Scompenso cardiaco e qualità della vita

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Scompenso cardiaco e qualità della vita
AGGIORNAMENTI
SCOMPENSO CARDIACO E QUALITÀ DELLA VITA
Marco Trabucchi, Renzo Rozzini
Gruppo di Ricerca Geriatrica, Brescia
Il titolo potrebbe essere criticato perché propone un modello di lettura della realtà umana dell’anziano in
modo segmentario, quasi fosse possibile in una persona affetta da diverse patologie isolare in modo
schematico e diretto le conseguenze indotte dai segni clinici dello scompenso cardiaco sulla qualità della
vita. Anche se l’impresa riveste qualche difficoltà pratica e concettuale, la realtà clinica induce a considerare
la malattia prevalente che affligge una persona anziana come quella attorno alla quale incentrare analisi
operative, pur consci dei limiti dei dati così ottenibili.
Lo scompenso cardiaco, che è stato definito il modello prototipale di sindrome cardiogeriatrica del 21esimo
secolo (1), rappresenta una condizione sempre più frequente, associata nel vecchio ad una prognosi infausta,
in grado di esercitare un carico pesante per il paziente e la sua famiglia. Studiarne quindi l’impatto
sull’”essere nel mondo“ dell’anziano rappresenta un dovere della geriatria moderna, profondamente
coinvolta nell’impegno di ridurre il carico di sofferenza indotta dalle malattie croniche.
Le misure di qualità della vita: utilità e limiti
Per costruire un modello interpretativo adeguato è necessario partire dal concetto di qualità della vita, come
misura complessiva di una specifica condizione umana (vedi per una revisione recente ed ampia) (2). Ogni
persona nel momento in cui viene richiesta di dichiarare in modo sintetico la qualità del proprio essere nel
mondo tende a valorizzare alcuni aspetti del sentire in base alla propria cultura, alla propria esperienza, alla
quantità-qualità dei rapporti umani. Inoltre spesso attribuisce più valore ai cambiamenti di stato rispetto allo
stato stesso e tende a far contare di più i picchi (negativi e positivi) degli episodi e non la loro effettiva durata
ed i momenti di normalità. Non è quindi semplice compiere un’operazione di oggettivizzazione –come è
stato fatto in letteratura negli ultimi anni- del dato soggettivo, al fine di ottenere una modalità di valutazione
applicabile in soggetti diversi ed adottabile in diversi setting, anche al fine di misurare l’efficacia di specifici
interventi. Spesso purtroppo il concetto stesso di qualità della vita è stato banalizzato, sia per superficialità
sia perché è stato adottato come misura surrogata in mancanza di dati più diretti per analizzare, ad esempio,
gli effetti di un farmaco.
E’ quindi necessario utilizzare criteri di equilibrio, al fine di non svilire una misura di primaria importanza,
anche alla luce dell’evoluzione del concetto di medicina basata sulle evidenze, sempre più aperta a collocare
nell’ambito delle evidenze stesse anche misure complesse, in grado di descrivere in modo realistico la
condizione vitale di una persona.
L’attenzione alla qualità della vita è peraltro un’operazione tipicamente geriatrica, perché in linea con il
concetto di valutazione multidimensionale della condizione dell’anziano; infatti le diverse scale utilizzate
sono strutturate attorno alla rilevazione di domain diversi, di ordine somatico, psicologico, relazionale. Non
vi è condizione di fragilità così grave da non permettere una valutazione della qualità della vita; anche nella
persona affetta da demenza, quando si valuta il paziente la dimensione complessiva conserva un notevole
rilievo.
