decatur city observer

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decatur city observer
Sommario
Frontespizio
Copyright
Dedica
Parte prima
Decatur City Observer – 17 giugno 1985
Capitolo 1
Capitolo 2
Decatur City Observer – 19 giugno 1985
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Decatur City Observer – 22 giugno 1985
Capitolo 6
Parte seconda
Capitolo 7
Capitolo 8
Decatur City Observer – 15 luglio 1985
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Decatur City Observer – 18 giugno 1995
Parte terza
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
Nota dell'autrice
Ringraziamenti
ISBN: 978-88-6688-025-7
Edizione ebook: febbraio 2014
Titolo originale: Triptych
© 2006 by Karin Slaughter
© 2012 by Sergio Fanucci Communications S.r.l.
Il marchio Timecrime è di proprietà
di Sergio Fanucci
via delle Fornaci, 66 – 00165 Roma
tel. 06.39366384
Indirizzo internet: www. timecrime.it
Proprietà letteraria e artistica riservata
Progetto grafico: Grafica Effe
Questa copia è concessa in uso esclusivo a
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Per Kate e Kate
Parte prima
DECATUR CITY OBSERVER
17 GIUGNO 1985
UCCISA ADOLESCENTE
DI DECATUR
La quindicenne Mary Alice Finney è stata trovata morta dai genitori nella loro casa
in Adam Street ieri mattina. La polizia non ha rivelato particolari riguardo al
crimine dichiarando solo che si tratta di omicidio e che stanno interrogando le
ultime persone viste in compagnia della Finney. Paul Finney, padre della ragazza e
assistente procuratore distrettuale per la contea di DeKalb, in una dichiarazione
rilasciata la notte scorsa ha affermato che la polizia consegnerà l’assassino della
figlia alla giustizia. Studentessa modello alla Decatur High School, Mary Alice
faceva parte del gruppo delle cheerleader ed era stata recentemente eletta
rappresentante di classe del secondo anno. Fonti vicine alle indagini hanno
confermato che il corpo della ragazza è stato trovato mutilato.
1
5 febbraio 2006
Il detective Michael Ormewood ascoltava la partita di football alla radio mentre
guidava lungo DeKalb Avenue diretto verso Grady Homes. Più si avvicinava al
quartiere di case popolari, più la sua tensione cresceva: aveva quasi cominciato a
vibrare dal nervosismo quando prese la strada a destra, che conduceva in quella
che la maggior parte degli agenti di polizia considerava una zona di guerra. A
mano a mano che l’Atlanta Housing Authority andava lentamente divorando sé
stessa, le comunità sovvenzionate come Grady diventavano sempre più obsolete.
Gli immobili dentro la città erano troppo costosi, la possibilità di una richiesta di
tangenti troppo elevata. Proprio in fondo alla strada c’era Decatur, con i suoi
ristoranti alla moda e le ville da milioni di dollari. A circa un chilometro nella
direzione opposta sorgeva la cupola del palazzo del Governo della Georgia,
rivestita d’oro. Grady suonava come la peggiore delle ipotesi lì in mezzo, un
promemoria vivente del fatto che una città troppo impegnata per odiare era
anche troppo impegnata per prendersi cura di sé.
A causa della partita le strade erano quasi vuote. I trafficanti di droga e i
papponi si erano presi una notte libera per assistere a un miracolo rarissimo: gli
Atlanta Falcons che giocavano il Super Bowl. Essendo domenica sera, le prostitute
erano ancora per strada a guadagnarsi da vivere, cercando di dare ai fedeli un
motivo per confessarsi la settimana seguente. Alcune delle ragazze salutarono
con la mano Michael mentre passava con la sua auto, e lui rispose al saluto
domandandosi quante auto in borghese si fermassero lì nel cuore della notte
mentre i poliziotti comunicavano al dispatch che entravano in pausa per dieci
minuti, per poi far cenno a una delle ragazze perché li aiutassero ad allentare un
po’ di tensione.
La palazzina 9 era ai margini del quartiere, un edificio a mattoni rossi, fatiscente,
controllato dai Ratz, una delle ultime bande a essersi trasferita nelle Homes.
Quattro auto della polizia e una in borghese stavano davanti all’edificio,
lampeggianti accesi e radio che gracchiavano. Parcheggiate nei posti per i
residenti c’erano una BMW nera e una Lincoln Navigator strafiga con i suoi cerchi
razor da diecimila dollari che luccicavano come oro alla luce dei lampioni. Michael
lottò contro l’istinto di girare di scatto il volante e staccare un po’ di vernice dal
SUV da settantamila dollari. Vedere macchine costose guidate dai papponi lo
faceva incazzare. Nell’ultimo mese il figlio era cresciuto di circa dieci centimetri e i
jeans gli andavano tutti corti, ma per degli abiti nuovi si sarebbe dovuto aspettare
il prossimo stipendio. Tim dava adesso l’idea di attendere l’alta marea mentre i
soldi delle tasse di papino andavano ad aiutare questi delinquenti a pagare
l’affitto.
Anziché scendere dall’auto, Michael aspettò, continuando a sentire qualche
secondo della partita, così da godersi un momento di pace prima che il suo
mondo venisse messo sottosopra. Era nella polizia da quasi quindici anni ormai,
nella quale si era trasferito direttamente dall’esercito, realizzando troppo tardi
che, a parte il taglio di capelli, non c’era poi grande differenza tra le due cose.
Sapeva che una volta sceso dall’auto ogni cosa sarebbe diventata frenetica. Le
notti insonni, gli infiniti indizi che non portavano mai da nessuna parte, il fiato dei
superiori sul collo. Anche la stampa, probabilmente, avrebbe fiutato qualcosa. Si
sarebbe quindi ritrovato sotto l’obiettivo ogni volta che lasciava la squadra, e con
persone che gli avrebbero chiesto perché il caso non era stato risolto, e suo figlio
lo avrebbe visto al telegiornale e avrebbe chiesto a papino perché la gente era
così arrabbiata con lui.
Collier, un giovane poliziotto di quartiere con i bicipiti così gonfi da non riuscire
a stendere le braccia lungo i fianchi, bussò al vetro, facendo segno a Michael di
abbassare il finestrino. Collier aveva fatto un movimento circolare con la mano,
anche se forse quel ragazzo non era mai salito su una macchina con l’alzacristalli
manuale.
Michael premette il pulsante sul quadro. «Sì?» disse, mentre il vetro scendeva.
«Chi vince?»
«Non Atlanta» rispose Michael, e Collier annuì come se se l’aspettasse. L’ultima
volta che Atlanta era arrivata al Super Bowl risaliva a diversi anni prima. Denver
l’aveva battuta per 34 a 19.
«Come sta Ken?» domandò Collier.
«Al solito» rispose Michael senza offrire spiegazioni in merito alla salute del suo
collega.
«Sarebbe stato d’aiuto in questo caso.» Il poliziotto di pattuglia indicò di scatto
con la testa verso l’edificio. «Si tratta di una faccenda per niente piacevole.»
Michael non si lasciò sfuggire il suo punto di vista. Il ragazzo non aveva più di
ventiquattro anni, forse viveva ancora nel seminterrato insieme alla madre, ma
credeva di essere un uomo solo perché portava una pistola nella fondina. Michael
aveva conosciuto diversi Collier nel deserto iracheno quando Bush padre aveva
deciso d’invadere. Tutti giovanotti impazienti con quel luccichio negli occhi che
raccontava che si erano arruolati per più di tre pasti al giorno e un’istruzione
gratuita. Erano ossessionati dal dovere e dall’onore e da tutta quella merda che
avevano visto in tv e che i reclutatori gli avevano fatto mangiare quando li
avevano strappati dalle scuole superiori come ciliegie mature. Gli avevano
promesso addestramento tecnico e incarichi in basi vicino casa, qualunque cosa
che potesse convincerli a firmare lungo la linea tratteggiata. La maggior parte si
era ritrovata poi trasferita a bordo del primo aereo da trasporto diretto nel
deserto, dove erano stati uccisi prima ancora di avere il tempo di mettersi
l’elmetto.
Ted Greer uscì dal palazzo, allentando il nodo della cravatta come se avesse
difficoltà a respirare. Il tenente era piuttosto pallido per essere un nero che
trascorreva la maggior parte del suo tempo dietro a una scrivania, crogiolandosi
alla luce delle lampadine fluorescenti, in attesa di andare in pensione.
Vide Michael ancora seduto in macchina e si accigliò. «Sei di servizio stasera o
sei fuori per fare un giro?»
Michael scese dall’auto con tutta calma, togliendo la chiave dal quadro proprio
mentre cominciava la radiocronaca del secondo tempo. La serata era mite per
essere febbraio e gli impianti di condizionamento che la gente aveva attaccato
alle finestre ronzavano come api intorno a un alveare.
Greer sbraitò verso Collier. «Non hai niente da fare tu?»
Collier ebbe il buonsenso di andarsene, abbassando il mento sul petto come se
avesse ricevuto un colpo improvviso al naso.
«Un bel casino» disse Greer a Michael. Tirò fuori il fazzoletto per asciugarsi la
fronte. «Roba da pervertiti.» Michael aveva sentito la stessa cosa quando aveva
risposto alla telefonata che lo aveva fatto alzare dal divano del suo salotto.
«Dov’è?»
«Sesto piano.» Greer ripiegò il fazzoletto in un quadrato perfetto e se l’infilò in
tasca. «Abbiamo rintracciato la chiamata al 911 da quel telefono.» Indicò l’altro
lato della strada.
Michael fissò lo sguardo sulla cabina telefonica, un cimelio del passato.
Chiunque aveva un cellulare al giorno d’oggi, tanto più trafficanti e papponi.
«Una voce di donna» gli disse Greer. «Domani avremo il nastro.»
«Quanto c’è voluto prima che qualcuno arrivasse?»
«Trentadue minuti» rispose Greer, e Michael si stupì che non ci avessero messo
di più. Secondo l’inchiesta di un giornale locale, i tempi di risposta a una chiamata
di emergenza proveniente da Grady si aggiravano intorno ai quarantacinque
minuti. Un’ambulanza impiegava ancora di più.
Greer si voltò di nuovo verso l’edificio come se questo potesse assolverlo. «In
questa faccenda saremo costretti a chiedere aiuto.»
Michael rabbrividì di fronte a quell’ipotesi. Statisticamente, Atlanta era una
delle città più violente d’America. Una prostituta morta difficilmente era
considerata un evento sismico, per non contare il posto in cui era stata trovata.
«Ci mancano solo degli altri stronzi che mi dicano come fare il mio lavoro» disse
a Greer.
