sc” o “scia”, “sce”, “scio”, “sciu” a seconda della vocale che segue;
esempio: iş (lavoro) si dice isc.
ü = è simile alla “u” francese o alla “ü” tedesca.
y = si pronuncia come la “i” di iella.
z = corrisponde sempre al suono della “s” dolce in italiano, ossia a quella di roseto.
In base a quanto sopra descritto, quali ulteriori esempi si riportano alcuni nomi di siti
archeologici con la relativa pronuncia:
Can Hasan = gianhassàn
Çatalhöyük = ciatalheuiùk
Kaletepe = caletepè
Körtik Tepe = keurtik tepè
Köşk Höyük = keusck heuiùk
Yeşilova Höyük = iescilova heuiùk
Linee temporali
Premessa
Ultima regione europea e prima terra asiatica. Estrema propaggine dell'Asia e ingresso
all'Europa. Da qualsiasi parte la si guardi, da qualunque parte vi si giunga lasciandosi
alle spalle un mondo per dirigersi verso un'altro, quella che oggi chiamiamo Turchia
è sempre stato un luogo con una propria dimensione, seppure sospeso tra Oriente e
Occidente, con contraddizioni dalla grande forza ammaliatrice, cui è difficile sottrarsi.
Viaggiatori e condottieri di ogni epoca non seppero resistere. Le verdeggianti coste
del Mar Nero contrastano di certo con gli altopiani semidesertici e innevati per molti
mesi all'anno dell'est, la frastagliata costa mediterranea si oppone alle forme morbide
e curiose dell'area centrale. Pur nelle sue differenze, ognuno di quei luoghi ha ininterrottamente rappresentato per l'Uomo un territorio abbondante di ricchezze. Non
mancano, del resto, risorse minerali, vegetali e animali, in quel susseguirsi di paesaggi e ambienti diversi, ma sempre prolifici. Se a quello che la natura ha fatto da sé,
uniamo quanto l'Uomo ha aggiunto e plasmato dall'incontro e dal dialogo con queste
terre, emerge con potenza una delle caratteristiche fondamentali dell'odierna Turchia.
Risorse culturali, che si sono ben presto iniziate a stratificare nella lunga storia umana
e che ancora oggi, proprio come continuano a fare i suoi panorami, affascinano l'Uomo, incuriosiscono il viaggiatore e stimolano lo studioso a porsi nuove domande e a
ricercare le opportune risposte.
La Turchia, quella che gli antichi chiamavano "Asia" o "Asia minor" e che dal X
secolo d.C. divenne l'"Anatolia", il paese dove sorge il sole, se è vero che per la sua
posizione tra due continenti è stata sempre una via di passaggio, un ponte tra culture,
popoli e religioni, non è vero che sia stata solo un corridoio. Qui, fin dalla Preistoria
— come vedremo — si sono sviluppate molte di quelle "innovazioni" della società
che, diffondendosi a macchia d'olio verso terre lontane, hanno cambiato il corso della
storia e plasmato il destino di un'infinità di persone.
Queste pagine potrebbero condurre verso i fasti della corte ottomana e le sue abitudini, con quel misterioso fascino che hanno sempre avuto, soprattutto sugli occidentali,
o spingersi precedentemente alle roboanti battaglie e conquiste da parte dei nomadi
dell'Asia centrale, al seguito di Tamerlano o degli eserciti devastatori di Gengis Khan,
che pur nell'imprevedibile e altrettanto rapida scorreria attraverso montagne e pianure
dell'Anatolia, prima di tornare nelle steppe da cui si erano mossi, lasciarono sprazzi
della loro millenaria cultura, della loro lingua e dei loro colori che ancora oggi emergono girovagando per la Turchia.
Le parole che compongono questo libro potrebbero soffermarsi su singoli personaggi
e sui loro insegnamenti, le loro eredità culturali e spirituali, come quella del mistico
persiano Jalāl ad-Dīn Muhammad Rūmī, noto come Mevlana, il cui azzurro intenso
delle ceramiche che rivestono il suo mausoleo a Konya è divenuto un simbolo della
tolleranza da lui predicata.
Continuando a scendere nel tempo, potremmo arrivare a ripercorrere le gesta dei Selgiuchidi, che nel 1071 invasero la penisola anatolica entrando dal Lago di Van, donan-
do ai posteri alcuni dei più eccezionali esempi di architettura sacra, come le tombe di
Ahlat, e civile, quale l'ospitale di Divriği a est di Sivas, aprendo queste terre all'Islam e
spazzando via quell'ormai già decaduto Impero bizantino, che tanti fasti e monumenti
di incommensurabile bellezza e arditezza aveva saputo produrre. Dall'immensa cupola di Aya Sofia ai mosaici di San Salvatore in Chora, alle pitture rupestri delle chiese
della Cappadocia immerse in un paesaggio da fiaba, tra rifugi di eremiti e monaci,
villaggi e città sotterranee ancora da scoprire nella loro interezza.
O ci si potrebbe spingere nelle propaggini orientali per riscoprire i capolavori lasciati
dalla cultura armena e dal suo inscindibile legame alla cristianità, con le eccezionali
testimonianze della chiesa sull'isola di Akdamar realizzata nel X secolo durante il
regno di Gagik Ardzrouni, o la città di Ani, nei pressi di Kars, con le sue rovine.
E ancora, perdersi tra le innumerevoli testimonianze delle due grandi civiltà classiche
del Mediterraneo, che proprio qui hanno affidato alla storia alcune delle maggiori prove della loro capacità ingegneristica, della maestria tecnica e di quel modello estetico
che ancora ci pervade così a fondo: Efeso, Didyma, Mileto e Pergamo, Sardi, Hierapolis e Afrodisia, Perge, Side e Zeugma. Molte di queste città si trovano in quelle stesse
regioni, o lungo quelle stesse coste, che videro l'eccezionale realizzazione di sepolcreti monumentali nell'antica Frigia (Midas şehri — Eskişehir, Ayazini — Afyonkarahisar e Kütahya in Anatolia occidentale) risalenti all'VIII secolo a.C. e in Licia (Kaunos
— Dalyan, Myra, Termessos e Tlos — Antalya, in Anatolia sud-occidentale), a partire
almeno dal V secolo a.C.
Un ulteriore passo indietro ci condurrebbe tra le tante e complesse società che, a cavallo tra la storia e la preistoria, furono responsabili di alcune delle fondamentali innovazioni tecnologiche e culturali a cui tutte le civiltà che seguirono furono debitrici. Il
perfezionamento della metallurgia, l'organizzazione statale, l'ordinamento della scrittura: Urartu e Ittiti, con le loro città, le loro mura e fortezze, sepolture e documenti.
Le pagine che seguono, però, non vogliono accompagnare alla scoperta di tutto questo.
Molti altri autori, dall'antichità ad oggi, hanno con le loro parole saputo rendere omaggio a quell'immenso patrimonio culturale, visitato ogni anno da milioni di persone
in costante aumento, e riconosciuto dall'Unesco nella lista del Patrimonio Mondiale
dell'Umanità attraverso undici luoghi simbolo. I beni archeologici e storici presenti
nella lista Unesco sono le aree storiche di Istanbul, le tradizionali case turche in legno
di Safranbolu, Hattuša la capitale degli Ittiti, le chiese rupestri di Göreme e i siti rupestri della Cappadocia, la grande moschea e l'ospedale di Divriği, il monte Nemrut
con il tumulo funerario di re Antioco I di Commagene. Ed ancora, Xanthos capitale
della Licia tra il 700 ed il 300 a.C. e Letoon uno dei centri religiosi più importanti
dell'antichità, le formazioni calcaree di Pamukkale e le rovine ellenistico-romane di
Hierapolis, l'antica città di Troia nota per la guerra descritta da Omero nella sua Iliade,
la Moschea di Selimiye a Edirne, uno dei più straordinari esempi di architettura ottomana realizzati dal grande Mimar Sinan fra il 1568 ed il 1574. Nel luglio 2012 anche
Çatalhöyük, la "più antica città del mondo", risalente al Neolitico, è entrata nella lista
Unesco.
Altri trentasette testimoni del passato e delle culture che hanno abitato queste terre
sono stati individuati e rimangono in attesa di nomina da parte dell'Unesco. Tra i siti
candidati si trovano proprio alcuni di quei luoghi che hanno conservato eccezionali
testimonianze della storia umana più antica, delle quali questo libro vuole essere una
chiave di scoperta. L'Anatolia, oltre alle celebri e irripetibili dimostrazioni culturali
delle epoche più vicine a noi, precedentemente evocate come in un rapido volo, è stata
la culla, fin dalla più remota preistoria, a partire da almeno 1 milione di anni fa, di tappe fondamentali del nostro passato. Ci muoveremo, così, nelle pagine di questo libro,
tra la Grotta Karain e Göbekli Tepe, due dei trentasette siti prossimi ad aggiungersi al
Patrimonio Mondiale dell'Umanità, oltre che fra tanti altri, ancora meno noti al grande
pubblico e, purtroppo, alle volte anche agli studiosi.
Questo volume si pone l'ambizioso obiettivo di illustrare, per la prima volta in italiano
e dopo pochi casi a livello mondiale (i recenti Ancient Turkey di Antonio Sagona e
Paul Zimansky del 2009 e The Prehistory of Asia Minor: from complex hunter-gatherers to early urban societies di Bleda S. Düring del 2010, preceduti nel 1996 da Early
Turkey. Anatolian Archaeology from Prehistory through the Lydian Period di Martha
Sharp Joukowsky), la Preistoria dell'odierna Turchia.
I volumi sopra citati hanno una classica impostazione da manuale universitario e i
curatori hanno a volte attuato scelte particolari, come nel caso dell'opera di Düring
che offre un'analisi archeologica dell'Asia Minore, limitandola però al periodo compreso tra 20mila e 2mila anni fa ed escludendo completamente le regioni orientale e
sud-orientale, fondamentali — come vedremo — per la preistoria anatolica. Il pionieristico lavoro della Sharp Joukowsky risente, invece, ormai degli innumerevoli e
fondamentali passi in avanti che la ricerca preistorica ha compiuto in Turchia proprio
dopo il 1996.
Queste pagine — pur nella rigorosità dei dati scientifici basati sulla più ampia e aggiornata bibliografia disponibile — sono state pensate come un racconto e una vera
e propria guida per condurre l'appassionato di archeologia, il viaggiatore curioso, ma
pure lo studente universitario o l'archeologo professionista, alla scoperta della lunga
e complessa preistoria dell'intera Anatolia, dove sarà naturalmente compresa anche la
piccola parte europea storicamente nota come Tracia.
Il libro è organizzato in tre parti e desidera fornire sia un'introduzione generale agli
aspetti storico-culturali, sia una presentazione dei singoli siti e musei archeologici che
conservano tali testimonianze.
La prima parte vuole dare un inquadramento geografico, climatico e paleoambientale
dei territori presi in esame, per poi ripercorrere in ordine cronologico — a partire
dalle più antiche dimostrazioni del Paleolitico inferiore (1 milione di anni fa circa)
fino alla conclusione del Neolitico — inizi del Calcolitico (5500 a.C. circa), periodo
precedente il sorgere delle grandi civiltà — lo stato delle conoscenze sulla preistoria
dell'Anatolia.
