Mons. Gianantonio Borgonovo - Il Sacro Chiodo
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Mons. Gianantonio Borgonovo - Il Sacro Chiodo
GIANANTONIO BORGONOVO IL SANTO CHIODO DEL DUOMO DI MILANO La tradizione riguardante il ritrovamento della Croce di Cristo risale certamente al IV secolo (dopo Cristo), ma la sua precisa ricostruzione non è semplice: Eusebio di Cesarea (265-340) conosce i lavori compiuti sotto Costantino sul Calvario, ma non parla del ritrovamento della croce (cf EUSEBIUS, De vita Constantini, I, XII-XVII, ed. F. WINKELMANN, Eusebius Werke, 2a ed., Akademie-Verlag, Berlin 1991 [GCS], 21-25); nessun accenno alla reliquia della croce troviamo nell’Itinerarium Burdigalense, del 333 d.C., mentre ne parlano tutti i pellegrinaggi in Terra Santa, a partire da Egeria (o Eteria), ovvero dal 380 in poi. Egeria riferisce che il 14 Settembre, giorno che commemorava la dedicazione del Santo Sepolcro, coincideva con quello del ritrovamento della Croce: «Le dediche di queste due sante chiese vengono celebrate con sommo onore, perché la Croce del Signore fu trovata in quello stesso giorno». Le due chiese alle quali alludeva la pellegrina sono il Martyrion, struttura basilicale eretta vicino al Golgota, e l’Anastasis (Resurrezione), una costruzione rotonda che serbava i resti della grotta identificata come il luogo della sepoltura di Gesù. Con grande partecipazione del clero e del popolo dei fedeli, la liturgia del 14 Settembre prevedeva l’ostensione della reliquia del legno della Croce, pratica che, con il trascorrere dei decenni, divenne fulcro di devozione e oggetto principale della solennità. Nel VI secolo la celebrazione liturgica è già ricordata con il nome di Exaltatio Crucis, dove il termine Exaltatio è da intendersi come «elevazione» e, al contempo, «ostensione». Il titolo si riferisce al rito, che prevedeva l’innalzamento del legno e la sua ostensione ai fedeli, in ricordo dell’innalzamento di Cristo sulla Croce e dell’ostensione del suo corpo sacrificale. Ben presto si persero i riferimenti alla dedicazione del Santo Sepolcro: intorno al 520 il pellegrino Teodosio citava la festa del ritrovamento della Croce, senza accennare alla dedicazione delle chiese del Martyrion e dell’Anastasis. Si desume quindi ragionevolmente che la tradizione letteraria dell’inventio crucis abbia avuto inizio tra il 333 e il 380 circa. 1. LA TRADIZIONE LETTERARIA SULL’INVENTIO CRUCIS E SUI CHIODI DELLA CROCE Il primo a parlarne è Cirillo, vescovo di Gerusalemme. Ne parla come di un fatto avvenuto sotto Costantino, in una lettera scritta nel 351 all’imperatore Costanzo. Secondo Cirillo, la grazia divina concesse il ritrovamento “a colui che cercava la pietà”: τῆς θείας χάριτος τῷ καλῶς ζητοῦντι τὴν εὐσέβειαν τῶν ἀποκεκρυμμένων ἁγίων τόπων παρασχούσης τὴν εὕρεσιν (PG XXXIII, 351, p. 1166: «quando la divina grazia ricompensò la pietà della di lui ricerca con la 1 scoperta dei luoghi santi che giacevano nascosti»). Il breve resoconto sembra però escludere che la scoperta fosse da attribuire a Elena, perché si parla al maschile di un ignoto convertito, “cercatore della pietà”. Per di più, Cirillo dice solo che la scoperta avvenne per un caso fortuito, durante i lavori per la realizzazione della Basilica del Santo Sepolcro e non in seguito a un pianificato progetto di ricerca. A conferma, Cirillo informa Costanzo di un fenomeno miracoloso avvenuto all’inizio del suo episcopato: la comparsa nel cielo di Gerusalemme di una croce luminosissima. Ciò, ovviamente, non esclude che il ritrovamento fosse avvenuto durante gli scavi organizzati da Elena. A lei è invece attribuito il ritrovamento della croce e dei chiodi da Ambrogio nel 395 (De Obitu Thedosii, 40-51), Paolino nel 403? (Ep. 31: Lettera a Sulpicio Severo) e Rufino d’Aquileia nel 402 (Hist. Eccl., XVII sgg.), oltre alle successive tradizioni che da costoro dipendono. Si noti che tutti e tre collegano l’inventio Crucis con gli scavi imperiali per la costruzione dell’Anastasi a Gerusalemme, dopo il Concilio di Nicea (325). I tre però si dividono su diversi punti. 