«Lo stronzo che hai davanti crede che sia esattamente quello di cui hai bisogno»
ribatté il tenente. Michael sapeva che non serviva discutere, non tanto perché
Greer non avrebbe sopportato la sua insubordinazione ma perché gli avrebbe
dato ragione pur di non starlo a sentire, per poi girarsi dall’altra parte e fare
comunque quello che cavolo voleva.
«Questa è una brutta storia» aggiunse Greer.
«Sono tutte brutte» ribatté Michael, aprendo la portiera posteriore dell’auto
per prendere la giacca.
«La ragazza non ha avuto scampo» proseguì Greer. «Percosse, tagli. È stata
violentata sei volte in ogni modo possibile e immaginabile. Abbiamo un fottuto
squilibrato tra le mani.»
Michael s’infilò la giacca pensando che Greer avrebbe potuto fare un provino
per la HBO. «Ken è uscito dall’ospedale. Dice che possiamo andare a trovarlo.»
Greer blaterò qualcosa sul fatto che negli ultimi tempi era impegnatissimo
prima di affrettarsi verso la sua auto, guardandosi alle spalle come nel timore che
Michael potesse seguirlo. Questi aspettò che il suo capo fosse salito in macchina e
si fosse mosso dal parcheggio prima di dirigersi verso l’edificio.
Collier era in piedi all’entrata, la mano poggiata sul calcio della pistola.
Probabilmente credeva di fare la guardia, ma Michael sapeva che chi aveva
commesso il crimine non sarebbe certo tornato. Aveva finito con quella donna.
Non voleva fare altro.
«Il capo se n’è andato in fretta» disse Collier.
«Ti ringrazio per questo flash d’agenzia.»
Michael si fece coraggio mentre apriva la porta lasciando che il palazzo buio e
umido lo risucchiasse lentamente all’interno. Chiunque avesse progettato le
Homes non pensava a ragazzi felici che tornavano a casa da scuola per trovare
latte e biscotti caldi. Si era concentrato sulla sicurezza, riducendo al minimo gli
spazi aperti e coprendo tutte le fonti d’illuminazione con una rete d’acciaio a
protezione delle lampadine. Le pareti erano in calcestruzzo a vista con strette
finestre infilate in punti angusti e difficili, e una rete metallica di sicurezza
incorporata nel vetro che creava l’effetto di ragnatele uniformi. Uno strato di
vernice spray ricopriva superfici che un tempo erano state dipinte di bianco.
Adesso c’erano graffiti, minacce e informazioni di vario genere. A destra del
portone d’ingresso qualcuno aveva scarabocchiato: ‘Kim è una puttana! Kim è una
puttana! Kim è una puttana!’
Michael alzò lo sguardo sulle scale che salivano a spirale, contando le sei rampe,
quando sentì lo scricchiolio di una porta. Si voltò e si trovò di fronte una nera
decrepita che lo fissava, gli occhi come il carbone che sbirciavano dallo spiraglio
della porta d’acciaio.
«Polizia» disse lui, mostrando il distintivo. «Non abbia paura.»
La porta si aprì ancora un po’. La donna portava un grembiule fiorato sopra una
maglietta bianca macchiata e un paio di jeans. «Non ho mica paura di te,
frocetto.»
Riunite intorno a lei c’erano altre quattro vecchie, tutte afroamericane salvo
una. Michael sapeva che non erano lì per dare una mano. Grady, come ogni
piccola comunità, si nutriva di pettegolezzi e quelle erano le bocche che
alimentavano la linea di approvvigionamento.
«Nessuna di voi ha visto niente?» si vide comunque costretto a chiedere.
Scrollarono il capo all’unisono, come teste ciondolanti sul cruscotto Grady.
«Fantastico» disse Michael, rinfilando il distintivo in tasca e dirigendosi verso le
scale. «Grazie per il vostro contributo alla sicurezza della vostra comunità.»
«Questo è compito tuo, stronzo» rispose secca lei.
Lui si fermò, il piede immobile sul primo gradino. Si voltò verso di lei,
guardandola fissa negli occhi. Lei rispose con lo stesso sguardo furioso, mentre gli
occhi cisposi che si muovevano a scatti sembravano leggere il libro della vita che
lui si portava scritto dentro. La donna era più giovane delle altre, probabilmente
sulla settantina, ma per qualche motivo appariva più grigia e più piccola delle
compagne. Rughe sottilissime le increspavano la pelle intorno alle labbra, grinze
scavate da anni e anni di tiri di sigaretta. Radi capelli grigi e arruffati le
attraversavano la testa, simili ai peli che si arricciavano sotto il mento come
treccine rasta. Sulle labbra portava la più sorprendente tonalità di arancione che
avesse mai visto su una donna.
«Come si chiama?» le domandò.
Il mento di lei scattò in alto in segno di disprezzo, ma in ogni caso gli rispose.
«Nora.»
«Qualcuno ha chiamato il 911 dalla cabina qui fuori.»
«Spero che dopo si siano lavati le mani.»
Michael si lasciò sfuggire un sorriso. «La conosceva?»
«La conoscevamo tutti.» Il tono indicava che c’era molto altro da dire, ma che
lei non lo avrebbe certo spifferato a un imbecille di sbirro bianco. Ovviamente
Nora non era un pozzo di scienza, ma Michael non aveva mai attribuito grande
importanza a questo genere di cose. Dal suo sguardo poteva intuire che era una
donna sveglia. Aveva quella furbizia che viene dall’esperienza della vita di strada.
Non si arrivava a quell’età in un posto come Grady se si era stupidi.
Michael ritirò il piede dallo scalino, arretrando verso il gruppo di donne.
«Lavorava?»
Nora continuò a fissarlo, ancora diffidente. «Quasi tutte le notti.»
«Una persona onesta» disse dietro di lei la donna bianca.
Nora fece schioccare la lingua. «Un affarino così giovane.» C’era un tono di sfida
nella sua voce. «Non era vita, ma che altro poteva fare?»
Michael annuì, a indicare che aveva capito. «Aveva clienti fissi?»
Scrollarono di nuovo la testa tutte insieme. «Non portava mai il lavoro a casa»
disse Nora.
Michael aspettò, chiedendosi se avrebbero aggiunto altro. Contò mentalmente i
secondi, stabilendo di arrivare fino a venti. Un elicottero sorvolò l’edificio e le
ruote di una macchina sgommarono sull’asfalto un paio di strade più in là, ma
nessuno vi prestò attenzione. Questo era il tipo di quartiere dove la gente
diventava nervosa se non sentiva colpi di pistola almeno un paio di volte a
settimana. C’era un ordine naturale nelle loro vite, e la violenza, o anche solo la
minaccia, ne faceva parte almeno quanto il fast food e i liquori economici.
«D’accordo» disse Michael, dopo aver contato fino a venticinque. Tirò fuori uno
dei suoi biglietti da visita. «Qualcosa con cui pulirsi il culo» disse, porgendolo a
Nora.
Grugnì disgustata, tenendo il bigliettino tra il pollice e l’indice. «Il mio culo è più
grande di questo coso.»
Lui ammiccò con aria sfacciata e trasformò la voce in un ringhio. «Non creda che
non l’abbia notato, mia cara.»
La donna esplose in una risata mentre gli sbatteva la porta in faccia. Aveva
tenuto il biglietto, però. Doveva considerarlo un segnale positivo.
Michael si avviò di nuovo verso le scale, facendo due gradini alla volta per la
prima rampa. Tutte le palazzine a Grady avevano l’ascensore, ma quei pochi che
funzionavano erano comunque pericolosi. Durante il suo primo anno da agente di
pattuglia, Michael era stato chiamato alle Homes per una lite domestica ed era
rimasto chiuso in uno di quei marchingegni cigolanti con la ricetrasmittente rotta.
Aveva trascorso quasi due ore a cercare di non far caso al puzzo insopportabile di
piscio e vomito prima che il suo sergente si rendesse conto che non aveva fatto
rapporto e mandasse qualcuno a cercarlo. Gli agenti anziani avevano riso della
sua stupidità per un’altra mezz’ora prima di aiutarlo a uscire.
Era entrato nel gruppo.
Appena Michael cominciò a salire la seconda rampa di scale, sentì l’aria
cambiare. Dapprima fu l’odore a colpirlo: il solito odore di fritto mischiato a birra
e sudore, a cui si sostituì l’improvviso ma inequivocabile fetore di morte violenta.
Gli inquilini dell’edificio avevano reagito alla fatalità nel solito modo. Invece del
ritmo rap martellante sparato da casse multiple, Michael sentiva solo un
mormorio di voci da dietro le porte chiuse. Il volume dei televisori era basso, con
il secondo tempo della partita che faceva da sottofondo mentre la gente parlava
della ragazza del sesto piano e ringraziava il Signore che stavolta si trattava di lei e
non dei loro figli, delle loro figlie, o di loro stessi.
In questa calma relativa, giù per le scale cominciò a diffondersi l’eco di alcuni
suoni: i rumori familiari della scena del delitto su cui si raccoglievano indizi e si
scattavano foto. Michael si fermò sul pianerottolo del quarto piano per riprendere
fiato. Aveva smesso di fumare da due mesi, ma i suoi polmoni non gli avevano
creduto del tutto. Si sentiva un asmatico. Sopra di lui qualcuno scoppiò a ridere,
mentre gli altri agenti si univano al coro, partecipando alle solite spacconate e
stronzate che rendevano sopportabile quel lavoro.
Al piano di sotto, una porta si aprì di scatto e Michael si sporse sopra la
ringhiera a osservare due donne che litigavano con una barella nell’atrio.
Portavano un giubbotto antipioggia blu, con una scritta gialla accesa sulla schiena:
OBITORIO.
«È quassù» gridò Michael.
«Che piano?» domandò una delle due.
«Sesto.»
«Cazzo.»
Michael si afferrò al corrimano e si arrampicò per gli ultimi scalini, sentendo le
due donne lanciare altre imprecazioni mentre salivano, con la barella che sbatteva
contro le ringhiere di metallo producendo il suono di una campana rotta. Era a
una rampa dalla cima quando gli si drizzarono i capelli dietro la nuca. Il sudore gli
aveva appiccicato la camicia alla schiena, ma una specie di sesto senso gli fece
correre un brivido lungo tutto il corpo.
Il lampo di un flash e il ronzio di una macchina fotografica. Michael aggirò con
attenzione una scarpa rossa con tacco a spillo che stava dritta su un gradino,
come se qualcuno si fosse seduto lì e se la fosse tolta. Il gradino successivo aveva
l’impronta perfetta di una mano insanguinata che si aggrappava allo scalino. In
piedi sul pianerottolo in cima alla quinta rampa c’era Bill Burgess, un esperto
poliziotto di quartiere che aveva visto quasi ogni tipo di crimine che Atlanta aveva
da offrire. Accanto a lui c’era una pozza scura di sangue che si andava coagulando,
i cui bordi si allargavano in rigagnoli gocciolanti da un gradino all’altro come
tessere da domino. Michael interpretò la scena. Qualcuno aveva inciampato in
quel punto, cercando di tirarsi su, lasciando una striscia di sangue mentre tentava
di fuggire.