Un recente editoriale di un’importante rivista scientifica così intitolava: “Il mondo post-moderno degli studi
sull’Alzheimer: quanto pesa un punto all’Adas Cog nel centro di Londra?” (3). E’ una provocazione, però
riassume la tendenza, che caratterizza gli studi più avanzati, ad interpretare la realtà in una logica sistemica,
uscendo dai tradizionali schemi della medicina incentrati sulla patologia d’organo che viene affrontata e
vinta solo con interventi mirati. L’editoriale ribadisce che non è l’organo encefalo che si deve curare,
estraendolo da un corpo che vive nel mondo e portandolo in un laboratorio, ma è la persona che si deve
accompagnare –utilizzando il massimo della tecnica intesa in senso ampio- verso una possibilità di vita
migliore, tenendo conto di limiti e occasioni. Queste considerazioni si adattano all’organo cuore, il cui
malfunzionamento produce effetti che incidono sulla vita di altri organi, sulla psiche, sulla possibilità di
relazioni. Tanto più la persona è anziana e fragile, tanto più il riferimento a ricadute più ampie dello
specifico evento biologico diviene necessario.
La complessità è caratteristica principale della condizione umana (e quindi anche biologica e clinica) con il
passare degli anni; ogni analisi quindi deve subire la contaminazione da parte di eventi casuali,
dall’incertezza, dall’emergere di situazioni inattese e imprevedibili. La logica del pensiero medico
tradizionale deve essere contaminata dagli eventi del mondo reale. Ciò non mette in crisi né il pensiero
clinico né l’atto di cura, ma anzi forma il medico ad una sempre maggiore capacità di attenzione all’insieme,
senza averne timore. Infatti nella visione medica tradizionale non trovava spazio una misura oggettiva della
qualità della vita, perché l’interesse si incentrava sulla sintomatologia o –eventualmente- su una
interpretazione soggettiva e globale da parte del medico sulla condizione del suo paziente (“come sta?”). Un
impegno analitico in questo campo risulta quindi difficile da gestire, perché incentrato sul paziente, mentre
l’atteggiamento tradizionale dava un ruolo centrale al medico, interprete unico della condizione umana
dell’ammalato. Tale mancanza di rilevazioni oggettive permetteva però interpretazioni scarsamente
equilibrate: da una parte un ottimismo spesso superficiale ed inutile, dall’altra un pessimismo che non
lasciava spazio ad interventi di supporto. Il risultato per l’ammalato era pesantemente negativo.
Non è questa la sede per una revisione sistematica dei dati sulla condizione vitale dell’anziano affetto da una
malattia cronica come lo scompenso cardiaco; non è però possibile dimenticare a questo proposito il
cambiamento di atteggiamento culturale compiuto verso una medicina che non è più vissuta come scienza
che guarisce, ma scienza che cerca di mettere assieme i pezzi di un puzzle umano in difficoltà, in modo di
permettere la sopravvivenza della persona. In questa operazione, tra l’altro, giocano un ruolo importante
anche attori non direttamente legati alla clinica, però altrettanto importanti al fine di garantire la
sopravvivenza in condizione di grave malattia. Si pensi al ruolo delle badanti (ci ripromettiamo sempre di
eliminare questa denominazione meschina, ma non abbiamo ancora trovato un sinonimo espressivo), che ha
permesso di costruire piccole cliniche casalinghe attorno a malati sempre più numerosi e compromessi. Nei
prossimi anni potremo scrivere la storia di questo evento -improvviso, inatteso e non gestito-, cercando di
andare a misurarne gli effetti sulla qualità della vita di milioni di anziani altrimenti destinati all’abbandono o
all’istituzionalizzazione (peraltro sempre più costosa, difficile, precaria).