1.1 La testimonianza di Ambrogio Partiamo dall’orazione funebre di Ambrogio proclamata in occasione della morte dell’imperatore Teodosio. A dire il vero, prima del De Obitu Theodosii ambrosiano, ovvero prima del 25 febbraio 395, si deve ipotizzare che circolasse una proto-versione del racconto, archetipo della tradizione storiografica successiva, che sarebbe stata tramandata da Gelasio di Cesarea (morto nel 395), nella sua Storia Ecclesiastica, prosecuzione della storia di Eusebio di Cesarea, che s’interrompeva nel 325. Purtroppo ci è giunta in modo molto frammentario, benché ricostruibile – almeno in parte – dalla filologia moderna. Sarebbe stato Gelasio il primo a collegare il ritrovamento della croce con il Concilio di Nicea (325). La struttura del De obitu Theodosii: exordium (parr. 1-2) expositio (I sezione: parr. 3-16; II sezione: parr. 17-39) excursus de inventione crucis (parr. 39-51) peroratio (parr. 52-56). L’excursus (parr. 39-51), che alcuni critici considerano a torto un’aggiunta fatta al momento della redazione definitiva dell’opuscolo sulla base della mancanza di vincoli dinastici tra Costantino e Teodosio, è il più antico resoconto dell’inventio crucis ed è il primo ad attribuirlo alla madre di Costantino, Elena la locandiera, concubina di Costanzo Cloro, che la ripudiò nel 289 per sposare l’aristocratica Teodora, figliastra di Augusto Massimiano. Dopo l’assassinio nel giro di pochi mesi di Crispo e della moglie Fausta sposati da quasi venti anni, che gli autori di parte pagana, come Zosimo, attribuiscono 2 a Costantino e alla di lui madre, Elena restò l’unica donna influente a corte. Negli anni 327-328 compì il ben noto pellegrinaggio in Terrasanta: Eusebio di Cesarea (265-340) ne sottolinea l’aspetto religioso e l’importanza politica, ma non dice nulla dell’inventio crucis. Nella versione ambrosiana dell’inventio Crucis, Elena utilizza un chiodo per forgiare un morso per il cavallo e uno per la corona-diadema. Sebbene sia possibile trovare anche in Ambrogio un’allusione a morso ed elmo, quando egli afferma che Elena cercò le sante reliquie della Passione quale sicuro auxilium per il figlio, «quo inter proelia quoque tutus assisteret et periculum non timeret» (ib., 41). Ma il riferimento ambrosiano sposta l’attenzione principale dalla protezione nella guerra alla maestà imperiale e all’abituale esercizio dell’autorità ad essa legata. In questo modo, i chiodi trovati presso la croce non sono più connessi al solo Costantino e alla sua dinastia, ma a tutti i suoi successori cristiani. Si ricordi, en passant, che in questo discorso Ambrogio cita per tre volte Zc 14,20: in die illo erit quod super frenum equi est sanctum Domino «In quel giorno anche sopra il freno del cavallo starà scritto “sacro ad JHWH”». Una volta è citato per esteso e due altre volte in modo brachilogico sanctum super frenum; e il versetto non è più citato da Ambrogio in altre opere. La sua interpretazione è rifiutata da Girolamo in modo sprezzante (In Zachariam 14,20 [CSEL 76A, 898]): «Audivi a quodam rem sensu quidem pio dictam, sed ridiculam. Clavos dominicæ crucis, e quibus Constantinus augustus frenos equo suo fecerat, sanctum domini appellari. Hoc utrumque ita accipiendum sit, lectoris prudentiæ relinquo». Sul capo la corona, nelle mani la briglia: la corona è fatta con la croce, affinché la fede risplenda; la briglia è fatta con la croce, perché moderi il potere. Si noti l’antitesi tra la moderatio, che conserva la primigenia nozione di temperamentum, giusto equilibrio e caratterizza il buon governo, e la praeceptio, imposizione che caratterizza il governo tirannico. L’excursus sulla inventio crucis termina con l’augurio che siano applicabili all’imperatore romano cristiano le parole del Sal 20,4: «Posuisti in capite eius coronam de lapide pretioso». L’assimilazione tra l’imperatore cristiano romano e Cristo è convalidata dalla citazione del salmo, che esalta la protezione concessa da Dio al virtuoso re Davide, simbolo del re giusto e figura di Cristo (con tutte le allegorie dell’esegesi patristica!). Le fonti storiografiche e patristiche della prima metà del V secolo, pur non essendo sempre tra loro corrispondenti, sono diverse dalla versione di Ambrogio, poiché inseriscono nel racconto un evento miracoloso, atto a determinare il riconoscimento della Vera Croce. Sono sette i testi che tramandano questa versione dei fatti. Essi possono essere suddivisi in due gruppi: 3 1) le storie ecclesiastiche di Rufino (nel 402, Hist. Eccl., XVII sgg.), seguito da Socrate, Sozomeno, Teodoreto; 2) i racconti inclusi entro forme narrative differenti (orazioni e lettere), elaborati da esegeti e padri della Chiesa, come Paolino di Nola (nel 403, Epistola 31: Lettera a Sulpicio Severo), dalla cui lettera dipende poi la Chronica di Sulpicio Severo (II,33-34). 