Relazione Dal Molin

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Relazione Dal Molin
Triennio USMI 2010 – 13
Sassone, 26 Novembre 2010
La Responsabilità come Vocazione:
la Vocazione come chiamata alla “responsabilità”
per vivere in pienezza il senso della Consacrazione
1. Vocazione e responsabilità: in quale contesto socio-culturale?
Spesso sembra che la vita delle persone, in particolare del mondo degli adulti, vada
inesorabilmente alla deriva, senza possibilità di controllarla.
E’ sparita la distinzione tra io ed ambiente; si vive una strana sensazione dissociativa tra idea e
sentimento.
Manca un confine tra fantasia e realtà; si diviene prigionieri del momento presente; il futuro
diviene una grande macchia sfuocata, una nuvola impenetrabile.
Gli uomini e le donne, adulti di questo nostro tempo, hanno perso la fede ingenua che la
tecnologia possa risolvere tutto e sono pure dolorosamente consci che quello che è un potere
di vita, porta con sé un potenziale di autodistruzione.
Basti pensare a tutte le ricerche nell’ambito della biogenetica: un potenziale enorme per
migliorare la qualità della vita o un boomerang terribile per annientare la vita stessa!
Usiamo molti strumenti, ma abbiamo perso la capacità di capire il come e il perché degli
strumenti che adoperiamo.
E così, nell’individuo adulto del nostro tempo, vita e morte si toccano morbosamente, come i
media quotidianamente ci mostrano.
E’ un tempo di dislocazione
E’ una dislocazione storica, una frattura con il simbolo vitale e nutriente della tradizione
culturale: la famiglia, la religione, l’ideologia, un ciclo vitale...
Oggi diviene cruciale la mancanza della continuità: prevale la “non-storia”. Le reazioni sono
sempre più di indifferenza e di noia.
La rapida mutevolezza dei valori ha portato a frantumare le ideologie: dalle formule fisse e
totalizzanti a frammenti ideologici più fluidi. Gli stili di vita sono divergenti, contrastanti e i
media ci mettono a contatto con le esperienze più paradossali. L’arte di vita sembra esser
sempre più quella del “collage”... Vale la legge della improvvisazione e il “nuovo” è sempre
provvisorio!
C’è una maggiore flessibilità e tolleranza, ma insieme una difficoltà ad avere una prospettiva
di vita e di pensiero che siano coerenti.
E’ la ricerca di un nuovo orizzonte di vita
In questo senso di confusione generalizzata, in cui tutto é possibile, l’esistenza perde unità e
direzionalità. La sfida, per l’adulto oggi, è quella di perdere la sorgente della propria creatività,
cioè il senso della propria immortalità. Egli non sa e non osa guardare oltre la propria morte.
Sono in crisi simboli come Inferno e Paradiso, Cielo e Aldilà, Resurrezione e Regno di Dio.
Eppure trovano risonanza intensa tematiche come la reincarnazione, le vite plurime.
C’è una profonda “voglia di felicità”
Si crede di poterla trovare nella via della fuga …
E’ l’homo fugiens, così ben descritto nell’opera di una scrittrice contemporanea lettone: Zenta
Maurina Raudive.1
E’ “l’uomo della baracca” che G. Marcel riprende da Hans Zehrer.2
E’ il fuggiasco di Henri J.M. Nouwen.3
1
2
3
Dal Molin Nico, Verso il blu, Messaggero di S. Antonio, Padova 2001, pp. 72-74
Marcel G., L’uomo problematico, Borla, Torino 1964, pp. 11-13
Nouwen H.J.M., Il guaritore ferito, Queriniana, Brescia 1982
1
Quest’uomo cerca felicità e non sa che essa potrebbe essere il frutto di una ritrovata vita
interiore, in quelle stupende tre dimensioni descritte dalla parabola degli escursionisti di
Teilhard De Chardin: 4
la incentrazione, cioè la via dell’Essere
la decentrazione, cioè la via dell’Amare
la super-centrazione, cioè la via dell’Adorare
La prima può essere legata alla via mistica: è la ricerca della propria vita interiore, come
momento
sorgivo dell’essere, come punto del silenzio: potrebbe essere la via della
concentrazione, della contemplazione, della meditazione e della preghiera, fonti da ritrovare
per una vita interiore che sia la stella polare di una nuova armonia dell’essere .
