Libertà di matita per Forattini Le nostre missioni

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Libertà di matita per Forattini Le nostre missioni
Anno IV - Numero 2
Settimanale della Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss Guido Carli
Reporter
15 Ottobre 2010
nuovo
La polemica
Libertà di matita
per Forattini
Afghanistan
Le nostre missioni
(quasi) compiute
Gamberale
L’uomo che fa
lievitare le aziende
Supermamme
«Felici di vivere
con 12 figli»
L’UE: FERMIAMO
QUESTE STRAGI
OGNI ANNO IN EUROPA 35 MILA VITTIME. LʼOBIETTIVO: DIMEZZARLE ENTRO IL 2020
Politica
Il 14 dicembre la Consulta deciderà sul legittimo impedimento. Il ministro al Colle con la proposta di riforma
Tra Fini e il Cav è pace armata
Bongiorno e Ghedini trattano sul lodo Alfano, ma Fini avverte: «Niente sconti»
Jacopo Matano
Che abbia o non abbia detto
«niente colpi di spugna sui processi»,
la sostanza non cambia. Le frasi attribuite mercoledì scorso a Gianfranco Fini durante un incontro con
i quatto eurodeputati neo-iscritti a Fli,
poi smentite dal portavoce del presidente della Camera, sono il termometro dell’attuale situazione politica.
Perché il vero ago della bilancia, nelle prossime settimane, sarà proprio la
Giustizia: un salvifico nodo politico
su cui ricucire la convivenza à deux
con Silvio Berlusconi, o un tragico
nodo scorsoio per archiviare l’esistenza
della maggioranza di governo.
La settimana di fuoco sulla giustizia
è iniziata martedì, con l’intervento del
presidente della Repubblica Napolitano sulla durata dei processi. Il capo
dello Stato, in un messaggio invato all’Associazione Interbancaria Italiana
in occasione di un incontro sulla “giustizia elettronica”, ha invitato il mondo politico a compiere «scelte coraggiose» per dare «piena attuazione»
ai principi costituzionali del giusto
processo. «Serve uno scatto di efficienza che il paese attende da tempo»,
ha detto Napolitano, non risparmiando parole incisive sull’eccessiva
durata dei giudizi, che «mina la fi-
DIALOGO
Prove tecniche
di intesa tra il capo
del Governo
e il presidente
della Camera
sulla giustizia
ducia dei cittadini nella giustizia e
compromette anche la capacità competitiva del nostro Paese sul piano economico». Uno “stop ai duri e puri di
Fli”, come hanno azzardato alcuni
quotidiani vicini al Pdl? Un fatto c’è:
sotto gli auspici del Quirinale, le
due componenti del centrodestra
hanno raggiunto mercoledì un importante accordo sulla questione delicata delle nomine delle commissioni di Camera e Senato. Consentendo
la riconferma agli Affari Costituzionali di Palazzo Madama del berlusconiano Carlo Vizzini (alle prese fin
da subito con un parziale stop al-
l’esame sul lodo Alfano costituzionale,
rinviato a martedì prossimo dopo che
solo 4 dei 130 emendamenti erano
stati votati), e della finiana Giulia Bongiorno in commissione Giustizia alla
Camera, riaffermata con plauso bipartisan.
Sarà proprio l’avvocato Bongiorno
- accreditato emissario di Fini sulla
giustizia - a esaminare il dossier sulle proposte in tema di giustizia assieme al collega Nicolò Ghedini, legale del presidente del Consiglio.
Un dialogo che esclude la componente dei colonnelli ex-An e che
scatena più di un mal di pancia, tan-
to da far pensare (i più fantasiosi) al
timore per che Berlusconi abbia in
mente di far cadere qualche testa sgradita alla terza carica dello Stato come
trofeo di pace, oppure (i più realistici) che voglia riconfigurare i rapporti interni alla maggioranza in vista di
una modifica alla legge elettorale. Ipotesi a parte, i malumori hanno spinto Ignazio La Russa a non escludere
la possibilità che gli ex colonnelli (il
ministro stesso, Maurizio Gasparri e
Gianni Alemanno in testa) costituiscano gruppi esterni al Pdl, mentre il
capogruppo al Senato ha colto l’occasione per ironizzare sulle molte pre-
senze di Ghedini alla trasmissione
Anno Zero condotta da Michele Santoro («Ha la sindrome di Stoccolma,
simpatizza per colui che lo imprigiona»).
Blindati dai rumors e dalle polemiche, gli ambasciatori Ghedini e
Bongiorno starebbero studiando le
carte per ripartire dal lodo Alfano. Ma
stavolta lo scudo per le più alte cariche dello Stato, già bocciato un anno
fa dalla Corte Costituzionale, potrebbe avere una marcia in più. All’interno della bozza della riforma della giustizia presentata dal ministro della Giustizia Angelino Alfano al Quirinale giovedì scorso, infatti, oltre alla
separazione delle carriere tra giudici
e pubblici ministeri e la creazione di
due distinti Csm, ci sarebbe anche
l’ipotesi di un provvedimento per alzare a due terzi il quorum richiesto
nelle votazioni della Consulta: un
espediente per tutelare i provvedimenti del Governo dal giudizio dei
giudici costituzionali, di cui Berlusconi non si fida.
Ma il tempo, per il Cavaliere,
stringe. I togati di palazzo Marescialli, infatti, si dovranno pronunciare
sul legittimo impedimento, lo scudo
provvisorio che lo tiene lontano dai
processi. Almeno fino al 14 dicembre,
giorno del “giudizio”.
Colloquio con Franco Bevilacqua sulle diverse incarnazioni del vignettista
Libertà di matita per Forattini
Marco Maimeri
Quattro esponenti della
Banda Bassotti con casacche rosse e i nomi di testate
come Repubblica, Espresso,
Unità e Fatto Quotidiano.
Questa la vignetta in prima
pagina sul Giornale per commentare l’uscita del dossier
Marcegaglia. Autore, Giorgio
Forattini. Non è la prima volta che il vignettista se la
prende con i suoi ex compagni di Repubblica e
L’Espresso. Ne abbiamo parlato con Franco Bevilacqua,
suo amico e collega in queste testate. «Non condivido
le sue scelte politiche attuali ma c’è una giustificazione
nel suo furore contro la sinistra, in particolare contro
il Pd, ex Pci», spiega l’art director che ancora si dedica a
grafica e pittura, dopo aver
contribuito alla creazione di
Repubblica e alla ristrutturazione dei principali quotidiani italiani. «La satira in
Italia funziona solo se politicamente corretta, ovvero
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se è di sinistra. Questa egemonia culturale ha creato un
limite lesivo alla libertà di
critica. Le vignette che fa ora
non mi piacciono più ma le
metto nel solco di una satira libera: in un paese democratico si deve poter far satira
sia come Vauro o Altan sia
come Forattini».
D’Alema lo querelò personalmente per 3 miliardi di
lire, se ne lavò le mani dimenticandosi di essere responsabile di ogni cosa pubblicata. Infuriato, Forattini si
licenziò e D’Alema ritirò la
querela. Da allora Forattini è
diventato un feroce anticomunista e ha abbracciato la
Ha il coraggio di esporsi e rischiare in proprio
dopo aver lasciato Repubblica
che aveva contribuito a far nascere
Cosa porta oggi Forattini ad attaccare la sinistra?
«Il problema nacque
quando realizzò vignette feroci contro il pensiero di sinistra. Non si poteva ipotizzare che il Pci prendesse soldi dall’Urss, lui lo fece e fu
querelato. Panorama e Mondadori pagarono mentre Repubblica, o meglio il direttore
Ezio Mauro, quando Forattini realizzò la famosa vignetta sulla lista Mitrokhin e
tesi secondo cui Berlusconi
sarebbe oggetto di una campagna giudiziaria con la complicità di Repubblica, per lui
un giornale di partito».
Le sue vignette sono figlie di un mutamento politico?