Bill stava guardando giù per le scale, da tutt’altra parte rispetto al sangue. Era
impallidito, le labbra un sottile taglio rosa. Michael si fermò di colpo, pensando di
non aver mai visto Bill turbato prima di allora. Quello era l’uomo che aveva
mangiato ali di pollo un’ora dopo aver trovato sei dita umane tra i rifiuti di un
ristorante cinese.
I due uomini non dissero niente mentre Michael faceva attenzione a non
mettere i piedi sulla pozza di sangue. Tenne la mano sulla ringhiera, girando verso
la rampa successiva, grato del fatto di avere qualcosa a cui tenersi nel momento
in cui si trovò di fronte la scena.
La donna era seminuda, il vestito rosso aderente strappato e aperto come un
accappatoio, che lasciava intravedere una pelle color cioccolato e un ciuffo nero
di peli pubici rasato in una striscia sottile. I seni dritti in modo innaturale sul petto,
tenuti su alla perfezione dalle protesi. Un braccio era disteso all’infuori, l’altro
poggiava sopra la testa, con le dita che si protendevano verso il corrimano come
se il suo ultimo pensiero fosse stato quello di aggrapparsi. La gamba destra era
divaricata, la sinistra era distesa obliquamente tanto che lui poteva vedere la
vulva.
Michael fece un altro passo, cercando di non pensare alla concitazione intorno a
lui, provando a immedesimarsi nell’assassino. Il trucco le imbrattava il volto,
rossetto pesante e fard scuro per mettere in evidenza i lineamenti. I capelli ricci e
neri erano striati di arancione, e allargati in tutte le direzioni. Aveva un bel corpo,
o comunque migliore di quanto ci si potesse aspettare da quello che i segni
dell’ago sulle braccia rivelavano: una donna con una dipendenza che soddisfaceva
grazie a quello che aveva in mezzo alle gambe. I lividi sulle cosce potevano esserle
stati causati dall’assassino o da un cliente a cui piaceva farlo in modo duro. Se era
vera la seconda ipotesi, allora forse era stata al gioco, consapevole che quel
dolore le avrebbe fatto guadagnare più soldi, e che più soldi significavano un
piacere più grande successivamente, quando l’ago sarebbe entrato e quella calda
sensazione si sarebbe diffusa attraverso le vene.
Aveva gli occhi spalancati, che fissavano inespressivi la parete. Una delle ciglia
finte era caduta creando un terzo rigo di ciglia sotto l’occhio sinistro. Il naso era
rotto, la guancia decentrata perché le ossa sotto l’occhio erano state frantumate.
La luce rifletteva su qualcosa all’interno della bocca spalancata e Michael si
avvicinò ancora, notando che era piena di liquido fino al bordo, e che il liquido era
sangue. La luce del soffitto si rifletteva sul rosso come una mezza luna.
Pete Hanson, il medico legale, stava in cima alle scale a parlare con Leo
Donnelly. Leo era uno stronzo, sempre a fare la parte del duro, a farsi beffe di
tutto, un tipo che rideva troppo, ma Michael lo aveva visto al bancone fin troppe
volte, la mano che tremava mentre ingurgitava uno scotch dietro l’altro per
cercare di togliersi dalla bocca il sapore della morte.
Leo notò Michael e accennò un sorriso come fossero stati vecchi amici che
s’incontravano per divertirsi. Teneva in mano una busta per le prove sigillata e
continuava a lanciarla in aria a un’altezza di circa cinque centimetri e a riprenderla
come se si stesse preparando a lanciarla.
«Che cavolo di notte per essere in servizio» disse Leo.
Michael non voleva ammettere a sé stesso di essere d’accordo con lui. «Cos’è
successo?»
Leo continuò a lanciare in aria la busta, soppesandola con la mano. «Il dottore
dice che è morta dissanguata.»
«Probabilmente» lo corresse Pete. Michael sapeva che il dottore amava Leo
quanto tutti gli altri nel dipartimento, il che voleva dire che non lo sopportava,
quel bastardo. «Ne saprò di più quando l’avrò messa sul tavolo.»
«Prendi» disse Leo, lasciando cadere verso Michael la busta con la prova.
La vide arrivare a rallentatore, la busta che solcava l’aria capovolta come una
palla da football dalla traiettoria a effetto. La prese prima che toccasse terra e le
dita si chiusero su una cosa spessa e viscida.
«Una cosa per il tuo gatto» gli disse Leo.
«Che ca...» Michael s’interruppe. Sapeva cos’era.
«Che faccia!» La risata di Leo esplose rimbalzando sui muri.
Michael non poté fare altro che fissare la busta. Sentiva il sapore del sangue
dietro la gola, il pungolo metallico della paura inattesa. La voce che uscì dalle sue
labbra non gli apparteneva, era come se si trovasse sott’acqua, forse stava
annegando. «Cos’è successo?»
Leo stava ancora ridendo, perciò fu Pete a rispondere. «Le ha strappato la
lingua con un morso.»
2
6 febbraio 2006
Una volta tornato dal Golfo, Michael era stato ossessionato dagli incubi
notturni. Appena chiudeva gli occhi, vedeva pallottole arrivargli contro, bombe
che dilaniavano corpi, bambini che correvano per strada gridando ‘mamma’.
Michael sapeva dove fossero le loro mamme. Era lì, impotente, mentre le donne
cercavano di rompere i vetri delle finestre della scuola, per aprirsi un varco
mentre l’incendio scatenato dall’esplosione di una granata le bruciava vive.
Adesso era Aleesha Monroe a perseguitarlo. La donna senza lingua trovata sulle
scale l’aveva seguito fino a casa, operando una qualche magia nei suoi incubi
tanto che era Michael a inseguirla su per le scale, Michael che la faceva cadere di
schiena sul pianerottolo. Riusciva a sentire le sue lunghe unghie rosse che gli
affondavano nella pelle mentre lei cercava di respingerlo, di soffocarlo. Non
riusciva a respirare. Cominciò ad afferrarsi il collo, le mani di lei, cercando di farla
smettere. Si svegliò gridando così forte che Gina si tirò su a sedere accanto a lui,
sul letto, stringendosi le lenzuola al petto come se si aspettasse di vedere un
maniaco nella loro stanza.
«Gesù, Michael» disse con un sibilo, con la mano sul cuore. «Mi hai fatto morire
di paura.»
Lui allungò una mano e prese il bicchiere sul comodino, versandosi l’acqua
addosso mentre beveva lunghi sorsi per spegnere il fuoco che sentiva in gola.
«Tesoro» disse Gina, sfiorandogli il collo con la punta delle dita. «Che succede?»
Michael sentì una fitta e si portò le dita dove lei lo stava toccando. C’era un
graffio sulla pelle e quando si alzò per specchiarsi al comò vide una sottile riga di
sangue sul taglio fresco.
Lei si alzò in piedi accanto a lui. «Ti sei graffiato da solo nel sonno?»
«Non lo so.» Lo sapeva, invece. Non aveva ancora ripreso fiato dal sogno.
Gina arricciò il naso mentre si portava la mano di lui alla bocca. Per un attimo,
Michael pensò che stesse per baciarla, e invece gli domandò: «Perché puzzi di
candeggina?»
Doveva sfregarsela di dosso, quella puzza, l’appiccicume che veniva dallo stare
intorno ai morti. Michael non le disse questo, non voleva entrare in quel discorso.
«Che ora è?» chiese, strizzando gli occhi verso la sveglia.
«Merda» gemette lei, lasciandogli la mano. «Tanto vale che mi vesta. Il mio
turno inizia tra due ore.»
Michael prese in mano la sveglia. Sei e mezza. Dopo aver analizzato la scena del
crimine, perquisito l’appartamento della donna e aver sbrigato le carte, aveva
dormito forse per quattro ore.
L’acqua uscì dalla doccia, le tubature brontolarono nella parete quando si
accese lo scaldabagno. Michael entrò nel bagno e si mise a guardare Gina che si
toglieva la camicia con cui aveva dormito.
«Tim è già in piedi» disse lei, togliendosi le mutande. «Vai a vedere che non stia
combinando qualcosa.»
Michael si appoggiò alla parete, ammirando quel ventre piatto, il modo in cui i
muscoli delle braccia si allungavano mentre si toglieva l’elastico dai capelli. «Sta
facendo il bravo.»
Gina gli lanciò un’occhiata. La stava fissando. «Va’ a controllare.»
Michael sentì che un sorriso gli incurvava le labbra. I seni avevano mantenuto la
rotondità di quando era incinta di Tim, e per poco non cominciò a sbavare davanti
a quello spettacolo. «Chiama e di’ che stai male» le disse.
«D’accordo.»
«Ci guardiamo un film e ce la spassiamo sul divano.» Fece una pausa e poi provò
a dire: «Te lo ricordi come passavamo le ore, solo a baciarci?» Cristo, non lo
baciava da mesi. «Torniamo a baciarci così, Gina. Nient’altro. Solo baci.»
«Michael» disse Gina, allungando una mano per controllare la temperatura
dell’acqua. Entrò nella doccia. «Smettila di guardarmi in quel modo come se fossi
una battona e va’ a controllare tuo figlio.»
Chiuse la porta della doccia e lui aspettò un minuto intero prima di andarsene,
rimanendo a contemplare il suo profilo dietro il vetro, domandandosi quando era
stato che le cose avevano cominciato ad andare storte tra di loro.
Aveva conosciuto Gina prima che la sua unità partisse per il Golfo. Erano sicuri
di tornare sani e salvi da laggiù, ma Michael e i suoi compagni ci avevano dato
dentro, divertendosi il più possibile prima di essere spediti nel deserto. Ellen
McCallum era una graziosa biondina ossigenata, non troppo intelligente, proprio il
tipo a cui tornare con la mente quando si è bloccati in una sudicia tenda
circondata di sabbia a un milione di chilometri da casa, raccontando ai compagni
della ragazza che hai a casa che sarebbe capace di succhiare la pelle da un divano.
Michael aveva passato quasi un’intera settimana a cercare di entrare nelle
mutande di Ellen quando tutt’a un tratto ecco spuntare Gina, sua cugina. Gliene
aveva dette di tutti i colori perché se l’era fatta con la sua cuginetta preferita, ma
quando s’imbarcò, un paio di giorni più tardi, era a Gina che Michael pensava. I
suoi capelli ricci e castani, i lineamenti delicati, la curva liscia del sedere. Cominciò
a scriverle e, con sua sorpresa, lei gli rispose. All’inizio era molto irritata, ma poi
con il tempo si era addolcita. Lui era in Kuwait, a mantenere la pace, come si
diceva allora, quando un pivello gli aveva sparato accidentalmente a una gamba
mentre giocava con la pistola. Per fortuna il ragazzo era un pessimo tiratore, ma la
ferita non guariva. Quando Michael venne trasferito in una base in Germania, fu
Gina la persona che chiamò per prima.
