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L’immagine e il raffigurato.
Una lettura de I detective selvaggi di Roberto Bolaño.
di Francesco Ditaranto
L’immagine. Una struttura
Elementi e configurazioni
Io penso che se c’è stato qualcuno al mondo che sapeva come strutturare un libro,
dal punto di vista teorico, quello era Cortázar […]. La teoria che oppone il Cortázar
autore di racconti al Cortázar romanziere è una teoria idiota. Lui sapeva sempre
perfettamente che struttura dare a qualsiasi testo. In questo senso, e per riallacciarci a
Borges, che per me è il più grande scrittore in lingua spagnola dai tempi di Quevedo,
c’è un suo racconto che si intitola ‹‹L’Aleph›› e, come tutti i racconti di Borges, è
costruito in maniera esemplare. Vale a dire che racconta una storia, o due storie, ma in
qualche modo racconta anche come si costruisce una storia, e in fondo qualsiasi
storia1.
Questo passo è tratto da un’intervista rilasciata a Raul Schenardi nel maggio
2003 presso il Salone del libro di Torino. Bolaño sta parlando di Cortázar e della
sua capacità di strutturare qualsiasi testo. Quindi sta parlando di Borges. Ma
soprattutto Bolaño sta parlando di romanzi e di storie o, il che è lo stesso, di
romanzi, che non sono altro che un susseguirsi di storie2.
In questo senso I detective selvaggi non è altro che un susseguirsi di storie.
Vite singole, percorsi, tempi, spazi, squilibri, desideri strutturano la sintassi
minima del romanzo, definiscono cioè gli elementi base di una narrazione che può
1
R. Bolaño, Io non ho mai avuto paura della morte, (Intervista di R. Schenardi,
2003), in L’ultima conversazione, Roma, SUR, 2012, p. 93; ed. or. The Last Interview
and Other Conversations, New York, Melville House, 2011.
2
‹‹Ogni romanzo è un susseguirsi di racconti, di storie che si vanno intrecciando.
Stendhal l’aveva già visto con una chiarezza solare, la letteratura, un libro, è uno
specchio, ma questo specchio non se ne sta quieto, si muove su una strada, e sullo
specchio si riflettono via via le cose che succedono lungo la strada, e ogni cosa può
restare in sospeso, con un punto interrogativo, oppure può finire››. Ivi p. 95.
essere pensata come flusso di storie che si intrecciano, si scontrano, si ignorano,
restano in sospeso, finiscono.
Rimproverare a Cortázar di aver scritto un susseguirsi di racconti denota
un’arroganza, e soprattutto un’ignoranza, senza limiti. Perché, che cazzo ha fatto
Marcel Proust, o che cazzo ha fatto James Joyce? Un susseguirsi di racconti. E cosa fa
un romanziere? Un susseguirsi di racconti… Certo, poi possiamo discutere della
struttura, della forma che gli si dà, ma su un piano assoluto non è altro che un
susseguirsi di racconti3.
Se è vero che le storie costituiscono l’essenza del testo, l’organizzazione
testuale è ciò che consente la definizione di forme significanti; la capacità cioè del
testo di rimandare ad altro, di significare.
Da questo punto di vista, I detective selvaggi si caratterizza per un forte senso
della struttura: tripartito, il romanzo si definisce attraverso livelli testuali via via
più dettagliati, tali cioè da individuare momenti di diversa portata nella dinamica
complessiva della narrazione. Ne consegue una dialettica significativa tra strutture
ricorrenti assemblate secondo schemi più o meno rigidi e ordinati, e meccanismi
di strutturazione, più fluidi e dinamici, in grado di negare in parte quel “principio
d’ordine” realizzato dalle prime. Cercheremo di analizzare nel dettaglio questi
aspetti, partendo da una sintesi delle tre sezioni del romanzo.
Tre sezioni:
I. Messicani perduti in Messico (1975)
II. I detective selvaggi (1976-1996)4
III. I deserti di Sonora (1976)
- La prima sezione5 coincide con il diario di Juan García Madero, scritto nel
periodo compreso tra il 2 novembre 1975 e il 31 dicembre 1975.
Diciassettenne iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza di Città del Messico
3
R. Bolaño, Io non ho mai avuto paura della morte, cit., p. 95.
Dopo un confronto con l’edizione Anagrama, è stata corretta la data riportata
sull’edizione Sellerio: “1996” invece di “1986”.
5
pp. 13-179.
4
DF, appassionato di poesia e lui stesso aspirante poeta, García Madero
documenta, in seguito all’incontro con i poeti Arturo Belano e Ulises Lima,
le varie vicissitudini della sua esperienza realvisceralista (‹‹Sono stato
cordialmente invitato a far parte del realismo viscerale. Naturalmente, ho
accettato. Non c’è stata cerimonia di iniziazione. Meglio così››6): la
scoperta del sesso, la letteratura, le conversazioni, le disobbedienze
segnano un tempo confuso e sfuggente. Il diario si interrompe il 31
dicembre con una fuga: a bordo di una Chevrolet Impala, García Madero,
Arturo Belano, Ulises Lima e la prostituta Lupe lasciano Città del Messico,
inseguiti da un certo Alberto, il protettore di Lupe7.
- La seconda sezione8 è senza dubbio la più significativa del romanzo. Divisa
in 26 parti, tutte caratterizzate da un principio di connessione interna di tipo
spaziale, tematico o temporale, consiste nella successione di 96 narrazioni
di 53 narratori diversi, alcuni già conosciuti nella prima sezione.
Si tratta di storie, ricordi, testimonianze, dichiarazioni: le figure dei poeti
Ulises Lima e Arturo Belano e il costante riferimento a vicende passate
sono gli unici elementi condivisi dalla quasi totalità dei racconti.
Ogni narrazione è individuata da un nome, un luogo e una data: disposte in
ordine cronologico, possono essere pensate come trascrizioni di interviste
registrate per 20 anni (gennaio 1976 - dicembre 1996) in diverse città del
mondo (15 città di 9 nazioni diverse). L’impressione è quella di avere a che
fare con una specie di “inchiesta” tesa a scoprire qualcosa: tuttavia
6
R. Bolaño, I detective selvaggi, Palermo, Sellerio, 2° ed., 2009, p.15; ed. or. Los
detectives salvajes, Barcelona, Anagrama, 1998. Il “realismo viscerale” è, nel romanzo,
un movimento poetico d’avanguardia fondato dalla poetessa Cesárea Tinajero negli anni
Venti e ripreso, a metà degli anni Settanta, dai poeti Ulises Lima e Arturo Belano. Il
corrispettivo reale di questo movimento fu “l’infrarealismo”, movimento di matrice dadasurrealista, fondato nel 1976 dal poeta messicano Mario Santiago e dal cileno Roberto
Bolaño. Stando alle parole dello stesso autore, Ulises Lima e Arturo Belano possono
essere considerati i loro rispettivi alter ego. Cfr. R. Bolaño, Io non ho mai avuto paura
della morte, cit., pp. 96-97.
7
‹‹Sono fuochi artificiali, udii che diceva Belano mentre la nostra macchina faceva un
salto e si lasciava dietro la casa delle sorelle Font, la Camaro dei magnaccia, la calle
Colima e in meno di due secondi già eravamo su avenida Oaxaca e ci perdevamo in
direzione nord›› Ivi, p. 179.
8
pp. 181-738.
l’eterogeneità delle narrazioni e una dilatazione nei tempi sempre maggiore
rendono problematica quest’ipotesi; mancano inoltre elementi tali da
individuare con esattezza chi sia “l’intervistatore”, o il detective9.
Tra le testimonianze, una differisce dal resto per lunghezza e contenuti: si
tratta dell’intervista rilasciata da Amadeo Salvatierra a Città del Messico
nel gennaio del 1976. Suddivisa in 13 frammenti, la sua narrazione apre e
chiude la seconda sezione del romanzo, sottraendosi - unico caso nel testo al principio della successione cronologica. Una narrazione lunga,
estremamente evasiva, in cui l’ex poeta stridentista Amadeo Salvatierra
rievoca la notte in cui Ulises Lima e Arturo Belano gli fecero visita per
avere notizie riguardo Cesárea Tinajero, poetessa scomparsa negli anni
Venti e fondatrice del movimento realvisceralista. Attraverso il resoconto
dettagliato di quella notte, veniamo a conoscenza della vita di Cesárea,
della sua scelta di partire per il Sonora10, e dell’intenzione da parte dei due
giovani poeti di ritrovarla11. In questa sezione non viene mai menzionato
García Madero12.
9
Unica eccezione è la testimonianza rilasciata a Barcellona da Andrés Ramírez nel
dicembre 1988, in cui l’interlocutore risulta essere Arturo Belano (‹‹La mia vita era
destinata al fallimento, Belano, proprio così›› Ivi, p. 510). Questo porta a supporre che
quello della forma intervista non sia altro che un dispositivo testuale in grado di
strutturare l’organizzazione del testo, quindi capace di veicolare dei significati, ma
assolutamente inconsistente dal punto di vista della finzione romanzesca. È questo un
tipico esempio di come Bolaño utilizzi e contemporaneamente snaturi dall’interno
strutture, meccanismi, generi, dando luogo a forme spurie, spesso indecifrabili, ma
sicuramente efficaci nella riuscita complessiva del testo. Approfondiremo nel dettaglio
quest’aspetto.
10
Il Sonora è uno stato del Messico situato nella parte nord-occidentale del paese.
Gran parte del territorio dello stato è occupato dal deserto di Sonora.