«E’ sempre stato un innovatore e un liberale. Il boom
l’ha avuto a Paese Sera quando ci fu la battaglia per il divorzio. All’epoca, anche per
una particolare situazione fa-
miliare, realizzò vignette incisive e fu cooptato dai radicali, passando per radicale, e,
dato che collaborava con Paese Sera, per comunista. Spostatosi alla Repubblica, grazie
alla lungimiranza di Scalfari,
fece vignette come Spadolini
nudo, La Malfa tartaruga,
Berlinguer in vestaglia, e visse un periodo di rara creatività. All’epoca la satira era libera ed equidistante: si poteva prendere in giro il Papa,
Berlinguer, Rumor, Andreotti. E Scalfari lasciava fare.
Dopo l’affaire D’Alema, si è incarognito, è diventato più
becero e meno raffinato, ma
non è una cosa scandalosa: lo
scandalo è dire che siccome
ora è di destra, non può più
fare vignette. Certo, le sue vignette infastidiscono, però
ci vuole anche un controcanto: il pensiero unico mi
spaventa».
Lo ritiene un vignettista
ancora in grado di castigare i costumi?
«Continua a fare il suo lavoro, porta avanti una batta-
SATIRA Ecco la vignetta del Giornale che ha fatto discutere
glia personale, con un’accentazione a volte esagerata
ma almeno ha il coraggio di
esporsi e rischiare in proprio. Paradossalmente, dopo
la vicenda D’Alema, gli è stata preclusa la possibilità di lavorare con Repubblica e
Stampa e non ha trovato più
posto neanche in giornali di
destra. Le onerose cause civili
che si intentano ora contro i
vignettisti “scomodi” lo hanno reso ancora più sgradito.
Molti direttori hanno paura di
lui: le sue vignette sono for-
ti e pericolose, a rischio querela, e i costi, in caso di sconfitta, andrebbero pagati o dal
giornale o scaricati su lui,
come fece Ezio Mauro. Perciò
ora Forattini è senza giornale: le vignette sul Giornale,
che io sappia, sono gratuite,
lui le manda, loro le pubblicano ma senza un contratto
fisso. L’Italia è un paese in cui
la stampa, non navigando in
acque tranquille, ha troppa
paura di querele e richieste
danni per consentire una satira libera».
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Primo Piano
L’Afghanistan costa 675 milioni solo quest’anno. Diminuiscono i fondi per le altre attività
Le nostre missioni (quasi) compiute
Crosetto: «A Kabul si chiude il cerchio, ma per il ritiro serve stabilità»
Stavolta “San Lince”, come lo chiamano affettuosamente i militari, non è riuscito a proteggere i soldati italiani in Afghanistan. A dilaniare il blindato, lasciando sul campo i quattro alpini della brigata Julia, un ordigno improvvisato appostato dai talebani sul ciglio di
una strada sterrata nella zona est della provincia di Farah. Ma se in Afghanistan gli italiani af“Una vis”, recita il motto
delle forze armate. Una sola,
grande, forza per le 33 missioni
che impegnano l’Italia e i suoi
9.300 militari dislocati in ventuno paesi del mondo, da Cipro ai balcani, dall’Albania all’India. Più di un terzo delle risorse richiede soltanto l’Afghanistan: 3.950 uomini, un
numero destinato ad aumentare ancora su richiesta della
Nato. «La domanda è collegata
alla exit strategy, che prevede
un passaggio graduale di consegne alla polizia e all’esercito
afgano delle zone che le forze
della coalizione stanno aiutando a controllare», spiega il
sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto a Reporter Nuovo.
E il passaggio di consegne, soggetto alla stabilità del governo
di Karzai e alle sue forze sul
campo, rende il ritiro di tutte
le truppe straniere entro un
anno una missione impossibile. «La strategia della Nato
che prevedeva il ritiro entro il
2011 verrà rivista a novembre», ammette il sottosegretario, ottimista sulla soluzione
del conflitto: «L’esercito regolare afgano è in formazione, le
forze di polizia locali sono
rafforzate, le scuole sono riaperte e la partecipazione alle
elezioni è sempre più alta, si sta
chiudendo il cerchio aperto
nove anni fa, si sta ricostruendo un paese che non è
quello che i talebani volevano». Che i talebani non lo volessero, è apparso evidente
negli ultimi mesi. Dall’inizio
dell’anno il conto delle vittime
della coalizione ha già superato
le cinquecento: una scia di attentati - l’ultimo sempre ai
danni degli italiani a soli quattro giorni dalla tragica morte
degli alpini - compiuti per la
maggior parte con ordigni
piazzati ai lati della strada, attentati che Crosetto spiega
così: «Le forze della coalizione si avvicinano sempre più ai
posti che sono rimasti nelle
mani dei talebani e dove sono
concentrati, specialmente nel
sud. Questo provoca un loro
spostamento nell’area e rende
il nostro comando occidentale un’area di cerniera».
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nuovo
frontano le insidie dell’insorgenza, in Italia la
politica è alle prese con un impiego di uomini
sempre maggiore, e con le polemiche legate alla
proposta del ministro della Difesa Ignazio La
Russa di armare i caccia italiani con delle
bombe. Con un occhio alle tante altre missioni di peacekeeping, peace-enforcing, addestramento e attività umanitarie, dove i nostri soldati
esportano il modello della “mano tesa” (copiato, giurano alla Difesa, anche dagli Stati Uniti),
e alle risorse destinate al finanziamento di questo impegno, eroso sempre più dall’ “avventura” di Kabul. A parlare con Reporter Nuovo di
exit strategy dall’Afghanistan e delle altre attività delle forze armate nel mondo è il sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto.
NEL MONDO La mappa delle missioni italiane all’estero e
il sottosegretario alla Difesa
Guido Crosetto
Nell’impegno italiano all’estero non ci sono solo Kabul,
Farah e Herat. Pattugliamento dei confini, assistenza umanitaria, addestramento delle
polizie locali: nella lista delle
attività internazionali rese ufficiali dalla Difesa c’è spazio per
molti tipi di attività. Ma a farla da padrone, nel conto economico, è sempre e solo l’Afghanistan. Dei quasi sei miliardi di euro che l’Italia ha speso per le missioni all’estero dal
2005 ad oggi, poco meno della metà li ha richiesti l’impegno
di “Isaf”. Una bolletta in crescita: per il 2010 Camera e Senato hanno dato un via libera
quasi bipartisan a una spesa
complessiva di 675 milioni
di euro, 75 in più rispetto al
2009. E hanno frenato le altre
spese, complice anche il fatto
che in alcuni dei teatri in cui
gli italiani svolgono peacekeeping, supporto umanitario
o legale la situazione è in via
di stabilizzazione.
In Kosovo, ad esempio, il
nostro paese schiera 1.400
unità tra soldati e personale per
le missioni Kfor (su mandato
Onu-Nato) e Eulex (su mandato europeo). Ma la presenza si dimezzerà, e i fondi diminuiranno drasticamente:
“solo” 59 milioni di euro per
il secondo semestre di quest’anno, contro i 71 milioni del
primo semestre . «Il Kosovo
non è più la regione che abbiamo trovato quando ce ne
siamo andati», afferma Crosetto, che mette comunque in
guardia sulla necessità di continuare a vigilare sui conflitti etnici. Spese in calo anche in
Iraq, dove le risorse per le attività di addestramento delle
forze armate irachene da parte dei nostri ottanta militari
scendono dai 5,4 milioni del
primo semestre ai 3,9 del secondo semestre. E in Libano,
dove sotto i vessilli dell’Onu
l’Italia funge da forza di interposizione tra hezbollah e Israele, con un disimpegno di almeno 41 milioni di euro. Ma
nel paese dei cedri il rischio rimane alto: «La situazione è di
relativa tranquillità fin quando regge la non belligeranza tra
Hezbollah e Israele. Il giorno
in cui degenerasse, per i nostri
militari non ci sarebbe posto
peggiore in cui stare». Tra le
missioni ancora “calde”, spicca quella di pattugliamento
anti-pirateria nelle acque della Somalia, dove l’Italia opera
nel quadro delle due missioni
Ocean Shield (Nato) e Atalanta
(Ue) e dove passano il 70 per
cento dei traffici commerciali
diretti a occidente. «La Somalia sarà uno dei teatri importanti per l’impegno italiano
dei prossimi anni», promette
Crosetto. Con un monito. «Le
nazioni unite decisero di andarsene da questo paese troppo presto, quando si pensa di
poter abbandonare un conflitto
occorre pensare alle conseguenze».