Tra le cose che dovremo descrivere nel prossimo futuro (per meglio comprendere la dinamica di
cambiamenti avvenuti in tempo molto breve) vi è anche la condizione dell’uomo vecchio di oggi che vede la
sua vita sempre più affidata a farmaci e talvolta anche ad interventi di alta intensità tecnologica. Ben lungi da
me qualsiasi atteggiamento di nostalgia verso il buon tempo passato dove si moriva presto (e spesso
malissimo!); però è necessario ripensare alla condizione soggettiva dell’anziano che si sente “costretto” a
sopravvivere grazie alle potenzialità della medicina contemporanea. Non alludo all’accanimento (che ha altre
dinamiche), ma alla normale e quotidiana sensazione di ogni persona affetta da scompenso di sentirsi vivo
grazie ad un atto di cura. Fiducia, speranza, stanchezza, delusione…quanti e diversi sentimenti
accompagnano queste vite, che dobbiamo essere in grado di “leggere”, per evitare di diventare gestori freddi
delle giornate altrui, senza essere capaci di guardare nel cuore e nella mente dell’altro. “Leggere”,
comprendere, accompagnare; questa sequenza sta alla base di un atteggiamento equilibrato del medico che
non si fa condizionare dalla propria cultura e dal proprio orgoglio professionale, ma nemmeno si lascia
dominare da un malinteso (e soggettivo) sentimento di pena di fronte alle innegabili sofferenze del paziente
anziano affetto da una grave malattia cronica che limita l’autonomia e carica l’esistenza di un pesante
fardello di fatica. Leggere la condizione del paziente diventa la premessa per capirlo ed essere quindi in
grado di essergli vicino, esprimendo un sentimento di compassione che permette il massimo rapporto di cura,
comprendendo quali sono le aree dove più opportunamente ed efficacemente è possibile realizzare una
terapia. Infine l’accompagnamento esprime la caratteristica peculiare del medico nel momento in cui sente la
necessità di porsi di fianco all’ammalato, facendo assieme a lui i percorsi di cura. In questo modo nel corso
di storie naturali di malattia talvolta lunghissime si sviluppa un rapporto intenso tra medico, paziente e
famiglia, rendendo superflua qualsiasi discussione accademica sulle modalità per compiere scelte riguardanti
il futuro delle cure, come quelle sull’apparente dualismo accanimento-eutanasia. Un rapporto meccanico (o
falsamente tecnologico) con l’ammalato è spesso la causa negativa di interventi puntiformi, che non giovano,
anche se apparentemente obbediscono a richieste del paziente espresse in passato; se, invece, il medico
conosce la storia (e quindi anche il presente) dell’ammalato, perchè lo ha accompagnato nel corso di lunghi
anni, ogni decisione sarà il frutto di una vicinanza che spesso nemmeno richiede verbalizzazioni,
conseguenza di una condivisione non banale.
Le considerazioni suddette aprono la strada all’approfondimento delle metodologie per la rilevazione della
qualità della vita, diffondendo una cultura di avvicinamento al paziente cronico che non trascura nulla, ma è
allenata a considerare le diverse componenti di un essere nel mondo complesso e difficile. Quindi anche le
righe che seguono vanno lette nello spirito di approfondire tecniche che, al di là della loro specifica
importanza, rappresentano uno stimolo ad avvicinare il paziente affetto da malattia cronica come si avvicina
una persona assolutamente originale, la cui specificità biologica e clinica offre spunti significativi per un
rapporto di cura.
Nell’anziano, in particolare, la condizione esistenziale e il supporto di uno specifico servizio possono
profondamente modificare la qualità di vita soggettiva, anche indipendentemente da oggettive condizioni di
salute. Lungi dall’essere un limite, questo fatto insegna come sia necessario collocare ogni intervento clinico
all’interno di un sistema complesso di relazioni, facendolo precedere da un’analisi che tiene in conto
condizionamenti o vantaggi conseguenti all’ambiente. Si pensi, ad esempio, alla valorizzazione della casa
come luogo primario di cura compiuta in questi anni dalla geriatria, anche utilizzando il supporto delle
moderne tecnologie telematiche. Ben si sa però quanto sia ambigua la reazione del paziente in gravi
condizioni di salute rispetto al mantenimento a casa, perché sia lui che i famigliari oscillano periodicamente
tra il desiderio di rimanere nel proprio luogo naturale di vita ed il senso di protezione che in ogni momento è
offerto da una struttura ospedaliera. Lo stesso dicasi per il ricovero in hospice di persone affette da
scompenso in fase terminale; per poter decidere se questa alternativa è di vantaggio per il paziente la misura
della qualità della vita rappresenta una valutazione critica, sapendo a priori che il paziente darà maggiore
importanza agli aspetti psicologici di accompagnamento rispetto a quelli clinici. Ciò non vuol dire
trasformare il lavoro del medico in un impresa di assistenza sociale, ma aver chiaro il risultato di salute che
si vuol ottenere (che spesso è il mantenimento dell’autonomia, sia attraverso interventi palliativi, sia
attraverso atti di cura che rallentano l’evoluzione della malattia).