11
‹‹E vidi due ragazzi, uno sveglio e l’altro addormentato, e quello che era
addormentato disse non si preoccupi, Amadeo, noi Cesárea gliela troviamo anche
dovessimo rivoltare tutte le pietre del nord […]. E io insistei: non fatelo per me. […] non
lo facciamo per te, Amadeo, lo facciamo per il Messico, per l’America Latina, per il
Terzo Mondo, per le nostre fidanzate, perché ci va di farlo››. Ivi, p. 737
12
Dall’intervista fatta a Ernesto García Grajales, unico studioso del realvisceralismo,
nel dicembre del 1996, sembra che García Madero non sia mai esistito. ‹‹Juan García
Madero? No, il nome non mi dice niente. Di sicuro non è mai appartenuto al gruppo. Ma
certo, se lo dico io che sono la massima autorità in materia, una ragione ci sarà››. Ivi, p.
734.
- La terza sezione riprende il diario di García Madero, configurandosi a più
livelli come trait d’union tra le prime due parti del romanzo.
Strutturalmente molto interessante, è costruita sulla coincidenza tra un
movimento di “fuga” - episodio di chiusura della prima sezione - e un
movimento di “ricerca”, consistente nel tentativo di ritrovare Cesárea
Tinajero. Le pagine del diario registrano questo doppio movimento.
Confermando ‹‹una regola del poliziesco classico, ovvero che il detective
deve ripetere le operazioni e ripercorrere il terreno già coperto dal suo
predecessore››13, i quattro ragazzi seguono per le strade del Sonora le tracce
di Cesárea, ripercorrendone in qualche modo la storia; allo stesso tempo
fuggono dal protettore di Lupe: ne consegue, grazie anche all’utilizzo della
forma diaristica, una forte tensione narrativa. La coincidenza tra il
ritrovamento di Cesárea - fine della ricerca - e quello dei quattro ragazzi da
parte di Alberto - fine della fuga - (‹‹31 Gennaio. Abbiamo trovato Cesárea
Tinajero. Alberto e il poliziotto, a loro volta, hanno trovato noi››14) precede
di poco il momento di spannung della vicenda, consistente nel venir meno,
in un unico tempo, dell’oggetto di fuga e dell’oggetto di ricerca: poco dopo
il ritrovamento, infatti, con una scena ai limiti del grottesco, le morti del
magnaccia
e
della
poetessa
segnano
la
fine
della
narrazione.
Le ultime pagine del diario riportano, dopo la separazione da Ulises e
Arturo, brevi osservazioni di García Madero sul vagare con Lupe per i
deserti di Sonora. La sezione si chiude con tre enigmi; l’ultima pagina è
datata 15 febbraio (1976).
Difficilmente una sintesi può rendere ragione della complessità di un romanzo
come I detective selvaggi: inevitabilmente si sacrificano luoghi testuali
importanti, privilegiando linee discorsive che semplificano enormemente la
poliedricità del testo. Tuttavia proprio queste semplificazioni possono rivelarsi
13
P. Brooks, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, Torino, Einaudi,
2004, p. 27; ed. or. Reading for the Plot. Design and Intention in Narrative, New York,
Knopf, 1984.
14
R. Bolaño, I detective selvaggi, cit., p. 798.
decisive nella misura in cui consentono di individuare elementi che la miopia di
un approccio analitico probabilmente trascurerebbe.
Nel caso specifico, le possibilità offerte dalla sintesi vanno individuate
essenzialmente nella messa in rilievo dei livelli testuali attraverso cui si articola la
narrazione. Configurandosi come romanzo “polistorico”, infatti, I detective
selvaggi prolifera di storie dislocate su piani diversi, non sempre connessi tra loro,
ma organizzati in modo tale da contenere in parte quella logica dispersiva
attraverso cui si costruisce l’intero testo. Proviamo a comprendere queste
dinamiche, partendo appunto da un tentativo di definizione delle storie.
- Prima storia: la ricerca di Cesárea Tinajero. Conosciuta in parte attraverso la
testimonianza di Amadeo Salvatierra e in parte attraverso il diario di García
Madero, risulta l’unico nesso tra le tre sezioni del romanzo.
- Seconda storia: l’esperienza realvisceralista di García Madero, poi avventura
per i deserti del Sonora: in questo senso quella di Madero è anche la storia
di Belano, Lima e della prostituta Lupe.
- Terza storia: gli spostamenti di Belano e Lima, seguiti per un tempo di
vent’anni (1976-1996) attraverso le voci di testimoni che conobbero i due
poeti.
- “Quarte storie”: i resoconti dei 53 “testimoni” della seconda sezione. Si tratta
di narrazioni molto eterogenee, costruite sulla base di ricordi, aneddoti,
episodi che caratterizzarono in passato le loro vite.
- Ultimo livello: storie di personaggi che nel testo non prendono mai parola;
sono conosciute attraverso racconti altrui (ad esempio la storia della
poetessa Laura Damián, morta all’età di diciassette anni, cui è dedicato
l’omonimo premio di poesia).
Uno schema di questo tipo risolve, nella sua semplicità, molti dei problemi di
comprensione della struttura del romanzo: una storia “principale” sviluppata
attraverso le tre sezioni del testo e un numero crescente di storie, tra loro molto
eterogenee, comunque riconducibili a precisi livelli testuali.
‹‹Ma forse più del plot risulta interessante il plotting, l’operazione con cui
formiamo e intrecciamo trame fittamente strutturate, il momento in cui cogliamo
questo processo mentre si compie, svelato o inscenato all’interno dell’opera››15: se
la struttura appena definita può essere considerata, a un certo livello, una sorta di
plot del romanzo - si caratterizza infatti per una definizione in retrospettiva - i
problemi di comprensione cui abbiamo fatto riferimento rimandano all’operazione
di plotting, strettamente connessa alla competenza narrativa del lettore. Si tratta
quindi di considerare il testo nella sequenzialità dell’atto di lettura: il diario di
García Madero, l’interruzione a fine prima sezione, il racconto frammentato di
Amadeo Salvatierra, le “interviste” nei vent’anni successivi alle vicende narrate
da García Madero, la ripresa del diario nell’ultima sezione.
Stando a questa successione un momento di rilievo consiste nello scarto
realizzato dalla seconda sezione rispetto alla prima: una scena di fuga, interrotta,
seguita da vent’anni di narrazioni che solo raramente, e in maniera confusa, fanno
riferimento a quella vicenda. Le forme utilizzate sono quelle della detective story:
l’azione sospesa, l’uso della forma intervista e il particolare focus sulle figure di
Belano e Lima si configurano come elementi di detection, dando l’impressione di
poter garantire alla narrazione un preciso sviluppo. Tuttavia, oltre alla difficoltà
già rilevata di individuare un detective16, il problema centrale consiste
nell’impossibilità di definire con esattezza quale sia l’oggetto della detection: il
racconto di Amadeo Salvatierra fa riferimento alla ricerca di Cesárea Tinajero, la
quale però discorda sia a livello temporale che tematico dalla maggior parte delle
narrazioni della seconda sezione; più plausibile sembra l’ipotesi della ricerca di
Belano e Lima, ma anche in questo caso l’estrema eterogeneità delle narrazioni
unita all’assenza di un reale “movente” non consente una definizione rigida.
Alain Robbe-Grillet, probabilmente lo scrittore che in questo genere ha offerto le
più radicali e interessanti sfide al romanzo tradizionale, in un’opera come Le voyeur
utilizza gli elementi della detective story per creare alcune attese nel lettore che
saranno deluse dal testo, dal momento che non esiste alcun delitto su cui investigare;
queste attese conducono tuttavia il lettore alla fessura, al divario (la faille, o
mancanza) posta al centro del testo: il tempo e il luogo che né il protagonista ne il
15
16
P. Brooks, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, cit., pp. 38-39.
Cfr. supra nota 9.
testo riescono a descrivere, il buco nero che, stimolando il lettore a questa ricerca, è
insieme punto di partenza della costruzione della trama e del suo significato17.
In questo senso le forme della detective story potrebbero essere nient’altro che
un dispositivo testuale. Citando le riflessioni di Brooks sull’opera di Alain RobbeGrillet, sappiamo che certa letteratura sperimentale si è servita della forma
detection come di un meccanismo “deformante”: creando delle attese per poi
negarle attraverso il testo, un’operazione di questo tipo veicolerebbe significati
antitetici a quelli sedimentati nella detective story in quanto precisa forma
testuale.
Risultato di questo gioco non è il nulla, il vuoto: bensì una vacillante incertezza dei
significati, il senso della loro impossibilità; una tormentata ricerca, attraverso sistemi
inadeguati e tradizionali, per verificare se e quanto un possibile ordine dei segni e del
senso possa creare una versione significante della vita e della storia18.
Relativamente al testo, un’ipotesi del genere sembra plausibile: se l’impiego di
forme della detective story è manifesto, il modello viene in realtà svuotato
dall’interno. L’uso di alcuni meccanismi narrativi, se da un lato sospinge in avanti
la lettura, creando delle attese nel lettore, dall’altro risulta incapace di strutturare
fino in fondo un discorso coerente19. Nello specifico la detection della sezione
centrale “non conclude” in quanto non c’è alcun oggetto della detection; l’unica
ricerca manifesta, quella di Cesárea, termina in modo definitivo con la terza
sezione del romanzo20, riprendendo, dal punto in cui si era interrotta, la narrazione
della prima parte. Il resto, ciò che abbiamo creduto poter essere indizio di
17
Ivi, p. 329.
Ivi, p. 190.
19
Interessante a tal proposito è una considerazione di Peter Brooks sullo scarto tra la
costruzione dei testi e le dinamiche di lettura: ‹‹Senza dubbio, è vero che abbiamo ormai
rinunciato alle conclusioni eterne e definitive, e persino gli epiloghi tradizionali del
romanzo ottocentesco appaiono soggetti a ogni tipo di sofisticata rimessa in gioco.