La seconda parte è strutturata come una proposta di visita tematica all'odierna Turchia.
Dopo aver raccolto il quadro più esauriente possibile dei luoghi d'interesse preistorico, attraverso la prima parte del libro, qui saranno presentate le aree archeologiche
attrezzate alla visita e quei musei che raccolgono le testimonianze dei luoghi precedentemente illustrati. Siti archeologici e musei saranno raggruppati non in ordine
cronologico, ma in diversi itinerari suddivisi per regioni o macro-regioni, in alcuni
casi realmente percorribili in una giornata.
La terza parte del libro è, infine, pensata come un dizionario archeologico trilingue
(italiano/turco/inglese). Considerato che molti musei e siti archeologici presentano
solo pannelli e didascalie in lingua turca, questa sezione del libro vuole offrire al lettore/viaggiatore un utile strumento che lo aiuti nella comprensione durante la visita.
Inoltre, non esistendo ad oggi un dizionario archeologico italiano/turco (mentre ne
esistono un paio turco/tedesco/inglese e uno turco/francese), questa appendice del
volume desidera essere particolarmente utile a tutti quegli studenti universitari e professionisti italiani che hanno deciso di dedicare alla preistoria dell'odierna Turchia la
loro attenzione e passione.
I. Tra terra, acqua e fuoco: origine e caratteristiche dell'Anatolia
Una terra di montagne
Con i suoi quasi 800mila chilometri quadrati, in gran parte circondati dal mare con più
di 8mila chilometri di coste, la Turchia è prevalentemente un territorio di imponenti
montagne (dağ) e vasti altipiani (yayla). Il superbo paesaggio anatolico riflette notevoli diverse caratteristiche, da zona a zona, che hanno portato ad individuare — geograficamente parlando — sette differenti regioni (bölge) (fig. 1 e fig. 2): da est a ovest,
l'Anatolia orientale (Doğu Anadolu Bölgesi), l'Anatolia sud-orientale (Güneydoğu
Anadolu Bölgesi), la regione del Mar Nero (Karadeniz Bölgesi), l'Anatolia centrale
(İç Anadolu Bölgesi), la regione mediterranea (Akdeniz Bölgesi), l'Anatolia centrooccidentale o egea (Ege Bölgesi) e la regione di Marmara (Marmara Bölgesi). La
loro conoscenza è assai utile alla comprensione della preistoria anatolica, in quanto
considerare le varie qualità fisiche e bioclimatiche di questa terra, permette di meglio
abbracciare le interazioni che si svilupparono tra territori, culture e società nel corso
del tempo.
Da un punto di vista geologico la Turchia è sempre stata influenzata dai movimenti
tettonici di alcune delle placche che compongono la crosta terrestre, responsabili della
significativa attività sismica di questa area e connessi anche ai numerosi fenomeni
vulcanici che hanno plasmato gran parte del territorio. Le grandi catene montuose che
dominano la Turchia e caratterizzano i suoi paesaggi trovano la loro origine proprio
negli spostamenti delle placche africana e arabica, che premendo su quella anatolica,
egea ed euroasiatica, hanno in milioni di anni — e continuano a farlo — modellato
questi luoghi. La placca arabica si sposta verso quella euroasiatica spingendosi a nord
e andando così contemporaneamente a premere verso ovest sulla placca anatolica, che
a sua volta incontra in corrispondenza del mar Egeo la placca africana che la spinge
proprio al di sotto del mare.
Le principali catene montuose oggi all'interno dei confini della Turchia sono (fig. 3):
i monti Pontici (Doğu Karadeniz Dağları) anche detti la Catena del Mar Nero (Karadeniz Sıradağları) e il Tauro (Toros Dağları) o Catena del Tauro (Toros Sıradağları),
di cui fa parte anche l'Anti-Tauro o Tauro Orientale (Aladağlar o Aladağ). Il monte
Ararat (Ağrı Dağı) è il più alto monte della Turchia con i suoi 5165 metri di quota, al
confine orientale con l'Armenia, ma numerose sono le altre alte vette, sia a nord tra i
monti Pontici, con i 3937 metri del Kaçkar Dağı, sia nella regione meridionale dove
troviamo il Demirkazik nell'Aladağ che raggiunge i 3756 metri. Ma allargando lo
sguardo al di là dei moderni confini nazionali, per meglio comprendere le caratteristiche di questa vasta area e di come esse poterono influire sulla storia umana, non si
possono non considerare a nord-est la Catena del Caucaso — che si allunga per oltre
1000 km tra il mar Nero e il mar Caspio e che forma gli aspri e incredibili paesaggi
tra la Russia meridionale, la Georgia, l'Armenia e l'Azerbaigian, con la sorprendente
cima del monte Elbrus (5642 m) e numerose altre vette al di sopra dei 5000 metri — e
a sud-est i monti Zagros che, al limite tra Iraq e Iran, scendono fino al Golfo Persico.
In Anatolia, le diverse placche della crosta terrestre si incontrano prevalentemente
attraverso movimenti di scorrimento laterale, dando origine alle cosiddette faglie. Le
linee di faglia est-ovest hanno determinato passaggi e zone di transito fondamentali
che hanno favorito, fin dalla preistoria, le vie di comunicazione. Anche numerosi passaggi orientati nord-sud, che si aprono tra le montagne e gli altopiani centrali, sono
connessi alla presenza di altre ampie faglie perpendicolari alle prime.
Una terra di fuoco e acqua
I movimenti tettonici, come accennato, sono pure la causa dell'intensa attività vulcanica che ha donato all'Anatolia luoghi di indescrivibile bellezza e suggestione, come
la Cappadocia, con le sue curiose formazioni tufacee, o l'enorme cratere del Nemrut
Dağ nei pressi di Tatvan (Lago Van) con la sua caldera di 8 chilometri di diametro che
oggi cela un lago a 3000 metri di quota, da non confondere con l'omonima montagna
nella provincia di Adıyaman, che invece conserva il tumulo funerario di re Antioco
I di Commagene vegliato da colossali statue in pietra. I vulcani e il loro dinamismo
hanno, inoltre, permesso la formazione di numerosi affioramenti minerali metallici,
che rendono la Turchia una delle più ricche aree del Medio Oriente per tali risorse:
rame, piombo, ferro, argento, oro.
Pure l'ossidiana, un vetro naturale la cui formazione è dovuta al rapido raffreddamento
delle lave, è per l'uomo uno di quei positivi prodotti del vulcanismo, ampiamente presente nella Turchia centrale e orientale, che venne sfruttato fin dalla prima preistoria.
È risaputo, però, che senza acqua non vi può essere vita, e nonostante le grandi capacità di adattamento ai climi più estremi, sviluppate dal genere umano nella sua
lunga evoluzione, anche l'uomo non è indifferente a tale elemento della natura. Si
può sopravvivere senza acqua, ma non vivere costantemente. E l'acqua, tranne che in
rarissimi casi, anche quando parrebbe non esserci, in realtà non manca e non è mancata in queste terre. Il Kızılırmak, il "fiume rosso", l'antico Halys, è il più lungo fiume
della Turchia con i suoi oltre milletrecento chilometri che dal confine tra l'altopiano
anatolico orientale e quello centrale lo portano a scorrere nel cuore del Paese, fino a
poi sfociare nel Mar Nero. Oltre alla presenza di altri grandi fiumi, quali Tigri (Dilce), Eufrate (Fırat), Kura e Araxes (Aras), è l'elevata quantità di neve che durante gli
inverni copre montagne e altipiani centrali e orientali a garantire la vita, attraverso lo
scioglimento primaverile e l'alimentazione delle sorgenti.
Oggi, il clima della Turchia racchiude diverse situazioni tra estremi opposti. Dalle
coste piuttosto umide occidentali, che non conoscono praticamente mai fenomeni di
gelo, alle montagne e agli altipiani orientali, con il freddo pungente e la neve che li
ricopre per molti mesi all'anno, dalle abbondanti precipitazioni (2500 mm annuali) del
Mar Nero, alle aree semi-aride degli altipiani centrali. Tutti questi differenti habitat
sono alla base della grande varietà biologica che contraddistingue l'Anatolia, vero
spartiacque tra Europa e Asia da questo punto di vista. La ricchezza faunistica, così
come quella botanica che oggi registra oltre 11mila specie diverse di piante, è una ricchezza fondamentale di queste terre, e lo è stata anche nel passato, pur con profonde
differenze.
Un mosaico di paesaggi
Se rivolgiamo l'attenzione alla copertura vegetale non si può non notare come, attualmente, gran parte delle regioni siano deforestate. Nonostante ciò, circa il 70% del
territorio mantiene una potenzialità di sviluppare e conservare una copertura forestale. Se andiamo a considerare gli studi paleoecologici e archeobotanici compiuti in
diverse aree del paese, soprattutto attraverso trivellazioni in alcune delle zone umide
che ancora si conservano, non si può non notare come in tutta la Turchia il paesaggio, la copertura vegetale, siano stati influenzati dall'uomo nel corso del tempo. Tali
trivellazioni hanno permesso di estrarre lunghe sequenze di sedimenti che sono state
sottoposte a diverse analisi, in particolare allo studio del polline, attraverso il quale è
possibile ricostruire la copertura vegetale del passato e, indirettamente, ricavare informazioni più ampie sul clima. Considerato che in Anatolia, e in generale nel Mediterraneo orientale, la sopravvivenza della vegetazione è strettamente legata a un ciclo di
piogge d'inverno e ad una siccità estiva, nell'interpretare i diagrammi pollinici bisogna
tenere conto delle differenze di necessità di precipitazioni delle quali abbisognano i
diversi tipi di piante. In genere gli alberi ne richiedono una quantità maggiore rispetto
agli arbusti e alle erbe, per cui periodi in cui un tipo di vegetazione prevale sull'altro
sono indirettamente indicatori della presenza più o meno accentuata di disponibilità
idrica e siccità.
Attualmente per la Turchia sono disponibili tredici sequenze polliniche che documentano la storia della vegetazione da periodi di poco precedenti l'inizio dell'Olocene,
ossia dell'epoca geologica più recente, nella quale ci troviamo oggi, che ha avuto
convenzionalmente principio 11700 anni fa circa. Esse sono state ricavate da prelievi compiuti in laghi e zone umide (piccoli acquitrini, paludi e torbiere) di diverse
aree dell'Anatolia: nella parte settentrionale, nella regione del Mar Nero, dall'Abant
Gölü, dall'Yeniçağa Gölü, dal Kaz Gölü, dal Tatlı Gölü e dal Ladik Gölü, oltre che
dall'Yenişehir Gölü nella regione di Marmara, nella Regione dei Laghi (Göller Bölgesi), posta nel centro-ovest della Turchia, i campionamenti provengono dal Gölhisar
Gölü, dal Sögüt Gölü, dal Beyşehir Gölü e dalla palude di Karamik, nella provincia
di Afyonkarahisar, mentre per l'Anatolia centro meridionale e orientale sono di riferimento le sequenze ottenute dal Akgöl Adabağ, dall'Eski Acıgöl e dal Van Gölü (fig. 4).
Per avere un contesto più completo di riferimento è però utile guardare anche agli altri
numerosi dati a disposizione, provenienti da trivellazioni e studi sui granuli pollinici
compiuti nelle regioni limitrofe, in particolare Siria, l'area del Caucaso e l'Iran, con il
fondamentale studio sui sedimenti dal Lago Zeribar.