1.2 La testimonianza di Rufino d’Aquileia La prima di queste Storie a comparire in ordine cronologico, se si esclude l’incompleto testo di Gelasio, è quella di Rufino vescovo di Aquileia, databile intorno al 402. Ne proponiamo un sunto, al quale seguiranno le varianti rispetto alla versione di Rufino, presenti nelle tre fonti storiografiche successive. Nella Storia Ecclesiastica di Rufino, Elena, ispirata da visioni divine, affronta un pellegrinaggio a Gerusalemme alla ricerca della Vera Croce. Ivi giunta, chiede ai suoi abitanti dove sia la Croce di Cristo, ma questa è difficile da ritrovare, poiché il luogo della crocifissione è stato dimenticato e al suo posto è stata eretta una statua di Venere. È un segno del cielo ad indicarle il luogo. L’imperatrice ordina così di demolire le vestigia pagane e di scavare nel terreno. Scopre tre croci somiglianti tra loro e il Titulus, ritrovato separatamente dalla Croce di Cristo, non offre «garanzie sufficienti». Per riconoscere quale delle tre sia la Vera Croce, Elena attende un segno divino. A Gerusalemme una nobildonna è gravemente malata e Macario, il vescovo della città, si inginocchia al suo capezzale e prega Dio di mostrargli quale sia la Croce di Cristo. Allora il vescovo pone, una ad una, le croci sopra il corpo della donna morente. Al contatto con la terza, costei guarisce. In seguito, Elena fa costruire una chiesa nel luogo del ritrovamento della Vera Croce; spedisce a Costatino un frammento della reliquia e i chiodi, perché li inserisca nell’elmo imperiale e nelle briglie del suo cavallo. Lascia, infine, il pezzo restante di Croce a Gerusalemme, depositato in un astuccio d’argento. Ancora in Terra Santa, Elena invita le sante vergini consacrate a Dio ad un banchetto e le serve umilmente a tavola. Se, secondo Ambrogio, con i chiodi della croce Elena fece forgiare un morso e una corona, secondo Rufino, ella diede i chiodi all’imperatore il quale ne trasse un morso e un elmo. Questa tradizione è riportata nel 409 da Rufino d’Aquileia (345-411), che muore una quindicina di anni dopo Ambrogio. Egli è poi seguito da Socrate, Sozomeno e Teodoreto. In Ambrogio come in Rufino vi è un forte sentimento anti-giudaico, anche nel momento in cui si tratta di trovare l’esatto luogo del Golgota evangelico. Rufino però non dipende da Ambrogio, riferisce ampiamente di un miracolo al quale Ambrogio allude soltanto, per poter riconoscere quale fosse la croce di Cristo tra tutti i resti trovati sotto il Golgota. Rufino riferisce la sua versione nel contesto di una narrazione storica e sembra più attendibile di Ambrogio nei riguardi della versione 4 originaria: quando dunque Rufino dice che Elena inviò i chiodi della croce ritrovata a Costantino perché ne facesse un morso per il cavallo di Costantino e un elmo che lo proteggesse in guerra, possiamo concludere che questi erano i doni della madre a Costantino nella versione originaria, che va però considerata posteriore al 351, ovvero alla lettera di Cirillo. La sostituzione dell’elmo con la corona sarebbe una variante di Ambrogio. Tuttavia, è difficile che Ambrogio sia il responsabile della variazione di un dato ormai tradizionale: è invece variatio di una leggenda di recente formazione. Si può forse spiegare così la duplice tradizione dei doni di Elena a Costantino: la versione secondo cui uno dei chiodi era stato utilizzato per l’elmo dell’imperatore sembra nata all’interno della dinastia di Costantino, probabilmente sotto Costanzo, dopo il 351, e ne riflette l’ideologia: il significato simbolico dell’elmo, da usare in guerra, come il morso del cavallo, riflette la mentalità