Nel dibattito sugli armamenti dell’aeronautica c’è un’altra idea
Quando la guerra bussa
alle porte, la politica deve rispondere. Nei palazzi di Roma
l’idea del ministro della Difesa La Russa di armare i Tornado italiani con le “bombe intelligenti” ha già scatenato un
ampia polemica. Questa settimana il ministro, riferendo
alle Camere sull’attentato contro gli alpini, ha annunciato di
voler rimettere la decisione al
Parlamento dopo il vertice
Nato. Ma la battaglia si preannuncia dura. Sulle barricate è il Partito Democratico, che
ritiene «non opportuno» l’impiego delle bombe sui velivoli tricolori, mentre Nichi Vendola e Antonio Di Pietro tornano a chiedere il ritiro dall’Afghanistan (l’Idv è la sola for-
Minniti: «Aerei teleguidati
anziché bombe sui caccia»
za politica a non aver votato il
rifinanziamento della missione), e l’Udc chiede un’«assunzione di responsabilità»
sulla missione da parte del governo. Ma a una settimana di
distanza dal tragico attentato
di Farah, c’è chi mette in
guardia contro la possibilità
che il dibattito sulle bombe sia
un fuoco di paglia.
E’ Marco Minniti, ex sottosegretario alla difesa del governo Prodi e oggi presidente
della fondazione Icsa, che a Reporter Nuovo spiega la sua visione. «Il problema vero non
riguarda gli aerei di cui parlano in Parlamento» spiega il
parlamentare, rimandando a
un dossier sugli armamenti
pubblicato dalla sua fondazione qualche mese fa. «I caccia Amx non vengono impegnati a fondo nel teatro afgano, visto che sarebbero costretti
a volare a quote troppo basse
e ad esporsi al fuoco nemico».
Pagina a cura di Jacopo Matano
Inoltre, «non sono stati progettati per avere un puntamento per le proprie bombe»,
e pur aggiungendo gli strumenti necessari «c’è il rischio
di un range di errore di 2-3
km». «Bisognerebbe armare,
piuttosto, gli aerei a controllo
remoto, che sono più efficaci,
economici e sicuri», propone
il deputato, spiegando come
l’Italia sia l’unico paese della
coalizione a utilizzare dei “Predator” privi di armi. Per Minniti, l’armamento degli aerei radioguidati rappresenterebbe
una «postazione avanzata di
difesa», senza rischi per il dettato costituzionale, che invece sarebbero rappresentati dalle bombe sganciate dall’alto.
Era stato, d’altronde, lo
stesso La Russa ad escludere
l’utilizzo delle bombe. In un
dibattito alla Camera, il 28 luglio 2009, il ministro aveva
detto: «Con le bombe vi è un
rischio, minimo mi dicono,
ma vi è un rischio di colpire
soggetti estranei all’attacco.
Un rischio che non vogliamo
correre». Il rischio, probabilmente, non si correrà. Anche
perché sulla questione è piombato mercoledì scorso il niet di
Bossi: «Meglio i soldi alla ricerca che per alle bombe sugli
aerei».
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Mondo
La proposta della destra di Lieberman divide la stampa e il governo. Critiche Ue e Chiesa
Israele, Stato ebraico? È polemica
Anche i neo-cittadini arabi dovrebbero riconoscerlo giurando fedeltà
Davide Maggiore
Il suo partito si chiama
Israel Beitenu, Israele casa nostra. E Avigdor Lieberman,
ministro degli Esteri di Tel
Aviv, evidentemente, crede
molto a questo slogan. Tanto
da essere il grande sponsor dell’ultima controversa iniziativa
sulla cittadinanza licenziata
dal governo israeliano con la
firma del primo ministro Netanyahu in persona, ma non
ancora approvata in Parlamento. Secondo la proposta di
legge chiunque richiederà
d’ora in poi la nazionalità locale dovrà giurare fedeltà allo
Stato “democratico ed ebraico”, e non solo allo “Stato”
come in precedenza. La proposta dell’incendiario ministro di estrema destra sembra
a prima vista l’idea di un Bossi mediorientale. Ma gli stranieri non ebrei che chiedono
la nazionalità israeliana sono
molto pochi. Con un’eccezione: gli arabi, soprattutto palestinesi, che la acquisiscono
ad esempio per matrimonio
con un cittadino. Per Lieberman è questa la posta in gioco: lui la definisce «lealtà allo
Stato». Alludendo in modo trasparente al milione e mezzo
circa di arabi di nazionalità
israeliana (un quinto della
popolazione del Paese) che
Israel Beitenu aveva duramente attaccato in campagna
elettorale mettendo in dubbio
la loro fedeltà. Una linea che
aveva fatto dell’ultradestra il
terzo partito in Parlamento, decisivo per la formazione del governo Netanyahu. E pronto a
MINISTRO
Avigdor
Lieberman
(a lato), titolare
degli Esteri.
A sinistra
coloni di un
insediamento
israeliano
in Cisgiordania
passare all’incasso.
Quando il momento è arrivato, il premier ha infatti
appoggiato Lieberman, definendo Israele uno Stato «in cui
tutti i cittadini hanno uguali diritti», ma anche la patria «del
popolo ebraico». Chi vi si
unisce, ha concluso, dovrà riconoscerlo. Non sarà il caso,
per il momento, degli immigrati di religione ebraica, che
per la cosiddetta “legge del ritorno” ottengono quasi auto-
GLI ALTRI OSTACOLI ALLA PACE
Non solo gli aspiranti cittadini, secondo Benjamin Netanyahu, dovranno
riconoscere Israele come Stato ebraico.
Un’analoga richiesta è stata fatta dal premier all’Autorità nazionale palestinese,
offrendo in cambio il blocco (per due o
tre mesi) delle nuove costruzioni in Cisgordania. Proposta rifiutata dalla leadership di Ramallah, secondo cui le due
questioni vanno tenute separate. Ma anche in caso di un improbabile accordo,
a creare difficoltà a Netanyahu sarebbero
i circa 280 mila coloni, attestati su posizioni fortemente nazionalistiche e già
critici della precedente moratoria di dieci mesi scaduta a fine settembre.
Gli insediamenti, la cui legalità è sostenuta da Israele ma contestata al-
maticamente la cittadinanza o
degli arabo-israeliani dallo status ormai acquisito. Ma tutti gli
altri dovranno pronunciare
quelle parole, stato ebraico,
tabù anche per i governi della regione. Come quello del
I nodi: colonie
Gerusalemme
Muro e rifugiati
l’estero, sono però solo uno degli ostacoli all’infinito processo di pace. Gerusalemme (Al-Quds in arabo), è contesa per ragioni religiose e politiche:
Israele la considera (contro la comunità internazionale) sua capitale «storica
e indivisibile», i palestinesi ne rivendicano allo stesso scopo la parte orientale a maggioranza araba, definita «territorio occupato», e controllata dalla
Giordania fino al 1967.
presidente siriano Bashar el-Assad, che ha parlato addirittura di «fascismo», mentre la
Lega araba ha denunciato
l’«integrazione forzata» dei
palestinesi in Israele. E anche
l’Unione Europea ha invitato
Dividono anche i 790 chilometri
(406 già costruiti) del Muro, la barriera
di confine costruita da Israele. Che ingloba però, oltre a Gerusalemme, anche alcune colonie e l’otto per cento circa della Cisgiordania, isolando completamente alcuni villaggi palestinesi.
Ultimo e intricato nodo, quello dei
rifugiati palestinesi. Dal 1948 sono aumentati di numero, fino a raggiungere
(secondo l’Onu) circa 4 milioni 800
mila, sparsi tra Libano, Giordania, Siria e i territori del futuro Stato palestinese. Un loro rientro in massa modificherebbe i rapporti di forza della
regione, motivo per cui Israele nega
il “diritto al ritorno” rivendicato dagli arabi.