Le informazioni ricavate dagli studi compiuti sui campioni prelevati proprio da questo lago e da quello di Van (Van Gölü), nell'est della Turchia, mostrano una graduale sostituzione a partire da circa 10500 anni fa di una vegetazione prevalentemente
caratterizzata da Artemisia e Chenopodiacee, famiglia di piante erbacee, fruticose e
arbustive tipiche dei paesaggi della steppa fredda, con boschi composti soprattutto da
quercia e pistacchio, che raggiunsero la loro massima estensione circa 6000 anni fa. In
alcune aree, per esempio nel Tauro occidentale, nello stesso periodo oltre alla quercia
erano presenti pini, cedri e ginepri, con i primi che divennero la specie più diffusa. In
ogni caso, il passaggio da un ambiente aperto, cioè la steppa, ad uno più chiuso caratterizzato da boschi, al di là di alcune differenze nelle specie presenti, appare chiaro in
tutte le sequenze polliniche disponibili per l'Anatolia.
Il ruolo dell'uomo
Se, al momento, il ruolo nei cambiamenti della copertura vegetale dovuto alle attività umane non si mostra ancora con certezza per il Neolitico (11mila - 8mila anni fa
circa) o per il Calcolitico (8mila - 6mila anni fa circa), ben documentato, invece, lo è
per il periodo immediatamente successivo a quello usato come limite cronologico per
questo libro. Nella tarda età del Bronzo e nell'età del Ferro (3500-2000 anni fa circa),
definita per la regione occidentale "fase dell'occupazione di Beyşehir", una vera e
propria testimonianza dell'uso del suolo da parte delle comunità umane è leggibile nei
diagrammi pollinici, dove risulta evidente come la copertura forestale sia stata ridotta
tramite la realizzazione di coltivazioni con il sistema del debbio o "taglia e brucia".
Tale fenomeno fu il responsabile della scomparsa della foresta di querce nell'Anatolia
del sud e dell'ovest, ed è interessante notare come nello stesso arco cronologico aumentarono, invece, diverse specie coltivate quali l'olivo, il noce, la vite e la canapa, e
come tale cambiamento permise al più resistente pino di affermarsi ovunque su terreni
già erosi.
In singoli casi, però, come nella sequenza pollinica ricavata dall'ormai prosciugato
lago salmastro di origine vulcanica di Eski Acıgöl, nei pressi di Nevşehir nell'Anatolia
centro meridionale, è stato notato come qui, circa 9600 anni fa, vi fu un aumento delle
piante xerofile, vegetali adattati a vivere in ambienti caratterizzati da lunghi periodi di
siccità o da clima arido-desertico, a scapito della steppa erbosa. Questo fenomeno è
stato interpretato come una possibile prova di pratiche di allevamento, che avrebbero
influenzato la vegetazione erbacea eccessivamente sfruttata dal bestiame, portando ad
un inaridimento della zona. Inoltre, gli stessi campionamenti mostrano come dopo gli
8mila anni fa circa i cereali aumentarono notevolmente, il che suggerisce un diffondersi dell'agricoltura negli altipiani di questa regione.
Per i periodi più antichi, ossia il Pleistocene, periodo geologico che racchiude le diverse fasi del Paleolitico, le ricerche fino ad oggi condotte provano situazioni ancora
più differenziate, nelle quali, però, più che la componente umana fu quella naturale
a produrre profondi cambiamenti nel paesaggio e di conseguenza nella flora e nella
fauna presenti, attraverso l'alternarsi dei fenomeni glaciali con quelli interglaciali. Di
questi, però, parleremo più diffusamente nelle prossime pagine.
II. primi abitanti: il Paleolitico (1milione - 13mila anni fa)
1. Limiti e potenzialità
Il Paleolitico dell'Anatolia è un tema ancora piuttosto oscuro e ampiamente inesplorato, a causa dell'esiguo numero di siti indagati sistematicamente e dei progetti di
ricerca specificatamente dedicati.
Uno dei motivi della scarsa conoscenza su tale lungo e fondamentale periodo della
storia umana è dovuto alle labili tracce che i siti delle prime fasi paleolitiche conservano, oltre al fatto che esse sono quasi sempre coperte da spesse coltri di sedimenti accumulatisi in epoche più recenti. Un altro motivo è lo scarso interesse rivolto a questo
periodo in un paese, quale è la Turchia, che ha un patrimonio archeologico e storico
vastissimo e con eccellenze tali da "rubare la scena" alle meno eclatanti — certamente
da un punto di vista estetico, ma non di sicuro per la loro importanza — testimonianze
risalenti al Paleolitico.
Il Progetto TAY (Türkiye Arkeolojik Yerleşmeleri - Archaeological Settlements of
Turkey), avviato da un gruppo di archeologi turchi nel 1993 come un'organizzazione
indipendente, senza affiliazione istituzionale, allo scopo di costruire un inventario
cronologico dei siti archeologici della Turchia da condividere con la comunità internazionale, ha ad oggi prodotto una lista con 452 località nelle quali sono stati ritrovati
manufatti paleolitici. I dati raccolti dal Progetto TAY suggeriscono l'enorme potenzialità per il proseguo degli studi sul Paleolitico dell'Anatolia. Del resto, per la sua
posizione geografica, la penisola anatolica ha certamente avuto un ruolo cruciale nei
processi di ominazione, in particolare riguardo l'emigrazione dall'Africa attraverso il
Vicino Oriente e fino all'Europa di Homo ergaster - Homo erectus prima e di Homo
sapiens poi.
È probabile che proprio la parte orientale dell'Anatolia fu una via di transito per la
prima colonizzazione del continente euroasiatico da parte del genere Homo, come
suggerito dai resti di Dmanisi, nella Georgia meridionale, che provano tra 1,8 e 1,7
milioni di anni fa la presenza umana al di fuori dell'Africa, dove ebbero origine diverse specie.
Il Paleolitico è generalmente suddiviso in tre distinte fasi (Paleolitico inferiore, Paleolitico medio, Paleolitico superiore) durante le quali furono protagonisti altrettanti
differenti tipi umani, ed è seguito da un periodo che per l'Anatolia e il Vicino Oriente
viene chiamato Epipaleolitico.
Per l'area di nostro interesse, in base alle più recenti datazioni disponibili, il Paleolitico inferiore è attestato almeno da 1 milione di anni fa e prosegue fino a 250mila anni
fa circa, caratterizzato dalla presenza di Homo erectus, il Paleolitico medio si sviluppa
tra 250mila e 47mila anni fa circa, contraddistinto dall'Uomo di Neandertal (Homo
neanderthalensis), il Paleolitico superiore si colloca tra 47mila e 20mila anni fa con
le testimonianze lasciate dalla nostra specie, Homo sapiens. Le fasi finali del Paleolitico superiore, tra 26mila e 20mila anni fa sono piuttosto lacunose, mal documentate,
mentre il periodo da 20mila anni fa circa, in corrispondenza del punto culminante
della più recente età glaciale, fino a 10mila anni fa, è nuovamente ben documentato e
viene identificato con il termine Epipaleolitico. In questo capitolo considereremo solo
i primi momenti dell'Epipaleolitico (20mila - 13mila anni fa), in quanto questo periodo, pur essendo caratterizzato da elementi che lo diversificano dall'epoca precedente,
ha nel suo insieme caratteristiche di continuità, mentre ai profondi cambiamenti che
contraddistinguono le ultimissime fasi (13mila - 10mila anni fa circa), sarà dato ampio spazio nel capitolo successivo.
Nel suo insieme il Paleolitico è documentato in Anatolia sia all'interno di diverse
caverne e ripari sotto roccia, sia in siti all'aperto che, seppur più numerosi, non consentono però di compiere precise attribuzioni cronologiche come nel caso delle sequenze stratigrafiche conservatesi nelle grotte (fig. 5). Possiamo ricordare la Grotta
Yarımburgaz, 20 km a ovest di Istanbul, il complesso di cavità nell'area di Antalya
(Öküzini, Karain, Beldibi e Belbaşı), il sito all'aperto di Kaletepe Deresi 3 nel pressi di
Niğde in Cappadocia, la Grotta Kadiini ad Alanya, le caverne Üçağızlı, Tikali, Merdivenli, Kanal e la Incili Mağara o Büyük Mağara a Samandağ nella provincia di Hatay,
la grotta Kapalıin nei pressi di Isparta nella Regione dei Laghi (Göller Bölgesi).
Questo lungo periodo della storia umana fu caratterizzato, oltre che dall'accennato
alternarsi di diverse specie umane, anche da profondi cambiamenti climatici, in un
avvicendarsi di periodi più freddi (età glaciali) intervallati da fasi più temperate (interglaciali), come quella nella quale stiamo vivendo. Non è possibile, pertanto, delineare
una visione d'insieme di come doveva presentarsi l'Anatolia da un punto di vista ambientale nel Paleolitico, né tanto meno lo si può fare circoscrivendo l'attenzione alle
sue singole fasi (inferiore, medio e superiore), in quanto periodi glaciali e interglaciali
si susseguirono con una scansione cronologica differente. All'interno del Paleolitico
medio anatolico (250-47mila anni fa), per esempio, le generazioni di Uomo di Neandertal che si succedettero ebbero esperienza dapprima di un clima freddo e umido
(glaciale Riss III fino a 130mila anni fa circa), poi del clima tropicale, molto umido e
caldo, dell'ultimo interglaciale Riss-Würm (circa 130-80mila anni fa), dovettero poi
convivere tra 80 e 60mila anni fa in un periodo (Würm I) con oscillazioni di temperatura e umidità, seguito da un significativo irrigidimento del clima nel Pleniglaciale
(60-50mila anni fa) nel quale il paesaggio vegetale originariamente dominato da foreste degradò in steppe, per poi terminare la loro esistenza durante il lungo interpleniglaciale di Würm (50-24mila anni fa), estinguendosi mentre dall'Africa, attraverso
il Medio Oriente e la stessa Anatolia giunsero fino in Europa i primi rappresentanti
della nostra specie.
Altrettanti furono nelle ulteriori fasi del Paleolitico i cambiamenti climatici che coinvolsero il pianeta, ma che — di fatto — non andarono a sconvolgere la vita dei singoli
rappresentanti delle diverse specie di Homo, in quanto nell'arco di una vita tali modificazioni seppur percettibili non furono repentine e devastanti, soprattutto nell'area anatolica. Di certo però, tali modificazioni nel corso del tempo ci possono essere utili per
meglio comprendere le tracce materiali lasciate dall'Uomo, attraverso i suoi manufat-
ti, i resti di cibo consumato o le scelte insediative, che potremo così interpretare correttamente in quel fondamentale rapporto uomo-ambiente, e in quelle nuove strategie
e sistemi di adattamento, che i nostri predecessori andavano mano a mano attuando.
Le modificazioni lasciate dai cambiamenti climatici sono ancora oggi leggibili nel
paesaggio.