Un’ultima considerazione riguarda la collocazione da dare nell’ambito della rilevazione della qualità della
vita alle questioni relative al senso della vita stessa. Nel tempo delle “passioni tristi” (4) può essere molto
difficile aiutare la persona anziana fragile a non perdere il senso della vita, quando tutti i punti di riferimento
tradizionali si sono progressivamente svalutati. Pur non invocando per il medico e per gli altri componenti
dell’equipe di cura una funzione religiosa o etica, non vi è dubbio che nelle condizioni spesso estreme di
vita della persona affetta da una malattia cronica fortemente invalidante, come lo scompenso cardiaco,
l’accompagnare l’atto di cura con gesti di speranza e di vicinanza da allo stesso un significato
importantissimo, perché delinea un tempo di vita che non è esclusivamente un tempo di attesa della morte.
Potrebbe essere utile ricordare a questo proposito come –secondo Rodriguez-Artalejo et al. (5)- la qualità
della vita rappresenti a sua volta un predittore di ricoveri ospedalieri e di mortalità, al pari di ben noti fattori
quali una storia di diabete, il trattamento con ACE inibitori, il numero delle precedenti ospedalizzazioni. Si
ritorna quindi a considerare un complesso di eventi hard (biologici) ed eventi apparentemente soft
(prevalentemente psicosociali, in particolare quelli legati all’intimo sentire del paziente rispetto al senso della
sua vita) nel determinismo di condizioni quali la sopravvivenza di persone affette da scompenso di cuore.
Non per costruire una confusa e indistinta raccolta di determinanti, ma per identificare elementi che possono
costituire punti di attenzione in una prospettiva di prevenzione.
La complessità degli aspetti sopradescritti rimarca l’esigenza che in questi ambiti si sviluppi un grande
impegno di ricerca, per mettere a punto modelli di lavoro adeguati alla multiformità delle situazioni e alla
difficoltà di identificare strumenti adeguati per costruire risposte mirate. Certamente non si vuole entrare in
concorrenza con la ricerca biologica che arriva alla radice dell’evento clinico (e che –per esempio
nell’ambito dello scompenso cardiaco- ha permesso negli anni enormi progressi nella qualità delle cure e nei
risultati ottenuti), ma aver chiaro il modello che attraverso studi e ricerche è possibile raggiungere ogni
giorno un piccolo ma significativo progresso, che di fatto diviene un grande progresso sul piano
dell’interpretazione soggettiva. In particolare la ricerca sulla qualità della vita offre allo studioso la
possibilità di delineare modelli con immediate ricadute per persone colpite da malattie fortemente invalidanti
e pesantemente interferenti con la vita psichica. Il fine ultimo (ma anche il primo) è permettere a persone
anziane molto ammalate di poter ancora provare speranza (6). Questo sentimento più di tutti indica che la
vita vale la pena di essere vissuta; qualsiasi medico capace di onorare il proprio mestiere deve porsi in
ammirato silenzio, perché probabilmente la speranza non consegue al suo lavoro, ma, anche così fosse, è un
sentire troppo vasto per essere inquadrato tra i possibili outcome di un intervento terapeutico. D’altra parte,
in apparente contraddizione con queste osservazioni, è noto che alcuni pazienti scambierebbero volentieri un
allungamento della vita con una migliore qualità della vita stessa (7). E’ retorico affermare che il cuore
dell’uomo nasconde anfratti inesplorati e inesplorabili; non è però difficile comprendere come per taluno la
speranza abbia un valore assoluto e talaltro desideri invece fare un commercio (un pò faustiano?) tra durata e
qualità della propria vita.
Lo scompenso cardiaco e la qualità della vita
Nonostante i notevoli progressi della medicina, lo scompenso cardiaco in fase avanzata rimane una
condizione con una prognosi negativa (la mortalità può arrivare annualmente al 30%). E’ una malattia molto
grave e come tale spesso viene percepita dal paziente e dall’equipe curante, con rilevanti conseguenze sul
benessere psicologico. E’ quindi comprensibile l’aumento di interesse avvenuto in questi anni per la
rilevazione della qualità della vita; la letteratura ha ampiamente affrontato la tematica con approcci diversi.