La seconda é la via rivoluzionaria: quest’uomo, stanco di potare alberi e segare rami, vuole
estirpare le radici di una società malata. E’ la ricerca di uno “Stargate”, di una porta delle stelle
per un mondo diverso. Il rischio è di correre su linee estreme: passare, cioè, da un fatalismo
passivo ad un attivismo radicale, sino a giungere ad un pragmatismo efficientistico, che
sembra avere contagiato la vita ecclesiale e l’esperienza pastorale stessa delle nostre comunità
cristiane... Quasi che la temperatura della fede vada misurata sulla quantità di attività
proposte, più che sulla essenzializzazione che la vita spirituale stessa porta con sé.
La terza è la via cristiana, così come ce la propone Gesù stesso nel Vangelo: essa non
contrappone, ma integra in una trascendenza esperienziale le due piste precedenti.
Nessun mistico potrà evitare di diventare un critico sociale, come nessun rivoluzionario potrà
evitare di guardarsi dentro ed affrontare la propria condizione umana: al centro della sua lotta
ci sono le sue stesse paure reazionarie e le sue stesse false ambizioni.
E’ un modo per ripristinare la connessione interrotta tra passato e futuro e ridare unità ai
frammenti sempre più disintegrati e lacerati della vita.
Si potrà chiamare questa scoperta in vari modi: il Sacro, il Noumeno, lo Spirito, il Padre... La
sorgente resta sempre e comunque nella scoperta della propria creaturalità amata.
Il mutamento del cuore umano e il cambiamento della società umana non sono compiti
separati, bensi’ connessi l’un l’altro, come le due braccia della Croce.
2. Qualche input sul concetto di “vocazione”
A partire dal Concilio Vaticano II° (ahimé spesso lasciato nell’anfora dell’oblìo…) si è andata
delineando una nuova “road map” di strategia formativa, di riflessione e di discernimento sul
tema della Vocazione, spesso vissuto in maniera piuttosto selettiva e parziale, trend che
riemerge anche ai nostri giorni con una certa insistenza.
Si è così rivelata determinante la riscoperta, in chiave dinamica, personale e comunitaria, di
una teologia vocazionale ecclesiocentrica e cristocentrica, capace di mettere al centro la
missione e la figura di “Gesù, Signore e Maestro, centro e fine di tutta la storia umana” (G.S.
10).
Così si esprime il Concilio Vaticano II°: “La voce del Signore che chiama, non va affatto attesa
come se dovesse giungere al nostro orecchio in qualche modo straordinario. Essa va piuttosto
riconosciuta ed esaminata attraverso quei segni di cui si serve ogni giorno il Signore, per far
capire la sua volontà”. 5
Il concetto tradizionale del kairòs “Vocazione”
Prima degli anni ’60, nel tempo antecedente il Concilio Vaticano II°, una percezione assai
diffusa nel delineare ogni “chiamata vocazionale”, si concentrava su di una visione alquanto
4
Teilhard De Chardin P., Sulla felicità, Queriniana, Brescia 1990; cf anche Verso il Blu, o.c., pp. 74-80.
5
Presbyterorum Ordinis, 11
2
statica di questo evento di Grazia: si indugiava, quindi, su di una visione “cosificata ed
essenzialista” del rapporto uomo-Dio.
Questo modo di vedere la realtà vocazionale, ci porta a presupporre l’esistenza di un modello
comune e omogeneo di vocazione, per cui la “chiamata” é uguale per tutti, é concepita come
dono, o meglio, come una specie di decreto eterno, quasi una sorta di predestinazione che
fissa in anticipo il futuro destino di colui che viene chiamato.
Chi non trova questa strada fissata per la propria esistenza “... sin dall’abisso dell’eterno”, o
chi rifiuta questo dono, é destinato a sentirsi per sempre infelice nella vita, e si porta dentro il
marchio di un senso di colpa, per non essere stato disponibile ad accettare questo dono e
privilegio a lui dedicato.
Si ribadiva spesso questo tipo di formulazione con alcune espressioni bibliche che, ancora oggi,
sentiamo risuonare nella loro forza, ma non sempre nella loro corretta contestualizzazione: “fin
dal seno materno io ti ho chiamato...” (Is 49,1).