La penisola anatolica 1,8 milioni di anni fa, ossia durante le più antiche fasi del Pleistocene, era caratterizzata da un clima abbastanza caldo e umido. Proprio durante il
tardo Pliocene e il Pleistocene inferiore si formarono numerosi laghi di origine tettonica o vulcanica, caratterizzati da acque salate, tra i quali il Tuz Gölü nell'Anatolia
centrale, il Burdur Gölü nel sud-ovest e il Van Gölü a est. Le terrazze naturali, che si
ergono a varie quote intorno alle loro rive, spesso per chilometri, caratterizzando oggi
i maestosi paesaggi intorno a questi bacini naturali, provano come le loro dimensioni
(espansioni e contrazioni) siano mutate significativamente nel corso del tempo. Con
l'inizio dell'età glaciale di Günz (680-620mila anni fa) il clima cambiò volgendo al
freddo e divenne più secco. I ghiacci coprirono così le cime più elevate del Tauro e
dei monti Pontici, dove arrivarono a scendere fino ai 1700 metri di quota, anche se la
maggior parte si attestò intorno ai 1900 metri s.l.m.
I cambiamenti climatici del passato, inoltre, influiscono ancora oggi — in maniera indiretta — sullo stato delle conoscenze e sul panorama che possiamo osservare dei siti
archeologici del Paleolitico. Infatti, ad esempio, tenendo conto che intorno a 20mila
anni fa, durante l'apice freddo dell'ultima glaciazione, il livello del mare in conseguenza dell'aumento delle masse di ghiaccio sulla terraferma si portò ad una quota di
circa 130 metri al di sotto della quota attuale, possiamo avere un'idea di quanti probabili siti, all'aperto o in caverna, siano per noi oggi difficili da individuare — e spesso
impossibili da indagare archeologicamente — in quanto sommersi dalle acque che
successivamente, durante diversi millenni, nel tardo Pleistocene e nel primo Olocene,
accrebbero il livello del mare per la conseguente fusione dei ghiacci dovuta all'inversione climatica con temperature più calde.
Se la maggior parte della costa meridionale dell'Anatolia è formata da montagne che
si innalzano ripidamente dal mare, e quindi gli effetti dell'innalzamento del mare nelle prime fasi dell'Olocene furono probabilmente limitati, è lungo le pianure costiere
sud-orientali, al confine con la Siria, e più a ovest nella zona di Antalya che gli effetti
combinati dell'oscillazione del livello del mare e altri fenomeni (alluvioni, movimenti
tettonici) hanno fortemente influenzato la morfologia del paesaggio e la conservazione di siti preistorici, che sono oggi sommersi o sepolti sotto formazioni deltizie.
Cambiamenti altrettanto clamorosi furono quelli che interessarono, durante le ultime
fasi del Paleolitico e per tutto il successivo Neolitico, le coste dell'attuale Mar di
Marmara e del Mar Nero, in quanto entrambi erano originariamente dei laghi. Gli
studi compiuti hanno rivelato una situazione assai complessa e anche dibattuta tra gli
esperti, ma che allo stato attuale delle conoscenze è ampiamente accettata. Il "lago"
di Marmara e il "lago" Nero rimasero tali fino all'ultimo periodo glaciale, quando
il loro livello delle acque era di circa 90 metri inferiore a quello odierno. Intorno a
13mila anni fa l'innalzamento delle acque, dovuto allo scioglimento dei ghiacci, fece
si che esse iniziarono a fluire attraverso i Dardanelli dal Mar Egeo verso quello che si
trasformò rapidamente nel Mar di Marmara, salendo allo stesso livello. La trasforma-
zione del Mar Nero, invece, avvenne solo a partire dal 7500 a.C. circa, durante il successivo periodo Neolitico, quando l'acqua iniziò a scorrere da questo — ancora isolato
e più alto — verso il Mar di Marmara, sia attraverso il Bosforo, sia attraverso la zona
del cosiddetto "corridoio" di Izmit/Sapanca, zona attualmente occupata in parte dal
Mar di Marmara e in parte da un lago. Fu solo intorno al 6000 a.C. che entrambi i
mari raggiunsero un equilibrio e a quel punto l'acqua salata del Mar di Marmara iniziò
a fluire verso il Mar Nero, attraverso una corrente sotterranea. Al più tardi nel 4000
a.C. circa il Bosforo si presentava come oggi lo vediamo, collegamento principale tra
il Mar Nero e il Mar di Marmara.
2. Il Paleolitico inferiore (1milione - 250mila anni fa)
Allo stato attuale delle conoscenze non vi sono in Turchia reperti del Paleolitico inferiore che risalgono a oltre 1 milione di anni fa. La presenza, però, a Dmanisi, nel
sud-ovest della Georgia, di livelli archeologici con decine di fossili umani, appartenuti
a più individui — di quella che è stata proposta da alcuni paleoantropologi come una
nuova specie chiamata Homo georgicus per la combinazione unica di caratteri, alcuni
riferibili al predecessore Homo habilis, altri riconducibili a Homo ergaster e a Homo
erectus — associati a oltre duemila strumenti in pietra scheggiata, datati a 1,8-1,7
milioni di anni fa, suggerisce che almeno nella parte orientale della Turchia possano
trovarsi in futuro altre testimonianze risalenti al primo Pleistocene.
Le prove sicure della più antica presenza umana nel territorio dell'odierna Turchia
sono state rintracciate in due siti posti nel cuore dell'Anatolia: Dursunlu, in provincia
di Konya, e Kaletepe Deresi 3, nel distretto di Niğde.
La steppa paludosa di Dursunlu
Ormai lo avevano capito. Di quell'immenso spazio, coperto da un fitto tappeto verde,
praticamente senza alberi, ma nel quale tra le alte erbe ci si poteva nascondere, magari restando sotto vento per non fare sentire il proprio odore alla possibile preda,
la zona vicino alla palude era la migliore. Al di là di quei fastidiosi insetti, assai più
numerosi che altrove, lì si incontravano con facilità dagli ippopotami e i rinoceronti, cui era bene stare lontani, ai grandi cervi che di tanto in tanto alzavano il loro
capo, facendo emergere dai cespugli e dai ciuffi di erbe quelle grandiose corna che
suscitavano ammirazione e paura allo stesso tempo. Ma, soprattutto, vi erano piccoli
animali e uccelli, che avevano imparato a prendere con una certa maestria. In quel
momento, il giovane maschio a capo del piccolo gruppo, aiutandosi con la sua preziosa scheggia di quarzo stava proprio sezionando un grosso volatile appena catturato
per sfamare sé e la sua gente.
Oggi a Dursunlu non c'è più la palude, ma qualche albero tra i campi coltivati dove
lo sguardo continua, però, a perdersi nell'immensità. È nel sottosuolo, poco fuori il
villaggio, che quell'immagine di 900mila anni fa è riemersa inaspettata.
Il sito di Dursunlu, circa 60 km a nord-ovest della città di Konya, nei pressi del villaggio di Ilgın nel distretto di Akşehir, consiste in una serie di depositi archeologici e
paleontologici contenuti all'interno di livelli di lignite, parte di una vasta serie di sedimenti lacustri posti a più di 10 metri di profondità, rinvenuti in una miniera all'aperto
oggi abbandonata e parzialmente allagata. Il sito, scoperto nel 1986, è stato indagato
nel 1993-1994 da un gruppo coordinato da Erksin Güleç composto da studiosi dell'Università di Ankara, dell'Università della California di Berkeley e del Servizio Geologico Turco (MTA). Uno dei livelli esplorati, datato a 900-780mila anni fa in base ad
analisi paleo-magnetiche e alle evidenze paleontologiche, presentava un'associazione
di resti di animali e abbondanti macrofossili vegetali con 175 pietre di cui almeno
135 sono state riconosciute con certezza come manufatti. Non vi erano bifacciali, ma
solo schegge ottenute tramite la tecnica di scheggiatura bipolare applicata ai ciottoli,
che in alcuni casi mostrano una chiara evidenza di ulteriori modifiche intenzionali.
Tra questi sono prevalenti le schegge di quarzo biancastro (il 95%), oltre ad alcuni
rudimentali strumenti in selce. Un totale di 12 esemplari mostra chiare evidenze di
modifiche secondarie, tra cui un poliedro realizzato utilizzando un tipo non identificabile di roccia ignea o metamorfica, un chopper, diversi nuclei poliedrici e un esquillee
o nucleo bipiramidale. A Dursunlu l'industria litica, termine usato in archeologia per
indicare un'insieme di manufatti lavorati in pietra, suggerisce un sistema tecnologico
orientato verso la produzione di piccole schegge non standardizzate, ricavate principalmente da materie prime di scarsa qualità. L'evidenza di interventi riferibili ad
Homo erectus sulle ossa animali recuperate è scarsa. Tra i pezzi più significativi un
metatarso distale di un uccello di grandi dimensioni che mostra diverse, profonde e
strette incisioni orientate trasversalmente che sono quasi certamente segni di taglio.
L'analisi delle faune, da animali di grossa taglia agli uccelli e alle microfaune perfettamente conservate, ha consentito di capire come in tale periodo l'area fosse caratterizzata da un paesaggio steppico con una palude. Sono, infatti, state identificate ossa
e altri resti di rinoceronti e ippopotami, di mammut (grosso proboscidate con lunghe
zanne ricurve, oggi estinto, strettamente imparentato con gli odierni elefanti, che visse
da circa 4,8 milioni di anni fa fino a circa 3500 anni fa), di cervo gigante o megacero
(Megaloceros, un cervide vissuto nell'area eurasiatica durante Pleistocene ed Olocene, oggi estinto, di grandi dimensioni le cui corna potevano raggiungere anche i tre
metri e mezzo di ampiezza mentre l'altezza al garrese era di circa due metri), di cavallo (Equus caballus mosbachensis e Equus altidens), d'uro (Bos primigenius, antenato
del bue domestico, un grande bovino selvatico ormai estinto che abitava l'Europa,
l'Asia e il Nord Africa. L'ultimo esemplare noto vivente, una femmina, morì nel 1627
nella foresta di Jaktorów in Polonia e il suo cranio venne acquistato dal museo Livrustkammaren - Armeria Reale di Stoccolma, in Svezia, dove è tuttora esposto), e di 41
specie di uccelli tra cui aironi, garzette, svassi, oche, anatre e trampolieri.
Nel cuore dell'Anatolia
Gli piaceva tenerla tra le mani, per via della sua superficie, così liscia e lucente,
del suo colore così scuro, nero, che inspiegabilmente diventava quasi trasparente se
orientata verso il sole. Questo faceva di quella pietra la più ambita e ricercata. Per le
sue caratteristiche e perché la si trovava sulla grande montagna che dominava il loro
territorio di vita, il gruppo l'aveva scelta proprio per realizzare gli strumenti più importanti: quegli arnesi, ottenuti lavorando su due facce grosse schegge o frammenti di
pietra, che potevano servire per dissotterrare radici, macellare gli animali, spezzare
le ossa e i tendini, tagliare e lavorare la pelle o il legno.
Kaletepe Deresi 3 (KD3), in Anatolia centrale, è un sito con fondamentali testimonianze del Paleolitico inferiore e medio, posto sulle pendici orientali del Göllü Dağ, a
oltre 1500 metri di altitudine, nel distretto di Niğde, a nord del villaggio di Kömürcü
e alle spalle dell'omonimo paese di Kaletepe. Esso rappresenta la più lunga sequenza
paleolitica a cielo aperto indagata archeologicamente in Turchia, oltre ad essere il
primo luogo in Anatolia dove sia stata rinvenuta in situ industria riferibile alla cultura
Acheuleana.