Si sposarono una settimana dopo che era stato dimesso e due settimane più
tardi firmò per entrare a far parte del dipartimento di polizia di Atlanta. Gina
prese il diploma di infermiera al Georgia Baptist e trovò lavoro al Crawford Long
Hospital. Due anni dopo, passò al Piedmont dove la pagavano meglio. Michael
ottenne il distintivo dorato e venne trasferito dalla polizia di quartiere a Grady alla
buoncostume, con un bell’aumento di stipendio. In poco tempo, la loro vita si era
messa meglio di quanto Michael avesse mai sperato. Comprarono una casa alla
periferia nord di Atlanta, cominciarono a mettere i soldi da parte, progettando di
farsi una famiglia. Poi arrivò Tim.
Era un bambino tranquillo, ma Michael aveva visto una scintilla in quei suoi
occhioni blu. La prima volta che aveva preso in braccio Tim era stato come tenere
in mano il suo stesso cuore. Fu Barbara, la madre di Gina, a notare per prima i
problemi. Non piange mai. Non partecipa. Resta a fissare le pareti per ore.
Michael lottò anima e corpo contro la cosa, ma il dottore confermò i sospetti di
Barbara. A un certo punto della gravidanza di Gina, Tim aveva sofferto di ipossia. Il
suo cervello non si sarebbe mai sviluppato oltre il livello di quello di un bambino
di sei anni. Non sapevano il perché, ma era così.
Michael non aveva mai amato Barbara. La sua diagnosi su Tim gliela fece odiare.
Era un luogo comune il fatto di non amare la propria suocera, ma lei aveva
sempre pensato che sua figlia si fosse svenduta e ora considerava il problema di
Tim come il fallimento di Michael. Era anche una di quelle credenti bigotte,
sempre pronta a trovare colpe negli altri. Non era solo il tipo del ‘bicchiere mezzo
vuoto’; credeva che il bicchiere fosse realmente mezzo vuoto e che sarebbero
finiti tutti all’inferno per questo.
«Tim?» chiamò Michael, infilandosi una maglietta mentre camminava per casa.
«Dove sei?»
Sentì una risatina da dietro al divano, ma continuò a camminare verso la cucina.
«Dove sarà andato Tim?» domandò, notando che il figlio aveva rovesciato una
scatola di Cheerios sul tavolo della cucina. La ciotola blu di Tim era piena di latte
fino al bordo, e per un secondo Michael rivide la bocca rossa, rossissima di
Aleesha Monroe, piena del suo stesso sangue.
«Bu!» gridò Tim, afferrando Michael per la vita.
Michael trasalì, anche se Tim lo faceva praticamente tutte le mattine. Il cuore gli
batteva forte in petto, mentre prendeva in braccio il figlio. Il bambino aveva otto
anni ormai, era troppo grande per prenderlo in braccio, ma Michael non poté
farne a meno. Tirò indietro con delicatezza la ciocca ribelle sulla fronte di Tim.
«Dormito bene, ragazzo?»
Tim annuì, tirandosi indietro dalla mano di Michael, spingendo contro la spalla
per scendere.
«Diamo una pulita a questo casino prima che arrivi Ba-Ba» suggerì, raccogliendo
con la mano alcuni cereali per rimetterli nella scatola. Barbara veniva durante la
settimana a guardare Tim. Lo portava a scuola e lo andava a riprendere, si
assicurava che facesse merenda e finisse i compiti. Passava con lui più tempo di
Michael o Gina, ma i due non avevano scelta.
«A Ba-Ba non piacerà questo casino» disse Michael.
«No» convenne Tim. Stava seduto a tavola, con le gambe piegate sotto al
sedere. La patta del suo pigiama di Spider-Man era aperta.
«Rimetti dentro la tua attrezzatura» lo rimproverò Michael, cercando di
scacciare il velo di tristezza che lo assalì nel guardare Tim che non sapeva che
farsene dei suoi bottoni.
Michael era figlio unico, e forse era un po’ viziato. Quando arrivò Tim, non ne
sapeva nulla di come si sta dietro a un bambino. Il cambio del pannolino di Tim si
rivelava ogni volta un’esperienza imbarazzante, una cosa da sbrigare il più in
fretta possibile senza sporcarsi troppo le mani. Ora, tutto quello a cui Michael
riusciva a pensare era che Tim sarebbe entrato nella pubertà entro pochi anni. Il
suo corpo avrebbe iniziato a crescere, trasformandolo in un uomo, ma il cervello
non avrebbe mai fatto altrettanto. Non avrebbe mai saputo cosa significava fare
l’amore con una donna, usare quello che Dio gli aveva dato per dare piacere a un
altro essere umano. Non avrebbe mai avuto figli. Tim non avrebbe mai conosciuto
la gioia e l’angoscia di essere padre.
«Chi ha combinato questo casino?» domandò Gina. Era avvolta nella vestaglia di
seta blu che Michael le aveva regalato per Natale un paio di anni prima, con i
capelli raccolti in un asciugamano. «Sei stato tu a combinare questo casino?»
disse rivolta a Tim con tono canzonatorio, sollevandogli il mento con la mano e
baciandolo sulle labbra. «Ba-Ba non sarà molto contenta» aggiunse. Michael
provava un piacere segreto per il fatto che il ragazzo non fosse mai riuscito a
chiamare Barbara nonna, come lei avrebbe voluto.
Tim dava una mano a pulire, creando solo ulteriore confusione. «Oh-oh» disse,
inginocchiandosi a raccogliere un Cheerios alla volta, contando ad alta voce
mentre li passava alla madre.
«Torni a casa per un’ora decente stasera?» domandò Gina.
«Ti ho già detto che dovevo occuparmi di un caso.»
«In un bar?» domandò lei, e lui le voltò le spalle per piegarsi a prendere un paio
di tazze nella credenza. Era troppo carico la sera precedente per tornare subito a
casa. Leo aveva suggerito di andare a bere qualcosa, parlare del caso, e Michael
aveva accettato l’offerta, approfittando di quella scusa per buttare giù un paio di
bourbon in modo da superare l’effetto di quello che aveva visto.
«Undici...» contò Tim. «Dodici.»
«Puzzi come un posacenere» disse Gina.
«Non ho fumato.»
«Non ho detto che l’hai fatto.» Lasciò cadere una manciata di Cheerios nella
scatola e allungò la mano per prenderne altri da Tim.
«Quattordici» proseguì Tim.
«È stata una cosa veloce.» Michael versò il caffè nelle tazze. «Leo voleva parlare
del caso.»
«Leo cercava una scusa per ubriacarsi come uno stronzo.»
«Oh-oh» cantilenò Tim.
«Scusa, tesoro» disse Gina al figlio. Ammorbidì il tono. «Sbaglio o hai saltato un
numero? Che fine ha fatto il tredici?»
Tim scrollò le spalle. Sapeva contare solo fino a ventotto, ma Gina stava attenta
che non si perdesse numeri per strada.
«Va’ a vestirti per Ba-Ba. Sarà qui tra poco.»
Tim si alzò in piedi e uscì di corsa dalla stanza, saltando ora su un piede ora
sull’altro.
Gina lasciò cadere i Cheerios nella scatola e si sedette con un sospiro. Era
riuscita a ottenere un doppio turno questo fine settimana per racimolare soldi
extra. Il giorno non era ancora cominciato e già sembrava esausta.
«Serata movimentata?» domandò lui.
Lei bevve un sorso di caffè e lo guardò da dietro il vapore che saliva dalla tazza.
«Servono soldi per il nuovo terapista.»
Michael sospirò, appoggiandosi al bancone. Il vecchio logopedista di Tim aveva
fatto il possibile. Il bambino aveva bisogno di uno specialista e la spesa non era
coperta dall’assicurazione sanitaria nazionale.
«Cinquecento dollari» disse Gina. «Questo per arrivare alla fine del mese.»
«Cristo.» Michael si strofinò gli occhi con le dita, sentendo arrivare il mal di
testa. Pensò alla BMW e alla Lincoln che aveva visto a Grady Homes la sera
precedente. Tim avrebbe potuto incontrare cinquanta specialisti con quel denaro.
«Prendili dai risparmi» disse lui.
Lei rise sbuffando. «Quali risparmi?»
Natale. Avevano sperperato i loro risparmi per Natale.
«Ho intenzione di chiedere un altro turno all’ospedale.» Sollevò una mano per
fermare le sue proteste. «Lui deve avere il meglio.»
«Deve avere sua madre.»
«Che mi dici di tua madre?»
La mascella di Michael si contrasse. «Non ho intenzione di chiederle un solo
centesimo in più.»
Lei sbatté la tazza sul tavolo e il caffè le finì sul dorso della mano. Non se ne
usciva, Michael avrebbe dovuto saperlo, avevano discusso praticamente ogni
settimana negli ultimi cinque anni. Lui faceva gli straordinari, nel tentativo di
portare a casa più soldi, in modo che a Tim non mancasse niente. Gina si faceva
dare i turni del fine settimana, due volte al mese, ma Michael non ne poteva più
dei giorni di riposo passati a lavorare. La vedeva già poco così. A volte pensava che
lo facesse apposta. Non erano più una coppia sposata; erano un’associazione,
un’organizzazione non a scopo di lucro che lavorava per il bene di Tim. Michael
non riusciva neanche più a ricordare l’ultima volta che avevano fatto sesso.
«Ieri sera ha telefonato Cynthia» gli disse Gina. La vicina viziata della porta
accanto. «Ha un’asse che si muove o roba del genere.»
«Un’asse che si muove?» ripeté lui. «Non c’è Phil?»
Lei poggiò i palmi delle mani sul tavolo e si alzò in piedi. «Botswana. Che cavolo
ne so io, Michael. Ha solo chiesto se potevi andare a sistemargliela e io ho detto
di sì.»
«Non avresti potuto prima interpellarmi?»
«Libero di farlo o no» rispose lei secca, gettando il resto del caffè nel lavello.
«Devo vestirmi per andare al lavoro.»