Nel riproporre questa lettura vocazionale, è quanto mai importante non dimenticare l’icona
dello “scriba sapiente”, su cui posare con serenità gli occhi del cuore. Occorre molta saggezza
e prudenza: non si può certo buttare al vento tutto questo patrimonio di riflessione vocazionale
e di vita cristiana. La chiamata alla vita e ad un modo significativo di viverla, resta pur sempre
un evento d’amore, un dono, che tuttavia non ci deve vedere solo come protagonisti passivi,
impegnati al massimo a trovare la nostra tana in cui rannicchiarci o la nostra gabbia dorata in
cui rinchiuderci dentro. Sarà anche dorata, ma resta pur sempre una gabbia, dove la libertà é
fatalmente annientata o compromessa.
Una riformulazione “cristocentrica” della dinamica vocazionale
Alla luce delle intuizioni del Concilio Vaticano II° e della speciale sottolineatura che cominciava
ad avere sia nella Liturgia che nell’ambito pastorale una maggiore conoscenza e diffusione
della Parola di Dio, si è cercato di riscrivere una dinamica vocazionale troppo cosificata in una
rilettura dialogica e relazionale, in grado di ben rispecchiare l’incontro con il Signore e il
Maestro della vita: ciò significava una ri-comprensione della vocazione in una prospettiva
“storica, personalistica e cristocentrica”. Dice la “Dei Verbum”, il documento del Concilio
Vaticano II° che prospetta la ricchezza e la bellezza della Parola di Dio:
“Dio invisibile, nel suo grande amore, parla. Egli parla agli uomini come amici, e si intrattiene
con essi per invitarli ed ammetterli alla comunione con Sé”.
Per noi, oggi, questo aspetto è chiaro: Dio parla soprattutto attraverso il volto, le parole, la
vita di Gesù, e tutto ciò si fa’ rapporto. Dio si mette in contatto con noi attraverso la storia
personale di ciascuno, fatta di persone, di parole, di eventi; ed é la strada normale che Dio
segue nel comunicare.
La strada del dialogo, dell’incontro con il volto di Dio, è assolutamente presente in tutte le
grandi vocazioni bibliche: Abramo, Mosé, Isaia, Geremia, Giona, Osea, i discepoli di Gesù e
soprattutto le chiamate vocazionali di Pietro e di Saulo di Tarso.
Una chiamata vocazionale, quindi, si deve leggere all’interno di alcuni aspetti essenziali che
interagiscono tra di loro: Dio, la libertà dell’uomo e la sua storia.
L’iniziativa di amore é sempre di Dio
Questo è l’elemento essenziale di contatto e di continuità con la tradizione precedente nel
proporre e nel comprendere il concetto di Vocazione. C’é una presa di iniziativa divina che
precede e fonda ogni possibile risposta umana: questo è un dato irrinunciabile del Vangelo e
costitutivo nella vocazione stessa.
Ciò esclude ogni pretesa di auto-chiamarsi e di autocandidarsi…
Nessuno può imporre a se stesso o agli altri una vocazione: se è un dono, è un evento gratuito
e non é un diritto di nessuno. Essa non è, quindi, un semplice progetto personale; Dio si
presenta in maniera discreta alla porta della nostra vita: “Ecco, sto alla porta e busso...”
(Apocalisse 3,20).
E’ una costante azione “creativa” di Dio; non é un fatto avvenuto una volta per sempre. Dio ci
crea e ci ricrea continuamente, ci plasma e ci riplasma, così come ci ricorda la suggestiva
immagine del “vasaio”, in Geremia 18.
3
Libertà e vocazione
“La libertà é essenziale alla vocazione. Una libertà che nella risposta positiva si qualifica come
adesione personale, profonda, come donazione d’amore, come ri-donazione al Donatore che é
Dio che chiama”. 6
“Non vi possono essere vocazioni, se non libere”, diceva con forza papa Paolo VI°.
Una vocazione non può nascere dal fatalismo, dalla predestinazione, dal senso della prigionia,
dalla paura di tradire, dal senso di colpa di venire meno a qualcuno. Se l’offerta non è libera e
spontanea, scevra da quegli elementi che la rendono “costretta dentro”, non può essere
generosa e totale; sarà sempre condizionata, impaurita, sottoposta alla paura di un giudizio
negativo di Dio su di noi.
E’ straordinaria la chiamata di Levi Matteo, in cui lo sguardo di Gesù e la sua parola sanno
incrociare perfettamente i desideri e le nostalgie profonde, nascoste nel cuore di Levi il
pubblicano (cf Mt 9,9 - 13).
Una libertà storica e contestualizzata
Una vocazione esiste solo quando c’è una libertà “storica”, quindi legata ad un essenziale
contesto di vita che la accoglie.
