IL VESCOVO ANGLICANO CHE CREDE NELLA POESIA

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IL VESCOVO ANGLICANO CHE CREDE NELLA POESIA
ELZEVIRO «LA DODICESIMA NOTTE» DI ROWAN WILLIAMS
IL VESCOVO ANGLICANO CHE
CREDE NELLA POESIA
Per una paradossale metamorfosi del senso la parola «tradizione» nel comune linguaggio
dell' esperienza cristiana viene abusata per indicare patrimoni statici, musealità
rattrappite, autoevidenze arroganti: dimenticando che nell' atto di fede la comunicazione
non è orpello, ma sostanza. Se un tu-parola è «in principio», allora tutte le altre parole tutti i loro registri, le loro sfumature - sono cariche d' un mistero profondo. Non è
dunque per vezzo che nell' ultimo secolo si sia sviluppata una «teologia» dell' esperienza
letteraria che, come ha insegnato Jean-Pierre Jossua, si concentra su una parola
deliberatamente estranea all' universo religioso, ma capace di scolpire nella pietra dell'
esistenza quell' incavo in cui la fede legge il mistero di Dio non come spacciatore del
senso, ma come accoglienza d' ogni distanza. E non è un caso che, anche in questo
tempo, quasi volesse sfuggire alla volgarità opportunista del discorso «religioso», la
parola della fede fugga, cercando di attingere a quel registro poetico che nei secoli ha
travestito le carnalità prepotenti come quelle di san Giovanni della Croce o ricamato la
perfezione musicale di Efemo il Siro. Su queste vie non si sono avventurate solo anime
nude, ma anche uomini investiti di autorità nelle chiese. Si pensi al Trittico romano di
Wojtyla, la cui lettura nel 2003 era segnata dalla commozione con cui la chiesa e il
mondo ascoltavano questi versi come un commiato. Sono quasi coeve le poesie dell'
arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, primate della chiesa anglicana, che in queste
settimane l' editrice Ancora manda in libreria col titolo La dodicesima notte. Le ha
tradotte e curate da par suo padre Antonio Spadaro, firma di spicco della Civiltà Cattolica
e fine lettore (se ne stupirà chi non conosce la Compagnia di Gesù) di un maudit come
Pier Vittorio Tondelli. Sono versi, quelli di Sua Grazia, sorvegliati, disintimisti: rifugio
per necrologi impossibili come quelli per Simone Weil o Thomas Merton, i versi servono
all' arcivescovo anche quando si rilegge il tormento di Agostino («potrò allora catturare /
il visitatore alato e pungente, / guastatore del sonno d' ogni notte?») o la luminescenza
delle icone di Rublëv. Ma ciò che inquieta, più che le descrizioni di una Gerusalemme in
bilico fra la Bibbia e la storia o di una Bosnia incisa nella pagina perché non sfugga (come
in realtà è sfuggita nel bailamme della cronaca), è la poesia di un cristiano feriale che fa e
sa sentire la ustionante dolcezza del Vangelo nella vita. Perché Williams poeta è uomo di
fede che per questo non indulge a zuccherosità stucchevoli; è uomo di cultura e per
questo non cade in civetterie e didascalismi. Proprio il suo spessore spirituale e
intellettuale gli fa contemplare quel che c' è di disadorno nell' umano e di umano nel
disadorno, con la lucidità di chi sa che l' umano e il disadorno intrigano Dio per questo, e
che, proprio per questo, non c' è bisogno di esibirlo. Merita seguire l' arcivescovo che
attraversa da uomo normale (quel che Fogazzaro sognava per il papa di Roma) i paesaggi
urbani e legge il degrado senza paraocchi socioideologici. Così nel quartiere popolare di
Penrhys un cristiano sensibile alla realtà scopre il bagliore concreto delle visioni di
Walter Benjamin: «Il consunto bambino subgotico, ciondolando maldestramente /
intorno, sta incollato a una madre scarna. / Angelus novus: / Indietreggiando nel futuro
granitico, ali spiegate, / scuotendo la testa al giorno considerato, / no, dice lui, rifiuta».
Senza diventare ecclesiastico, senza inaridirsi in sillogismi dottrinali il suo rimane puro
sguardo: «Scarne madri adolescenti alla fermata dell' autobus / scuotono i capelli
bagnati, / accendono sigarette. Un giorno o l' altro il mio treno arriverà, dice una; /
ridono. Più utile di un maledetto principe, / dice un' altra». Come suggerisce padre
Spadaro chiudendo la preziosa introduzione, una poesia di «pietra», da soppesare e
levigare a mano, come faceva il giovane Williams con Dylan Thomas: sembra un
consiglio, invece è un elogio.
Melloni Alberto
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(17 marzo 2008) - Corriere della Sera
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