Eppure continuiamo a leggere con ingenua fiducia, con una sorta di abbandono e di
dipendenza: quasi sperando che quanto rimane ancora da leggere possa ristrutturare in
modo organico i significati provvisori del già letto››. Ivi, p. 25.
20
Il racconto di Amadeo Salvatierra - seconda sezione - rimanda alle prime fasi di
quella ricerca. In questo senso è fondamentale in quanto si configura come nesso tra la
prima e la terza sezione del romanzo.
18
qualcosa, è un’anacronia tra questi due momenti, il lungo “controfinale”,
anticipato, di quell’esperienza.
Riprenderemo nel terzo paragrafo queste considerazioni, concentrando
l’attenzione sui nessi che rendono possibile una struttura di questo tipo.
Piani
In questo paragrafo prenderemo in considerazione i singoli aspetti del tempo e
dello spazio tentando in ultima analisi una possibile lettura attraverso la nozione
di piano. L’intenzione è quella di rimarcare un senso geometrico: leggendo il
romanzo, infatti, si ha l’impressione che ogni forma di proliferazione - oggetti,
individui, eventi, storie - sia sempre collocata, data cioè all’interno di contesti di
tipo spaziale e temporale a loro volta aggregati in modo tale da definire delle
superfici, o piani. Queste superfici sono lo spazio-mondo e il tempo storico (o
cronologico).
In questo senso l’elemento che si vuole rimarcare è proprio quello
dell’orizzontalità, fondamentale in quanto opposto a quella “gerarchia strutturale”
che regola, a un certo livello, l’organizzazione delle storie. Affronteremo nella
seconda parte le implicazioni sedimentate in una dialettica di questo tipo,
provando a definire in primo luogo le possibili referenze del concetto di
orizzontalità; cerchiamo ora di comprendere quali sono i meccanismi che regolano
la struttura temporale e spaziale del testo.
Ogni narrazione del romanzo è datata. In questo senso possiamo dire,
ricorrendo alla distinzione formalista tra fabula e intreccio, che la fabula copre un
tempo di circa vent’anni, compreso tra il 2 novembre del 1975 e il dicembre del
1996. Risolvendo l’anacronia (prolessi) della seconda sezione risulta chiaro
l’intero intervallo:
- 2 novembre 1975 - 31 dicembre 1975: prima parte del diario di García
Madero (I sezione).
- 1 gennaio 1976 - 15 febbraio 1976: seconda parte del diario di García
Madero (III sezione).
- gennaio 1976 - dicembre 1996: “interviste” (II sezione21).
Fatta eccezione per una leggera sovrapposizione tra la fine del diario di García
Madero e le prime tre narrazioni della seconda sezione22, realizziamo che a
prevalere è per l’appunto un principio di successione cronologica, tale cioè da
esibire un’immagine del tempo come durata.
Se la struttura temporale del diario risulta, nonostante l’interruzione, alquanto
chiara, un aspetto che necessita di essere considerato più da vicino è il tempo della
seconda sezione, ossia il tempo delle “interviste”.
Nel primo paragrafo abbiamo sottolineato come quello della “forma intervista”
potrebbe essere nient’altro che un dispositivo testuale, mancando l’intero testo di
elementi tali da chiarire, tra le varie cose, chi sia l’intervistatore23. Tuttavia, anche
nel caso in cui si trattasse di un meccanismo narrativo, quel tempo non può essere
assolutamente ignorato: molte recensioni, compresa la stessa notazione
peritestuale dell’edizione italiana, non solo hanno trascurato la rilevanza di
quest’aspetto, ma, cadendo in un errore grossolano, l’hanno addirittura deformato
parlando - cito dalla quarta di copertina dell’edizione Sellerio - di ‹‹indiretti
resoconti, vent’anni dopo, di testimoni che conobbero Arturo e Ulises››24. La
grossolanità dell’errore è inversamente proporzionale alla sua gravità.
Le narrazioni della seconda sezione, oltre a riferirsi a un tempo - ogni
narrazione è sempre retrospettiva - sono esse stesse nel tempo. Ne conseguono
due movimenti contrapposti - uno regressivo e uno progressivo - che danno luogo
a due tempi distinti: un tempo individuale o biografico, situato nel passato, che
appartiene ai singoli individui - i tempi cui si riferiscono le narrazioni - e un
tempo storico, in continuo divenire, che trascende la singolarità di quei tempi - il
21
Abbiamo già sottolineato che l’unica eccezione alla successione cronologica è
rappresentata dal racconto di Amadeo Salvatierra. In realtà questo non compromette la
struttura temporale della sezione in quanto, essendo quella di Salvatierra un’unica
narrazione - frammentata - ed essendo datata, risulta facilmente collocabile: si configura
infatti come primo racconto della sezione.
22
Amadeo Salvatierra, gennaio 1976; Perla Avilés, gennaio 1976; Laura Jáuregui,
gennaio 1976.
23
Cfr. supra nota 9.
24
R. Bolaño, I detective selvaggi, cit., notazione peritestuale.
tempo in cui avvengono le narrazioni. In questo senso il tempo storico si declina
continuamente in una pluralità di tempi individuali: il susseguirsi delle narrazioni
significa innanzitutto questo.
Ogni racconto è datato: in questo senso oltre a riferirsi a un tempo [tempo
individuale] è individuato da un tempo [tempo storico]. Ne consegue, essendo i
racconti distribuiti nell’arco di vent’anni, una partecipazione diretta alla
temporalità del testo. Nel mentre delle narrazioni, tra gli spazi bianchi che le
separano, stanno succedendo delle cose; le storie dei personaggi si vanno
compiendo, esposte al flusso del tempo. I racconti sono le testimonianze di questo
flusso: registrano le trasformazioni, i cambiamenti, le ridefinizioni che
inevitabilmente il divenire porta con sé; tuttavia l’immagine che ne risulta è
un’immagine sgranata, frammentaria, sfuggente.
Analizziamo, a titolo esemplificativo, tre narrazioni di un personaggio, Laura
Jáuregui, cercando di soffermarci sui meccanismi attraverso cui le narrazioni
consentono di seguire le storie dei vari personaggi e nello specifico quelle di
Arturo Belano e Ulises Lima, considerabili appunto “linee guida” della sezione.
Laura Jáuregui, Tlalpan, Città del Messico DF, gennaio 1976
Prima di conoscere lui fui fidanzata con César, César Arriaga, e César me
l’avevano presentato al seminario di poesia alla Torre del Rettorato dell’UNAM, lì
conobbi María Font e Rafael Barrios, lì conobbi anche Ulises Lima, che allora non si
chiamava ancora Ulises Lima, non so, forse si chiamava già Ulises Lima ma noi lo
chiamavamo con il suo vero nome, Alfredo non so cosa, e conobbi César e ci
innamorammo o credemmo di esserci innamorati e tutti e due collaborammo alla
rivista di Ulises Lima. Questo successe alla fine del 1973, non saprei dire quando con
esattezza, furono giorni in cui pioveva molto, me lo ricordo perché arrivammo sempre
bagnati alla riunioni. E poi facemmo la rivista, Lee Harvey Oswald, che razza di nome
[…]25.
Si tratta della terza narrazione della seconda sezione. Laura - personaggio già
conosciuto nella prima parte - riferisce alcune esperienze personali relative al
25
Laura Jáuregui, Tlalpan, Città del Messico DF, gennaio 1976. R. Bolaño, I
detective selvaggi, cit., p. 189.
1973 - un tempo precedente a quello rappresentato. Ci parla della rivista di Ulises
Lima, Lee Harvey Oswald, della sua storia con il poeta César Arriaga, della fine
di quella storia. La sua attenzione però si concentra su Arturo Belano:
proseguendo veniamo a conoscenza di una storia tra i due (‹‹[…]e ci baciammo
per la prima volta, e poi uscimmo insieme per parecchi mesi e andammo a vivere
insieme […]››26) e della nascita, in seguito alla rottura, del realismo viscerale
(‹‹[…]e poi successe quel che successe, vale a dire ci separammo e io tornai a
casa di mia madre e mi iscrissi a biologia […] e ad Arturo cominciarono a passare
per la testa strane cose. Fu allora che nacque il realismo viscerale […]››27).
Secondo Laura tutta la vicenda del realismo viscerale non fu altro che un
messaggio di Arturo per lei, ‹‹una lettera d’amore, il pavoneggiarsi demenziale di
un uccello idiota alla luce della luna, una cosa piuttosto volgare e senza
importanza››28.
Segue una seconda narrazione, molto breve, datata maggio 197629. Laura
riprende l’invettiva contro Belano con cui aveva chiuso la prima narrazione:
Laura Jáuregui, Tlalpan, Città del Messico DF, maggio 1976
Così era Arturo, un pavone presuntuoso e sciocco. E il realismo viscerale, la sua
estenuante danza d’amore per me. Il problema era che io non l’amavo più. Si può
conquistare una ragazza con una poesia, ma non la si può tenere con una poesia.
Insomma, nemmeno con un movimento poetico30.
Fondamentale risulta la terza e ultima narrazione di Laura, datata marzo 1977:
Laura Jáuregui, Tlalpan, Città del Messico DF, marzo 1977
Prima di partire venne a casa mia. Dovevano essere le sette di sera. Io ero da sola,
mia madre era uscita. Arturo mi disse che se ne andava e che non sarebbe più tornato.
Gli dissi che gli auguravo buona fortuna, ma non gli chiesi nemmeno dove andasse.
Probabilmente lui mi domandò dei miei studi, di come mi stesse andando
26
Ivi, p. 193.
Ibidem.
28
Ivi, p. 194.
29
Laura Jáuregui, Tlalpan, Città del Messico DF, maggio 1976. Ivi, pp. 220-221.
30
Ibidem.