Israele a garantire i pari diritti di tutti i suoi cittadini, ebrei
e musulmani. Ancor più netta la Chiesa: il patriarca copto
cattolico di Alessandria, Antonios Naguib, dal sinodo sul
Medio Oriente ha ripreso le parole di papa Benedetto XVI sulla necessità di «pace e giustizia» per la regione. Definendo
la proposta israeliana «una
contraddizione» rispetto ai
principi democratici enunciati dallo Stato.
Lo stesso governo israeliano è stato tutt’altro che compatto: 22 i ministri favorevoli
alla bozza, otto i contrari, cinque del partito laburista e tre
del Likud di Netanyahu. Altrettanto divisa la stampa: linea
dura per il conservatore Jerusalem Post, per cui la legge è
addirittura «un passo modesto» per affermare l’ebraicità di
Israele. Diversa è la posizione
dei liberal di Haaretz: il provvedimento evidenzia «un odio
dei valori liberali», e Lieberman vuole «umiliare» gli arabi. E anche il diffusissimo Yedioth Ahronoth, di destra, dà
spazio a voci critiche. Come
quella di Ahmad Tibi, parlamentare arabo-israeliano che
denuncia un «progetto graduale di pulizia etnica per
cacciare più arabi possibile da
Israele». Anche l’editorialista
Dov Weissglass parla di decisione «impropria» e «ridicola».
È incerto se le polemiche basteranno a fermare la determinazione di Netanyahu e
Lieberman, ma, se giuramento ci sarà, la convivenza in
Israele rischia di farsi sempre
più difficile.
I mille anni di Hanoi. Con Pietro Masina, il punto sulla realtà del paese
Luci e ombre del Vietnam in festa
Andrea Pala
LA FESTA Fuochi d’artificio e
spettacoli ad Hanoi
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Il Vietnam festeggia il primo millennio di Hanoi, la capitale del paese. Tante le iniziative organizzate dal governo per celebrare l’evento. Il
momento più importante dei
festeggiamenti è stato il festival “Hanoi, un cielo di pace”,
con centinaia di aquiloni che
hanno invaso le strade della
capitale, riempiendo di luci e
colori la città.
La festa è però l’occasione
per riflettere su se e come il
paese si è trasformato in questi ultimi 35 anni. «Il Vietnam
– spiega Pietro Masina, docente di economia e politiche
dello sviluppo dell’Università
degli studi di Napoli L’Orientale - è uno dei paesi che, in
questi anni, ha ridotto di più
la povertà e sta vivendo un periodo di forte crescita e stabilità economica».
Il Vietnam resta un paese
povero, ma si sta integrando
pienamente nell’economia internazionale. «Dal 2006 –
dice il professore – la nazione è entrata a far parte della
WTO e si stanno compiendo
importanti passi avanti nella
riduzione della povertà. È in
atto uno spostamento di produzione dalla Cina verso il
Vietnam, perché qui il costo
del lavoro è più basso, ma
sono in aumento le disuguaglianze fra le diverse fasce della popolazione». Dall’unificazione a oggi molte cose
sono cambiate nel rapporto
fra il nord e il sud del paese,
un tempo divisi. «Oggi – analizza Masina - stanno lentamente scomparendo le differenze tra sud più economicamente vivace e nord centro
amministrativo. Anche la
zona di Hanoi, infatti, sta vivendo un periodo di forte
crescita economica».
I paesi occidentali, Stati
Uniti in testa, hanno compreso l’importanza del Vietnam nell’area. Per questo motivo hanno riallacciato negli
ultimi quindici anni i rapporti
diplomatici con il Vietnam. Il
paese, infatti, è fondamentale per arginare la Cina, che detiene il dominio politico ed
economico su tutta l’area.
Nell’immediato futuro, secondo il professor Masina, la
leadership politica vietnamita dovrà affrontare tre questioni importanti: due economiche e una politica. «Oggi
il paese è nettamente in vantaggio nella produzione di
beni che necessitano di manodopera. Nei prossimi anni,
si vedrà se il Vietnam sarà in
grado di sviluppare una produzione di beni tecnologici a
più alto valore aggiunto e se
saranno colmate le profonde
differenze esistenti all’interno
del paese e fra i diversi ceti sociali. Il paese è politicamente
molto solido, forse quello
con il più elevato grado di stabilità nella regione. Sono presenti a livello sociale delle richieste per un maggiore pluralismo politico, ma sono
molto blande. Sono invece
presenti forti spinte popolari
verso una maggiore lotta alla
corruzione».
Reporter
nuovo
Economia
Convegno Aniem a Roma sulla piccola e media impresa: quali opportunità per tornare a crescere
Solo insieme le pmi si salveranno
Sempre meno bandi per appalti pubblici. L’esperto «Ora creare una lobby»
Federica Ionta
Cogliere il cambiamento nel
rapporto con la pubblica amministrazione ma allo stesso tempo ottenere migliori condizioni di accesso al credito e una revisione del
sistema di gare. Sono queste le sfide che la piccola e media impresa
italiana, oltre il 99 per cento del tessuto imprenditoriale, si troverà ad
affrontare nel prossimo futuro. «Il
ruolo delle pmi è cambiato», spiega il presidente dell’Associazione
nazionale delle imprese edili e manufatturiere Dino Piacentini, ospite a Roma del convegno “Ritornare a crescere: internazionalizzazione e reti d’impresa”. «Il settore
pubblico, che è e rimane il nostro
principale interlocutore, si è progressivamente disimpegnato nella
gestione delle opere pubbliche, lasciando spazio ai soggetti privati».
In questo senso, i numeri parlano chiaro: nei primi otto mesi del
2010 i bandi rivolti a partenariati
pubblico-privati sono cresciuti del
62 per cento. Ma per le piccole e
medie imprese non si tratta necessariamente di un dato positivo.
«La tendenza è quella della diminuzione massiccia dei lavori sotto
i 500 mila euro mentre cresce il nu-
MICRO
e piccole
imprese:
il 99,7
per cento delle
aziende
operanti nel
settore delle
costruzioni
ha meno di
50 addetti
(dati Istat
2008).
Nella quasi
totalità dei casi
si tratta
di attività
a gestione
familiare
mero di bandi che superano i 100
milioni e sono tecnologicamente
più complessi». Appalti, cioè, che
vedono le grandi imprese del settore edilizio meglio qualificate e
quindi avvantaggiate. Si pensi ai
progetti, in gran parte realizzati in
project financing, per l’ampliamento delle linee della metropoli-
tana di Roma su cui lavorano i
grandi dell’edilizia italiana, da
Astaldi a Vianini, da Lega Cooperative ad Ansaldo.
Come possono le piccole e micro imprese – il 99,7 per cento delle aziende italiane di costruzioni è
nella classe con meno di 50 addetti
(Istat 2008) – adattarsi a questo
scenario in evoluzione e ritagliarsi uno spazio rispetto allo strapotere delle grandi? «Investire in innovazione tecnologica è senz’altro
una priorità – prosegue Piacentini
– ma allo Stato chiediamo anche di
sostenere la competitività del sistema intervenendo sul costo del lavoro e consentendo alle pmi edili
di avvalersi dei contratti di rete: il
soggetto aggiudicatario di un appalto deve poter affidare i lavori ad
altre imprese, senza che ciò costituisca subappalto».
Sul fronte finanziario una grande problematica della piccola imprenditoria è costituita dalla scarsa patrimonializzazione delle imprese che chiedono finanziamenti,
che si traduce nell’assenza di credito da parte delle banche. Per Angelo Alessandri, presidente della
Commissione ambiente della Camera, «Serve un rapporto diverso
con le istituzioni finanziarie» che
devono aiutare le imprese, altrimenti si rischia di «trasformare
l’Italia da un Paese fondato sul lavoro a un Paese che vive di finanza». D’accordo anche il vice presidente della stessa commissione, Salvatore Margiotta, che spiega come
il Parlamento stia già lavorando su
«una legge per compensare debiti
e crediti con lo Stato».