di Costantino, che aveva posto il monogramma della croce sull’elmo nelle sue monete e nel quale appare connaturata l’idea di alleanza con la divinità. Nella versione di Ambrogio, invece, con la trasformazione dell’elmo in corona, il motivo della croce ritrovata non è più collegato con Costantino e la sua dinastia, ma – al di là ormai dell’apostasia dell’ultimo Costantinide, Giuliano (361-363) – con tutti i successori cristiani di Costantino. Il racconto dell’inventio crucis rappresenta, nel pensiero di Ambrogio, la legittimazione dell’imperatore cristiano e costituisce il vero argomento dell’intero discorso, che è davvero una sintesi della teologia politica del IV secolo: la redenzione dell’impero, ottenuta da Elena col dono divino dei chiodi trasformati l’uno in morso, l’altro in corona. Forte di quei doni, Costantino fidem transmisit ad posteros reges (ib. 41). Ambrogio sviluppa nei paragrafi successivi il principio che sta alla base della grande svolta: Sapienter Helena quae crucem in capite regum locavit ut Christi crux in regibus adoretur «Sapientemente Elena pose la croce sulla testa dei re, perché la croce di Cristo fosse adorata nei re» (ib. 48). Corona-diadema e morso erano stati, già nell’antica Grecia, simboli del potere; in Ambrogio la trasformazione dei chiodi in corona e in morso fonda un nuovo rapporto del potere con Dio e con i sudditi. Il motivo del potere come servizio, caro alla miglior tradizione romana, anche se spesso tradito nella prassi, riemerge con un significato nuovo: il potere, in quanto tale, coronato e nello stesso tempo frenato dai simboli della Passione di Cristo, riceve la sua autentica legittimazione nell’atto stesso in cui accetta di rimanere nei limiti impostigli da Dio e non diventa arbitrio. Nelle fonti successive, il racconto si ripete con alcune varianti. Nella Storia Ecclesiastica di Socrate (439), Elena, alla ricerca della Vera Croce, considera il luogo della sepoltura di Cristo e non quello della sua crocifissione. La storia di Socrate contempla l’aggiunta di un elemento originale, ignorato dalle altre fonti: 5 Costantino colloca all’interno della sua statua di bronzo, posta sopra l’alta colonna di porfido a Costantinopoli, il frammento di Croce inviatogli da Elena. Anche Teodoreto include il ritrovamento della Croce nella sua Storia Ecclesiastica (439). In esso, vi è una sostanziale differenza nell’intenzionalità che conduce Elena ad affrontare il viaggio in Terra Santa, non legata alla volontà di trovare le reliquie della Passione, ma alla necessità di portare a Macario una lettera indirizzatagli da Costantino. Il testo di Teodoreto sottolinea la superiorità di Elena rispetto al figlio: l’imperatrice imprime un’educazione cristiana a Costantino e, in punto di morte lo benedice e lo istruisce con «molti precetti intorno al modo di vivere pio». Nella Storia Ecclesiastica di Sozomeno (425) si fa riferimento per la prima volta, anche se non esplicitamente, alla leggenda di Giuda Ciriaco. Sozomeno, infatti, dichiara che il luogo dov’era sepolta la Croce venne riconosciuto da Elena grazie a sogni e segni divini e non per mezzo dell’aiuto di un ebreo, erede di uno scritto che ne rivelava il luogo. La leggenda di Giuda Ciriaco era, evidentemente, già in circolazione, almeno nella tradizione orale. Secondo l’autore greco, per ordine dell’imperatore Costatino il luogo della crocifissione e della sepoltura viene interamente ripulito dalle memorie pagane e fatto scavare fino alla comparsa della grotta della Resurrezione, nella quale sono scoperte le tre croci, con a fianco il Titulus. La Storia di Sozomeno riporta due versioni del miracolo della Vera Croce: la prima coincide con le precedenti di Rufino e di Socrate; la seconda racconta di un uomo morto, resuscitato al contatto con la Vera Croce e non specifica la presenza di Macario. La versione è rintracciabile in Paolino di Nola (402) e in Sulpicio Severo (prima metà del V secolo), oltre che nella già citata leggenda di Giuda Ciriaco. Il testo cita la profezia di Zaccaria in relazione ai chiodi inviati da Elena a Costantino, presente anche nel De Obitu Theodosi di Ambrogio, e una rivelazione sibillina desunta dagli Oracoli Sibillini, che predice la devozione del legno di Croce: «O legno felicissimo sul quale Dio fu appeso (Oracoli Sibillini, VI, 26)». 