La vocazione non è un pacco-dono preconfezionato; essa si chiarisce gradualmente in me,
anche attraverso il cammino della vita e i segni che in esso posso scoprire attraverso il dono
del discernimento, che è frutto dello Spirito.
“E’ camminando che si apre il cammino!”, recita un antico proverbio caro ai pellegrini e alla
gente di montagna. Nulla di più vero anche nell’ambito vocazionale; e nulla di più mirato e
intenso anche nel cammino progressivo che Gesù fa compiere ai suoi discepoli.
Dall’averli chiamati a sé “perché stessero con Lui” (cf Mc 3,13-19), inizia un cammino graduale
di attenzione a loro, di formazione e di crescita per farne degli evangelizzatori. Anche per i
discepoli, camminando con Gesù lungo le strade della Galilea, della Samaria e della Giudea, si
sono dischiusi orizzonti nuovi e inattesi, e il senso della loro chiamata si è fatto sempre più
chiaro e preciso, nonostante resistenze, incredulità e fatiche interiori a comprendere e ad
accettare tutto ciò.
3. Lettura etimologica del termine “responsabilità”
La parola responsabilità è un neologismo moderno, una parola piuttosto nuova, che la Francia
riprese dall'inglese responsability, per diffonderla, caricata del significato pregnante che gli
avvenimenti storici della fine del sec. XVIII le avevano affidato, in tutta Europa.
La matrice etimologica della parola è latina: dal v. responsàre = 'rispondere', da respondeo.
E’ un contesto chiaramente dialogico, in cui il termine stesso evoca la risposta ad un appello e
il farsi carico di una richiesta, questo in un contesto profondo di libertà interiore e non di
“dovere subìto”.
4. Il binomio libertà – responsabilità in Frankl
Dal libro di V. Frankl: “Alla ricerca di un significato della vita”
Quando una paziente affermava che l'unico risultato delle sue tre psicoanalisi inutili era stato di
spingerla a darsi a parecchi uomini (ella era sposata!), possiamo ben essere sicuri che nessuno
di quelli che l'avevano psicoanalizzata le aveva dato un consiglio del genere. Ma permettetemi
di citare a questo proposito le parole di E. A. Loomis: « Capita spesso che il nostro silenzio o la
nostra pazienza siano interpretati non solamente come una tolleranza di ciò che il paziente fa,
ma ancor più come un invito ad agire in tal senso ».
W. Van Dusen constata: « Tutte le terapie implicano una filosofia, ma poche esplicitano
talmente la loro visione filosofica del mondo come l'analisi esistenziale ». 7
6
7
Pastores dabo vobis, 36
Frankl V., Alla ricerca di un significato della vita, ed. Mursia, Milano, 1974; pp. 146-147
4
Effettivamente, la logoterapia si presenta come una educazione alla responsabilità ed in quanto
tale sarà ancor essa la meno esposta ad oltrepassare i suoi limiti, formulando dei giudizi di
valore, pericolo questo che incombe su tutte le scuole e su tutti gli orientamenti psicoterapeutici!
Mentre gli psicoanalisti americani sono ossessionati dall'idea di poter imporre ai loro pazienti
certi valori, una psicoterapia che si occupa esplicitamente dei valori, come è il caso della
logoterapia, non ha altra preoccupazione che quella di ampliare al paziente il campo di visuale
dei valori, per lasciarlo in seguito decidere da solo quale "significato concreto e quali valori
personali intraprenderà a realizzare, e di fronte a che cosa si collocherà, se dinanzi ad una cosa
o piuttosto dinanzi a qualcuno, dal momento che avrà colto la sua vita come vincolante la
propria responsabilità.
Dal diario di una Carmelitana
La tristezza è la mia unica compagna. Qualsiasi cosa io faccia, mi trascina giù come piombo
sulla mia anima. Dove sono i miei ideali? Dove sono tutte le cose grandi, buone e belle alle
quali aspiravo? Tutto è sparito! Mi resta solo lo sbadiglio della noia che riempie il mio cuore!
Vivo come proiettata nel vuoto, e ci sono momenti nei quali il dolore stesso mi vien meno ».
Nel diario si legge ancora: « In questa mia disperazione invoco Dio, Padre di tutto; ma
anch'Egli tace. Non mi resta che desiderare una cosa sola: morire, e oggi stesso, se fosse
possibile! ».