Michael rimase a fissare la sua schiena mentre percorreva il corridoio. Tutte le
mattine la stessa storia: Tim che combinava qualche casino, loro che mettevano a
posto, poi scoppiava una discussione per una stupidaggine. Come se non
bastasse, Barbara sarebbe arrivata a momenti e Michael era certo che la suocera
avrebbe trovato qualche inezia di cui lamentarsi, fosse per il suo mal di schiena, il
suo insignificante assegno previdenziale o il fatto che lui le aveva dato un nipote
ritardato. Ultimamente aveva cominciato a lasciare articoli sulla sindrome della
Guerra del Golfo attaccati al frigorifero, quasi a insinuare che Michael avesse fatto
qualcosa di orribile in Iraq e che fosse quindi la causa del flagello che si era
abbattuto sulla sua famiglia.
Michael entrò in camera e si vestì in fretta, saltando la doccia per evitare di
entrare in bagno e avere di nuovo a che fare con Gina. Vide la Toyota di Barbara
imboccare il viale e prese il martello dalla scatola degli attrezzi, uscendo di
soppiatto dalla porta sul retro, mentre lei entrava da quella principale.
Durante l’ultima tormenta era caduto un albero sulla recinzione del cortile sul
retro. Con un salto la scavalcò, facendo attenzione a non rimanere impigliato con
il risvolto dei pantaloni e cadere faccia avanti, come gli era già successo.
Bussò alla porta sul retro, lanciando un’occhiata attraverso la finestra mentre
aspettava che Cynthia aprisse. Se la prese comoda, camminando per il corridoio
con un corto babydoll, aperto per mostrare il top e il perizoma bianco,
praticamente trasparente. Michael si domandò dove fosse Phil. Se Gina fosse mai
andata ad aprire la porta a Phil vestita in quel modo, Michael l’avrebbe uccisa.
Cynthia aprì la serratura, chinandosi in avanti e lasciando scoperta parte del
seno. I lunghi capelli biondi le coprivano il viso. Il top era così scollato che lui
riusciva a vedere il rosa dei capezzoli.
Michael si passò nervosamente il martello da una mano all’altra. Avvertiva un
ronzio elettrico nella testa. Avrebbe dovuto girare i tacchi e andarsene subito,
lasciare che si sistemasse l’asse da sola. Merda, Phil doveva pur tornare a casa
prima o poi, che se la riparasse da solo.
Cynthia gli sorrise mentre apriva la porta.
«Salve, vicino.»
«Dov’è Phil?»
«Indianapolis» rispose lei, portandosi le mani alla bocca per nascondere uno
sbadiglio. «A vendere calze contenitive per potermi mantenere secondo il tenore
a cui sono abituata.»
«Giusto.» Diede un’occhiata a quello che c’era alle spalle di Cynthia. La cucina
era un porcile. Mucchi di piatti incrostati nel lavello, cartoni di pizza a portar via
ovunque, posaceneri stracolmi di sigarette. Notò della muffa che si andava
formando su un bicchiere che conteneva qualcosa che sembrava succo d’arancia.
«Gina mi ha detto che hai un’asse che si muove.»
Sorrise come una gatta. «Va fissata.»
Michael mise giù il martello. «Perché hai chiamato lei?»
«Tra vicini ci si aiuta» rispose lei, con semplicità. «Hai detto a Phil che ti saresti
occupato di me mentre lui era via.»
Phil non intendeva in quel senso, però.
Lo tirò dentro prendendolo per il colletto della camicia. «Sembri così teso.»
«Non posso continuare a fare questo.»
«Perché, cosa stai facendo?» domandò lei, tirandolo più vicino a sé.
Lui pensò a Gina, al fatto che non lo guardava neanche più, a come si sentiva
quando lo respingeva. «È solo che non posso.»
La mano di lei premette forte sulla patta dei suoi pantaloni. «A me sembra
esattamente il contrario.»
Michael trattenne il respiro, mentre con gli occhi seguiva la curva di quei piccoli
seni fino ai capezzoli turgidi. Sentì la lingua che gli usciva dalle labbra,
pregustando come sarebbe stato mettere la sua bocca su quella di lei.
La donna gli aprì la lampo dei pantaloni e vi infilò la mano. «Ti piace questo?»
domandò, facendo con il pollice un movimento circolare.
«Cristo» rispose lui con un sibilo tra i denti. «Sì.»
DECATUR CITY OBSERVER
19 GIUGNO 1985
SI CERCANO TESTIMONI
NEL CASO FINNEY
La polizia è in cerca di testimoni del caso di Mary Alice Finney. La ragazza è stata
trovata uccisa domenica scorsa nella sua casa di Decatur. Il capo della polizia,
Harold Waller, ha dichiarato in una conferenza stampa che, quella sera, Mary
Alice era andata insieme a degli amici al centro commerciale Lenox Square, poi
aveva partecipato alla festa di un vicino a Decatur. La quindicenne è stata vista
l’ultima volta mentre lasciava la festa con uno sconosciuto. Chiunque abbia visto
la ragazza o abbia informazioni sullo sconosciuto è pregato di mettersi in contatto
con il dipartimento di polizia della contea di DeKalb. La famiglia non ha rilasciato
dichiarazioni, ma in un comunicato ufficiale, Paul Finney, assistente procuratore
distrettuale per la contea di DeKalb e padre della ragazza uccisa, ha chiesto che
venga rispettata la loro privacy. Stando a quanto affermano fonti vicine alla
polizia, Sally Finney, madre della ragazza, avrebbe trovato sua figlia in quello stato
quando è andata a svegliarla per recarsi a messa.
3
Michael si sentiva una merda. Cavolo, era una merda.
La prima volta con Cynthia si era trattato quasi di un contrattempo. Michael
sapeva che la scusa non stava in piedi, non era proprio come inciampare e finire
accidentalmente dentro una vagina, ma lui era davvero di quell’idea. Phil gli aveva
fatto un’interurbana una notte, sconvolto perché non riusciva a mettersi in
contatto con Cynthia. Quell’uomo era sempre in viaggio, a vendere biancheria
intima da donna ai grandi magazzini e probabilmente a inzuppare il biscotto lungo
il tragitto. Michael non ne aveva le prove, ma aveva lavorato alla buoncostume
per tre anni e conosceva il tipo: il lavoratore in trasferta che approfittava di quello
che la zona aveva da offrire. Le telefonate costanti che Phil faceva per controllare
Cynthia erano più che altro dettate dal senso di colpa, un modo per sorvegliare lei
quando non riusciva a fare altrettanto con sé stesso.
Gina allora lavorava la notte, e aveva già cominciato a respingerlo quando lui
provava ad avvicinarsi. Le necessità di Tim si erano fatte più pressanti e lei aveva
reagito dedicandosi anima e corpo al suo lavoro, facendo turni doppi perché non
sopportava il pensiero di tornare a casa e avere a che fare con il figlio malato.
Michael era angosciato, esausto per aver pianto così tanto le notti da
addormentarsi per lo sfinimento, solo.
Cynthia era disponibile, pronta a liberargli la mente da tutto ciò. Dopo la prima
volta si era detto che non sarebbe più successo e così era stato, almeno per un
anno. Michael aveva il suo lavoro e Tim, e questo era tutto ciò a cui pensava,
finché un giorno, la primavera precedente, Cynthia aveva accennato a Gina che il
lavello perdeva.
«Mettiglielo a posto» gli aveva detto. «Phil non c’è mai. Quella poverina non ha
nessuno che si prenda cura di lei.»
Non era innamorato di Cynthia e non era tanto stupido da pensare che lei
nutrisse quel tipo di sentimenti per lui. Arrivato ai quarant’anni, aveva imparato
che una donna impaziente di farti un pompino ogni volta che ti vede non è
innamorata, ma è in cerca di qualcosa. Forse a Cynthia piaceva il brivido di farsi
Michael nel letto di Phil. Forse le piaceva l’idea di vedere Gina dalla finestra della
cucina e sapere che si stava prendendo qualcosa che apparteneva a un’altra
donna. Michael non poteva permettersi di considerare le motivazioni di Cynthia.
Conosceva fin troppo bene le proprie. Per quei quindici o venti minuti che
trascorreva nella casa della porta accanto, la mente si svuotava e smetteva di
pensare al fatto di dover pagare degli specialisti, all’ipoteca sulla casa o alle
scadenze con la banca. Pensava solo alla bocca di lei, minuscola e perfetta, e al
suo piacere.
Un giorno, però, lei avrebbe chiesto qualcosa in cambio. Non era così stupido da
non saperlo.
«Ehi, Mike» chiamò Leo, battendo con le nocche sulla scrivania di Michael.
«Smettila di pensare al tuo cazzo.»
«Che c’è?» domandò Michael, rilassandosi sulla sedia. Al comando non c’era
nessuno a parte loro due e Greer, chiuso a chiave nel suo ufficio con gli avvolgibili
abbassati.
Michael indicò la porta chiusa. «Si sta facendo un’altra sega là dentro?»
«Con lui c’è un tipo strano che sembra Lurch, del GBI.»
«Perché?» domandò Michael, ma sapeva il perché. La notte prima Greer aveva
detto che avrebbe chiesto aiuto per quel caso, in altre parole che si sarebbe
rivolto al Georgia Bureau of Investigation.
«Non si consulta con me» replicò Leo, sedendosi sul bordo della scrivania di
Michael, sparpagliandogli le carte. Lo faceva in continuazione, non importava
quante volte Michael gli dicesse di stare attento.
«Ti ha fatto storie tua moglie ieri notte?»
«No» mentì Michael, vagando con lo sguardo. Il posto era deprimente e scuro,
con le finestre che davano sull’Home Depot dall’altra parte della strada, uno
strato di sporcizia sui vetri che tratteneva la luce del sole del mattino. City Hall
East era un edificio di dodici piani, un tempo un grande magazzino Sears, posto su
una curva in Ponce de Leon Road a occupare un intero isolato della città. Un
binario ferroviario separava la struttura da un vecchio stabilimento Ford,
riconvertito in costosi loft. Lo Stato aveva comprato anni prima l’edificio Sears
abbandonato, trasformandolo nella sede di diversi uffici governativi. C’erano
almeno trenta dipartimenti e più di cinquecento impiegati comunali. Michael
lavorava lì da dieci anni, ma a parte il garage sovraffollato, aveva visto solo i tre
piani occupati dal dipartimento di polizia di Atlanta e l’obitorio.
«Ehi» ripeté Leo, battendo di nuovo la mano sulla scrivania.
Michael allontanò la sedia dal tavolo con una spinta. A causa delle sigarette che
fumava una dopo l’altra e dei continui sorsi dalla bottiglia che teneva nel suo
armadietto, Leo aveva un alito che puzzava di scoreggia di cane. «Stai sognando a
occhi aperti qualche passera?»
«Chiudi il becco» rispose secco Michael, notando che non era andato poi così
lontano dalla verità. Leo lo faceva di continuo, non perché fosse un detective
zelante, ma solo perché non riusciva a tenere la bocca chiusa.
«Stavo pensando di andare a trovare Ken.» Leo tirò fuori un mandarino dalla
tasca del vestito e cominciò a sbucciarlo. «Come sta?»