Insieme al sito di Dursunlu, Kaletepe Deresi 3 ha contribuito a retrodatare la presenza
umana in Anatolia. Infatti, questa successione stratigrafica profonda 8 metri e articolata in 19 livelli, scoperta da Ludovic Slimack (TRACES - Università di Toulouse)
e studiata a partire dal 2000 da un'equipe turco-francese diretta da Nur Balkan-Atlı
dell'Università di Istanbul, conserva diversi strati di microtefra, ossia di ceneri vulcaniche originatesi da eruzioni multiple, il più profondo dei quali è stato riferito a
780mila anni fa, mentre la rhyolite che costituisce la roccia di base della sequenza
risale a 1.3-1.1 milioni di anni fa, in base alla datazione radiometrica effettuata con il
metodo potassio-argon.
Il Paleolitico inferiore (essenzialmente riferibile all'Acheuleano, tranne nel livello IV)
è presente in ben quindici livelli (XII-III con relativi sottolivelli), mentre nei quattro
livelli superiori (II', II, I' e I) si trovano resti del Paleolitico medio.
Il sito si trova a pochissima distanza dai vasti affioramenti di ossidiana di Kömürcü
dove questo vetro vulcanico, di colore nero e di ottima qualità, fu ampiamente utilizzato per millenni per la fabbricazione di strumenti, fino al pieno Neolitico. Tra gli
oltre 4000 manufatti in pietra ritrovati nei livelli paleolitici di Kaletepe Deresi 3 ve ne
sono però molti realizzati impiegando anche il basalto, l'andesite e la rhyolite.
In sintesi sono state distinte due fasi. La prima, riconoscibile nei livelli V e VI-XII,
presenta bifacciali acheuleani realizzati esclusivamente in ossidiana, e poliedri, choppers e hachereaux (un tipo di bifacciale ricavato da spesse schegge, con ritocchi che
risparmiano un margine tagliente) prodotti in andesite e altre rocce. Tale insieme è
stato ricondotto dagli studiosi alla tradizione dell'Acheuleano del sud-ovest dell'Asia.
Nel livello IV è stato evidenziato un cambiamento nelle abitudini produttive degli
strumenti in pietra, sia per la materia prima utilizzata, sia per il tipo di manufatti
realizzati. Infatti, l'ossidiana è raramente impiegata, e aumenta il numero di choppers, chopping-tools, di grandi schegge ottenute da nuclei in rhyolite e in andesite. La
presenza della produzione di schegge da nuclei piccoli e grandi nello strato IV può
essere spiegata con l'esistenza di un gruppo di persone con diverse tecniche e modelli
comportamentali. Questo livello appartiene comunque al Paleolitico inferiore, ma non
alla cultura Acheuleana. Nella fase II, infine, predomina l'industria litica realizzata su
schegge in ossidiana, con piani di percussione non preparati mediante ritocco — a
differenza di quanto accade nei contesti con tecnica Levallois dell'Europa occidentale
— e modificati in denticolati e strumenti ad incavo.
I migliori confronti con quanto è stato ritrovato a Kaletepe Deresi 3 si possono realizzare con gli strumenti in pietra scheggiata della Grotta Yarımburgaz e della Grotta
Karain, seppure entrambe presentino un minor numero di manufatti in ossidiana.
L'uomo di Denizli
Nessuno si sarebbe aspettato che, una tragedia umana avvenuta nel Pleistocene medio,
potesse riaffiorare in quella che oggi è la provincia di Denizli, nella Turchia egea, piuttosto nota nel mondo per alcuni siti archeologici e naturalistici di grande importanza
e rara bellezza, sui quali certamente primeggiano l'antica città ellenistico-romana di
Hierapolis di Frigia e le bianche concrezioni calcaree e di travertino delle sorgenti termali di Pamukkale (che in turco, non a caso, significa "castello di cotone"), entrambe
riconosciute, nel 1988, Patrimonio dell'Umanità dall'Unesco.
Questi luoghi, dal 2002, hanno iniziato ad attrarre l'attenzione dei paleoantropologi
di tutto il mondo grazie all'inaspettata scoperta nella cittadina di Kocabaş, da parte di
Mehmet Cihat Alçiçek dell'Università Pamukkale di Denizli, dei resti di un cranio di
Homo erectus. Il reperto, formato da diversi frammenti di osso frontale e parietali appartenenti allo stesso individuo, il più antico fossile umano mai ritrovato in Anatolia,
ha riservato ulteriori sorprese. Infatti, una volta intraprese le prime e più approfondite
analisi da parte di un gruppo internazionale di paleoantropologi diretto da John Kappelman dell'Università del Texas, questo ominide, un giovane maschio tra i 15 e i 40
anni di età vissuto circa 500mila anni fa, ha rivelato di essere stato affetto da Leptomeningitis tubercolosa, una forma di tubercolosi che aggredisce le strutture meningee.
Prima di questa scoperta, le più antiche prove della presenza di tubercolosi meningea
sugli esseri umani erano state accertate su individui vissuti in epoche molto più vicine
alla nostra, in particolare su alcune mummie egizie e peruviane.
L'uomo di Denizli, o meglio di Kocabaş, aiuta a sostenere l'ipotesi di molti studiosi
riguardo il fatto che le prime comunità umane, caratterizzate da una pigmentazione
scura della pelle, che lasciarono il continente africano dove si erano evolute, spingendosi verso nuove terre più a nord in luoghi con più bassi livelli di radiazioni UV,
fossero per questo carenti di vitamina D, con gravi conseguenze per la loro salute.
I resti di questo cranio sono stati scoperti in una cava di travertino poco al di fuori
della città di Kocabaş, a 26 km da Denizli. Proprio il contesto di ritrovamento ha
permesso di ottenere una datazione del reperto a 510-490mila anni fa, sulla base della
termoluminescenza del travertino che lo inglobava.
Sul reperto è stata compiuta una tomografia computerizzata (TAC) e attraverso tecniche di elaborazione grafica in 3D, questo esemplare è stato ricostruito e analizzato
in dettaglio. I risultati preliminari mostrano come questo ominide fossile abbia le
caratteristiche tipiche della specie Homo erectus, quali una evidente costrizione postorbitaria, un forte sviluppo dell'arcata frontale con un toro sopraorbitario massiccio e
a visiera, una zona sopratorale depressa soprattutto nella parte laterale. Per le sue caratteristiche il cranio di Kocabaş è morfologicamente molto vicino ai fossili di Zhoukoudian, il sistema di grotte nei pressi di Pechino, in Cina, dove vennero ritrovati i
celebri sei crani e altri resti di Homo erectus datati tra 500 e 200mila anni fa.
La scoperta del cranio di Kocabaş si è rivelata assai importante, non solo per valutare e
offrire nuovi dati sulla diffusione dei primi insediamenti umani tra Europa e Asia, ma
anche per documentare l'estensione della specie asiatica Homo erectus così a ovest.
Molto prima di Istanbul
Erano non più di una decina, compresi bambini e anziani, e agendo tutti insieme come
ormai avevano imparato a fare, erano riusciti ad allontanare anche questa volta la
iena da quella carcassa di cervo. La carne era assicurata, così come quel tessuto molle che erano consapevoli trovarsi nell'interno cavo delle ossa, e di cui apprezzavano
il sapore e il senso di energia che sapeva dare. La grotta, ad ogni ritorno della bella
stagione, non tradiva mai il gruppo. Tutti sapevano che, dopo aver cacciato le loro
prede nella piana antistante, gli animali le trascinavano fino a là per poterle consumare lontano da occhi indiscreti e da possibili concorrenti. Ma il gruppo aveva quel
qualcosa in più degli altri animali, che lo aveva portato a sviluppare piccole strategie
ed espedienti per avere, quasi sempre, la meglio.
La Grotta Yarımburgaz si apre a 20 metri sopra il livello del mare, nel distretto di
Küçük Çekmece nei pressi della sponda settentrionale dell'omonimo lago, circa 1
km a nord dell'abitato di Altınşehir, oggi uno dei quartieri periferici di Istanbul. La
caverna, caratterizzata da due ingressi, uno superiore e uno inferiore con altrettante
grandi camere, è stata oggetto d'interesse geologico e speleologico dalla metà del XIX
secolo, ma solo più tardi ha ricevuto attenzione anche dal punto di vista archeologico.
Dopo una prima indagine nel 1959, ad opera di Şevket Aziz Kansu dell'Università di
Ankara, le ricerche vere e proprie vennero da lui iniziate nel 1963 insieme a Ismail
Kılıç Kökten e proseguirono fino al 1965. Una secondo progetto di ricerca, avviato
nel 1986 dal Museo Archeologico di Istanbul e da Mehmet Özdoğan dell'Università
di Istanbul, ha permesso di stabilire come la più antica fase di occupazione della
grotta risalisse proprio al Paleolitico inferiore portando, dal 1988 al 1990, all'avvio di
un'ulteriore campagna di indagini co-dirette da Güven Arsebük, dello stesso Ateneo,
e dall'antropologo Francis Clark Howell dell'Università della California di Berkeley.
Dei 1674 strumenti in pietra del Paleolitico inferiore, ritrovati nella camera inferiore
all'interno di sette strati, la maggior parte venne realizzata in selce, quarzo e quarzite,
mostrando uno stretto rapporto tra funzione a cui erano destinati gli strumenti e scelta
della materia prima impiegata per la loro realizzazione (fig. 6). Ad esempio, la quarzite, materia più dura rispetto alle altre due, venne impiegata per ricavare prevalentemente chopping tools, mentre la selce e il quarzo venne preferita per gli strumenti su
scheggia, che rappresentano l'80% del totale. È possibile che la consistenza e la forma
dei ciottoli delle diverse materie prime a disposizione nei dintorni della caverna abbiano fortemente influenzato le tecniche di scheggiatura qui adottate, che differiscono
da quelle di altri contesti dello stesso periodo. Come già precedentemente evidenziato
nel caso di Kaletepe Deresi 3, però, anche a Yarımburgaz è da notare la totale assenza
di talloni o piani di percussione preparati mediante ritocco (tecnica Levallois). Oltre
alla tecnologia Levallois, tuttavia, anche la produzione dei bifacciali era ignota alle
comunità che frequentarono la caverna nel Paleolitico inferiore.
Lo scavo dei livelli più profondi della camera inferiore della grotta ha restituito oltre
cinquemila ossa e denti di orso fossile di due diverse specie, Ursus deningeri e Ursus
spelaeus, e di orso bruno (Ursus arctos) che rappresentano oltre il 90% dei resti di
mammiferi di grandi dimensioni. La maggior parte dei resti appartengono all'Ursus
deningeri, ma anche sulle ossa delle altre due specie non è stata rinvenuta nessuna
traccia di lavorazione o segni di macellazione, per cui è stato ipotizzato che le comunità di Homo erectus che utilizzavano la caverna la occupassero in momenti diversi
rispetto agli orsi, probabilmente durante la primavera, l'estate e l'autunno.