1.3 La testimonianza di Paolino di Nola Accanto alle due diverse versioni – se pure molto simili – sin qui ricordate, quella di Ambrogio e quella di Rufino, dobbiamo ricordare anche la versione di Paolino di Nola (354-431), seguita dallo stesso Sulpicio Severo. All’amico Sulpicio Severo, che chiedeva qualche reliquia per l’ormai prossima consacrazione della basilica di Primuliacum (oggi Primillac?), Paolino invia, nel 403, una particella di un frammento della croce di Cristo, che Melania gli ha portato da Gerusalemme. La ripone in un astuccio d’oro e risponde con una lunga lettera di accompagnamento del dono, in cui descrive all’asceta aquitano le circostanze del rinvenimento e l’attiva opera di Elena, madre di Costantino. Il dettagliato racconto dell’inventio sta in un ampio excursus, che si sviluppa in tre paragrafi dei sei di cui è composta la lettera. Sin dall’inizio è messo in risalto l’aspetto devozionale, elemento caratterizzante tutto il racconto. La sua versione differisce in molti punti rispetto alle altre. Sul luogo della Passione si trovava una statua di Giove e il motivo che avrebbe spinto Elena ad intraprendere il pellegrinaggio, una volta ottenuto il permesso dal figlio Costantino, sta nella volontà di distruggere i templi e gli idoli eretti nei 6 luoghi calcati dal Signore e di purificarli attraverso l’erezione di edifici di culto cristiani. Alcuni elementi sono aggiunti, altri tolti. Ispirata dallo Spirito Santo, Elena cerca di essere informata sul luogo della crocifissione e lo fa ricercare domandando non soltanto tra i cristiani, ma anche tra i giudei sapienti: «Allora la regina fu rassicurata dall’unanime testimonianza di tutti riguardo al luogo della Crocifissione, e certamente sotto l’impulso di una rivelazione interiore, immediatamente ordinò che si disponessero le operazioni di scavo proprio in quel luogo ed, apprestata senza perder tempo una schiera di cittadini e di soldati, in breve portò a termine questo lavoro di scavo. Contro l’aspettativa di tutti, ma proprio come soltanto la regina aveva creduto, lo scavo in profondità dischiuse le cavità della terra e svelò il mistero della Croce nascosta». Anche il racconto del miracolo della Vera Croce differisce rispetto alle altre versioni: non è il vescovo Macario, del quale non c’è traccia, ma l’imperatrice stessa ad ordinare la prova, che avviene attraverso la resurrezione di un cadavere recentemente morto («recens mortuum») e non la guarigione di una donna malata: «Il Signore volse lo sguardo alle pie preoccupazioni di coloro che erano in ansia per la loro fede e, in modo particolare, a colei che era la prima ad essere turbata nella grande devozione del suo cuore infuse l’ispirazione di questo consiglio, di ordinare cioè che fosse ricercato e portato colà un uomo morto di recente. […] Al contatto col legno della salvezza, mentre la morte si dava alla fuga, il cadavere si scosse, il corpo si eresse e l’uomo morto stette in piedi, tra lo sgomento dei vivi e, liberato, come già Lazzaro, dalle bende funebri, ritornato in vita, subito si mise a camminare in mezzo ai presenti che stavano a guardarlo». Vengono taciuti sia il ritrovamento del Titulus sia il rinvenimento dei chiodi e il dono fattone a Costantino. La parte finale della lettera descrive il culto rivolto alla reliquia conservata a Gerusalemme e le sue prodigiose proprietà. La centralità della reliquia come oggetto contraddistingue la lettera di Paolino di Nola, il cui scopo era quello di accompagnare la missiva di un pezzetto della Croce. Il destinatario del dono e della lettera, Sulpicio Severo, nella sua Chronica attinse certamente la versione del proprio racconto dall’amico Paolino. Il Nolano sembra far capo a un filone di tradizione diverso da quello che accomuna Ambrogio e Rufino. Le sue fonti sono probabilmente legate alla testimonianza di Melania e di derivazione palestinese. La versione di AmbrogioRufino, nel corso del medioevo, si afferma a scapito di quella di Paolino, destinata all’oblio perché meno funzionale alla