27
all’università, a biologia. Benissimo, gli dissi. Mi disse: sono stato nel nord del
Messico, a Sonora, credo anche in Arizona, veramente non lo so. Disse questo e poi
rise31.
Tra le prime due narrazioni e la terza è successo qualcosa. Siamo nel 1977, è
passato poco più di un anno dal suo ultimo racconto. Laura riferisce di quando
Arturo Belano andò da lei dopo essere ritornato da un viaggio nel Sonora - il
tempo non è definito - per comunicarle la sua intenzione di lasciare
definitivamente il Messico. Si tratta del loro ultimo incontro, degenerato in una
lite violenta (‹‹Col pezzo di carta che avevo in mano coprii il pezzo di carta
insanguinato di Arturo e poi li raccolsi con due dita, li portai nel gabinetto e tirai
la catena››32). Il dato fondamentale è che tutto questo, all’altezza della prima e
molto probabilmente anche della seconda narrazione, non era ancora avvenuto.
Sappiamo già da alti racconti del ritorno di Arturo dal Sonora e della sua
intenzione di partire per l’Europa (ad esempio il racconto di María Font, datato
dicembre 197633); intuiamo facilmente che quel ritorno è legato alla fuga con cui
si chiude il diario di García Madero (31 dicembre 1975); ne consegue
inevitabilmente la posteriorità dell’ultimo incontro tra Laura e Arturo rispetto al
momento della sua prima narrazione (gennaio 1976) (arrivati alla terza sezione
scopriremo che all’altezza del 31 gennaio 1976 Arturo Belano e Ulises Lima sono
ancora nel Sonora): in questo senso il tempo storico delle prime narrazioni si è
fatto tempo individuale, assorbito, in modi diversi, da ognuno dei personaggi.
Ovviamente analisi di questo tipo possono aver senso fino a un certo punto:
date le molte lacune del romanzo34 e la quantità spropositata di digressioni,
sarebbe impossibile e probabilmente inutile procedere in questo modo, cercando
di trovare necessariamente un nesso tra le varie vicende, di definire un “metodo”
31
Laura Jáuregui, Tlalpan, Città del Messico DF, marzo 1977. Ivi, p. 277.
Ivi, p. 280.
33
María Font, calle Colima, quartiere Condesa, Città del Messico DF, dicembre
1976. Ivi, pp. 244-248.
34
A partire da un certo tempo, corrispondente circa all’inizio degli anni Ottanta, i
tempi tendono a dilatarsi; aumenta cioè la distanza tra le varie narrazioni, le quali
risultano sempre più frammentate. A titolo esemplificativo si consideri il periodo
compreso tra il 1985 e il 1993, interessante in quanto riporta una sola narrazione per ogni
anno rispetto alle 19 del 1976, o le 12 del 1977.
32
di lettura. Ciò che in realtà si è cercato di rimarcare è appunto una strutturazione
del testo in grado di costruire una dinamica interessante tra due livelli temporali: il
tempo storico e i tempi individuali. In questo senso pensare il tempo storico
attraverso l’immagine del piano può rendere visivamente questa dinamica: una
superficie in espansione fatta di tempi particolari ma allo stesso tempo, in quanto
totalità, tale da trascendere ognuno di quei tempi. Niente nel romanzo, come nella
vita, è dato all’infuori di questa superficie.
Un ultimo aspetto, brevemente: il rapporto tra tempo e quantità, ossia tra il
tempo rappresentato dal romanzo (nel complesso circa vent’anni) e la sua
lunghezza (808 pagine, edizione italiana). Interessante è a tal proposito una
riflessione di Peter Brooks:
[…] mentre le argomentazioni di tipo espositivo, che pure possono avere una
dimensione narrativa, tendono a sopprimere la loro forza a vantaggio di una struttura
atemporale della percezione; la narrativa vera e propria al contrario, si basa sul
rimando, la sospensione, il differimento dei significati, parzialmente intuibili e poi via
via ‹‹riempiti››. A differenza dei sillogismi di tipo filosofico, i racconti (ad esempio
Dognipelo) sono sillogismi cronologici, e riguardano i processi connettivi del tempo.
Non è un caso, penso, che gran parte della letteratura di maggior prestigio e valore sia
lunga, e ci impegni nella lettura per giorni e giorni, o settimane, o anche di più: se
teniamo conto degli effetti della pubblicazione a puntate […] ci potremo rendere conto
di come il tempo della rappresentazione non possa non venir percepito come analogo
al tempo rappresentato35.
La lunghezza del testo vincola inevitabilmente il tempo di lettura in modo da
stabilire una relazione con il tempo rappresentato. La costruzione della
temporalità in praesentia, dipendente dall’uso della forma intervista, sembra
confermare questa relazione, rendendo inoltre plausibile l’ipotesi di una possibile
identificazione del lettore con l’intervistatore-detective: la mancata individuazione
nel testo sarebbe quindi giustificata da un preciso dispositivo testuale. In questo
35
P. Brooks, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, cit., pp. 21-23.
senso il tempo di lettura verrebbe a coincidere con una vera e propria
partecipazione del lettore agli sviluppi della narrazione.
Oltre a essere nel tempo, i personaggi de I detective selvaggi abitano lo spaziomondo. L’impressione è quella di avere di fronte una sorta di planisfero
immaginario - un piano - pieno di pedine; e queste pedine possono spostarsi, o
restare ferme sempre nello stesso punto. Le pedine sono appunto le centinaia di
personaggi del romanzo.
Se la prima e la terza sezione sono ambientate in Messico, tra Città del Messico
DF e il deserto di Sonora, la sezione centrale prolifera di luoghi: abbiamo già
sottolineato che le “interviste” sono svolte in 15 città di 9 nazioni diverse (tra le
principali ricordiamo Città del Messico DF, Barcellona, Parigi, Londra, Tel Aviv,
Vienna, San Diego, Roma, Madrid ecc.); bisogna inoltre aggiungere i luoghi cui le
varie narrazioni fanno riferimento.
Tra le sezioni però lo scarto, oltre che quantitativo, è di tipo qualitativo. Nel
diario di García Madero lo spazio acquisisce spessore, si concretizza: soprattutto
Città del Messico DF è resa nei suoi luoghi e nelle sue “atmosfere” grazie a una
prosa analitica, capace di condensare in immagini lo sguardo del giovane poeta:
seguiamo i suoi movimenti, intanto impariamo a orientarci tra le varie parti della
città. La sezione centrale, invece, pur proliferando di luoghi, sembra in qualche
modo prescinderne: determinazioni, dettagli, riferimenti sono estremamente labili.
Ai luoghi sono associate centinaia di storie, di individui, di situazioni; tuttavia
raramente lo spazio risulta decisivo, tale cioè da segnare con le sue caratteristiche
gli eventi. In questo senso, mancando di consistenza, l’impressione è che lo spazio
sia un mero riferimento, nient’altro che un’indicazione.
E poi mi disse di nuovo che se ne andava. E io gli dissi, prima che potesse
continuare, che mi sembrava magnifico, non c’è niente di più bello che viaggiare e
conoscere il mondo, città diverse e cieli diversi, e lui mi disse che il cielo era uguale
ovunque, le città cambiavano ma il cielo era lo stesso, e io gli dissi che non era vero,
che credevo non fosse vero e oltretutto lui stesso aveva scritto una poesia in cui
parlava dei cieli dipinti dal dottor Alt, diversi da altri cieli della pittura o del pianeta o
qualcosa del genere36.
Si tratta di un frammento dell’ultima narrazione di Laura Jáuregui, quella
datata marzo 1977. Come già abbiamo sottolineato Laura riferisce dell’ultimo
incontro con Arturo Belano e della sua intenzione di lasciare definitivamente il
Messico; quindi riporta alcuni stralci della loro conversazione facendo
riferimento, a un certo punto, alla considerazione paradossale di Arturo secondo
cui nonostante il cambiare delle città il “cielo resta sempre lo stesso”. Segue una
riflessione analoga:
E allora lui disse che gli metteva tristezza viaggiare e conoscere il mondo senza di
me, che aveva sempre pensato che io sarei andata con lui dappertutto, e nominò paesi
come la Libia, l’Etiopia, lo Zaire, e città come Barcellona, Firenze, Avignone, e allora
io non potei fare a meno di domandargli cosa avessero in comune quei paesi con
quelle città, e lui disse; tutto, hanno in comune tutto, e io gli dissi che quando fossi
diventata biologa avrei avuto il tempo e anche il denaro, perché non intendevo fare il
giro del mondo in autostop o dormendo dove capitava, per vedere quelle città e quei
paesi. E lui allora disse: non penso di vederli, penso di viverli, proprio come ho vissuto
in Messico37.
Paesi distanti, estremamente diversi, ma che “hanno in comune tutto”: nella sua
contraddittorietà questa considerazione sintetizza probabilmente l’idea di spazio
su cui si struttura il testo. La dinamica tra continui riferimenti spaziali e l’assenza
di una caratterizzazione si risolve infatti concependo lo spazio innanzitutto come
forma, e solo successivamente come contenuto: in questo senso i luoghi, pur nelle
loro differenze, sono luoghi allo stesso modo in quanto consentono di strutturare
allo stesso modo i motivi di intreccio nel testo. Se infatti ogni luogo definisce una
campo di possibilità che lo distinguono da qualsiasi altro, la logica secondo cui
tali possibilità potranno attuarsi è la stessa per tutti i luoghi: vite che si incrociano,
si definiscono, si ignorano. Pertanto l’ulteriore considerazione di Arturo secondo
36
37
R. Bolaño, I detective selvaggi, cit., p. 277.
Ivi, pp. 277-278.
cui i luoghi vanno vissuti e non semplicemente visti significa appunto partecipare
delle possibilità in essi sedimentate, esistendo in mezzo agli altri, incrociando le
proprie vite, ignorandosi.