Ed ecco il rivolgimento: « Se non avessi la coscienza datami dalla fede che non sono padrona
della mia vita, avrei tentato di finirla già tante volte. E proprio attraverso questa fede e questa
coscienza l'amarezza del mio soffrire è immediatamente trasformata. Chi infatti presume che la
vita consista nel procedere di successo in successo, è come uno sciocco che sta dinanzi alla
parete di un edificio e scuote il capo non comprendendo perché bisogna scavare tanto in
profondità per porre le fondamenta di una cattedrale. Dio si costruisce un tempio in ogni anima
e, nel mio caso, sta appunto scavando le fondamenta.
Il mio compito è solo di offrirmi perché possa scavare…” 8
Abbiamo detto che la libertà umana ha dei limiti: essa è in effetti una libertà condizionata.
Non bisogna soltanto dichiarare libero l'uomo, ma libero e responsabile.
L'uomo non è solamente responsabile per qualche cosa, ma dinanzi a qualche cosa.
Finché non avrò integrato questo aspetto nella mia riflessione e nella mia vita, avrò solamente
il diritto di dire di qualcuno che egli è capace di discernimento, eventualmente che qualcosa gli
è imputabile, ma non che egli è responsabile.
Infatti, si è responsabili non solo di qualcosa, ma anche e sempre di fronte a qualcosa.
Questo qualcosa è la coscienza.
5. Riconciliarsi con se stessi…
Con il nostro limite…
La vita non è solo possibilità ed essa viene presa da irrequietezza e smarrimento interiore. Da
una parte c'è l'accettazione della propria vulnerabilità (ritornano le tematiche care di J.
Vanier), dall'altro il coraggio dell'umiltà, di dire a se stessi: "Non sei onnipotente"; è un colpo
da KO al nostro narcisismo primitivo.
Come non ricordare Qohélet: "Tutto è vanità, soffio, vapore che si dissolve... hébel!"
Il salmo 39 riprende questa idea: "la mia esistenza sarebbe un nulla, tutto diviene soffio".
Questo diviene il tempo dell'Amore fedeltà, il tempo del Cantico... Ai nostri giorni la fedeltà è
un rischio difficile da prendere. Una maturità che si fa unità e semplificazione di vita e insieme
testimonianza o “martyrìa". E' molto bello fare riferimento al salmo 128, il salmo della famiglia.
Con il nostro inevitabile declino
8
Ibidem, pp. 177-179
5
E’ l'esperienza vitale definita da Charles Péguy: “Una vertigine sulla via del ritorno". In questa
fase c'è una risistemazione della propria vita, un rimettere in sesto tante cose che assumono
priorità: si arriva alla libertà del cuore, al guardare alla realtà … relativizzandola.
Ricordiamo il salmo 102 al v. 12: “La mia vita è come un'ombra che declina".
Arriva il momento del “tutto è compiuto”: c'è chi avverte solo la forza della fugacità, una vita
che è scappata in un battibaleno.
Per Qohelet: una vita che si fa soffio o al cap. 3: "C'è un tempo per nascere e un tempo per
morire... un tempo per piantare e un tempo per sradicare il piantato...".
Chi vive questa dimensione può avvertire pesante il senso della propria inutilità.
Oppure ci si può collocare su di un altro versante: la vita propria e degli altri viene vista con
maggiore "tolleranza" (Rom 14, 1-12); la notte si fa chiara e ci introduce aldilà del "buco
nero", verso l'Assoluto: è una morte per la vita!
Come pensare in questo contesto alle figure mattinali e aurorali della Bibbia, agli amanti
dell'Aurora: Giobbe crede che la sua tenebra in Dio diverrà luce; la Sposa del Cantico che cerca
e trova l'amato sul far dell'aurora; Maddalena che incontra tra le lacrime e la gioia il suo
"Rabbunì", l'amato suo Signore risorto.
Ci dice Osea, al cap. 6,3: "La venuta è davvero sicura, come l'aurora".
La responsabilità è …
Vivere il passaggio dallo spirito del timore allo spirito dell’amore.
Vivere la propria esperienza di vita come realtà non subita, ma opportunità
scelta; le realtà subite pesano, le realtà scelte sono quelle che si fanno più
volentieri. Nessuno ti condanna a fare un viaggio.
Non temere nel cercare un aiuto a riconciliarci con la propria solitudine, con la
propria inutilità, con la propria fragilità. Le persone oggi si sentono molto sole,
anche se viviamo nella cultura della comunicazione. Ci sentiamo inutili, perché
siamo presi dalla logica efficentistica, perché se non fai sei inutile, anche la logica
ecclesiale è quella di fare tante cose.