Infine, in merito ai criteri di aggiudicazione delle gare d’appalto,
«Dobbiamo superare definitivamente la logica del massimo ribasso
come parametro selettivo», chiosa
Piacentini, secondo il quale bisogna
creare sistemi in cui il prezzo non
pesi più del 40 per cento e siano valutati altri elementi, come la capacità di innovazione o le attrezzature
specifiche. Anche la costituzione di
enti di controllo, che «vigilino
sulla reputazione delle imprese»,
potrebbe aiutare in tal senso.
L’obiettivo è quello di arrivare a
un “sistema-pmi” protagonista e
completamente rinnovato. Ma il superamento dei tradizionali vincoli burocratici che ostacolano il dinamismo dell’impresa, fa notare il
giornalista economico Oscar Giannino, «può avvenire solo costituendo una lobby rappresentativa,
che si ponga come interlocutore
unico di fronte al governo e al Parlamento».
Si tratta, quindi, di operare in
primo luogo un cambio di mentalità che porti le piccole imprese italiane a uscire dall’attuale condizione di nanismo e rivedere il
modo tradizionale di fare impresa:
“insieme, per crescere”.
Vita e miracoli di Vito Gamberale, dal pastificio abruzzese a manager d’oro
L’uomo che fa “lievitare” le aziende
Alessio Liverziani
Quand’era poco più di un
bambino, all’età di otto anni,
aiutava il padre nel pastificio di
famiglia ad Agnone, in provincia di Isernia. Vito Gamberale, classe 1944, oggi è l’amministratore delegato nonché
fondatore di F2i, il più grande
fondo italiano di investimento,
finalizzato al finanziamento
delle infrastrutture. Uno che “le
mani in pasta”, oggi, ce l’ha sul
serio. Nel suo “portafoglio”, che
vale circa un miliardo e 850 milioni di euro, annovera quote di
partecipazioni per oltre 800
milioni in società attive nei
settori dell’energia, tra cui Enel,
e nel comparto delle infrastrutture di trasporto, principalmente autostrade e aeroporti. Un vero e proprio tesoretto.
Vito Gamberale nasce a Castelguidone, un paese di 400
anime vicino Chieti. Qui trascorre la sua giovinezza tra
giornate passate a impastare
tagliatelle fresche con il padre e
partite a calcio con i compagni
Reporter
nuovo
delle superiori. Giocava da mediano, come il grande Eugenio
Fascetti della Juventus campione d’Italia del ‘60. Da qui la
passione per la “Vecchia Signora” e il carattere grintoso e
battagliero tipico del ruolo, che
si porterà dietro per tutta la vita.
Poi l’università a Roma, dove
consegue la laurea in Ingegne-
Furono gli anni della svolta per Gamberale. Anni segnati
dalle inchieste su Tangentopoli.
E lui, vicino agli ambienti socialisti, finì nel vortice del giustizialismo dei pm di Mani
pulite. Il 27 ottobre del 1994 fu
arrestato per “concorso in tentata concussione” e “abuso
d’ufficio”. Tutto era comincia-
Dopo banche e telefonia, è a capo di F2i,
il fondo italiano che finanzierà
la Salerno-Reggio Calabria e aeroporti
ria Meccanica all’età di 23 anni.
E i primi incarichi al Nord. Manager tutto d’un pezzo, ha fatto “lievitare” i bilanci delle società in cui ha lavorato. Prima
di approdare nella telefonia è
passato per le banche (Imi), lo
sviluppo industriale (Gepi) e
l’Eni. Poi il salto di qualità con
il Gruppo Stet, nel 1991, come
amministratore delegato della
società telefonica Sip e poi direttore generale di Telecom Italia (maggio 1994).
to da una frase, «li ho un po’
terrorizzati», che l’ex vice segretario del Psi, Giulio Di Donato, aveva detto al telefono
con Gamberale, al tempo amministratore delegato della Sip.
L’intimidazione, secondo i magistrati, sarebbe stata rivolta a
due dirigenti della Ipm, società fornitrice della Sip, che per
non aver assunto quattro diplomati raccomandati dal deputato sarebbero stati puniti da
Gamberale con un taglio del-
le commesse. Ma dal processo,
dopo sedici giorni trascorsi
nel carcere napoletano di Poggioreale e otto mesi agli arresti
domiciliari, uscì a testa alta. Assolto. Il ricordo di quei giorni
è affidato, oltre che alle cronache giudiziarie, anche al libro
della figlia di Gamberale, Chiara, “Una vita sottile”, divenuto anche fiction per la Rai.
Risarcito dallo Stato per
l’ingiusta detenzione, la rivincita più grande Gamberale la
ottiene quando riceve l’incarico di amministratore delegato
di Tim-Telecom Italia Mobile
(luglio 1995), il braccio operativo nel settore dei telefonini cellulari. Nel 1998 entra nel
gruppo Benetton con l’obiettivo di partecipare alla privatizzazione di Autostrade e diventa
vicepresidente di “21 Investimenti”, società di partecipazioni industriali. Dopo due
anni è già amministratore delegato di Autostrade, fino al
2006. Sotto la sua gestione,
l’utile del gruppo raddoppia da
1 a 2 miliardi di euro. Poi l’intuizione. Nel 2007 costituisce
BIGMANAGER Gamberale di Fondi italiani per le infrastrutture
F2i, il fondo di investimento
italiano per le infrastrutture. Tra
i suoi sponsor annovera istituti
del calibro di Unicredit e Merrill Lynch, del gruppo Bank of
America, sette fondazioni bancarie, tra cui Cariplo e Monte
dei Paschi di Siena, e due casse di previdenza (Inarcassa e
Cipag). Per Vito Gamberale le
sfide non finiscono mai. Dopo
la recente acquisizione del 65
per cento di Gesac, la società
che gestisce l’aeroporto di Napoli Capodichino, il patron di
F2i punta ad acquisire quote di
maggioranza anche di altri
scali strategici come Milano
Malpensa, Cagliari e Genova,
e a finanziare opere come la Salerno-Reggio Calabria, la
Roma-Latina e nuove arterie al
Nord in vista dell’Expo di Milano 2015. L’obiettivo è quello
di portare avanti una strategia
di settore che migliori i servizi infrastrutturali dell’intero
“Sistema Italia”. Non a caso,
nella mente del manager d’oro
frulla un’altra idea: realizzare
un fondo di investimento, stavolta dedicato alle nuove infrastrutture (greenfield) e non
a quelle già esistenti (brownfield), da tre miliardi di euro.
Lui sì che ha le mani in pasta.
15 Ottobre 2010
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Cronaca
Giornata della sicurezza: far scendere della metà il numero delle 35 mila vittime annuali
L’Europa vuole fermare la strage
In arrivo nuove norme per conducenti, mezzi e strade. Che fa l’Italia
Enrico Messina
Un milione 250 mila morti e 50
milioni di feriti in un anno a causa degli incidenti stradali nel mondo. 35 mila feriti e oltre un milione e mezzo di morti solo in Europa: una media di 100 vittime al giorno. 130 miliardi di euro all’anno
spesi per affrontare quella che è ormai un’emergenza continua. Numeri che hanno spinto la Commissione europea a intensificare gli
sforzi in materia di prevenzione
stradale. Per la terza giornata europea della sicurezza stradale (1314 ottobre) il motore politico del
vecchio continente ha previsto una
due giorni di incontri per presentare i nuovi orientamenti della di- li anche alle strade rurali. Particorezione generale trasporti della lare attenzione è dedicata alle caCommissione per la sicurezza sul- tegorie di conducenti più a rischio,
le strade. Tutto per rendere reale come i motociclisti: l’intento è mil’ambizioso obiettivo che l’Europa gliorare la comunicazione fra le ausi è posta: dimezzare le vittime de- torità e gli appassionati delle due
gli incidenti nei prossimi 10 anni. ruote e introdurre revisioni perioIL PIANO. Il programma sulla si- diche obbligatorie per le moto. Dicurezza stradale (2011-2020), adot- versi, dunque, gli strumenti che la
tato in estate, è orientato a rag- Commissione userà: campagne di
giungere il risultato che il piano sensibilizzazione, studi, leggi eu2001-2010 non è riuropee ad hoc, coopescito a centrare: la rirazione e condivisioduzione del 50 per
In Italia parte la ne delle migliori pracento delle morti. Per
tiche adottate dai paecampagna
raggiungere l’obiettisi membri per la prevo, l’Europa vuole raf- “Non guidare a fari venzione degli inciforzare la sicurezza
denti.