Abitare lo spazio-mondo ha a che fare quindi non tanto con la capacità dei
luoghi di determinare qualitativamente le vite dei personaggi; bensì con
un’estensione delle possibilità - di incontro, di relazione, di connessione. I luoghi
non circoscrivono più, lo spazio è ormai esploso: si è fatto superficie.
Se per questioni di impostazione si è preferito distinguere la struttura temporale
da quella spaziale, bisogna comunque sottolineare che esse sono tra loro
strettamente connesse. In questo senso il concetto di ‹‹cronotopo›› sviluppato da
Bachtin è probabilmente il concetto che meglio rende quest’interconnessione,
esprimendo per l’appunto l’inscindibilità dei rapporti temporali e spaziali38. Un
aspetto estremamente interessante consiste nel fatto che alcuni cronotopi, definiti
come onnicomprensivi ed essenziali, spesso racchiudono al loro interno una
quantità illimitata di cronotopi minori i quali ‹‹possono inserirsi l’uno nell’altro,
coesistere, intrecciarsi, succedersi, confrontarsi, contrapporsi o trovarsi in più
complessi rapporti reciproci››39. In questo senso, data la struttura frammentaria e
plurale de I detective selvaggi, legata cioè alla proliferazione di luoghi e tempi
individuali, è possibile sostenere che le categorie di tempo storico e spazio-mondo
vengono a configurarsi, nella loro interazione, come il cronotopo dominante del
romanzo.
Nessi
Risolvendo l’anacronia della sezione centrale abbiamo rilevato che a prevalere,
in termini strutturali, è un principio di successione cronologica: i continui
38
Sul concetto di ‹‹cronotopo›› cfr. M. Bachtin, Le forme del tempo e del cronotopo
nel romanzo (1937-1938), in Estetica e romanzo, cit., pp. 231-405.
39
Ivi, p. 399.
riferimenti temporali servono appunto a rimarcare questa successione dando
consistenza al divenire del tempo, esibendo cioè un’immagine del tempo come
durata. In questo senso la struttura temporale si configura come il principale
elemento organizzativo del testo, consentendo, più di qualsiasi altro aspetto, di
ordinare gli sviluppi narrativi.
Se il nesso temporale o cronologico è quindi tale da strutturare in modo lineare
e coerente la narrazione - ogni cosa è nel tempo -, problematiche sono invece le
altre tipologie di connessione. In questo paragrafo concentreremo l’attenzione sui
nessi che strutturano il romanzo, cercando di capire, attraverso il riferimento ad
alcune questioni di storia letteraria, fino a che punto le deformazioni attuate dal
testo nei confronti di alcuni dispositivi narrativi possano configurarsi come modi
di significazione.
Il problema sicuramente più interessante ha a che fare con la nozione di
causalità e, per estensione, di coerenza, quindi con la possibilità di individuare
connessioni di tipo logico-causale tra i vari momenti del testo.
Affrontando il discorso sull’uso di forme della detective story e sulla
deformazione di quel modello abbiamo rilevato quanto, a livello strutturale, il
testo presenti incoerenze che negano gli esiti logicamente attesi dalla narrazione.
In questo senso il romanzo oscilla tra un principio d’ordine, teso alla convergenza
di alcuni nuclei testuali e un principio di dispersione realizzato dalla
proliferazione di storie, persone, tempi, spazi.
Distorcendo, mischiando, riordinando l’autore costringe il lettore ad assumere
il ruolo del decifratore, a cercare cioè una qualche coerenza tale da rendere
comprensibile l’intera costruzione narrativa. Nello specifico i racconti della
seconda sezione creano l’aspettativa di essere indizi di qualcosa, sembrano cioè
orientare una lettura globale del testo, indicando possibili percorsi di
comprensione; tuttavia, nonostante le attese create, a prevalere è una logica
dispersiva: saltano i nessi, le connessioni, quei rapporti causali necessari per una
coesione tra i vari momenti del testo. La dilatazione nei tempi, i vuoti, la
frammentazione delle esperienze, le storie rimaste in sospeso, la sparizione di
García Madero, la quasi totale assenza di riferimenti al viaggio nel Sonora, le
figure occasionali, gli oscuri percorsi di Arturo Belano e Ulises Lima ecc. negano
l’intero, la possibilità di una logica precisa alla base della narrazione.
Ne consegue l’ipotesi che i racconti valgano innanzitutto in quanto tali:
resoconti di individui diversi, dislocati, egocentrici perché incapaci di prescindere
da se stessi. In questo senso la gerarchia strutturale definita nel primo paragrafo
tra le diverse storie del romanzo verrebbe svuotata dall’interno, neutralizzata da
una molteplicità di azioni “secondarie” solo in apparenza tendenti a qualcosa,
funzioni di un’azione principale, ma in realtà significative proprio in quanto
isolate, contingenti, “inessenziali”: quelle di Cesárea, García Madero, Arturo,
Ulises sono quindi storie-specchio, un modo cioè per riflettere altri personaggi,
altri percorsi, altre storie.
In sintesi: ne I detective selvaggi nulla è dato come necessario; gli sviluppi
narrativi sono di tipo casuale più che causale, e di una casualità immotivata,
divergente. Le storie si incrociano, si sovrappongono, si ignorano, restano in
sospeso per caso, prescindendo cioè da un telos, qualcosa verso cui procedere.
Se provassimo a incrociare le categorie critiche che definiscono i rapporti fra gli
eventi di una storia, potremmo ottenere una nuova antitesi fondata sulla
contrapposizione fra trame centripete e trame centrifughe. L’archetipo del mythos
centripeto è la forma tipica del dramma moderno, che usa pochi elementi (i personaggi
sulla scena), istituisce legami forti di causa ed effetto, limita le divagazioni e tende
allo scioglimento; l’archetipo del mythos centrifugo è il viaggio senza meta, che usa
un numero virtualmente illimitato di elementi (tutto ciò che un viaggiatore può
incontrare sul suo cammino), si abbandona alle divagazioni e può risolversi in modo
imprevisto. L’impianto classico del Bildungsroman, per esempio, quello che troviamo
illustrato esemplarmente nei Wilhelm Meisters Lehrjahre, prevede il viaggio dell’eroe
per il mondo - un viaggio che però, nel romanzo di Goethe, segue tappe necessarie e
collegate, così collegate da rivelarsi, alla fine, parte di un disegno organizzato dalla
Società della Torre. Le trame di Austen, Scott, Manzoni e Balzac (Stendhal è un caso
a parte) mostrano sempre, soggiacente ai movimenti centrifughi di superficie, un moto
centripeto di fondo. Il mythos resta coeso: si allarga per mostrare la molteplicità del
reale o per dipingere lo sfondo, ma poi stabilisce un legame fra le parti attraverso
sequenze ordinate, fondate su rapporti di causa ed effetto e tendenti alla risoluzione
motivata dei conflitti. Si tratta di intrecci nel senso enfatico del termine; i fili delle
azioni umane, intessuti fra loro, compongono un intero che ha una logica precisa e
procede verso un telos40.
Questo passo, tratto da Teoria del romanzo, riflette su uno degli aspetti
caratterizzanti ‹‹il paradigma ottocentesco››41, ossia la tenuta delle trame anche
quando il testo esibisce, a livello di superficie, elementi dispersivi: in questo senso
eventi apparentemente casuali si rivelano necessari e determinanti nell’economia
complessiva del testo. Ne consegue che a strutturare la narrazione sono rapporti
ordinati, costruiti sulla base di nessi causali e tendenti a conclusioni motivate.
Nella seconda metà del XIX secolo questo modello si indebolisce
notevolmente a causa di alcune metamorfosi delle forme letterarie introiettate e
ulteriormente sviluppate dal modernismo nella prima metà del XX secolo:
Se i romanzieri nati fra il 1810 e il 1850 hanno un ruolo decisivo in un simile
cambiamento, il più rivoluzionario di tutti è ancora una volta Flaubert: le sue opere
dissolvono le trame teatrali dall’interno, conservandone l’armatura ma allentando i
giunti. Flaubert interviene sulle pietre angolari degli intrecci ottocenteschi: sulla
connessione causale fra le parti e sulla gerarchia fra le scene. I suoi romanzi
presentano vaste aree sconnesse, terre di nessuno occupate da una pletora di piccole
azioni centrifughe. Questo moto attraversa ogni piano del testo, dai singoli episodi allo
scheletro dell’opera. All’interno delle scene crescono i dettagli casuali, quelli che
ostacolano o ignorano l’azione principale, mentre la trama tende a frantumarsi42.
La disgregazione delle trame va considerata nella lunga durata, come esito di
un processo graduale che ha messo in crisi, a più livelli, i dispositivi di origine
ottocentesca. In questo senso I detective selvaggi non è un’opera originale: in essa
confluiscono materiali di origine diversa, già ampiamente sviluppati a partire dalla
fine del XIX secolo.
Ne consegue che l’attenzione posta sulla struttura del testo va nella direzione di
rilevare, più che una novità, un atteggiamento: Bolaño si colloca nella posizione
40
G. Mazzoni, Teoria del romanzo, Bologna, Il Mulino, pp. 264-265.
Sulla definizione di ‹‹paradigma ottocentesco›› cfr. G. Mazzoni, Teoria del
romanzo, cit., cap. 6, pp. 247-289.
42
Ivi, p. 317.