«Bene» rispose Michael, sebbene in realtà non parlasse con Ken da una
settimana. Erano stati colleghi per un po’, legati come fratelli, fino a che un giorno
Ken non gli aveva stretto forte il braccio, e poi si era accasciato. Stava parlando a
Michael di una donna meravigliosa che aveva conosciuto la sera prima, e per una
frazione di secondo Michael pensò che la caduta fosse una sorta di scherzo. Poi
Ken aveva cominciato ad avere convulsioni. La bocca si era spalancata, floscia, e si
era pisciato addosso proprio lì, sul pavimento dell’ufficio. Cinquantatré anni ed
era finito fuori dai giochi come un vecchio. Tutta la parte destra del corpo era
andata, il braccio e la gamba inutili come un giornale bagnato. La bocca storta per
sempre, con la bava che gli colava sul mento come a un bambino.
Nessuno della squadra voleva vederlo, assistere ai suoi tentativi vani di farsi
capire. Ken era un monito di quello che aspettava la maggior parte di loro. Troppo
fumo, troppo alcol, due o tre matrimoni falliti, e alla fine ti ritrovi a trascorrere i
tuoi ultimi giorni da solo, inebetito davanti alla televisione, in una schifosa casa di
riposo statale.
La porta di Greer si aprì e uscì un uomo allampanato in un completo tre pezzi.
Portava una cartella di cuoio che nella sua grossa mano sembrava un francobollo.
Michael capiva adesso perché Leo lo avesse chiamato Lurch. Era alto più o meno
due metri e magro come un levriero. I capelli di un biondo scuro tagliati cortissimi
con la riga da una parte. Sembrava che gli avessero tagliato a metà il labbro
superiore e glielo avessero rimesso insieme storto. Come al solito, Leo aveva
scelto la serie televisiva sbagliata. Un bullone su entrambi i lati del collo e quel
tipo avrebbe potuto essere uno dei Mostri.
«Ormewood» disse Greer, accennando ad alzarsi. «Questo è l’agente speciale
Will Trent del CAT.»
Leo fece sfoggio della sua solita grazia. «Che cazzo sarebbe questo CAT?»
«Special Criminal Apprehension Team» spiegò Greer.
Michael riuscì quasi a sentire lo sforzo di Leo a non far notare che la sigla giusta
allora sarebbe stata SCAT. Non c’erano molte cose capaci di zittire il suo collega,
ma Trent stava in piedi vicino a Leo, superandolo di quasi trenta centimetri. Le
mani di quel tipo erano enormi, probabilmente grandi abbastanza da racchiudere
la testa di Leo e fracassargli il cranio come una noce di cocco.
Leo era un cazzone, ma non uno stupido.
«Faccio parte di un settore del Georgia Bureau of Investigation istituito per
aiutare il servizio d’ordine locale nella cattura di criminali violenti. Il mio ruolo qui
è puramente di carattere consultivo» disse Trent.
Parlava come se stesse leggendo un manuale, pronunciando attentamente ogni
singola parola. Con il suo completo tre pezzi sembrava un professore
universitario.
«Michael Ormewood.» Michael si addolcì e allungò la mano. La stretta di Trent
non era particolarmente vigorosa, ma nemmeno molle come se stesse afferrando
un pesce. «Questo è Leo Donnelly» disse Michael per presentare il collega, visto
che Leo era impegnato a infilarsi in bocca metà mandarino, con il succo che gli
colava lungo la mano.
«Agente.» Trent si limitò a un semplice cenno del capo. Diede un’occhiata al suo
orologio mentre diceva a Michael: «Non avremo l’esito dell’autopsia prima di
un’ora. Vorrei farle vedere alcuni miei appunti, se ha un minuto.»
Michael guardò Greer. Aveva il sospetto che qualcosa fosse cambiato negli
ultimi due minuti, la sgradevole sensazione di essere finito in fondo alla catena
alimentare. La cosa non gli piaceva.
Greer diede loro le spalle, tornando al suo ufficio con la sua solita andatura
dondolante. «Tenetemi aggiornato» disse senza voltarsi, mentre richiudeva la
porta.
Michael rimase un secondo a fissare Trent. Quel tipo non sembrava uno sbirro.
La sua presenza non era ingombrante nonostante la sua altezza. Stava in piedi con
una mano in tasca, il ginocchio sinistro piegato, piuttosto disinvolto. Le spalle
sarebbero state belle larghe se avesse avuto una postura più dritta, ma era come
se non volesse trarre vantaggio dalla sua statura. Non aveva la presenza di chi ha
fatto esperienza sul campo, l’atteggiamento ‘vai a farti fottere’ di chi doveva aver
arrestato tutti i tipi di feccia.
Michael fissò l’uomo, domandandosi che cosa sarebbe potuto succedere se
avesse detto a quello stronzo di andare affanculo. Dopo il litigio di quella mattina
con Gina e il corpo a corpo con Cynthia, Michael pensò di dover dare una chance
a qualcuno quel giorno. Fece cenno con la mano verso la porta. «La sala
conferenze è da questa parte.»
Trent imboccò il corridoio per primo. Michael lo seguì, fissando le spalle di
quell’uomo, chiedendosi come fosse finito al GBI. Di solito gli statali erano
adrenalina-dipendenti, con il fisico così pompato dal testosterone da avere la
fronte costantemente lucida per il sudore.
«Da quanto fa questo lavoro?» gli domandò Michael.
«Dodici anni.»
Michael calcolò che Trent doveva essere almeno dieci anni più giovane di lui,
ma quello che voleva sapere era altro. «Ex militare?»
«No» rispose Trent, aprendo la porta della sala conferenze. La luce filtrava dai
vetri a illuminare la stanza, tanto che Michael vide una seconda cicatrice su un
lato della faccia di Trent. Da rosa diventava quasi bianca mentre scendeva
dall’orecchio al collo, seguendo la giugulare e sparendo nel colletto della camicia.
Qualcuno lo aveva affettato per bene.
«Guerra del Golfo» disse Michael, portandosi la mano al petto, credendo che
questa informazione lo avrebbe incuriosito. «Sicuro che non è stato un soldato?»
«Affermativo» replicò Trent, sedendosi al tavolo. Aprì la valigetta e tirò fuori un
mucchio di cartelline dal colore acceso. Di profilo, Michael notò due punti in cui il
naso doveva aver subìto una frattura, e si chiese se per caso avesse fatto il pugile.
Era troppo magro, però, ingobbito, il viso spigoloso. Al di là di quale fosse il suo
passato, c’era qualcosa in quel tizio che lo innervosiva.
Trent stava sfogliando le carte, mettendo le cartelline in un certo ordine, poi si
accorse che Michael stava ancora in piedi. «Agente Ormewood, faccio parte della
sua squadra.»
«Ah sì?»
«Non sono in cerca di gloria» spiegò Trent, anche se, per quanto ne sapeva
Michael, la G di GBI stava a indicare proprio questa. Gli statali avevano la fama di
mettersi in mezzo, fare metà del lavoro e prendersi tutto il merito.
«Non voglio rubare la scena o apparire al telegiornale quando avremo catturato
il cattivo. Mi limito a collaborare con voi e poi andarmene» proseguì Trent.
«Che cosa le fa credere che abbia bisogno di collaborazione?»
Trent alzò lo sguardo dalle carte, e studiò Michael per qualche secondo. Aprì
una cartellina rosa fluorescente sul tavolo e la fece scivolare verso Michael. «Julie
Cooper di Tucker» disse, nominando una città a circa venticinque chilometri da
Atlanta. «Quindici anni. È stata violentata e picchiata, quasi uccisa, quattro mesi
fa.»
Michael annuì, sfogliando il dossier, senza soffermarsi a leggere i dettagli. Arrivò
alla foto della vittima e si fermò. Capelli biondi lunghi, eye-liner pesante, troppo
rossetto per una ragazza della sua età.
Trent aprì una cartellina verde brillante. «Anna Linder, di Snellville.»
Qualche chilometro a nord di Tucker.
«Il 3 dicembre dello scorso anno, la Linder è stata rapita mentre andava a piedi
da sua zia, sulla strada di casa sua.» Passò la cartellina a Michael. «Violentata,
picchiata. Stesso modus operandi.»
Michael sfogliò le pagine in cerca della foto. I capelli della Linder erano scuri, i
lividi intorno agli occhi lo erano ancora di più. Prese la foto della ragazza,
studiandola da vicino. La bocca era stata colpita piuttosto duramente, aveva un
taglio sul labbro e il sangue le colava sul mento. C’era una specie di luccichio sul
volto, il riflesso del flash della macchina fotografica.
«È stata ritrovata il giorno successivo. Si nascondeva in un fosso nel parco di
Stone Mountain.»
«Okay» disse Michael, in attesa di scoprire quale fosse la connessione.
«Entrambe le ragazze dichiarano di essere state aggredite da un uomo con un
passamontagna nero.» Trent allungò una cartellina arancione, con una fotografia
attaccata con una graffetta sul primo foglio. «Dawn Simmons di Buford.»
Michael diede un’altra occhiata, pensando che questa ragazza non potesse
avere più di dieci anni. «È più giovane delle altre» disse, disgustato al pensiero di
quel malato bastardo che metteva le mani addosso alla ragazzina. Non era molto
più grande di Tim.
«È stata aggredita sei mesi fa» gli disse Trent. «Ha dichiarato che l’aggressore
portava un passamontagna nero.»
Michael scosse il capo. Buford era a un’ora di macchina di distanza e la ragazza
era troppo giovane. «Una coincidenza.»
«È quello che credo anch’io» convenne Trent. «Tipi come questo non cacciano
fuori dal loro territorio.»
Senza accorgersene Michael si era seduto al tavolo. Mise giù la foto della
ragazzina di dieci anni e la fece scivolare di nuovo verso Trent, pensando che gli
sarebbe venuto da vomitare se l’avesse guardata per un altro minuto. Gesù,
poveri genitori. Come diavolo si poteva continuare a vivere dopo un dramma del
genere?
«Che vuol dire ‘territorio’?» domandò Michael.
Trent assunse di nuovo il tono del professore. «Gli stupratori di bambini sono
attratti da un’età specifica. Un uomo che è sessualmente attratto da bambine di
dieci anni potrebbe pensare che le quindicenni o le sedicenni sono troppo
vecchie. Lo stesso succede a un uomo che è interessato alle adolescenti. Sarebbe
probabilmente disgustato quanto lei al pensiero di molestare una ragazzina così
giovane.»
Michael sentì un crampo allo stomaco. Trent non si faceva problemi a parlare di
questo, come se stesse chiacchierando del tempo. Non poté fare a meno di
chiedergli se avesse dei figli.