spenti”
su tre livelli: utenti,
GLI OBIETTIVI
vetture, infrastruttuSTRATEGICI. Sono
re. La commissione
sette i traguardi che la
punta alla formazione dei condu- direzione generale ha fissato: micenti; a rendere omogenee le rego- gliorare la sicurezza dei veicoli,
lamentazioni nazionali per far sì che rendendo obbligatori diversi strututti i cittadini europei siano puniti menti elettronici che assistono la
allo stesso modo; a promuovere il guida (come il controllo elettroniriconoscimento delle revisioni in co della stabilità o il sistema per il
tutti i pesi membri; ad applicare le frenaggio d’emergenza); miglioranorme in vigore sulle vie principa- re le infrastrutture, solo quelle
COSTI ENORMI
L’Unione
europea spende
ogni anno
130 miliardi
di euro
per fronteggiare
quella
che è ormai
un’emergenza
continua
conformi alle direttive sulla sicurezza stradale saranno finanziate da
fondi europei; incrementare le tecnologie che permettono la comunicazione fra i veicoli e tra i veicoli e le autorità. Altri obiettivi strategici riguardano l’istruzione alla
guida e il sistema per il rilascio patenti, con l’introduzione di requisiti
minimi comuni per gli istruttori e
la possibilità di periodi di prova per
i neopatentati, e il miglioramento
dei controlli per strada. Altro traguardo è la definizione di una strategia comune per la classificazione
e il trattamento dei feriti e per il primo soccorso. L’ultimo obiettivo riguarda i motociclisti: l’introduzione obbligatoria di sistemi di frenata assistita nei motocicli e l’obbligo
per i motociclisti di indossare indumenti particolari (come la giacca con l’airbag incorporato) potrebbero essere oggetto delle nuove norme europee.
IN ITALIA. Anche il nostro Paese si sta muovendo per ridurre il numero delle vittime della strada. È
stata da poco presentata da Mario
sifica di paesi europei che hanno ridotto maggiormente tra il 2001 e il
2009 il numero delle vittime della
strada, diminuite del 43 per cento.
IL SONDAGGIO. A chiedere un
intervento deciso della politica sono
tutti i cittadini europei. Un sondaggio di Eurobarometro ha rivelato
che in tutti i paesi membri i cittadini
chiedono agli stati di potenziare i
loro sforzi per migliorare la sicurezza stradale. Nove europei su
dieci considerano la guida in stato
di ebbrezza il principale problema
relativo alla sicurezza stradale, mentre otto su dieci credono che questo
sia costituito, invece, dalla velocità.
Secondo il 52 per cento degli intervistati, il miglioramento delle
Valducci, presidente della Com- infrastrutture stradali dovrebbe esmissione trasporti della Camera, la sere la prima o seconda priorità decampagna sulla sicurezza visiva gli stati membri. Il 42 per cento ristradale “Non guidare a fari spen- tiene, invece, che sia meglio conti, se vedi bene guidi meglio”, pro- centrarsi su un’applicazione più
mossa dalla Commissione traspor- severa delle leggi.
ti a seguito dei dati del rapporto
LE VITTIME. L’identikit di chi perIstat-Aci, secondo cui quasi il 60 per de la vita per strada è molto variecento degli incidenti stradali nella gato. In Europa 3 vittime della
penisola sono attribuibili a proble- strada su 4 sono maschi. La maggior
mi di vista. Realizzata con la colla- parte ha meno di 49 anni e quasi un
borazione del grupquarto meno di 25. Il
po Ottica Avanzi, la
40 per cento delle vitcampagna prevede
Per nove cittadini time della strada non è
la possibilità per tutalla guida del veicolo
su dieci l’alcool
ti i conducenti di
al momento dell’inciveicoli di usufruire
è la causa prima dente: si tratta di pasdi un controllo della
seggeri (19 per cento)
vista gratuito nei ne- delle morti su strada e pedoni (21 per cengozi Avanzi.
to). Gli scontri mortaSecondo i dati
li nel vecchio contiIstat, nel nostro Paese si verificano nente avvengono per la maggior parin media 598 incidenti stradali al te (48,5 per cento) in macchina o in
giorno, che provocano la morte di taxi, in moto (18 per cento) e in bi13 persone e il ferimento di altre cicletta (7 per cento). 3 incidenti su
849. E fino a dieci anni fa le cose an- 4 avvengono sulle strade urbane, ma
davano anche peggio. Secondo la i tassi di mortalità indicano che reDirezione trasporti europea, infat- stano le extra-urbane le strade più
ti, l’Italia è all’ottavo posto nella clas- pericolose.
Sei elisuperfici in più al 118, una è messa a disposizione dalla caserma Macao
Nuovi spazi per i soccorsi aerei
Ilaria Del Prete
EMERGENZE Un elicottero
del 118 in azione
6
15 Ottobre 2010
Le eliambulanze dirette al
Policlinico Umberto I avranno presto una piazzola su cui
atterrare. È questo l’accordo
tra i vertici aziendali dell’Ares 118 e i responsabili della caserma Macao. Nei prossimi giorni sarà infatti firmato il protocollo d’intesa per
cui i velivoli di soccorso potranno usufruire dell’elisuperficie militare per il trasporto dei degenti.
La nuova base si affianca
alle cinque piazzole in fase di
costruzione secondo quanto
stabilito dal piano della Regione Lazio presentato lo
scorso settembre dalla governatrice Renata Polverini,
dal direttore generale dell’Ares 118 Antonio De Santis
e dal responsabile dell’elisoccorso Alessandro Giulivi.
Grazie ai circa 745 mila euro
stanziati, sono state ultimate
entro il termine fissato per il
30 settembre la base di Acquapendente, prima piazzola pubblica della provincia di
Viterbo, e quella di Formia,
che va a coprire l’area del sud
della regione assieme alla
base di Terracina, ancora da
ultimare. In fase di realizzazione sono anche le elisuperfici di Amatrice, che andrà
a servire l’ospedale Francesco
Grifoni e le decine di piccoli comuni della provincia di
Rieti, e quella di Ostia, che
servirà l’ospedale Grassi guadagnandosi il primato per la
zona “mare”.
Nello scorso anno, i tre elicotteri a disposizione del
118 grazie all’appalto con la
ditta Elitaliana, società che
fornisce i mezzi e lo staff tecnico (pilota e copilota), si
sono attivati su circa millenovecento richieste di soc-
corso, trasportando i pazienti
principalmente verso il Gemelli, il Policlinico Umberto
I e il San Camillo Forlani.
Anche se nella maggior parte dei casi l’elisoccorso è utilizzato come trasporto interospedaliero, gli elicotteri
sono preziosi anche in caso
di incidente automobilistico,
grazie alla capacità di raggiungere il posto in maniera
repentina: in soli tre minuti
dalla richiesta d’intervento si
può passare al decollo. “Nei
casi d’intervento più critici –
dichiara Stefano Valentini,
portavoce dell’Ares 118 – i
nostri mezzi possono avvalersi del supporto della polizia stradale, che bloccando il
passaggio alle auto fornisce
una piazzola improvvisata
per gli elicotteri”.
Quando le condizioni del
territorio non consentono
l’atterraggio in sicurezza del
velivolo, o le condizioni del
paziente non permettono un
recupero in volo (missioni
Hho, helicopter hoist operations), non c’è comunque da
preoccuparsi: “Nel caso non
fosse possibile far atterrare il
mezzo nelle prossimità del
luogo d’intervento - ha continuato Valentini - il soccorso è assicurato da un’azione
combinata con i mezzi terrestri”.