In questo capitolo mi limito a ripercorrere alcune linee più largamente discusse, sottolineando in premessa
che spesso i dati sono contradditori e poco confrontabili tra loro. In parte questa variabilità può essere
attribuita all’uso di diversi strumenti di rilevazione (8-9-10-11). Inoltre è ben noto come all’interno di una
stessa popolazione, con pari livello di compromissione clinica, la misura della qualità della vita dia risultati
estremamente diversi, con questo confermando l’utilità di adottare routinariamente strumenti di valutazione
del singolo paziente, al fine di calibrare in modo personalizzato la qualità degli interventi di supporto e
talvolta anche quelli di cura in senso stretto (12). Una tempestiva rilevazione della qualità della vita diviene
componente fondamentale di ogni atto terapeutico in pazienti sempre fragili dal punto di vista psicologico,
che sono sottoposti a cure di lunga durata e non sempre di significativo rilievo soggettivo (13).
Il problema centrale è e resta quello di comprendere –pur alla luce di quanto affermato nel paragrafo
precedente- come i sintomi dello scompenso (tra i quali dispnea, edemi diffusi, affaticabilità, alterazioni del
sonno, mancanza di appetito e tosse persistente) possono indurre così diverse conseguenze sul piano della
qualità della vita. Dietro a questa tematica vi è anche lo studio del rapporto tra gli stadi della malattia e
malattie diverse e qualità della vita, sulla scia di un problema largamente discusso in geriatria, cioè il
rapporto tra disease e disability (14). La ricerca di predittori del livello della qualità della vita diviene di
importanza primaria (15) anche perché -mancando una condizione clinica dominante (come il dolore nel
paziente oncologico)- è più complesso identificare una scala di importanza delle diverse condizioni (si pensi,
ad esempio, all’essere molto vecchio, alla gravità della classe NYHA, alla presenza di depressione, di
comorbidità somatiche, all’appartenere ad una classe socioeconomica svantaggiata). Come sempre avviene
riguardo alle malattie croniche dell’anziano, le componenti psicosociali rivestono un’importanza primaria; ad
esempio, condizioni quali la solitudine e la povertà giocano un ruolo significativo, perché tolgono
all’ammalato i principali meccanismi tampone (16). Questi dati sono apparentemente in contrasto con altri,
secondo i quali le donne con meno di 65 anni sono a maggior rischio di sofferenza soggettiva rispetto agli
uomini e alle donne più anziane (17). Poichè sembrerebbe che questo gruppo sociale è meno esposto agli
stress psicosociali, è necessario ipotizzare meccanismi più complessi, che possono essere chiariti solo
attraverso ulteriori studi accurati, con una più ampia numerosità.
In generale, secondo alcuni autori (18), non è sempre possibile costruire una sequenza chiara tra alterazioni
patologiche a livello cardiaco, manifestazioni sintomatologiche e qualità della vita. In particolare, da più
parti viene enfatizzata l’importanza del valore assoluto del livello di autosufficienza e delle sue
modificazioni nel tempo come determinante della qualità della vita e quindi anche come target di interventi
specifici (19). Ovviamente queste valutazioni aprono la strada a sperimentare l’impatto di specifici interventi
miranti a modificare più o meno direttamente la qualità della vita (20); purtroppo, come di seguito indicato,
manca ancora un’indicazione che permetta di adottare comportamenti omogenei, ma la ricchezza di dati
suggerisce una serie di potenziali interventi, ciascuno dei quali in grado di modificare, anche se di poco, la
qualità della vita della persona in età avanzata. In questo ambito decisionale il rispetto della volontà del
paziente diviene fondamentale, in particolare per quanto riguarda lo scompenso nelle fasi finali della vita
(21). Proprio nella prospettiva della qualità della vita, adottare o meno un atteggiamento palliativo può
cambiare radicalmente la condizione del paziente, perché sono in gioco sentimenti come la perdita di
speranza che devono essere monitorati dal medico con grande attenzione. E’ infatti difficile condividere con
il paziente una scelta di rinuncia ad interventi curativi, senza ammettere la vicinanza della fine. E’
interessante notare come un altro momento delicato per quanto riguarda la qualità della vita è quello
immediatamente successivo alla comunicazione della diagnosi (22). L’inizio e la fine della malattia
espongono il paziente ai rischi di una crisi psicologica; è quindi particolarmente necessario un supporto da
parte del medico, in grado di trasmettere contenuti rassicuranti, dimostrando concretamente un’attitudine
all’accompagnamento.