«No» ammise Trent, senza ricambiare la domanda. Forse già conosceva la
risposta, probabilmente era stato informato da Greer. Michael si domandò cosa
gli avesse detto di Tim quel bastardo.
«Ho fatto richiesta ai genitori di poter parlare con le ragazze. Potremmo
ottenere nuove informazioni, ora che è passato un po’ di tempo dalle aggressioni.
Secondo la mia esperienza, le vittime di questo tipo di crimini ricordano meglio a
distanza di qualche tempo dall’evento. Potrebbe essere una perdita di tempo, ma
potrebbe anche uscir fuori qualcosa che nelle deposizioni iniziali si erano
dimenticate di riferire» proseguì Trent.
«Giusto» convenne Michael, cercando di non suonare infastidito. Aveva avuto a
che fare con stupri e non aveva bisogno di lezioni.
«Penso che lo stupratore sia una persona istruita» disse Trent. «Probabilmente
intorno ai trentacinque, quaranta. Insoddisfatto del suo lavoro, insoddisfatto della
sua situazione familiare.»
Michael trattenne la lingua. Secondo lui i profili erano una montagna di
stronzate. Tranne per la parte che diceva ‘istruito’, Trent poteva riferirsi alla
maggior parte degli uomini della sua squadra. Bastava aggiungere il fatto che si
faceva la sua vicina di casa e il profilo sarebbe coinciso con quello di Michael.
«I dossier dimostrano che c’è stata un’escalation» proseguì Trent. «La Cooper,
la prima ragazza, è stata aggredita all’uscita da un cinema; rapido, efficiente. Ha
impiegato circa dieci minuti e tutto è accaduto lontano dalle telecamere a circuito
chiuso del cinema. La seconda, Anna Linder, è stata rapita direttamente in strada.
L’ha portata da qualche parte, lei non è sicura riguardo al posto, in macchina. L’ha
lasciata subito fuori dai cancelli del parco di Stone Mountain. È stata trovata il
giorno dopo dalle guardie del parco.»
«Tracce di pneumatici?»
«Circa milleduecento» rispose Trent. «Nel parco era appena iniziato lo
spettacolo annuale delle luci di Natale.»
Michael aveva portato Gina e Tim a vedere le luci. Ci andavano ogni anno.
«DNA?»
«Ha usato il preservativo.»
«Okay» disse Michael. Quindi non era un cretino. «Cosa c’entra tutto questo
con la ragazza della scorsa notte?»
Trent strinse gli occhi, come a domandarsi se Michael avesse prestato ascolto a
una sola delle parole dette fino a quel momento. «Le loro lingue, agente.» Gli
riavvicinò i rapporti. «A tutte hanno strappato la lingua con un morso.»
4
«La lingua è come un pezzo di bistecca duro» disse Pete Hanson, infilandosi i
guanti di lattice. Si fermò, guardando Trent. «Lei è uno che corre, signore. Vero?»
Trent non sembrò sorpreso dalla domanda. Essendo in servizio da dodici anni,
Michael pensò che doveva averne visti di medici legali eccentrici.
«Sì.»
«Lunghe distanze?»
«Sì.»
«Maratone?»
«Sì.»
«Lo sapevo.» Pete fece un cenno del capo, come se avesse appena segnato un
punto, tuttavia Michael aveva notato che Will Trent non aveva offerto
spontaneamente nessuna informazione su di sé.
Pete tornò al cadavere che giaceva sul tavolo al centro della stanza. Il corpo di
Aleesha Monroe era coperto da un lenzuolo bianco, solo la testa restava fuori. Le
terze ciglia erano sparite, il trucco era stato rimosso. Suture spesse le solcavano la
fronte nel punto in cui il cuoio capelluto e la pelle del viso erano stati ricuciti dopo
l’esame del cranio e la rimozione del cervello.
«Vi è mai capitato di mordervi la lingua?» domandò Pete.
Trent non rispose, perciò Michael disse: «Certo.»
«Guarisce in fretta. La lingua è un organo sbalorditivo, se non viene reciso,
ovviamente. Ad ogni modo, staccare la lingua a morsi non è un’impresa difficile.»
Tirò indietro il lenzuolo, mostrando la parte alta dell’incisione a Y, fermandosi
prima del seno nudo della Monroe.
«Ecco» disse Pete. Michael notò i lividi scuri sulla spalla sinistra della donna. «La
distribuzione del livor mortis ci dice che è morta dove l’avete trovata. Distesa di
schiena, sulle scale. La mia supposizione è che sia stata picchiata, poi violentata e
che nel corso dello stupro lui le abbia strappato la lingua con un morso.»
Michael immaginò la scena: la rivide sulle scale, il corpo rilassato mentre
sopportava la violenza, che poi s’irrigidiva, sconvolto dalla paura quando
realizzava quello che stava per succedere.
Alla fine Trent parlò. «Si può prelevare il DNA dalla lingua?»
«Credo che ne troverò parecchi di DNA sulla lingua, vista la sua professione.»
Pete scrollò le spalle. «E sono sicuro che i tamponi vaginali riveleranno sospetti in
quantità per voi, ma ho la sensazione che il vostro stupratore abbia usato un
preservativo.»
«Come fai a dirlo?» domandò Michael.
«Dalla polvere» rispose Pete. «Ho trovato tracce di farina di mais sulla coscia
destra.»
Michael sapeva che i preservativi erano spesso confezionati usando della farina
per facilitarne l’uso. Tutti i produttori di preservativi usavano gli stessi ingredienti,
perciò era impossibile risalire a un produttore specifico. Non che il fatto di sapere
se facesse uso di un Trojan o di un Ramses potesse restringere la ricerca.
«Scommetto che era lubrificato» aggiunse Pete. «C’erano anche tracce di un
composto non incompatibile con il nonoxynol-9.»
Trent sembrò trovare la cosa interessante. «C’erano tracce di questo composto
sulle scale?»
«Io non ne ho trovate.»
«Allora deve aver fatto sesso con lei da qualche altra parte, probabilmente
nell’appartamento, prima della lite sulle scale» ipotizzò Trent.
Michael non prestò loro attenzione. Una puttana come la Monroe non era
propensa a sprecare i soldi guadagnati duramente per stravaganze come
lubrificanti e spermicidi. Meglio stringere i denti e risparmiare contanti. Poi
avrebbe affrontato le conseguenze.
«Il preservativo deve essere appartenuto allo stupratore» disse Michael.
Trent sembrò sorpreso come se si fosse appena ricordato che Michael era nella
stanza. «Questo è possibile.»
Michael lo disse chiaramente, almeno per lui. «Lo stupratore non intendeva
ucciderla. Altrimenti perché preoccuparsi di usare un preservativo costoso?»
Trent annuì, ma non aggiunse altro.
«Bene.» Fu Pete a rompere il silenzio. «Come stavo dicendo...» Tornò al suo
rapporto, aprendo la bocca della donna, mostrando il troncone dove prima stava
attaccata la lingua. «Non ci sono arterie importanti nella lingua, fatta eccezione
per l’arteria linguale, che si dirama come le radici di un albero, assottigliandosi
alle estremità. Bisogna entrare nella bocca per alcuni centimetri per arrivare a
prenderla, e in questo caso non si potrebbero usare i denti.» Si accigliò, pensando
per un momento. «Immaginate un bassotto che cerca d’infilare il muso nella tana
di un tasso.»
Michael non voleva farlo, ma l’immagine prese a giocare nella sua mente, e il
latrato a echeggiare nelle orecchie.
«In questo caso però,» proseguì Pete «l’incisione ha separato il frenulum
linguae dall’organo, dividendo in due parti uguali il dotto sottomandibolare.» Aprì
la bocca e sollevò la lingua, indicando il sottile lembo di pelle sottostante. «La
rimozione della lingua di per sé non è una ferita letale. Il problema è che lei è
caduta di schiena. Probabilmente lo shock o le sostanze chimiche che aveva in
corpo hanno influito. Poi è svenuta. In pochi minuti il sangue che usciva dal
moncone le ha riempito la gola. La mia versione ufficiale sulla causa della morte è:
asfissia dovuta all’ostruzione della trachea a causa del sangue, il che ha causato
arresto respiratorio, subordinato all’emorragia per l’amputazione traumatica della
lingua.»
«Ma» disse Michael «non voleva ucciderla.»
«Non spetta a me immaginare cosa passa per la testa di un uomo mentre stacca
a morsi la lingua di una donna, ma se fossi un amante dell’azzardo, e le mie ex
mogli vi direbbero che lo sono, allora sì, direi che l’aggressore non intendeva
ucciderla.»
«Esattamente come le altre» disse Trent.
«Ce ne sono altre?» domandò Pete, drizzando le orecchie. «Non ho sentito di
casi simili a questo.»
«Ci sono due ragazze di cui sono a conoscenza» rispose Trent. «Alla prima è
stata morsa la lingua, ma non staccata completamente. Le è stata ricucita e ora
sta bene, relativamente parlando. La seconda ha perso la lingua. Era passato
troppo tempo per potergliela riattaccare.»
Pete scosse il capo. «Poverina. È successo di recente? Non ho letto niente di
simile ultimamente.»
«La prima aggressione è avvenuta in una zona sotto la giurisdizione statale,
perciò siamo riusciti a mettere la cosa a tacere. I genitori della seconda ragazza
hanno tenuto lontano la stampa e la polizia locale non ha lasciato trapelare
dettagli. Non esiste una storia se nessuno vuole parlarne.»
«E la terza?» fu costretto a chiedere Michael. «La piccola?»
Trent mise Pete al corrente del caso. «La mia opinione è che se la sia morsa da
sola» concluse. «È piccola, dieci anni. Deve essere stata terrorizzata. Il
dipartimento di polizia locale è efficiente, ma non hanno molta esperienza con
questo tipo di crimini. Deve essere stato molto difficile per loro ottenere una sua
deposizione.»
«Non ci sono dubbi» convenne Pete, ma Michael si domandò perché Trent non
gli avesse detto niente prima. Forse lo stava studiando, voleva vedere se riusciva a
passare l’esame.
Merda, pensò Michael. Era stanco di fare i salti mortali. «Quanti anni pensi che
avesse?» domandò direttamente al dottore, indicando con il capo Aleesha
Monroe.
«Difficile dirlo.» Pete osservò attentamente il viso della donna. «I denti sono in
condizioni pietose per via della droga. Considerata la vita che faceva e la sua
prolungata tossicodipendenza direi che aveva passato i trentacinque; forse no,
forse sì.»
Michael guardò Trent. «Quindi non è un’adolescente.»
«Sicuramente no» convenne Pete.
«Abbiamo due adolescenti a cinquanta chilometri di distanza e una tossica
adulta ad Atlanta, e l’unica cosa che le lega è questa merda della lingua.» Cercò di
osservare la reazione di Trent. «Giusto?»