Reporter
nuovo
Cronaca
Zoom sulla famiglia Ricci, premiata dal Comune come la più numerosa di Roma: vivono in 80 mq
«Siamo felici di essere in tanti»
Per i 12 figli, letti a castello e mini bus. Unanimi gli elogi dei vicini
La loro casa è stipata di
letti a castello, l’automobile
su cui si spostano è un mini
pullman e quando fanno la
spesa si servono all’ingrosso,
neanche fossero una trattoria. Fanno parte di una minoranza silenziosa, quasi
inosservata. Eppure, nell’Italia dei figli unici e della
crescita zero, esistono anche
loro: le famiglie numerose,
piccole tribù di almeno sei
elementi, ma spesso anche
12 o più.
Come i Ricci, un cognome che suggerisce affiatamento e dolcezza. Sono in
tanti, 14 in tutto, in una
casa che è un nido raccolto
e affollato. Nel quartiere romano della Balduina, vivono
in un appartamento di 80
metri quadri, organizzati per
accogliere sette femmine e
cinque maschi tra i sette e i
27 anni, oltre ai due super
genitori.
Roberta e Adriano sono i
capifamiglia del nucleo più
numeroso di Roma. Discreti
e gelosi del loro anonimato,
il 9 ottobre sono stati premiati
dal sindaco Alemanno durante una manifestazione al
Bioparco. Neanche 50 anni,
Roberta è la numero uno
delle “Mamme a Roma” –
questo il nome dell’iniziativa
del Comune – ma oltre a lei
sono stati premiati altri 29 titolari di famiglie numerose
della capitale. Cinquecento
euro, tessere Metrebus e Aci,
un pacco di prodotti caseari:
aiuti quasi simbolici, ma
quando sfami 14 bocche fanno comodo anche quelli.
PREMIATA La famiglia Ricci riceve al Bioparco il titolo Mamme a Roma dal sindaco Gianni Alemanno
Al centro dell’attenzione,
Roberta si schermisce, schiudendo gli occhi verde brillante che sono il marchio di
fabbrica di tutta la famiglia:
«Perché così tanti? Siamo
cattolici, sì, ma non è solo
questo – spiega – è che abbiamo deciso fin dall’inizio di
accogliere tutti i bambini che
sarebbero venuti, e così è
stato». I più grandi, ormai,
sono indipendenti: un paio lavorano per il Comune, mentre una delle ragazze fa l’animatrice turistica a Sharm El
Sheik. «Lo so che visti da fuori possiamo sembrare strani,
ma a me sembra di avere
una famiglia assolutamente
normale – continua – Certo,
da noi c’è molta organizzazione, tutti danno una mano,
ma dovrebbe essere così in
tutte le case, no?».
Forse non proprio, visto
che chi li conosce li descrive come una famiglia eccezionale. «Sono meravigliosi»
esordisce l’edicolante di piazza Morosini, che se li vede
passare davanti ogni giorno.
Nonostante i più grandi lavorino già, vivono ancora
tutti in casa, dividendosi i
compiti come in una catena
di montaggio. La più grande,
capelli corti e occhiali alla
moda, va a prendere i piccoli
a scuola e, rientrando a casa,
non può evitare di fermarsi
per un pacchetto di figurine
o un giocattolo. «Arrivano
con la sorella e sanno già
cosa comprare. Non fanno
mai i capricci» racconta l’edicolante.
Nonostante la loro discrezione, alla Balduina i
Ricci li conoscono tutti. In effetti, notarli è facile: quando
si riuniscono al completo
formano una carovana di 14
persone. Il portiere del loro
palazzo ci dice che vivono lì
da oltre 20 anni: «Nessun vicino si è mai lamentato, sono
bambini educati e silenziosi,
mentre qui ci sono certi figli
unici che fanno casino per
dieci!». Nonostante l’interrogativo diffuso e ricorrente
– «Come faranno a tirare
avanti?» –qui tutti sembrano
affascinati dalla solarità di
questa famiglia. Se la mamma
è, per ovvi motivi, un’indaffaratissima casalinga, il papà
Adriano gestisce una trattoria
nel quartiere. Originari del
Molise, i Ricci sono una famiglia di ristoratori. Come ci
spiega Giovanni Tesone, sindaco di Pietrabbondante,
Adriano è andato via dopo le
scuole medie, per seguire il
fratello a Roma. «Ma io spero che qualcuno dei suoi figli
torni a vivere qui e faccia tanti figli per ripopolare i borghi
del Molise», si augura il primo cittadino del paesino.
Oggi lo zio Giovanni è proprietario di un noto ristorante
di cucina molisana e ci racconta volentieri della sua famiglia un po’ speciale: «Sono
tutti ragazzi educati e responsabilizzati, anche se in
casa non c’è una disciplina
ferrea». Certo, se li incontra
per strada non è detto che li
riconosca tutti, ma i ragazzi
sanno farsi voler bene e «a
volte vengono anche al ristorante a dare una mano».
«Felici di essere in tanti»,
per questa gioiosa famiglia i
problemi maggiori sembrano più che altro economici,
come spiega lo zio: «Vivono
in affitto in 80 metri quadri,
ma almeno hanno un proprietario di casa onesto che
non aumenta il canone».
Vacanze in coppia neanche
a parlarne, e per fortuna
che per mangiare fuori ci
sono i ristoranti di famiglia. «Ma a mio marito riesco a dargli poco aiuto»
spiega Roberta, che confessa: «Momenti di stanchezza
ne ho avuti e in molte occasioni i problemi sono stati
pesanti» ma, conclude con la
concretezza di ogni brava
mamma, «l’importante è cercare di risolverli man mano
che si presentano».
I casi più strani: dagli otto gemelli di Nadya Suleman al parto naturale di una 54enne versiliese
Il guinness dei record delle super mamme
L’OCTOMUM Nadya Suleman
Reporter
nuovo
In fatto di famiglia, le sorprendenti bizzarrie della natura unite alle galoppanti innovazioni mediche non consentono ai record di durare a
lungo. Quanto ci vorrà prima
che il primato di Maria del
Carmen Bousada Lara, madre
a 66 anni di due gemelli ottenuti grazie all’inseminazione artificiale, venga stracciato da una “collega” ancora più
anziana? Nel frattempo, però,
nel librone dei Guinness la signora spagnola figura da quasi un anno come la mamma
più vecchia del mondo.
I miracoli della scienza,
tuttavia, impallidiscono di
fronte a quelli della natura.
Pochi giorni fa, l’ospedale di
Viareggio ha accolto i vagiti
della piccola Adria, una bimba concepita in modo naturale
da genitori “super”: 52 anni il
papà Bruno e 54 la mamma
Giovanna. Un caso, quello
della famiglia Paoli, che si registra due volte ogni milione
di gravidanze. All’estremo opposto, la 22enne tedesca Daniela è l’orgogliosa mater familias di sei bambini, di cui il
primo partorito a soli 14 anni.
Anche nell’Italia dei figli
unici i record non mancano.
A Casoria, nel napoletano,
Angelina Sorvillo ha sfidato la
crescita zero dando alla luce
il suo 14esimo figlio a soli 37
anni. «Ho solo fatto quello
che ho sentito nel mio cuore
e non giudico affatto le donne che preferiscono avere un
solo figlio e magari in tarda
età», ha spiegato.
A far discutere, invece, è
stato il caso di Nadya Suleman, già madre di sei figli tra
i due e i sette anni, che ha par-
Pagina a cura di Eloisa Moretti Clementi
torito otto gemelli concepiti
con l’inseminazione eterologa. Subito rinominata “Octomum”, la volontà della Suleman di imitare la famiglia di
Angelina Jolie, a cui si sforza
di assomigliare anche fisicamente, ha suscitato moltissime critiche. Disoccupata e
single, questa americana
33enne sembra aver abusato
di chirurgia estetica per assomigliare alla sua eroina ed è
stata accusata da un giudice di
aver sfruttato due dei suoi gemelli neonati per produrre immagini televisive in clinica.
Naturalmente, i produt-
tori televisivi di Los Angeles,
dove vive la donna, non si
sono lasciati scappare la sua
storia e hanno proposto alla
“octomamma” di partecipare
a un reality show, offrendole
un compenso di 250mila
euro. Ottenuta la celebrità e
anche un guadagno consistente, la 33enne Nadya e i
suoi 14 figli si apprestano
ora a sfidare Angelina, che a
35 anni vanta “solo” sei figli.