Una problematica particolare, anch’essa scarsamente approfondita, ma importante rispetto alla possibilità di
una cura adeguata nel tempo, riguarda la qualità della vita del principale caregiver del paziente; infatti, come
per molte malattie croniche dell’anziano, chi assiste diviene una delle principali vittime della crisi. Anche nel
caso di pazienti scompensati il coniuge si trova in una condizione di grave precarietà e spesso con una
qualità della vita molto povera (23); qualsiasi intervento, anche se strettamente biologico, non potrà quindi
trascurare il caregiver che vive assieme al paziente, sia per ovvie motivazioni umanitarie sia perché
rappresenta molto spesso il fulcro di qualsiasi cura a domicilio.
Modelli di intervento nello scompenso cardiaco e ricadute sulla qualità della vita
La letteratura sugli interventi è molto ampia, a testimonianza di come la medicina abbia dato attenzione –
assieme all’impegno per prolungare la vita- anche agli aspetti della “care” delle malattie croniche, non più
ritenuti, come in un recente passato, marginali, ma obiettivi da raggiungere con determinazione per garantire
il massimo livello possibile di benessere del paziente (la cui definizione è peraltro molto difficile). Studi
recenti riguardano interventi legati alla organizzazione di sistemi di continuità assistenziale, ai supporti
psicologici, alla riduzione della disabilità, all’uso di farmaci specifici, agli interventi di chirurgia (di seguito
vengono presentati alcuni tra i più significativi contributi della letteratura). La schematizzazione richiede di
presentare separatamente le diverse tipologie di interevento; è però utile ricordare –soprattutto allo scopo di
una moderna formazione degli operatori- che molti degli interventi indicati vengono adottati in modo
integrato, richiedendo il contributo di conoscenze e di competenze professionali di vari componenti
dell’equipe di cura (24).
Dal punto di vista organizzativo è importante ricordare come non vi sia chiarezza definitiva circa le modalità
più efficaci di prestare assistenza (centralità dell’ospedale verso un’organizzazione prevalentemente
domiciliare con responsabilità territoriali, diversità nelle responsabilità di management, ecc.). Ducharme et
al. (25) hanno recentemente pubblicato i risultati di un trial dimostrando che l’afferenza dei pazienti
scompensati ad un ambulatorio specializzato, caratterizzato dalla presenza di un team multidisciplinare,
induce un significativo miglioramento della qualità della vita, oltre a ridurre il numero delle ospedalizzazioni
e la durata delle stesse. Numerosi altri studi riguardano il monitoraggio a casa dei pazienti ad opera di
infermiere adeguatamente formate, sia attraverso visite dirette (26) sia attraverso il telefono (27) o strumenti
di telemanagement (28). In entrambi i casi gli intereventi comprendono il monitoraggio della condizione
clinica e l’eventuale adeguamento delle terapie, ma hanno anche lo scopo di aumentare il senso di controllo
del paziente sulla propria condizione vitale. In questo ambito si deve ricordare il ruolo particolarmente
importante svolto dalla professione infermieristica (29-30) Sebbene la maggior parte degli studi sia stata
compiuta nei paesi anglosassoni dove la professione infermieristica svolge funzioni diverse rispetto alla
nostra organizzazione sanitaria, non vi è dubbio che la strada del futuro sia quella di un sempre maggior
ruolo delle professioni sanitarie non mediche nell’assistenza continuativa agli ammalati cronici (sperando di
riuscire a superare in breve tempo l’attuale grave crisi provocata dalla scarsa disponibilità di professionisti in
questo campo).