41
di quegli autori che hanno smesso di interessarsi all’innovazione in quanto tale,
sentendosi liberi di riusare tecniche narrative elaborate dalla cultura moderna
nell’ultimo secolo e mezzo, e tuttavia svincolandosi dai modi postmodernisti della
citazione ironica, dell’allusione, della virgolettatura43. In questo senso recuperare
significa provare a costruire un discorso sul reale che tenga conto delle
discontinuità, delle variazioni, ma anche delle persistenze: all’altezza del XXI
secolo, I detective selvaggi sedimenta nelle sue strutture un’immagine di realtà
particolare ma comunque riconducibile alla messa in crisi del paradigma
ottocentesco, essendo le tecniche un correlativo stilistico di visioni di mondo.
Tuttavia, se gran parte delle opere moderniste e, per estensione, d’avanguardia,
si sono definite a partire dalla negazione di modelli preesistenti, romanzi come I
detective selvaggi vedono la tradizione come proliferazione di possibilità: in
questo senso le stesse deformazioni nei confronti di alcuni dispositivi non cercano
di emarginare forme che si considerano superate, bensì sono realizzate in quanto
possibili modi di significazione.
Superando quindi ‹‹la convinzione che debba esistere una corrispondenza
necessaria fra il mutamento dei tempi e il mutamento delle forme artistiche››44 è
possibile leggere in opere di questo tipo un atteggiamento positivo: non più
l’esigenza di decostruire preesistenti immagini di realtà, ma il tentativo di
ridefinirle alla luce del rapporto, sempre mutevole, tra persistenze e discontinuità.
Una forma di raffigurazione
È evidente che l’attenzione si è concentrata solo su alcune dinamiche testuali.
In questo senso la parzialità dell’analisi va nella direzione di individuare degli
elementi significanti, in grado cioè di svolgere una funzione raffigurativa:
l’articolazione delle storie, le strutture spazio-temporali, i nessi vengono appunto
43
Su questo nuovo modo di concepire il rapporto fra presente e passato nelle arti cfr.
G. Mazzoni, Teoria del romanzo, cit., cap. 8, pp. 355-364; cfr. G. Mazzoni, Sul romanzo
contemporaneo/1. «Le benevole» (2006) di Jonathan Littell, in Le parole e le cose:
‹http://www.leparoleelecose.it/?p=3099›
44
Ivi, p. 363.
a configurarsi come il correlativo testuale di una visione di mondo; costruiscono,
messi in relazione, una possibile immagine di realtà.
Nella seconda parte di questo studio si cercherà di dispiegare i contenuti
impliciti sedimentati nel testo, individuarne alcune possibili referenze partendo
appunto dalla strutturazione interna degli elementi testuali. Alla base di
un’operazione di questo tipo c’è la convinzione che le forme siano sempre forme
significanti; in questo senso l’interesse per le forme è innanzitutto interesse per i
significati, ossia per le possibili raffigurazioni consentite dal testo. È ovvio che
questo non va a ridimensionare la rilevanza dei contenuti manifesti: il fatto che
siano stati in qualche modo trascurati a livello di analisi ha a che fare con delle
scelte teoriche, ma soprattutto non prescinde da alcune specifiche testuali, essendo
il testo costruito in modo tale da proliferare di contenuti tra loro eterogenei ed
equivalenti.
Il raffigurato. Un’interpretazione
Oggetti e configurazioni
“2.0272 La configurazione degli oggetti
forma lo stato di cose.”
Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus
Quella notte dormii molto male. Infilai un incubo dietro l’altro e all’improvviso mi
svegliai gridando e con la certezza che Clara mi aveva mentito, che non aveva un
cancro, che le stava succedendo qualcosa, questo era indubbio, da vent’anni le stavano
succedendo delle cose, tutte piccole e bastarde, tutte piene di merda e sorridenti, ma
che non aveva il cancro1.
È un passo tratto da Clara, un racconto di Chiamate telefoniche. Si tratta della
storia di una relazione, o, il che è lo stesso, quel che resta di quella storia: i
momenti condivisi, le incomprensioni, la rottura; le esperienze vissute e
raccontate per telefono, i vuoti, le ansie, la fine. ‹‹Di colpo mi crollarono addosso
tutti gli anni da quando avevo conosciuto Clara, tutto quel che era stata la mia vita
e con cui Clara non aveva avuto niente a che spartire››2: percorsi che si incrociano
per poi divergere, ignorandosi; le convivenze limitate ai tempi, agli spazi, alle
scelte.
I detective selvaggi, e per estensione l’intera opera di Bolaño, non è altro che
un susseguirsi di storie: storie di persone cui stanno succedendo delle cose, ‹‹nomi
propri gettati in un qui-e-ora, disposti in mezzo agli altri, attraversati da influssi,
esposti alle circostanze, percorsi e attorniati da una rete di azioni, parole,
significati che decidono il senso o l’insensatezza, la felicità o l’infelicità, la quiete
o l’inquietudine di ognuno››3.
1
R. Bolaño, Clara, in Chiamate telefoniche, Palermo, Sellerio, 2000, pp. 198-199; ed.
or. Llamadas telefónicas, Barcelona, Anagrama, 1997.
2
Ivi, p. 199.
3
G. Mazzoni, Teoria del romanzo, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 372-373.
In questo senso seguire le storie significa seguire le rotture, il ridefinirsi
continuo dei contesti, delle circostanze, delle possibilità:
Conobbi un milionario che comprava i miei quadri, la mia rivista morì d’inanizione
e mancanza di voglia, avviai altre riviste, feci delle mostre. Ma tutto questo ora non
esiste più: è più una certezza verbale che vitale. L’unica cosa certa è che un giorno
tutto finì e me ne rimasi solo col mio Picabia falso come unica mappa, come unico
appiglio legittimo […]. L’unica cosa certa è che un giorno tutto finì e cominciai a
guardarmi attorno. Smisi di comprare tante riviste e giornali. Smisi di esporre.
Cominciai a dar lezioni di disegno al liceo con umiltà e serietà e perfino (anche se non
me ne vanto) con un certo senso dell’umorismo. Arturo da molte tempo era sparito
dalle nostre vite4.
Esistere in mezzo agli altri, incrociare le proprie vite, ignorarsi, muovendosi in
campi di possibilità, configurazioni casuali che decidono cosa ne sarà dei singoli
destini: la struttura narrativa ci consente di seguire le vite di molti dei personaggi
nel loro compiersi: le attese, le speranze, le perdite, i fallimenti acquisiscono
consistenza, si concretizzano nelle forme del ricordo, della testimonianza, della
dichiarazione. Attraverso l’organizzazione del tempo il romanzo esibisce la non
linearità delle storie, il fatto cioè di configurarsi come percorsi articolati, spesso
sconnessi, e proliferanti di momenti “inessenziali”: esperienze che “non
concludono”, restando in sospeso, o che terminano senza lasciare traccia (‹‹per
esempio, María Font nel diario di Madero è una donna piena di vita e vogliosa di
fare tante cose, ma nella seconda parte via via che passa il tempo si va
richiudendo sempre più su se stessa, fino all’isolamento totale››5).
In questo senso il personaggio interessa come essere nel tempo, e, nello
specifico, come particolare punto di vista nel tempo, soggetto cioè alle
ridefinizioni che ogni divenire comporta: la narrazione in prima persona rimarca
appunto quest’aspetto.
4
Guillem Piña, calle Gaspar Pujol, Andratx, Maiorca, giugno 1994. R. Bolaño, I
detective selvaggi, Palermo, Sellerio, 2009, 2° ed., 20031, p. 628.
5
R. Bolaño, Io non ho mai avuto paura della morte, (Intervista di R. Schenardi,
2003), in L’ultima conversazione, Roma, SUR, 2012, p. 104.
I personaggi, in Bolaño, non sono mai riportati alla coscienza autoriale: sono
sempre altro, esseri eterogenei, estroflessi, egocentrici; esseri unici che agiscono,
si trasformano, si ridefiniscono. Sono ‹‹personaggi relativi››6: gettati in un mondo,
sottoposti al dominio del caso, non rinunciano alla costruzione di un’identità;
tuttavia tale costruzione è inevitabilmente dialogica, esposta al tempo, ai legami,
alle riconfigurazioni.
Poeti, poetesse, aspiranti poeti, scrittori, editori, professori, critici, artisti,
delinquenti, protettori, poliziotti, architetti, cameriere, toreri, puttane, pescatori,
spacciatori, avvocati, ex scrittori d'avanguardia, segretarie, omosessuali, amanti
ecc. popolano l’universo de I detective selvaggi, mostrando, con un’acutezza
straordinaria, quella logica individualistica, prospettivistica e relativistica
implicita nel romanzo come genere:
La fortuna moderna del nostro genere è legata soprattutto alla sua capacità di farci
vedere il mondo secondo la coscienza di un altro, di entrare in una vita possibile che
non è la nostra e magari di lasciar esistere, nello stesso testo e sulla stessa pagina,
ottiche differenti e inconciliabili, ma dotate tutte di una loro legittimità e di una loro
parte di ragione7.
Ne I dispiaceri del vero poliziotto, un personaggio, Amalfitano, riflette appunto
sulla capacità dei romanzi di consentire al lettore di entrare in esistenze che non
gli appartengono, di osservare il mondo secondo gli sguardi altrui, di vivere, in
qualche modo, le vite degli altri. Interessarsi ai personaggi significa quindi
seguirne le traiettorie, i movimenti, le scelte, comprenderne le forme di vita
nonostante contenuti altri, che non ci appartengono; significa immaginare gli
individui senza il filtro delle gerarchie, come collocati su uno stesso piano,
legittimati a compensare squilibri, mancanze, desideri, a perseguire scopi limitati,
irrilevanti per la sorte di tutti, e tuttavia di un’importanza sostanziale.
6
Sul concetto di ‹‹personaggio assoluto›› e ‹‹personaggio relativo›› cfr. E. Testa, Eroi
e figuranti. Il personaggio nel romanzo, Torino, Einaudi, 2009.