Non dobbiamo considerare l'abbondanza di resti d'orso come un'indicazione di un loro
gran numero all'interno della grotta. Infatti, tranne nel caso delle madri con ancora al
seguito cuccioli da svezzare, gli orsi sono animali piuttosto solitari, soprattutto nel
momento del letargo. In base ai dati a disposizione, inoltre, è stato ragionevolmente
sostenuto che l'impressionante quantità di ossa ritrovate, essendo distribuita in livelli
di terreno formatisi in oltre 10mila anni, documenta da un punto di vista statistico che
ogni cento anni morivano uno o due orsi. Pur sapendo che non tutti gli orsi muoiono
durante il letargo e molti altri possono aver frequentato la grotta senza aver lasciato
traccia, l'incontro tra questi e l'uomo non doveva essere comunque molto frequente.
Il 7% della restante fauna riferibile a grandi mammiferi è costituita da una sorprendente varietà di specie di erbivori e di carnivori: felini, equini, iene e cervi sono i più
numerosi. Almeno alcuni degli erbivori potrebbero essere stati trasportati nella grotta
dall'Uomo. Lo si è desunto dai segni di macellazione, seppur pochi, e da altre tracce
di lavorazione umana, in prevalenza fratture per l'estrazione del midollo, rinvenute
sulle ossa.
La datazione dei depositi del Paleolitico inferiore nella Grotta Yarımburgaz è piuttosto problematica e continua a far discutere gli specialisti. I siti di occupazione che
in Europa hanno restituito industrie in pietra scheggiata simili a quelle qui ritrovate
sono, infatti, datati a 700-300mila anni fa. Güven Arsebük, però, ha sostenuto che
sarebbe più corretto confrontare tali produzioni con quelle del Vicino Oriente, proponendo una datazione tra 450 e 130mila anni fa, anche sulla base di alcune datazioni in risonanza paramagnetica elettronica, note come EPR dall'acronimo inglese
Electron Paramagnetic Resonance, effettuate su alcuni dei denti degli orsi ritrovati
negli stessi livelli. Esse hanno restituito datazioni corrispondenti alle fasi 6 - 9 degli
isotopi dell'ossigeno, quindi riferibili alla seconda metà del Pleistocene medio, ma va
considerato che la struttura dei denti d'orso non è l'ideale per questo tipo di datazione.
Al di là dell'esatta collocazione cronologica nella fasi più antiche del Paleolitico inferiore, o in quelle più recenti, che solo nuove indagini e analisi potranno forse chiarire,
abbastanza chiaro appare lo stile di vita e le caratteristiche della comunità che occupò
la Grotta Yarımburgaz.
Si presume che gli abitanti, stagionali, appartenessero a comunità nomadi di cacciatori-raccoglitori che vivevano in gruppi di 10-12 persone, che prediligevano all'attività
di caccia — molto limitata — l'uso di carogne per procurarsi la carne necessaria alla
loro dieta. Ciò è indicato dal fatto che le tracce di macellazione presenti su alcune delle ossa animali analizzate sono sovrapposte a segni di rosicchiamento da parte di altri
carnivori, in prevalenza sciacalli, iene e volpi. Molto probabilmente la carne era consumata cruda, in quanto nessun focolare è stato ritrovato nello scavo, così come sono
completamente assenti tracce di combustione sulle ossa o sugli strumenti in pietra.
La permanenza all'interno della grotta doveva essere piuttosto breve, se si considera
che tra l'industria litica sono prevalenti strumenti finiti e quasi mancanti le schegge di
lavorazione. Ciò suggerisce come gli strumenti in pietra venissero prodotti altrove e
fossero qui soltanto utilizzati e, di tanto in tanto, persi o abbandonati.
Animali e paesaggio interglaciale a Konya
Nessuna testimonianza lasciata dall'uomo è stata rintracciata, nell'ottobre del 1989 a
Emirkaya nell'Anatolia centrale, da un team francese durante una prospezione nei calcari bituminosi dell'area, in una zona di cava. Ma all'interno di una fessura di riempimento nella cava di calcare, 1,5 km a sud della città di Seydişehir (Konya), gli studiosi
hanno scoperto un sito fossilifero, denominato Emirkaya-2, molto utile per ricostruire
il paesaggio e la fauna che nel Pleistocene medio caratterizzavano i dintorni di Konya.
La fessura di circa 5 m di larghezza, e profonda 10 m, ha conservato moltissimi resti
di quella stessa specie di orso (Ursus deningeri), datato a 800-100mila anni fa, che
frequentava pure la Grotta Yarımburgaz. I sedimenti della fessura, brecce consolidate,
contenevano però anche abbondanti resti di altri mammiferi di piccole e grandi dimensioni, anfibi, rettili e uccelli. Sulla base dei grandi mammiferi e sull'associazione
con Mimomys-Arvicola, il paleontologo Sevket Sen del Muséum National d'Histoire
naturelle di Parigi, aveva provvisoriamente assegnato il deposito al Pleistocene medio, ma attraverso successivi studi sui piccoli mammiferi, ad opera sua con altri, ha
potuto circoscriverlo all'Holsteiniano, che corrisponde all'interglaciale Mindel-Riss
(470-350mila anni fa). La fauna dei mammiferi è caratterizzata per la sua diversità,
in quanto contiene 36 specie di mammiferi appartenenti a 20 famiglie, mentre per le
altre classi animali sono stati riconosciuti un anfibio, una decina di specie di rettili e
di uccelli.
I resti di vertebrati sono stati recuperati sciogliendo i blocchi di breccia in acqua
contenente acido formico. Sulla base dell'abbondanza di orsi e castori in questa
località, gli studiosi hanno ipotizzato come all'epoca vi dovesse essere la presenza di un
ambiente con boschi. Tuttavia, alcuni elementi tra i mammiferi, come un topo saltatore
della specie Allactaga e un pipistrello della specie Hipposideros sono indicativi di
alta temperatura e ambienti aperti. L'insieme dei dati disponibili ha permesso loro di
concludere come la fauna ritrovata a Emirkaya-2 vivesse in un periodo temperato, in
un ambiente in parte boschivo, con aree aperte e ristagni d'acqua permanenti.
La Grotta Karain
Quando guardavano al di fuori della grotta, abbracciando con lo sguardo la grande
piana che si apriva ai loro piedi, consapevoli che alle spalle avevano le grandi montagne, erano coscienti che quello era un buon luogo dove vivere. Intorno al lago, giù
nella piana, vi erano gli insediamenti all'aperto. A debita distanza pascolavano gli
ippopotami e altri grandi animali. Anche per questo quel posto era piuttosto ambito.
La sua collocazione, in un punto non troppo distante dal passaggio obbligato tra le
terre vicine al mare e la zona delle montagne, di certo era un ulteriore punto a favore.
Lo sapevano.
Una delle caratteristiche vincenti del genere umano è la grande adattabilità agli ambienti più diversi: dalle foreste pluviali, ai deserti, dai luoghi temperati alle distese di
ghiaccio della Siberia o della Groenlandia. È indubbio, però, come ci siano luoghi che
per la loro posizione, le loro risorse e peculiarità, rendono certamente la vita meno
dura e con maggiori possibilità rispetto ad altri. Se vi era la possibilità di scelta, anche
in passato, essa veniva ampiamente sfruttata da parte dell'uomo.
Oggi, affacciandosi dalla Grotta Karain, le montagne e la piana fanno sempre imponente mostra di sé, ma gli insediamenti di Homo erectus, gli ippopotami e il lago sono
scomparsi. Per lo meno alla vista, ma non nei sedimenti indagati all'esterno e all'interno di questa caverna che si trova a poco meno di 30 km a nord-ovest di Antalya,
nei pressi del villaggio di Yağca, sul versante orientale del monte Katran. La Grotta
Karain, 430 metri s.l.m. e a 150 metri di altitudine dalla piana sottostante famosa per il
suo travertino e le sorgenti di acqua, grazie alle numerose ricerche geomorfologiche,
geologiche e archeologiche condotte in quasi settanta anni è divenuta un punto fondamentale di riferimento per la Preistoria della Turchia, grazie alla sua stratigrafia con
numerosi livelli riferibili al Paleolitico inferiore, alla Cultura Musteriana dell'Uomo
di Neandertal e all'Aurignaziano del Paleolitico superiore
La Grotta Karain, o meglio il complesso di grotte che si apre in queste montagne, sono
state oggetto di prime ricerche nel 1946 da parte di Kiliç Kökten e Fikret Ozansoy,
che fino al 1972 proseguirono le loro indagini. Nel 1946 la caverna si presentava sigillata da uno spessa parete concrezionata di travertino, che venne fatta esplodere con
la dinamite, rivelando l'ampio sistema carsico alle sue spalle, ma soprattutto la notevole quantità di resti archeologici al suo interno. Dopo un'interruzione fino al 1985, i
lavori di ricerca vennero ripresi da Işın Yalçınkaya dell'Università di Ankara, allieva
di Kökten e già membro del gruppo di scavo. La Yalçinkaya si prefisse, da subito,
di ottenere non solo una chiara sequenza culturale, ma impostò la ricerca con taglio
interdisciplinare, rivolgendo attenzione allo studio paleoambientale del contesto e si
avvalse di una squadra internazionale di specialisti, formata, tra gli altri, da Hans Jürgen Müller-Beck dell'Università di Tubinga e da Marcel Otte dell'Università di Liegi.
I depositi del Paleolitico inferiore, ma anche i livelli del Paleolitico medio, sono stati
rintracciati e indagati nella camera principale, denominata Karain E, dove la sequenza
raggiunge i 10 metri di profondità. Per il Paleolitico inferiore sono stati riconosciuti
due gruppi tecnologici differenti, entrambi realizzati tramite l'impiego di materie prime locali. Il primo gruppo (livello A) è caratterizzato dall'assenza di choppers e di
bifacciali, mentre sono abbondanti piccoli strumenti ad incavo e schegge denticolate,
simili a quelle della Grotta Yarımburgaz, che nell'insieme hanno fatto assegnare a tale
produzione litica la definizione di Clactoniano. Questo strato è stato attribuito a più
di 350mila anni fa, pur nell'assenza di datazioni radiometriche. Nel secondo gruppo
(livelli B-E), datato tra 350 e 300mila anni fa, vi è un aumento dei denticolati e degli
strumenti ritoccati, tra cui in particolare diversi raschiatoi. Da quanto osservato, sembra esserci stata una tendenza nel tempo, verso l'impiego di un sistema di ritocco degli
strumenti in pietra scheggiata più controllato e nella produzione di una più ampia
gamma di strumenti, che gli studiosi hanno ricondotto al gruppo proto-charentiano e
posto in similitudine con le produzioni dell'Acheulo-Yabrudiano, tipico di un gruppo
geograficamente limitato di ominidi che viveva nel Levante centrale e meridionale
(Siria, Libano, Israele e Giordania). Per quanto riguarda le materie prime impiegate
sono stati rinvenuti strumenti in radiolarite, selce, calcare silicizzato e calcare.
In base ai resti ossei di fauna è stato possibile stabilire come gli animali cacciati erano
prevalentemente pecore e capre selvatiche, oltre che cervi.