E’ significativo anche rilevare come, in generale, i risultati sulla qualità della vita accompagnino quelli più
strettamente clinici, a conferma di come nelle malattie croniche il supporto psicologico sia una componente
strutturale di qualsiasi intervento e non un aggiunta di “lusso”, affidata a scelte individuali (31). La
percezione soggettiva di un supporto psicologico è una delle determinanti principali della qualità della vita
(32); il distress psicologico che si accompagna alla sensazione di perdita di supporto (o anche ad un supporto
non esistente) è –assieme alla classe NYHA- uno dei fattori maggiormente incisivi sulla qualità della vita
stessa (33).
Un altro aspetto significativo è rappresentato dagli studi sull’esercizio fisico e i suoi effetti sulla qualità della
vita, nonché sull’oggettivo miglioramento della tolleranza all’esercizio stesso (34). Questa azione riflette
componenti di tipo psicologico e la sensazione di benessere derivante da una migliore capacità di sostenere
lo sforzo. Sullo stesso piano si collocano i risultati ottenuti sulla qualità del sonno; infatti un sonno
soggettivamente riposante è strettamente correlato con una migliore funzionalità del paziente (35).
Infine, di particolare importanza è l’insieme degli studi che correlano la qualità della vita con la
somministrazione di farmaci per la cura dello scompenso cardiaco. In questo ambito le ricerche hanno
definito diversi outcome, utili per valutare il significato clinico dei nuovi trattamenti; tra questi la qualità
della vita –rilevata in modi diversi- è stata al centro di molte ricerche di farmacologia clinica, alcune delle
quali riguardanti il valsartan (36), carvedilolo e metoprololo (37), eplerenone (38). Anche indagini sulla
supplementazione di micronutrienti hanno dato risultati significativi (39). Nell’ambito degli studi di
interevento rispetto all’effetto sulla qualità della vita devono anche essere ricordati quelli riguardanti la
chirurgia. Ad esempio, Goyal et al. (40) hanno dimostrato in pazienti ottuagenari che la chirurgia cardiaca
ottiene risultati positivi sia sul piano oggettivo (riduzione dell’angina e miglioramento di almeno una classe
NYHA) sia su quello soggettivo (minore sensazione di dipendenza e disponibilità ad una eventuale
ripetizione dell’intervento chirurgico). Al contrario, un'altra procedura chirurgica, mirante a ridurre il livello
di rigurgito mitralico, non ha portato a risultati significativi sul piano della qualità della vita (41).
Nel loro insieme gli studi suggeriscono che i diversi interventi portano mediamente a risultati significativi;
come sempre, resta l’interrogativo rispetto ai dati negativi che non sono stati pubblicati e che invece
potrebbero dare indicazioni sul rapporto tra specifici eventi clinico-biologici (indotti dai diversi interventi) e
modificazioni della qualità della vita. Il campo è ancora molto aperto e l’esigenza di studi è sempre più
sentita per l’aumentare del numero degli anziani colpiti da scompenso ed anche perché l’incremento della
spettanza di vita delle persone ammalate impone di dedicare attenzione alla qualità degli anni conquistati
grazie alle nuove cure. Gli studi più recenti hanno peraltro confermato come la qualità della vita rappresenti
un fattore importante anche rispetto a eventi solo apparentemente hard, ma che invece sono strettamente
dipendenti dalla soggettività del paziente e dal suo livello di sofferenza.
I dati soprariportati si collocano in un tempo di grandi ripensamenti della medicina, imposti soprattutto dalla
crescita delle malattie croniche. E’ quindi doveroso approfondire le ricerche in modo da offrire ai medici un
modello formativo che prepari a dare risposta a nuovi bisogni. La sfida –che non possiamo perdere- prevede
come riferimento un sistema di conoscenze in grado di dare il massimo in termini di tecnologie, evitando
però che queste assorbano ogni spazio dell’impegno professionale, e di superare qualsiasi dualismo rispetto
all’attenzione per i bisogni primari dell’ammalato cronico.
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