7
G. Mazzoni, Teoria del romanzo, cit., p. 368.
In questo senso la cifra significativa de I detective selvaggi è appunto la sua
capacità di restituire la pluralità del reale, la molteplicità della vita e delle forme
di vita, mostrandoci la realtà dal punto di vista dei singoli individui; allo stesso
tempo il loro essere esposti ai desideri, alle circostanze, alle ridefinizioni che ogni
divenire inevitabilmente comporta, restituisce il senso di un flusso cui è
impossibile sottrarsi. Dire che il romanzo non è altro che un susseguirsi di storie
significa innanzitutto questo.
Superficie
“Di tutti quei volti ne conservo ben pochi nella mia memoria.”
Roberto Bolaño, Il Terzo Reich
Se le narrazioni rimarcano l’elemento individualistico, prospettivistico e
relativistico del testo, mostrandoci la realtà dal punto di vista dei singoli
personaggi, le strutture spazio-temporali - lo spazio-mondo e il tempo storico superano la miopia di questo sguardo, allargando il campo. In questo senso la
realtà si mostra nel suo insieme, come totalità.
Il tempo storico può essere immaginato come una superficie in espansione che
trascende i tempi individuali nonostante sia in fondo la risultante di quei tempi; lo
spazio-mondo come un piano esteso fatto di luoghi eterogenei e in qualche modo
equivalenti. Si tratta di immagini, forse deboli ed eccessivamente semplificatorie;
tuttavia l’intenzione è quella di dare consistenza concreta a un’impressione:
guardata a distanza la realtà è pura superficie; proliferazione circoscritta in uno
spazio e soggetta al tempo.
Se uno sguardo interno consente di sondare in profondità gli individui, gli
eventi, le storie, un punto di vista esterno sposta l’attenzione sugli elementi che
trascendono le singole esistenze, mostrandoci che ‹‹intorno alle vite individuali di
cui seguiamo la storia in un momento decisivo, esiste un mondo vasto e
indifferente che prosegue il proprio corso››8. Spogliata delle particolarità, delle
8
G. Mazzoni, Guerra e pace nel centenario della morte di Tolstoj, in C. Graziadei, D.
Colombo, a cura, Conversazioni su Tolstoj, Roma, Artemide, 2011, p. 35.
caratterizzazioni, dei contenuti con cui gli uomini riempiono le loro vite, la realtà
esibisce la sua logica di fondo: una molteplicità di esseri equivalenti, esposti al
divenire e al desiderio, che agiscono per compensare degli squilibri.
In questo senso Bolaño ha una capacità straordinaria di relativizzare le
singolarità: le estensioni di tempo e spazio ridefiniscono il sistema di riferimento,
annullano le gerarchie, mostrando la natura orizzontale delle esistenze. A distanza
le storie risultano irrilevanti, nient’altro che una pluralità di movimenti autotelici,
limitati, inessenziali: il fatto che molto venga dimenticato - ogni lettore de I
detective selvaggi potrebbe confermarlo - non prescinde da questa duplicità di
sguardo.
[…] mentre il messicano andava snocciolando in un inglese a tratti incomprensibile
una storia che non mi riusciva di capire, una storia di poeti perduti e di riviste perdute
e di opere sulla cui esistenza nessuno sapeva una parola, in mezzo a un paesaggio che
forse era quello della California o dell’Arizona o quello di una qualche regione
messicana limitrofa a quegli stati, una regione immaginaria o reale, ma sbiadita dal
sole e in un tempo passato, dimenticato, o che almeno qui, a Parigi, negli anni settanta,
non aveva più la minima importanza. Una storia alla periferia della civiltà, gli dissi. E
lui disse sì, sì, probabilmente sì, sì, sì. E io gli dissi allora: e così non hai mai sentito
parlare dei Question Mark? E lui disse no, non li ho mai sentiti. E allora io gli dissi
che doveva ascoltarli un giorno, che erano fantastici, ma in realtà lo dissi solo perché
non sapevo più cosa dire9.
È un passo tratto dalla narrazione di un personaggio, Michel Bulteau, datata
gennaio 1978. La storia cui Michel fa riferimento, ricordando un suo incontro con
Ulises Lima, è appunto la storia della ricerca di Cesárea Tinajero e, per
estensione, del realismo viscerale. Sono passati appena due anni, il racconto
riferisce di un tempo addirittura precedente, e quell’esperienza, da noi seguita con
attenzione, letta come episodio principale del romanzo, appare irrilevante, priva di
un’importanza sostanziale, nient’altro che ‹‹una storia alla periferia della civiltà››.
9
Michel Bulteau, rue de Téhéran, Parigi, gennaio 1978. R. Bolaño, I detective
selvaggi, cit., p. 317.
Nonostante il peso nell’economia complessiva del testo, quella storia, in fondo, è
una storia tra le altre, limitata a un tempo, a dei luoghi, a delle circostanze.
‹‹La vita e il mondo sono ampi, sfrangiati, complessi e trascendono i singoli
individui e la loro illusione di essere in primo piano››10: collocati in un realtà più
grande di loro, sulle “superfici” del tempo e dello spazio, gli individui si
equivalgono. In questo senso se ogni racconto crea inevitabilmente una
discontinuità, isola dal flusso dell’accadere dei frammenti di vissuto, individua
delle esistenze altrimenti destinate al nulla, una proliferazione di racconti, sparsi
nel tempo e nello spazio, annulla quella discontinuità. Guardate a distanza le vite
si svuotano: l’enigma con cui si chiude il romanzo, una sorta di finestra dai bordi
tratteggiati che dà sul nulla, significa probabilmente questo.
Dispersioni
“Tu appartieni a me, anche se non dovessi vederti mai più.”
Franz Kafka, Lettere a Milena
Il mondo de I detective selvaggi prolifera. Nonostante molti elementi sembrino
convergere, orientando una lettura globale del testo, le parti si mostrano in fondo
sconnesse, slegate, prive di un telos verso cui procedere; gli sviluppi narrativi
sono di tipo casuale più che causale, e di una casualità immotivata, divergente.
In questo senso la struttura del romanzo incorpora, raffigurandola, la logica
dispersiva della realtà: incrociamo le nostre vite per caso, stabiliamo delle
relazioni, ci definiamo attraverso queste relazioni; per un tempo limitato
condividiamo dei percorsi fino a quando questa condivisione non è più data: per
motivi diversi, spesso indipendenti dalle nostre scelte, le nostre traiettorie
divergono, ridefinendosi all’interno di nuovi contesti, nuove configurazioni,
nuove possibilità: se molto sarà mantenuto, tanto sarà inevitabilmente
dimenticato.
10
G. Mazzoni, Guerra e pace nel centenario della morte di Tolstoj, cit., p. 36.
Gli spiegai tutto, come mi sentivo, cosa aveva detto il medico, che adesso portavo
gli occhiali, che appena avessi avuto dei soldi pensavo di andare a Barcellona per
vederlo, che lo amavo. Dovetti mandargli sei o sette lettere in un lasso di tempo
relativamente breve. Non ricevetti risposta. Poi cominciarono le lezioni, conobbi
un’altra persona e smisi di pensare a lui11.
Abbi cura di te, mi disse quando vennero a prenderlo, tieniti in forma, Heimito. A
presto, dissi io, e poi non lo rividi più12.
E poi Cesárea si fermò come se all’improvviso si fosse ricordata di qualcosa di
molto importante che aveva dimenticato, rimase zitta, guardò per terra o forse guardò i
passanti di quell’ora, ma senza vederli, aggrottando la fronte, ragazzi, dissi, e poi
guardò me, prima senza vedermi, poi vedendomi, e sorrise e mi disse addio, Amedeo.
E quella fu l’ultima volta che la vidi viva. Serenissima. E tutto finì lì13.
Mi regalò quattro libri che non ho ancora letto. Una settimana dopo ci salutammo,
io lo accompagnai alla stazione di Malgrat14.
I frammenti citati sono significativi in quanto rimarcano, in maniera sintetica,
l’immagine di realtà sedimentata nel romanzo: si tratta di scene d’addio, momenti
a partire dai quali le esistenze si riformano, abbandonando definitivamente delle
possibilità - ciò che sarebbe potuto essere -, partecipando di altre, esposte al flusso
inarrestabile del tempo.
I detective selvaggi è pieno di scene di questo tipo: una ‹‹prospettiva di fuga››15
allontana continuamente i personaggi, ne interrompe le relazioni, ne separa le
traiettorie. Muovendosi in uno spazio ormai esploso - lo spazio-mondo - i
personaggi costruiscono relazioni fragili, limitate a un tempo, a dei luoghi, a delle
11
Mary Watson, Sutherland Place, Londra, maggio 1978. R. Bolaño, I detective
selvaggi, cit., p. 342
12
Heimito Künst, sdraiato nella sua soffitta della Stuckgasse, Vienna, maggio 1980.
Ivi, p. 420.
13
Amadeo Salvatierra, calle República de Venezuela, nei pressi del Palacio de la
Inquisición, Città del Messico DF, gennaio 1976. Ivi, pp. 615-616.
14
María Teresa Solsona Ribot, palestra Jordi’s Gym, calle Josep Terradellas,
Malgrat, Catalogna, dicembre 1995. Ivi, p. 700.
15
R. Bolaño, Io non ho mai avuto paura della morte, (Intervista di R. Schenardi,
2003), cit., p. 104.
circostanze; esperienze contingenti, incapaci di strutturare in modo coerente dei
percorsi. In questo senso non ci sono sequenze ordinate, nessi forti a garantire una
coesione tra i diversi momenti; guardate in retrospettiva le storie risultano
aggregati sconnessi di esperienze più o meno rilevanti tenute insieme da un solo
elemento: il tempo.