I bifacciali di Şehremuz
Per sopravvivere, e per essere utili al gruppo, i piccoli dovevano imparare il prima
possibile a diventare autonomi e a procacciare quanto indispensabile. Alcuni di loro,
con più esperienza, non appena i più piccoli iniziavano ad averne le capacità cercavano di trasmettergli ciò che sapevano. E così, giorno dopo giorno, anche agli occhi
degli ultimi arrivati, quelle pietre dalla forma particolare che con tanta attenzione
i maschi del gruppo producevano e portavano con sé, iniziavano a mostrare le loro
differenze. Alcune erano migliori per tagliare la carne e togliere la pelliccia, altre per
incidere profondamente, altre ancora spaccavano perfettamente le ossa…
In previsione dell'innalzamento delle acque dell'Eufrate, a seguito del progetto di realizzazione della grande diga Atatürk, a sud-est della città di Adıyaman nella Turchia
sud-orientale, Mehmet Özdoğan dell'Università di Istanbul, nel 1977, effettuò una
serie di indagini di superficie che lo portarono ad individuare a Şehremuz, a nord della
città di Samsat, una città oggi completamente sommersa dal lago artificiale, un sito
all'aperto del Paleolitico inferiore.
Per la sua specializzazione su tale periodo venne immediatamente chiamata I.
Yalçınkaya, dell'Università di Ankara, che effettuò nuove ricognizioni insieme a H. J.
Müller-Beck e Gerd Albrecht, nel 1979, recuperando un vasto numero di manufatti in
pietra e schegge di lavorazione.
In considerazione dell'intuita importanza del sito, consapevoli del suo destino di rimanere ricoperto dalle acque della nuova diga, iniziata nel 1983 e inaugurata nel
1992, gli studiosi realizzarono uno studio geomorfologico della zona e uno scavo
archeologico. Le ricerche condotte in questo sito portarono al recupero di un totale
di 236 manufatti in pietra scheggiata, dei quali ben 197 erano bifacciali in selce, tra
cui 120 praticamente integri. Questi, tra quelli provenienti dallo scavo archeologico e
quelli recuperati durante le ricognizioni di superficie, sono comunque stati rinvenuti
in un'area con un'altitudine compresa tra i 550 e i 600 metri. Se non è stato possibile
chiarire con certezza la datazione del sito, al di là della sua certa attribuzione al Paleolitico inferiore a alla Cultura Acheuleana, così come non è certo se questo sito fosse
un atelier di produzione o un sito d'occupazione, indubbiamente interessanti osservazioni sono emerse dallo studio microscopico condotto sui manufatti. Alcuni di essi
hanno rivelato tracce di utilizzo, mostrando come gli strumenti venissero usati per il
taglio della carne e per la rottura delle ossa, ed evidenziando — in particolare — come
quelli con i margini di taglio maggiormente ampi servissero per realizzare incisioni
profonde, mentre quelli con taglienti limitati fossero destinati all'attività di scuoiatura
delle prede catturate.
Molto resta ancora da fare
Tra il 2000 e il 2005 un giovane ricercatore, Berkay Dinçer, attraverso alcune indagini di superficie non sistematiche effettuate nella parte europea della Turchia, nella
provincia di Tekirdağ, bagnata dal Mar di Marmara, ha individuato tre siti all'aperto
riferibili al Paleolitico inferiore.
Il primo, Yatak, è situato a poca distanza dal villaggio di Karansıllı, a circa 30 chilometri a ovest dal capoluogo di provincia. Posto ad una quota di 320 metri sopra il
livello del mare, in un'area agricola a sud-est del villaggio, il sito conserva numerosi
manufatti in pietra scheggiata e altrettanti frammenti di materie prime senza traccia
di lavorazione, suggerendo l'ipotesi che potesse essere un luogo di produzione degli
utensili stessi. Tra gli oggetti recuperati e studiati vi sono chopping tools realizzati
esclusivamente in quarzite, choppers e schegge in quarzo prodotte con debitage discoide e bipolare, particolari tecniche di lavorazione della pietra tipiche del Paleolitico inferiore e medio.
A poche centinaia di metri da Yatak è stato rintracciato pure il secondo sito, Kuştepe.
Qui i materiali, assai più numerosi che nel primo sito, sono stati prodotti per la maggior parte in quarzo, praticamente assenti quelli in selce o in quarzite, e consistono in
choppers e nuclei discoidi. Come a Yatak i nuclei presentano le stesse caratteristiche
con i piani di percussione non preparati mediante ritocco.
L'ultima area di ritrovamento si chiama Balıtepe e si trova nei pressi del villaggio
di Çavuşköy a circa 50 chilometri a ovest da Tekirdağ, ad una quota di 200 metri di
altitudine. Qui Dinçer ha trovato prevalentemente choppers in quarzite molto simili a
quelli di Yatak.
Pur nell'impossibilità di avere datazioni radiometriche o sequenze stratigrafiche che
aiutino nell'esatta collocazione cronologica di tali manufatti, tutti i materiali recuperati nelle tre aree sono stati ricondotti, per confronto tipologico soprattutto con i ritrovamenti della Grotta Yarımburgaz e di altri siti della vicina Grecia, al Paleolitico inferiore, in particolare alla prima metà del Pleistocene medio. Ciò che però il ritrovamento
di questi tre siti ha maggiormente dimostrato è l'elevata potenzialità che queste regioni
offrono per il prosieguo delle ricerche sulla preistoria più antica. La loro accidentale
scoperta suggerisce come la realizzazione di ricognizioni di superficie sistematiche
potrebbero rivelare ancora molto sui siti del Paleolitico dell'odierna Turchia.
Molto resta ancora da fare, prima che sia troppo tardi. È significativo il caso del ritrovamento, nel 1964, di 450 strumenti in pietra scheggiata, molti dei quali attribuiti al
Paleolitico inferiore, da parte di Arthur J. Jelinek durante una ricerca di superficie in
occasione di un progetto congiunto tra l'Università di Istanbul e quella di Chicago, in
un'area nei pressi del fiume Küçük Göksu, sulla sponda asiatica di Istanbul nel distretto
di Ümraniye. I reperti sono ancora oggi conservati presso l'Università di Istanbul e a
disposizione degli studiosi, ma la possibilità di rintracciare i siti di provenienza o l'idea
di indagarli archeologicamente — come tentato già negli anni '80 dello scorso secolo,
da Mehmet Özdoğan — è ormai impossibile, in quanto la zona negli ultimi decenni è
stata completamente urbanizzata.
Choppers versus bifacciali
Attraverso gli esempi fino ad ora riportati, ed in considerazione di numerosi altri ritrovamenti di superficie riferibili al Paleolitico inferiore un po' in tutta la Turchia, almeno
170 secondo il censimento del Progetto TAY (Türkiye Arkeolojik Yerleşmeleri - Archaeological Settlements of Turkey), in Anatolia si possono facilmente individuare
due diverse tradizioni di produzione degli strumenti in pietra scheggiata.
Nell'area nord-occidentale l'industria litica è caratterizzata da choppers e strumenti
su scheggia con una cospicua assenza di bifacciali, situazione simile a quella che si
ritrova nei Balcani, in Grecia e nel centro Europa. Nell'Anatolia centrale e orientale,
invece, è stata riscontrata una netta prevalenza di bifacciali, che richiamano i ben
noti tipi della cultura Acheuleana dell'Europa occidentale, del Caucaso, del Levante
e dell'Africa. La maggior parte dei bifacciali ritrovati in Turchia, a parte il caso di
Kaletepe Deresi 3, proviene purtroppo da raccolte di superficie in siti all'aperto, o da
contesti di scavo che offrono uno scarso controllo cronologico. Al di là di questo, se
la loro distribuzione è incontestabile, con marcate assenze in alcune aree, non è facile
spiegare tale situazione. Gli studiosi hanno offerto varie interpretazioni.
Per alcuni le due tradizioni o tecniche produttive impiegate nel Paleolitico inferiore
co-esistettero per molto tempo e tale convivenza sarebbe la prova dell'insostenibilità
del modello lineare evolutivo, che vede una progressione cronologica e tecnologica
dall'Olduvaiano, attraverso l'Acheuleano, fino al Musteriano.
Le interpretazioni più interessanti, però, sono basate sull'associazione tra i due complessi e le diverse zone ambientali, o le differenti possibilità funzionali. I siti con
bifacciali, in effetti, sono generalmente diffusi in Anatolia in zone a circa 600 metri di
altitudine, mentre le industrie litiche a choppers si trovano a quote inferiori, associate
ad aree nelle quali le condizioni ambientali erano di certo più calde e umide, con alcune differenze anche tra le faune che l'Uomo poteva sfruttare per procurarsi il cibo
necessario.
3. Il Paleolitico medio (250-47mila anni fa)
L'Uomo di Neandertal è la specie umana precedente alla nostra su cui si è maggiormente discusso e si continua a studiare da quando, nel 1856, ne furono riconosciuti
per la prima volta i resti ossei nella valle di Neander, in Germania. Ottimo cacciatore,
robusto e perfettamente adattato a vivere in climi diversi, anche molto freddi, ebbe
origine circa 250mila anni fa in Europa discendendo da una forma umana precedente
chiamata Homo heidelbergensis. I Neandertaliani vivevano in piccoli gruppi nomadi, conoscevano l'uso del fuoco e organizzavano i loro accampamenti, all'aperto e in
grotta in maniera precisa. Oggi sono noti oltre duecento esemplari fossili di Homo
neanderthalensis, diffusi in un territorio vastissimo, dalla Spagna all'Inghilterra meridionale fino alla Russia e al Kazakhstan, compreso il Medio Oriente. Proprio da
quest'ultima regione, assai vicina all'area di nostro interesse, sono riemerse fondamentali testimonianze di questa specie che ci forniscono preziose e suggestive informazioni anche dal punto di vista sociale. Sui monti Zagros, nell'Iraq nordorientale,
Ralph Solecki dell'Università della Columbia, tra il 1957 e il 1961 effettuò degli scavi
archeologici nella Grotta di Shanidar ritrovando il primo scheletro di un neandertaliano in questa area. La prosecuzione delle indagini scientifiche ha permesso di recuperare altri nove scheletri, sempre di Homo neanderthalensis, sia adulti, sia bambini,
in diverso stato di conservazione. In particolare gli individui denominati Shanidar I e
IV sono quelli che hanno permesso di attribuire a questa specie umana una profonda
complessità sociale ed un ricco mondo interiore. Infatti, questi due individui vissuti
tra 80mila e 60mila anni fa, dopo aver subito lesioni e fratture, vennero assistiti dal
loro gruppo fino alla morte e quindi sepolti con cura. L'individuo più anziano, Shanidar I, morto tra i 40 e i 50 anni d'età, presentava diversi traumi, tra cui una frattura
sull'orbita sinistra provocata da un forte colpo o forse una caduta, che probabilmente
lo rese parzialmente o totalmente cieco. Attraverso l'esame dei suoi resti scheletrici,
gli scienziati hanno potuto stabilire come il profondo colpo che gli danneggiò l'occhio
sinistro andò ad intaccare anche l'area del cervello che controlla la parte destra del
corpo, portando all'impossibilità di usare il braccio destro e ad una probabile paralisi
anche della gamba destra. Alcuni segni nel metatarso del suo piede destro mostrano
una frattura risanata, così come le altre sue lesioni presentano tracce di guarigione.