polemica antiebraica. Il topos della “tortura dell’ebreo” diviene canonico a partire dalla Legenda aurea di Jacopo da Varazze (o Varagine, 1228-1298), un testo redatto nella seconda metà del XIII secolo da cui dipendono i cicli pittorici dedicati all’inventio crucis dei secoli successivi. Il testo di Paolino si conclude con l’augurio che il frammento inviato a Sulpicio sia «non solum benedictionis monimento, sed et incorruptionis seminario 7 futurum» (6,34-35). Esso si inserisce all’interno di una complessa serie di testimonianze rintracciabili nel corpus paoliniano, che consentono di ricostruire la sua concezione della croce. 2. DALLA TRADIZIONE LETTERARIA AL PROBLEMA STORICO Ma allora che ne è del “Santo Chiodo” che veneriamo nel nostro Duomo? E l’interpretazione che lo ritiene il morso donato da Elena a Costantino come uno dei chiodi di cui parla Ambrogio? Più radicalmente: la tradizione letteraria della fine del IV secolo e dell’inizio del V secolo ha qualcosa a che vedere con questo Santo Chiodo? Oltre ad aver mostrato la tradizione letteraria del tardo antico e le sue diverse ramificazioni, dobbiamo prima ricordare altre ipotesi storiografiche tra le più diffuse per sostenere l’identificazione dei chiodi di cui si parla nel IV-V secolo con questo Santo Chiodo; in seconda istanza, cercheremo di avanzare la tesi (sempre ipotetica) più accreditabile. 1) Milano è la capitale scelta da Valentiniano I nel 364, dopo la parentesi di Giuliano l’Apostata e il breve regno di Gioviano, come potior Augustus. Con la scelta di Milano quale capitale dell’impero va collegato, a parere di molti (tra cui Marta Sordi), l’arrivo a Milano dei chiodi della croce: l’imperatore poteva facilmente ottenere la preziosa reliquia. La tradizione costantinopolitana poneva fra i riti di fondazione della città da parte di Costantino l’inserimento di frammenti della croce nella statua posta sulla corona di porfido nel foro della città, perché ne assicurassero la protezione, come narra Sozómeno. È dunque probabile che la decisione di utilizzare due dei chiodi della croce vada strettamente collegata con la decisione di Valentiniano I di fare di Milano la capitale della sua dinastia e dell’impero romano-cristiano. Ma è un po’ strano il lungo periodo di eclissamento della reliquia, almeno sino al XIII o XIV secolo! L’erudito storico Giuseppe Antonio Sassi (1672-1751), prefetto dell’Ambrosiana dal 1713 al 1751, formula tre ipotesi per spiegare questo vuoto e come sia potuto giungere a Milano il Santo Chiodo proprio durante questo lungo periodo di silenzio: a) Durante le persecuzioni iconoclaste di Leone III Isaurico (imperatore a Costantinopoli dal 717 al 741), per metterlo in salvo da sicura distruzione; b) Parte del ricco bottino sacro di cui facevano parte anche i corpi dei Magi, poi venerati a Sant’Eustorgio; Federico Barbarossa le portò da Milano a Köln, per la nuova cattedrale nel 1164, consegnandole all’allora arcivescovo Rainald von Dassel; solo in parte (due fibule, una tibia e una vertebra) furono riconsegnate al beato card. Andrea Carlo Ferrari il 3 gennaio 1904 dall’arcivescovo di Köln Fischer; 8 c) Arnolfo II da Arsago (morto il 25/02/1018), arcivescovo di Milano dal 998 al 1018, le avrebbe portate da Gerusalemme nel 997, dove era stato inviato come legato di Ottone III (morto nel 1002), insieme ad altre reliquie. Tuttavia a mettere in crisi tutte e tre queste ipotesi, imponendo di posticipare ulteriormente l’arrivo a Milano del Santo Chiodo, è la mancanza di ogni riferimento ad esso nelle rubriche liturgiche del Beroldo (prima metà del XII secolo), «custos et cicendelarius» della Chiesa milanese. Nel suo testo, Ordo et cærimoniæ Ecclesiæ Ambrosianæ Mediolanensis, apparso poco dopo la morte dell’arcivescovo Olrico (1126), pur avendo memorie sempre molto precise degli usi liturgici delle cattedrali milanesi allora attive, Beroldo non fa alcun accenno al Santo Chiodo e nemmeno a particolari celebrazioni connesse con il suo culto. Proprio sulla base del suo silenzio, già il beato card. Alfredo Ildefonso Schuster aveva avanzato l’ipotesi che fa risalire alle Crociate l’arrivo del Chiodo a Milano. Questa ipotesi era già stata