Nello specifico le vite di Belano e Lima restituiscono nel modo più chiaro il
senso di questa frammentazione: traiettorie irregolari, fatte di persone, esperienze,
situazioni tra loro slegate, che negano l’intero. Ne consegue che qualsiasi
tentativo di ordinamento non può che rivelarsi fallimentare: “l’inchiesta”, per
esempio, non porta da nessuna parte in quanto non ci sono fili da ricomporre, ma
solo frammenti giustapposti. Il senso della totalità sembra essere venuto meno,
svuotato appunto da una logica irregolare, casuale, dispersiva.
I detective selvaggi problematizza la nozione di linearità: nel farlo, però, evita
di leggere le storie come mere degenerazioni di un modello preesistente - efficace,
stabile, logico -, evita cioè una posizione valutativa. Il romanzo cerca invece di
restituire un’immagine di realtà viva, “iperconcreta” (‹‹senza idee, senza
affermazioni o negazioni, senza dubbi, senza la pretesa di orientare, né a sostegno
né contro, soltanto un occhio che cerca gli elementi tangibili››16) interessandosi
appunto alle riconfigurazioni, al ridefinirsi continuo delle possibilità: ‹‹Il mondo è
vivo e tutto ciò che è vivo è irrecuperabile e questa è la nostra fortuna››17.
Non sono più sicuro di quale sia il modo giusto [..]. Ho l’impressione che sia in
atto proprio un cambiamento di parametri, c’è l’idea che si può prendere un pezzo qui
e un pezzo là e formarsi un’individualità prêt à porter, mentre il sentimento come lo
immaginavamo noi presupponeva un’identità ben salda: un individuo prova
sentimenti. Non siamo più così sicuri che l’individuo abbia delle radici e che non sia
invece una ‘cosa’ creata prendendo un pezzo di verità da una parte, un pezzo di
immagine dall’altra. Bisogna chiedersi se quel coacervo può provare sentimenti o si
tratta di altro – di soluzioni per star bene comunque, per essere felice comunque, per
16
R. Bolaño, 2666, Milano, Adelphi, 2009, p. 70; ed. or. 2666, Barcelona, Anagrama,
2004.
17
R. Bolaño, L’ultima conversazione, (Intervista di Mónica Maristain, 2003), in
L’ultima conversazione, cit., p. 88.
avere compagnia, per non essere solo; magari non sono più i sentimenti nella integrità
in cui li intendevamo ma possono essere dei ‘pezzi’ di emozione. Si prende il
desiderio di protezione da una parte, la complicità dall’altra, l’attrazione fisica
dall’altra, magari con persone diverse e questo però riempie come se si avesse un
amore […].
Persino nel campo dell’erotismo vedo che – anche nell’omosessualità – succede
sempre più spesso che ci sono uomini che condividono con un uomo un certo tipo di
emozione, e poi magari hanno una donna con cui ne condividono altri, quindi poi
chiamare entrambi “sentimento d’amore”. Forse sono due cose diverse, forse
bisognerebbe dare loro due nomi diversi, forse si sta di nuovo tutto confondendo e le
cose dovrebbero essere rinominate18.
Questa riflessione di Walter Siti, se da un lato espone in maniera acuta dei
contenuti, esibisce innanzitutto un atteggiamento: leggere alcuni aspetti del
proprio tempo significa innanzitutto contestualizzarli rispetto al proprio tempo,
individuandone limiti e possibilità. Le nozioni di sentimento, individuo, relazione
richiedono probabilmente di essere ridefinite: in questo senso la riflessione di Siti
esibisce un’immagine di realtà analoga a quella sedimentata ne I detective
selvaggi. Entrambe individuano nella dispersione - delle storie, degli individui,
dell’interiorità - il termine di riferimento per una riformulazione generale, per un
cambio di paradigma necessario a costruire un discorso sul reale attuale, efficace,
concreto. Ridurre i confronti, evitando - nei limiti - posizioni valutative, significa
innanzitutto rimarcare la necessità di momenti costruttivi.
Pensare le proprie vite come aggregati disorganici, instabili, frammentari si fa
quindi ipotesi plausibile: non necessariamente una degenerazione, probabilmente
un modo nuovo, diverso di rapportarsi alla realtà.
Se i destini dei personaggi del romanzo sono l’emblema di tutto questo, le loro
narrazioni ne sono la sintesi più concreta: storie dispersive, frammenti di vissuto
che restituiscono, nelle forme del ricordo, un’immagine viva delle singole
esistenze. In questo senso l’essenzialità dei momenti non è data come parte di un
18
W. Siti, Voglio raschiare sotto, (Intervista di S. Costantino, 2011), in 404: file non
found:
‹http://quattrocentoquattro.com/2011/11/28/voglio-raschiare-sotto-intervista-awalter-siti/›.
tutto: l’incidenza prescinde dall’intero, dagli effetti pratici, dalla capacità di
cambiare l’oggettività di un destino.
Insomma, io non lo conosco bene, non ero sua amica, ma un giorno venne nella
nostra soffitta di Passy e non c’era nessuno, solo io, e stavo malissimo, ero depressa,
avevo litigato col io compagno, le cose non mi andavano bene, quando arrivò stavo
piangendo chiusa nella mia chambre, gli altri erano andati al cineclub o a una delle
tante riunioni politiche, erano tutti militanti rivoluzionari, e Ulises Lima percorse il
corridoio e non busso nessuna porta, come se sapesse già che non avrebbe trovato
nessuno, e venne diritto alla mia chambre, dove io me ne stavo da sola, seduta sul
letto, a guardare il muro, e lui entrò (era pulito, aveva un buon odore) e rimase vicino
a me, senza dir niente, disse solo ciao, Sofía, e rimase lì in piedi finché io non smisi di
piangere. E per questo ho un bel ricordo di lui19.
Esperienze di questo tipo esibiscono in maniera chiara la natura dispersiva dei
percorsi: incrociarsi, per un tempo minimo, e poi ignorarsi per sempre. Si tratta di
un’esperienza “inessenziale”, incapace di orientare, direzionare, mutare delle
traiettorie; tuttavia è un’esperienza che non può essere trascurata.
Navegación. Una forma di unità
Adesso sarebbe opportuno raccontare due o tre barzellette, ma me ne viene in
mente soltanto una, così, su due piedi, solo una, e per colmo d’ironia è una barzelletta
sui galleghi. Nono so se la sapete già. C’è uno che si mette a camminare in un bosco.
Io, per esempio, sto camminando in un bosco, come il Parco di Traiano o come le
Terme di Traiano, ma selvaggio e senza tanta deforestazione. E questa persona, che
sarei io, cammina per il bosco e incontra cinquecentomila galleghi che camminano
piangendo. E allora io mi fermo (gigante gentile, gigante curioso per un’ultima volta)
19
Sofía Pellegrini, seduta nei Jardins du Trocadéro, Parigi, settembre 1977. R.
Bolaño, I detective selvaggi, cit., p. 311.
e domando loro perché piangano. E uno dei galleghi si ferma e mi dice: perché siamo
soli e ci siamo perduti20.
È forse il passo più bello de I detective selvaggi: una barzelletta e tuttavia
un’immagine profondamente seria.
Guardati a distanza i personaggi del romanzo appaiono analoghi al gruppo dei
cinquecentomila galleghi perduti: esistenze equivalenti, disgregate, situate in uno
spazio - lo spazio-mondo - ed esposte al flusso inarrestabile del tempo.
Se a un primo livello di referenza le storie di quei personaggi raccontano la
dispersione di una generazione - quella dei latinoamericani nati negli anni
Cinquanta -, sedimentata in quei destini c’è l’immagine di un’intera epoca,
un’epoca che ci appartiene.
I detective selvaggi rispecchia, con un’acutezza straordinaria, la nostra
condizione nella realtà globale e lo fa incorporando, nella propria forma, la logica
dispersiva di questa realtà: lo spazio esploso, la fragilità dei legami, l’irregolarità
delle traiettorie significano innanzitutto questo. Incrociamo le nostre vite per caso,
stabiliamo delle relazioni, ci definiamo attraverso queste relazioni; per un tempo
limitato condividiamo dei percorsi fino a quando questa condivisione non è più
data: per motivi diversi, spesso indipendenti dalle nostre scelte, le nostre
traiettorie divergono, ridefinendosi all’interno di nuovi contesti, nuove
configurazioni, nuove possibilità: il susseguirsi delle storie viene a coincidere,
inevitabilmente, con le continue rotture.
Nell’estrema eterogeneità delle nostre vite ciò che ci unisce è appunto la
condivisione di una forma che, se da un lato non prescinde da fenomeni di lunga
durata, dall’altro è la conseguenza necessaria di una trasformazione: i luoghi non
circoscrivono più, lo spazio-mondo si mostra come una superficie percorribile in
tutti i suoi punti e muoversi tra questi punti significa partecipare di possibilità
ogni volta diverse - eventi, circostanze, configurazioni - che ridefiniscono le
nostre traiettorie, mostrandone l’instabilità. In questo senso la spazialità del
romanzo è una spazialità concreta, individuata, reale: allo stesso modo dei
personaggi siamo gettati in un mondo che ci trascende; un mondo esteso,
20
Xosé Lendoiro, Terme di Traiano, Roma, Ottobre 1992. R. Bolaño, I detective
selvaggi, cit., pp. 596-597.
orizzontale, che favorisce e allo stesso tempo ci nega la possibilità di instaurare
legami.
In che modo leggere quest’immagine? È necessario probabilmente uno sguardo
altro, una ridefinizione di criteri, di postura, di atteggiamento; si tratta cioè di
pensare questa condizione come un modo nuovo, diverso, di relazionarsi alla
realtà. Le storie di quei giovani latinoamericani perduti, le loro esperienze
dimenticate,
rimosse,
ignorate
significano
probabilmente
questo.
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