C’è poi la fragilità del peccato ed è un cammino essenziale imparare a riconciliarsi
anche con questa realtà. S.Paolo diceva: “Vedo il bene che c’è da fare, ma faccio
il male che non voglio”. Aveva scoperto, senza dirlo in termini tecnici, la legge
dell’inconscio.
6. Il tempo dell’adulto maturo:
la stagione della generatività e della interiorizzazione
La vita sembra stabilizzarsi, ma ci sono molte responsabilità e il rischio di farsi travolgere da
esse. Dall’idealismo si passa progressivamente al realismo e quello che sta dietro, vissuto,
forse è più di quello che sta davanti…
Alcune caratteristiche psicologiche:
- potere personale come competenza, esperienza e consapevolezza delle proprie forze e
capacità
- la preoccupazione per gli altri, nell’essere responsabile di qualcun altro; egli desidera che si
provi bisogno di lui
- il ritorno su se stessi, come esigenza di concentrarsi sui bisogni personali, di riesaminare gli
impegni e di valutare i valori scelti.
Erikson la chiama la sfida della generatività, o sollecitudine per ciò che ha generato.
Ma questa dovrebbe svilupparsi in un distacco, cioè occuparsi di quanto si è generato
permettendogli di seguire il suo cammino, di incoraggiarlo, dando fiducia a questa nuova vita
anche se si sviluppa al di fuori dei propri progetti e del proprio controllo, talvolta manipolatore.
E’ la sfida dell’interiorità: l’adulto maturo è portato a ritornare su se stesso per fare un
bilancio, per riequilibrare le proprie energie e forse anche per un cambio di prospettive.
6
Ecco il motivo di crisi matrimoniali o anche nella vita presbiterale e religiosa.
Sono possibili tre fughe: nel divertimento, nell’attivismo sfrenato o nella depressione.
L’esito positivo del ritorno su di sé è quello della interiorità, cioè la capacità di recuperare
l’unità di se stessi con maggiore equilibrio e consapevolezza
E’ un tempo di grande bisogno di riconciliazione, del recupero della diaconia e del Mistero.
Alcuni problemi affettivi da affrontare ed integrare
E’ essenziale avere portato a termine il processo della “individuazione”: per Jung è quel
processo psicologico che porta verso un’unità particolare, indivisibile, un tutt’uno della
personalità. Esso ha due grandi fasi: quella della espansione nella prima metà della vita e
quella della introversione nella seconda metà.
Jung allora parla di un io che è il nucleo cosciente della persona, il centro del suo modo di agire
e di giudicare. Ognuno si costruisce poi una “persona” (etimologicamente = maschera), un
volto che sia adatto alle attese del mondo che lo circonda. E’ l’io in relazione con l’ambiente.
Un’altra dimensione essenziale è l’ombra, cioè le caratteristiche psichiche in parte rimosse, in
parte poco o per niente vissute, che sono dislocate nell’ambito della rimozione o della
dissociazione: potrebbero esserci anche aspetti positivi della persona stessa (per es. in una
persona che si autosvaluta molto!).
Secondo Jung le quattro funzioni fondamentali della coscienza sono: pensare, sentire,
intuire, ricevere. E’ un programma di crescita affettiva.
Il problema fondamentale quando lavita ha superato le magie della giovinezza e si trova di
fronte ad una inevitabile svolta, è che noi pensiamo di risolvere i problemi della vita con i
mezzi e i principi utilizzati in precedenza.
In questa curva di vita è importante rivolgere molto di più l’attenzione alla realtà interiore; al
posto della espansione dovrebbe farsi strada la riduzione all’essenziale: quello che prima
trovavi fuori, ora lo devi trovare dentro di te.9
Concludendo…
Vorrei proporvi una conclusione fatta con uno slogan che va a modificare profondamente il
senso del libro di Susanna Tamaro.
Non dite alla gente: “Va dove ti porta il cuore”, ma piuttosto dite a voi stesse e agli altri:
“Porta il cuore dovunque tu vai”.
Così … la vita assumerà un colore ed una responsabilità diversa.
Buon cammino a voi tutte !
don Nico Dal Molin
9
Donata Francescato, Amarsi da grandi: vivere con gioia anni preziosi, Mondadori, Milano 2010
7