A dividerle, a conti fatti resta
soltanto Brad Pitt. Rispetto a
un’imitazione ben riuscita, è
comunque sempre meglio
l’originale.
15 Ottobre 2010
7
Costume & Società
Lui e lei possono rifarsi ogni parte del corpo. L’ultima moda? Il turismo della bellezza
Un ritocchino per tutte le tasche
Offerte da supermarket e prezzi “popolari”: il bisturi è democratico
“Consuelo 2501” è tra le prime
a rispondere alla richiesta di conforto di Stefany: “Aiuto! Domani a
quest’ora sarò in sala operatoria! Mandatemi tanti incoraggiamenti!”. Per il suo profilo ha scelto la foto di Pamela Anderson:
Consuelo sembra la più adatta a rassicurare le altre. Probabilmente è tra
le più esperte. In questo forum on
line al femminile dedicato alla bellezza, all’universo rosa, non è difficile imbattersi in discussioni sulla
chirurgia plastica. Meglio, estetica.
Nel calderone c’è di tutto. Ci sono
le paure di chi vorrebbe operarsi e
chiede consigli, chi è in cerca di uno
specialista e chi vuole una risposta
a questo dubbio: “Qualcuno ha
fatto l’anestesia totale in sedazione
per una mastoplastica? Soffro di aritmia cardiaca, come faccio?”.
Oltre alla solidarietà, da questi forum traspare la fiducia che le utenti nutrono fra loro. Forse è una conseguenza della “democratizzazione”
di questo tipo di operazioni. Rinoplastiche e lifting sono ormai qua-
BISTURI E CONFETTI La chirurgia plastica nella lista nozze
si alla portata di tutti. Per molti sono
un investimento, e se sei in difficoltà
ti aiuta la clinica. Il Cice, Centro italiano di chirurgia estetica di Reggio
Emilia, ha ideato una sorta di iniziativa “soddisfatti e rimborsati”: se
chi ha subito un intervento è rimasto soddisfatto, può diventare il
“gancio” per altri clienti. Se in due
anni procaccia una decina di pazienti, recupera il costo dell’operazione, circa sei mila euro.
“Splendido splendente/costa
poco e finalmente/io sorrido eternamente”, diceva una canzone di
trent’anni fa. La profezia s’è avverata. I prezzi di una seduta a base
di botulino si aggirano intorno ai
400 euro. Un intervento al seno
può scendere a tremila euro: ma
molti siti internet avvertono di
sospettare delle cliniche che offrono
prezzi stracciati. L’ultima moda è la
chirurgia low cost all’estero. Ai
turisti della bellezza sono offerti
pacchetti all inclusive “soggiorno
+ operazione”: dal Sud America alla
Tunisia.
In un paese dove più del 20 per
cento della popolazione nel 2020
avrà superato gli 80 anni, la paura
di invecchiare spingerà molti a varcare le nuove frontiere del bioringiovanimento. La pelle naturalmente, ma soprattutto il volto è il
bersaglio preferito del bisturi. Le parole d’ordine sono riempire, rimodellare, ringiovanire. Ma l’evoluzione della ricerca non ha risparmiato il resto del corpo. Quindi per
avere un fisico simile a un manichino spogliato non è sufficiente eliminare “le zampe di gallina” dagli
occhi, ma è utile anche asportare le
“ali di pipistrello” delle braccia. E se
l’obbligo di rientrare nei canoni
estetici desiderati o imposti non conosce differenza di genere, ecco
coinvolti anche gli uomini. Accanto agli innocui trapianti di capelli e
ai filler antirughe, sono comparsi gli
interventi di muscle enhancing, per
aumentare il volume dei muscoli, e
quelli di ginecomastia per gli eccessi
del seno maschile. E la falloplastica non è più un’illusione.
Gli italiani pronti a spendere, ma vogliono più attenzione dagli istruttori
In palestra, nonostante la crisi
Nuove discipline per forma fisica e benessere mentale
I dati si riferiscono al 2006,
ma la tendenza sembra valere
anche per questi ultimi anni.
Secondo la prima Ricerca su
“Sport e società” di Censis e
Coni, la ginnastica è lo sport
più praticato in Italia. Più del
calcio, gioco nazional-popolare per eccellenza. La ginnastica supera il concetto di sport,
di agonismo, e rientra nell’ampia definizione di wellness, di “star bene”, di cura del
corpo. Per questo motivo la
platea di chi si dedica al fitness
diventa smisurata, intergenerazionale, dai cinque agli ottant’anni.
Le novità dell’ultima edizione di Rimini Wellness, il più
grande evento sul fitness al
mondo, hanno rivelato un
boom di quelle discipline che
un tempo avremmo definito
spiritualistiche. Non solo yoga
quindi, ma bioginnastica, riflessologia plantare, shiatsu, e
fit to fly. Per non parlare di tutti gli sport praticati in acqua. La
bioginnastica, che unisce tecniche occidentali e orientali è
una invenzione tutta italiana,
dell’Università di Urbino. E’
un’espressione della ginnastica dolce, a bassa intensità che
8
15 Ottobre 2010
punta al benessere globale della persona. Il Jukari fit to fly invece è una nuova disciplina aerobica pensata soprattutto per
le donne. Alcuni esercizi si fanno sospesi in aria: chi si allena
tiene fra le mani la barra di un
trapezio, come quello del circo, e oscilla. Divertimento e to-
nunciato dall’associazione dei
consumatori Adoc può essere
un indicatore della sua diffusione. Secondo l’indagine dell’Adoc, nel 2010, i corsi di pilates hanno fatto registrare un
aumento del 5,4 per cento oltre la media del 5 per cento dei
corsi di fitness e palestra in ge-
Con le macchine supertecnologiche si può fare
a meno dei personal trainer.
Ma non tutti i clienti sono d’accordo
nificazione dei muscoli sono
assicurati.
L’apripista di queste discipline a bassa intensità e bassa
fatica è stato il pilates, che ha
conosciuto in Italia un aumento degli appassionati in
questi ultimi dieci anni. Si è diffuso dagli Stati Uniti grazie all’alto numero di insegnanti affascinati dal suo programma di
oltre 500 esercizi, dai movimenti fluidi e lenti che uniscono ancora una volta il relax
alla definizione del tono muscolare. Il “caro-pilates” de-
nerale, rispetto all’anno precedente.
Probabilmente l’inflazione
dei prezzi di ingressi e abbonamenti è una misura emergenziale con cui gli operatori
hanno cercato di rientrare dai
sacrifici sostenuti nel biennio
nero di crisi economica. In verità la recessione non ha colpito
il ramo del fitness come è avvenuto per altre attività imprenditoriali. È emblematico il
dato di una ricerca della Camera di Commercio di Milano,
la patria dei maniaci della cura
Pagina a cura di Vito Miraglia
del corpo, con oltre centotrenta palestre. Da gennaio a luglio 2009, solo una palestra ha
dovuto chiudere i battenti, a
fronte di ben cinque inaugurazioni.
Il portafogli dei clienti si è
assottigliato, ma non la voglia
di tenersi in forma. Sempre da
Rimini Wellness giungono le
indicazioni della domanda
del settore. C’è una platea vastissima di potenziali clienti
che sono disposti a pagare, anche qualcosina in più, ma in
cambio pretendono attenzione e cura dei rapporti interpersonali. Cosa che è più facile trovare nelle piccole strutture, come ci conferma Paolo,
istruttore di una palestra del
centro di Roma con oltre vent’anni di esperienza. “Magari
non trovano i macchinari di
ultima generazione, che oramai sembrano le cabine di una
vettura di Formula Uno – sostiene – ma hanno a disposizione un allenatore che ti segue da vicino, che conosce i
tuoi problemi e ciò di cui hai
bisogno”. Si crea un rapporto
one-to-one di cui si sente la
mancanza nelle palestre delle
grandi multinazionali.
BOOTCAMP L’allenamento dei marines sbarca nelle palestre
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