Il telefonino di Trent squillò. Lui diede un’occhiata allo schermo, poi si scusò e
lasciò la stanza.
Pete fece un grosso sospiro, ritirando il lenzuolo sopra la testa del cadavere.
«Situazione schifosa.»
«Già» convenne Michael. Nel frattempo osservava Trent dalle porte a vetro,
domandandosi cosa cavolo stesse combinando quel tipo.
«Sembra uno in gamba» disse Pete, parlando di Trent. «Devo dire, fa
impressione vedere uno dei tuoi compatrioti vestito così elegante.»
«Come?» domandò Michael. Si era distratto osservando Trent, nel tentativo di
sentire la telefonata.
«Il vestito» spiegò Pete. «Fa figura.»
«Come un fottuto becchino» rispose Michael, pensando che Pete non fosse
proprio il tipo da finire su GQ. Il suo camice bianco da laboratorio era sempre
pulito e inamidato, ma perché era lo Stato a pagare il conto della lavanderia.
Sotto, Pete in genere indossava un paio di jeans e una camicia sgualcita con i
bottoncini al collo, che portava sempre aperto rivelando un ciuffo di peli grigi e un
medaglione d’oro che anche uno dei Bee Gees si sarebbe vergognato di portare.
«Legame sottile» disse Pete. «Intendo i tre casi.»
«Non mi dire.»
«Ma bisogna ammettere che fa riflettere il fatto che le lingue sono state tutte
staccate a morsi. Non è una cosa comune.» Esaminò di nuovo la busta con la
lingua come se Michael non l’avesse guardata già abbastanza la notte precedente.
«Devo ammettere che in tutti gli anni in cui ho fatto questo lavoro, non mi è
capitato niente di simile. Segni di morsi, sì. Dico sempre che se vuoi una prova
scientifica del fatto che una volta eravamo animali ti basta esaminare le vittime di
stupro.» Pete mise la lingua accanto al braccio della Monroe. «C’erano segni di
morsi sul seno e sulle spalle. Ne ho contati almeno ventidue. È un istinto animale,
credo, mordere durante un’aggressione. I cani e i gatti randagi lo fanno.»
Sogghignò. «Non posso dirti quanti capezzoli strappati a morsi ho visto. Cinque o
sei clitoridi. Un dito...» Sorrise. «Se solo questi mostri avessero le corna sarebbe
molto più facile trovarli.»
A Michael non piaceva il modo in cui il dottore lo stava guardando, e, cavolo,
sicuramente non voleva starsene lì a sentire le sue opinioni sugli stupratori. «Di’ a
Trent che sono di sotto quando ha finito di abbaiare al telefono» disse.
Prese l’uscita d’emergenza, facendo le scale a passo spedito. L’istinto era di
montare in macchina e lasciare Trent a non fare un cazzo, ma non aveva
intenzione di fare cazzate con quel tipo. Anche se non era stato Greer a
chiamarlo, Michael sapeva fin troppo bene che non doveva mettersi contro quello
stronzo vestito a puntino del GBI.
«Che cos’è questa fretta?» domandò Leo. Fumava una sigaretta in fondo alle
scale.
«Dammene una» disse Michael.
«Pensavo che avessi smesso.»
«Sei mia madre?» Michael allungò una mano nel taschino della camicia di Leo e
prese il pacchetto.
Leo gli accese la sigaretta e Michael fece una bella tirata. Erano al piano del
garage. La puzza degli scarichi d’auto e della gomma era soffocante, ma il fumo
della sigaretta che bruciava nelle narici copriva l’odore.
«Be’?» cominciò Leo. «Dov’è lo stronzo?»
Michael lasciò uscire una scia di fumo, sentendo l’effetto rilassante della
nicotina. «Di sopra, con Pete.»
Leo si accigliò. Pete lo aveva allontanato dall’obitorio dopo una battuta
ovviamente inopportuna. «Sono sceso agli archivi.»
Michael strizzò gli occhi per il fumo. «Ah sì?»
«Il fascicolo su Will Trent è sigillato.»
«Sigillato?»
Leo annuì.
«Come si fa a farsi sigillare il fascicolo?»
«Non lo so.»
Continuarono entrambi a fumare per circa un minuto, assorti nei loro pensieri.
Michael guardava il pavimento, coperto di mozziconi di sigaretta. Fumare era
rigorosamente vietato nell’edificio, ma proibire qualcosa a un agente era come
dire a una scimmia di non lanciare la sua merda.
«Perché Greer lo ha fatto chiamare? Intendo lui in particolare. Questa squadra
SCAT, o quello che cazzo è.»
«Greer non lo ha chiamato.» Leo inarcò le sopracciglia come se quell’enigma lo
divertisse. «Trent lo aspettava seduto nel suo ufficio quando è rientrato al
lavoro.»
Michael sentì che il cuore cominciava a battergli rapidamente in petto. La
nicotina cominciava a fargli effetto, e si sentiva intontito. «Non è così che
funziona. Gli statali non possono arrivare e assumere la direzione di un caso. Il
loro intervento va richiesto.»
«Ieri notte mi era parso di capire che Greer aveva comunque intenzione di
chiamarlo. Che differenza fa?»
«Lascia perdere.» Nonostante la capacità che aveva di disgustare le persone,
Leo conosceva un sacco di gente nella polizia. Aveva sviluppato un talento nel
farsi degli amici e di solito riusciva a intercettare qualunque voce di corridoio.
«Puoi scovare qualche informazione su di lui?» domandò Michael.
Leo scrollò le spalle, chiudendo un occhio per il fumo della sigaretta. «Sharon,
che sta giù al dispatch, conosce un tizio che usciva con una ragazza che lavorava
con lui.»
«Cristo» mormorò Michael con un sibilo. «Ora mi dirai che hai un amico che
conosce qualcuno che ha un amico che...»
«Vuoi stare a sentire o no?»
Michael si trattenne dal dire quello che veramente avrebbe voluto. «Sputa.»
Leo se la prese comoda, facendo scivolare la sigaretta tra il pollice e l’indice,
facendo una tirata e poi lasciando uscire il fumo lentamente. Michael era a un
passo dallo strozzarlo quando Leo finalmente parlò. «La notizia è che è un bravo
poliziotto. Non ha molti amici.»
«Davvero?»
«Già.» Leo si mise a sogghignare, poi tossì, quindi fece schioccare le labbra
come se volesse trattenersi.
Michael fissò la sigaretta che aveva in mano, mentre lo stomaco gli si
contorceva.
Leo fece una pausa per accertarsi di avere l’attenzione di Michael. «Il suo
punteggio di risoluzione dei casi è pari all’ottantanove percento.»
Michael sentì che stava per vomitare, ma non a causa del fumo. Nella sua
infinita saggezza, il governo federale aveva richiesto di calcolare in percentuale il
numero di casi risolti, in ogni centrale di polizia, affinché qualche scribacchino a
Washington potesse tracciare l’andamento sui suoi piccoli grafici. La chiamavano
trasparenza, ma per la maggior parte degli agenti era solo un altro casino
d’incartamenti. Qualunque idiota sarebbe stato in grado di prevedere che questo
avrebbe causato una forte rivalità tra gli agenti, e Greer alimentava la tensione
spedendo i loro numeri ogni mese.
Trent li aveva battuti di circa venti punti.
«Bene» disse Michael, sforzandosi di ridere. «È facile risolvere un caso dopo che
un collega ha già fatto tutto il lavoro.»
«Questo incarico SKIT è nuovo per lui.»
«SCAT» lo corresse Michael, pur sapendo che Leo lo stava provocando. Era
inutile tentare di rovinargli il divertimento.
«Fa lo stesso» borbottò Leo. «Quello che voglio dire è che Trent lavorava a un
reato grave prima di essere scelto.»
«Buon per lui.»
«Aveva un grosso caso qualche anno fa insieme a una tipa, una faccenda di reati
contro minori.»
«La tipa aveva un nome?»
Leo scrollò di nuovo le spalle. «Un paio di tizi con alcuni loro complici avevano
messo su un traffico di bambini tra la Florida e il Montana. Partiva tutto da
Hartsfield; li trasferivano da lì come bestiame. La squadra del tuo amico li ha
scoperti nel giro di un mese. La tipa ha ottenuto una grossa promozione, Trent
no.»
«Era lui a capo della squadra?»
«Sì.»
«Perché non ha ottenuto la promozione?»
«Questo devi chiederlo a lui.»
«Se potessi, non starei qui a parlare con te.»
Lo sguardo di Leo s’indurì improvvisamente, come se si fosse sentito offeso.
«Questo è tutto quello che so, amico. Trent è un tipo a posto e sa il fatto suo. Se
vuoi sapere di più, devi chiamare qualcuno in centrale e scoprirlo da solo.»
Michael fissò la sua sigaretta che continuava a bruciare. Gina lo avrebbe ucciso
se lo avesse visto fumare. Avrebbe sentito l’odore sulle mani appena tornato a
casa.
Buttò il mozzicone per terra e lo schiacciò con il tacco. «Angie lavora ancora alla
buoncostume?»
«Polaski?» domandò Leo, come se non credesse alle sue orecchie. «Non vorrai
mica scoparti quella polacca?»
«Rispondi alla mia cazzo di domanda.»
Leo prese un’altra sigaretta e l’accese con quella che aveva appena finito. «Sì.
Almeno per quanto ne so io.»
«Se Trent viene a cercarmi digli che lo aspetto qui sotto.»
Michael non diede tempo a Leo di rispondere. Risalì le scale di corsa fino al
terzo piano, con i polmoni che gli scoppiavano nel petto quando aprì la porta. La
buoncostume operava perlopiù di notte, perciò c’era mezza squadra nell’ufficio a
compilare rapporti dell’ultima retata. Angie aveva ovviamente fatto l’infiltrata.
Portava un top legato dietro al collo che si fermava a una decina di centimetri
scarsi dall’ombelico, mentre una parrucca bionda era buttata sulla sua scrivania
come un volpino di Pomerania morto.
Aspettò che alzasse la testa, ma quando lei lo fece, non sembrò proprio felice di
vederlo. Mentre Michael si avvicinava, lei poggiò la schiena alla sedia,
accavallando le gambe sotto una gonna talmente corta che lui distolse lo sguardo
per decenza.
«Che ci fai qui?» domandò lei. «Gesù, hai un aspetto da schifo.»
Michael si passò una mano tra i capelli. Era sudato per la corsa sulle scale. Aveva
ancora il fumo nei polmoni e tossì producendo un suono simile a un rantolo di
morte. Cristo santo, avrebbe fatto compagnia a Ken sulla sedia a rotelle se avesse
continuato così.
Fine dell'estratto Kindle.
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