formulata alla fine del Settecento dallo storico Angelo Fumagalli (Delle antichità longobardicomilanesi, III, Monistero di S. Ambrogio Maggiore, Milano 1793, 203-204), monaco cistercense e anche abate di S. Ambrogio dal 1786 al 1796. A tale ipotesi, con qualche ulteriore precisazione, approderò anch’io. 2) La presenza del Santo Chiodo a Milano è sicuramente comprovata da due documenti del XIV secolo, e precisamente nella basilica Cattedrale di Santa Tecla (la cattedrale estiva, quella più ampia, che occupava la parte nord-orientale dell’area attuale di piazza Duomo). A) Il documento più antico risale al 18 gennaio 1389, è contenuto nel Registro di Provvigione che raccoglie gli atti amministrativi del Comune di Milano dall’anno 1389 al 1397, ed è conservato presso l’Archivio storico civico di Milano. In tale registro, è presente una risposta di Paolo de Arzonibus, luogotenente del Vicario, e dei XII Deputati di Provvigione a Gian Galeazzo Visconti (allora Signore e dal 1395 primo Duca di Milano). Costui aveva stabilito che fossero dichiarati festivi: a. il 5 di agosto, festa della Madonna della Neve, cui erano dedicati una confraternita e un altare in Santa Tecla; b. e il 16 ottobre, festa di San Gallo, titolare di un altare in Santa Maria Maggiore, la piccola cattedrale invernale, che era posizionata nell’area orientale del Duomo attuale. Nell’occasione si suggeriva al Signore di Milano l’opportunità di stabilire, a carico del Comune, distinte offerte soprattutto per la festa di Santa Tecla, titolare della basilica “estiva”, meritevole di uno speciale riguardo, perché – così sta scritto – vi era riposto ab antiquo uno dei Santi Chiodi con cui fu crocifisso il Salvatore. 9 L’affermazione ab antiquo è abbastanza generica e non dice nulla di preciso circa l’epoca in cui il chiodo fu portato a Milano: si poteva trattare di una tradizione plurisecolare oppure di un secolo e mezzo circa. Comunque, la presenza del Santo Chiodo era un titolo che ingiungeva un particolare riguardo per la considerazione dovuta alla basilica “estiva” di Santa Tecla. B) Un altro documento di poco posteriore (4 novembre 1392), sempre a firma di Gian Galeazzo Visconti ordina che si restauri la basilica di Santa Tecla perché una nutrita folla di fedeli si recava sovente in Santa Tecla a venerare il Santo Chiodo. Dallo stesso documento si evince che il reliquiario in cui era custodito il santo Chiodo aveva forma di Croce e la preziosa reliquia era collocata sopra l’altare maggiore su una tribuna di fronte alla quale per devozione si accendevano molti lumi. (Si sa che nel 1444 il cardinale Enrico Scotto aveva concesso particolare indulgenza a chi contribuiva all’illuminazione della reliquia del Santo Chiodo.) Ma tra il ritrovamento di sant’Elena e le parole di sant’Ambrogio fino a queste date intercorrono quasi mille anni di silenzio… 3. QUAL È LA POSSIBILE ORIGINE DEL SACRO CHIODO DEL DUOMO DI MILANO? Il problema è di determinare con più precisione quell’ab antiquo di cui parla il Registro di Provvigione del 1389. Una volta spiegato come sia arrivato in Santa Tecla, le vicende seguenti del Sacro Chiodo sembrano sufficientemente dipanate. Infatti, quando fu necessario demolire completamente la vecchia basilica estiva di S. Tecla ci fu il trasferimento del santo Chiodo, di tutte le suppellettili e le altre reliquie che vi si trovavano nel nuovo Duomo. Questo avvenne il 20 marzo 1461 per mano dell’Arcivescovo Carlo da Forlì con una processione sontuosa che vide largo concorso di clero e di popolo. Ma la nuova – lontanissima – collocazione nella volta dell’abside sopra l’altare maggiore, dove ancor oggi la reliquia è custodita, provocò un progressivo affievolimento della devozione verso il santo Chiodo. Fu san Carlo Borromeo che, mentre infieriva la peste del 1576-77, ne fece ripristinare il culto… (Ma questo riguarda ormai il discorso che sarà analizzato dall’intervento di mons. Navoni). Ricordo soltanto che in Duomo esiste anche un ciclo di 22 grandi tele, fatte eseguire nel secolo XVIII e in parte restaurate (le 10 tele esposte in occasione della festa dell’esaltazione della Croce), con la presentazione di episodi della storia