È stato chiaramente stabilito come nessuno dei traumi riscontrati lo portò alla morte,
ma anche come la sua sopravvivenza non sarebbe stata possibile senza le cure del suo
gruppo sociale.
Di tutti gli scheletri trovati nella grotta, Shanidar IV, è quello che fornisce la migliore
evidenza di una sepoltura rituale neandertaliana. Lo scheletro di questo maschio adul-
to, di età compresa tra 30 e 45 anni, era contenuto in una fossa nel terreno e posto sul
fianco sinistro in posizione rannicchiata. Durante lo scavo archeologico vennero raccolti diversi campioni di terreno con l'intento di compiere esami sul polline, nel tentativo di ricostruire il paleoclima e la storia vegetazionale del sito. In due dei prelievi
effettuati furono individuate altissime concentrazioni di granuli pollinici, decisamente
al di sopra della media di quelli riscontrati nel resto del sito, che suggerirono come
nella sepoltura probabilmente fossero stati deposti insieme al cadavere anche dei fiori.
Lo studio, inoltre, ha portato a riconoscere con precisione otto tipi diversi di erbe, il
cui fiore venne forse scelto per le specifiche proprietà medicinali, tra cui l'Achillea, il
Fiordaliso, vari tipi di Senecio, i Muscari e la malva rosa. Recentemente, però, data
anche l'assenza in altri contesti riferiti all'Uomo di Neandertal di chiare evidenze di
ritualità connesse alla sepoltura dei propri morti, alcuni studiosi hanno messo in discussione tale ritrovamento, sostenendo che forse il polline finì vicino allo scheletro
Shanidar IV in epoche successive per l'azione di un gerbillo, piccolo roditore che ama
portare fiori e semi all'interno della propria tana scavata nel terreno e che ancora oggi
abita tra i monti Zagros.
Sull'Uomo di Neandertal gli studiosi hanno un acceso dibattito in corso anche per
stabilire se e come potesse essere imparentato con noi, o meglio stanno cercando di
stabilire con certezza se le nostre due specie avessero potuto dare origine a individui
ibridi fertili, in considerazione del fatto che proprio in alcune aree del Medio Oriente
Homo neanderthalensis e Homo sapiens — qui giunto dall'Africa intorno a 120mila
anni fa — convissero per migliaia di anni. Analisi di laboratorio effettuate tra 2010
e 2011 al Max Planck Institut di Lipsia, sul sequenziamento totale del DNA nucleare neandertaliano, hanno evidenziato come il nostro patrimonio genetico e quello
di Homo neanderthalensis siano combacianti al 99,84%. Inoltre, in individui attuali
della nostra specie, ma non africani, vi è una traccia oscillante tra il 2% e il 4% di
DNA neandertaliano. Ciò sarebbe la prova che, almeno in un primo momento, proprio
quegli Homo sapiens che lasciarono l'Africa e pian piano conquistarono altre parti del
pianeta, avrebbero avuto unioni sporadiche con Homo neanderthalensis e avrebbero
dato vita a individui che, a loro volta, avrebbero trasmesso durante l'accoppiamento
DNA misto delle due specie.
Ma se all'inizio vi fu probabilmente unione, è altrettanto ragionevole sostenere che
Homo sapiens sia diventato nel tempo più un problema che non un fattore positivo
per i neandertaliani. Questi ultimi, infatti, a partire da 32mila anni fa diminuirono
numericamente in maniera drastica, fino ad estinguersi e a lasciare sull'intero pianeta
la nostra specie come unica rappresentate del genere umano.
Gli antropologi anche in questo caso si confrontano e discutono in base ai dati disponibili sul perché e il come di tale estinzione. Probabilmente vi fu un problema di adattamento ambientale, al quale la nostra specie, caratterizzata anche da uno sviluppo
demografico maggiore, seppe rispondere meglio. Me è assai possibile che i neandertaliani siano stati colpiti da forme epidemiche per loro mortali, forse trasmesse proprio
da Homo sapiens e che i nostri diretti antenati siano arrivati a vere azioni di sterminio
nei confronti di quella umanità "diversa" da loro.
Ancora la Grotta di Shanidar ha fornito informazioni proprio in questa direzione. Circa 50mila anni fa, un neandertaliano chiamato dagli studiosi Shanidar III fu la vittima
di uno scontro etnico. Egli, un maschio adulto, sepolto in una tomba come accaduto
a Shanidar I e II, oltre a soffrire di una malattia degenerativa articolare in un piede,
sarebbe stato ucciso da un Homo sapiens. Infatti, ricerche sul suo scheletro, dirette da
Steven Churchill dell'Università Duke di Durham nel 2009, hanno dimostrato come
egli morì trafitto al petto da una dardo simile ad una punta di freccia. Ciò appare
evidente, dalle analisi condotte su una profonda lesione riscontrata alla nona costola
sinistra e sul calcolo del tipo e dell'angolo d'impatto che la poté provocare. In considerazione, però, del fatto che i neandertaliani non conoscevano la tecnologia di arco
e frecce, ne quella del lancio di giavellotti tramite propulsore, entrambe compatibili
con le tracce riscontrate, gli studiosi hanno concluso che l'omicida sia stato un Homo
sapiens, che ben padroneggiava tali armi avendole inventate.
La presenza dell'Uomo di Neandertal in Anatolia, con la sua tipica cultura Musteriana,
che fu caratterizzata da un perfezionamento di alcune tecniche già note dal Paleolitico
inferiore per la produzione di strumenti in pietra scheggiata quale la tecnica Levallois, è — di fatto — legata prevalentemente alla Grotta Karain e a Kaletepe Deresi
3, ai quali si possono aggiungere pochi altri siti con sequenze stratigrafiche, tra cui
Kocapınar e Beldibi-Kumbucağı e diversi ritrovamenti all'aperto di più difficile documentazione.
Tra le sequenze meglio investigate, le recenti analisi a Kaletepe Deresi 3 hanno permesso di seguire chiaramente il passaggio dai livelli del Paleolitico inferiore a quelli riferibili alla cultura Musteriana, osservando sia modificazioni nella realizzazione
dell'industria litica sia nelle strategie di scelta delle rocce da usare come materia prima, mentre la Grotta Karain, oltre a questo tipo di considerazioni, ha conservato pure
testimonianze di resti ossei della specie Homo neanderthalensis, offrendo così ulteriori e interessanti elementi per comprendere il complesso progredire dell'evoluzione
umana.
Stesso luogo, diverse strategie e culture
Nessuno di loro poteva sapere che molto tempo prima altri erano stati proprio lì e
che poi la grande montagna, alla quale attribuivano un significato speciale per quei
rumori che di tanto in tanto emanava e quel fumo che oscurava il cielo, aveva con la
sua soffice cenere ricoperto tutto. Non lo sapevano, eppure erano lì, anche loro a cercare quelle pietre che ritenevano migliori per fabbricare i loro strumenti e a ripetere
alcuni gesti vecchi di migliaia di anni.
Nelle pagine precedenti sono stati illustrati gli importanti risultati delle ricerche condotte a Kaletepe Deresi 3, che nei suoi livelli più profondi (XII-III con relativi sottolivelli) ha restituito una fondamentale immagine di frequentazione umana del Paleolitico inferiore risalente ad almeno 780mila anni fa.
Nei quattro livelli superiori della sequenza stratigrafica (strati I e I', II e II', dal più
recente al più antico) si trovano, invece, i resti del Paleolitico medio. I livelli I-I' sono
separati dai livelli II-II' da un insieme di strati (R1-R5) privi di reperti, ma contenenti
ceneri vulcaniche (tefra) che sono state datate a circa 160mila anni fa. Tale data offre
un interessante riferimento cronologico che consente di collocare nel tempo i manufatti ritrovati.
Nel livello I sono stati recuperati 61 reperti in pietra scheggiata, mentre nel livello I'
soltanto 9. In entrambi i casi prevalgono le schegge di lavorazione e solo 4 elementi
possono considerarsi strumenti veri e propri, riconosciuti nella classificazione tipologica come raschiatoi laterali. Pur considerando il ridotto numero di materiali, per le
caratteristiche delle schegge (tipo Levallois e tipo Kombewa) gli strati sono comunque da attribuire con certezza al Paleolitico medio.
Il livello II, come detto, è coperto dagli strati di tefra R1-R5 datati a 160mila anni fa
e, pertanto, l'abbondante industria litica qui rinvenuta, ben 611 pezzi, è più antica di
tale data. Solo un paio di manufatti vennero realizzati utilizzando riolite e basalto,
mentre la grande maggioranza venne prodotta in ossidiana. Le osservazioni condotte
su questa pietra hanno consentito di notare come non tutta sia di origine locale, ossia
raccolta sulle stesse pendici del Göllü Dağ dove era disponibile in abbondanza, ma
provenga anche dall'affioramento di Sırca Deresi, situato a 5 km da Kaletepe Deresi
3. Questo fatto suggerisce come le comunità umane che produssero tali strumenti conoscessero le caratteristiche del proprio territorio, almeno nelle immediate vicinanze,
ma pone degli interrogativi — per ora insoluti — sulle scelte e le strategie adottate,
in quanto l'ossidiana di Sırca Deresi è di qualità equivalente e alle volte addirittura
inferiore rispetto a quella disponibile direttamente a Kaletepe Deresi 3. Interessante il
risultato condotto sull'analisi tipologica dei manufatti, che ha evidenziato come per la
loro produzione fossero impiegate due differenti tecniche di scheggiatura Levallois: la
produzione di lame da nuclei unipolari e la realizzazione di schegge da nuclei centripeti appositamente predisposti. Alcune lame, inoltre, furono ottenute anche da nuclei
non-Levallois. Tra gli strumenti ritoccati (il 9% del totale dei manufatti del livello II)
si trovano esclusivamente punte e raschiatoi musteriani.
Eccezionale il rinvenimento in questo stesso livello di due molari e di una mandibola
di un esemplare di equide di circa 16-20 anni di età, considerando la forte acidità dei
terreni che costituiscono la sequenza stratigrafica di Kaletepe Deresi 3, responsabile
della totale disintegrazione di ossa e altri frammenti organici. Tali resti sono probabilmente sopravvissuti in quanto erano inglobati tra alcune pietre e una finissima sabbia
eolica. Purtroppo, però, pur essendosi conservata la mandibola presenta una superficie
piuttosto deteriorata che non ha permesso di rintracciare eventuali segni di macellazione. Il confronto di questi resti con cavalli attuali, e con altri fossili provenienti da
siti della Siria, ha comunque consentito di riferire questo equide alla fine del Pleistocene medio, quindi perfettamente in linea con l'indicazione cronologica del livello II.
Nell'ultimo livello riferito al Paleolitico medio, il II', sono stati recuperati 148 manufatti. Anche in questo caso la materia prima prevalente scelta per produrre gli strumenti in pietra scheggiata è stata l'ossidiana. Gli strumenti ritoccati comprendono pochi
raschiatoi irregolari, così come sono scarse le schegge riferibili alla tecnica Levallois,
mentre predominanti sono i prodotti e i sottoprodotti da debitage discoide.
Tale differenza rappresenta quel punto di contatto, anzi di contrasto, con i livelli inferiori e le caratteristiche dei manufatti in essi conservatisi, che sono stati precedentemente descritti e che hanno fornito le fondamentali informazioni sul Paleolitico
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