della Croce e del Santo Chiodo. Un tempo 10 si esponevano in cattedrale durante la solennità della inventio crucis che si celebrava il 3 maggio (sino alla riforma del Vaticano II). Arrivo finalmente a trattare l’ipotesi che tra tutte preferisco e che reputo la più ragionevole, almeno in base alla documentazione da noi posseduta. Il momento migliore in cui collocare l’arrivo della reliquia del Sacro Chiodo a Milano da Costantinopoli furono gli anni successivi alla quarta crociata e al Sacco di Costantinopoli del 1204. La città fu presa il 12 aprile 1204: il giorno dopo ebbe inizio il grande saccheggio che, come tramandano i cronisti, non aveva avuto simile in tutta la storia dell’umanità. La violenza dei crociati, che non risparmiarono neppure i bambini, voleva essere la vendetta per il terribile massacro dei Latini del 1182, quando erano stati eliminati tutti i 60.000 abitanti latini di Costantinopoli, donne e bambini compresi. I 4.000 superstiti furono venduti ai turchi come schiavi. Mentre Bonifacio di Monserrat occupava il palazzo imperiale che, secondo Roberto di Chiari, aveva ben 500 stanze tutte riccamente addobbate e ben trenta cappelle, gli scatenati crociati entravano nelle case ed asportavano qualsiasi cosa di valore che avessero trovato, dopo aver ucciso chiunque si trovasse dentro. Tutte le chiese furono spogliate dei vasi sacri, delle immagini, dei candelabri e quanto non si poteva asportare veniva semplicemente distrutto. Anche la basilica di S. Sofia venne completamente saccheggiata, l’altare fu spezzato, gli arazzi fatti a pezzi. Un cronista dell’epoca, testimone oculare, tramanda che una prostituta, seduta sul trono del patriarca, cantava strofe oscene in lingua francese. Mentre i veneziani si concentravano su quelle cose che avevano un grande valore, i francesi arraffavano tutto quello che luccicava e si fermavano solo per ammazzare e violentare. Le cantine vennero depredate e la città era piena di soldataglia avvinazzata che trucidava chiunque trovasse lungo il cammino. Cittadini venivano torturati perché rivelassero dove avevano nascosto i loro valori. I conventi furono presi d’assalto, le monache stuprate. Le donne furono violentate e subito dopo uccise; i bambini giacevano in pozze di sangue per le strade, nudi, già morti o morenti. L’inferno durò per tre giorni interi. Infine i comandanti degli assalitori intervennero, dettero ordine di cessare il saccheggio (tanto ben poco era rimasto da depredare) ed ordinarono che qualsiasi bottino doveva essere portato in tre chiese e sorvegliato da fidati crociati e veneziani. Questo perché il contratto prevedeva la spartizione dei beni saccheggiati: tre ottavi ai veneziani, tre ottavi ai crociati; il restante quarto era destinato al futuro imperatore. Fra l’altro i veneziani portarono a casa i quattro cavalli di bronzo che ornano (attualmente in copia) la Basilica di San Marco, l’icona della Madonna Nicopeia e molte preziose reliquie che ancora sono serbate nel tesoro di San Marco. I 4.000 sopravvissuti erano principalmente donne, che vennero consegnate nude ai Turchi, e bambini poi venduti come 11 schiavi. Così ebbe fine la quarta crociata che, istituita con l’intenzione di combattere i saraceni, aggredì e saccheggiò unicamente paesi cristiani. Da quel saccheggio furono portate in Occidente tantissime reliquie di inestimabile valore, tra cui – con altissima probabilità – anche la Sindone di Torino e il Sacro Chiodo di Milano. 4. LA FORMA DEL SACRO CHIODO DI MILANO: MA CHE COS’È VERAMENTE? Il santo Chiodo custodito in Duomo ha fatto parlare molto per la strana forma e ha indotto gli storici a considerare varie ipotesi sulla sua origine e funzione: non ci si spiega il perché di quella forma a punteruolo, con il groviglio di ferri più sottili e nella sommità un anello che lo sostiene. La tradizione che in modo improprio collega questo Chiodo con il racconto di Ambrogio lo interpreta come un morso per cavalli, da accostare alla Corona ferrea di Monza, secondo la tradizione leggendaria dell’intervento di Elena, madre di Costantino. Chiunque si disponga a osservare l’oggetto da vicino constata che poco assomiglia a ciò che comunemente intendiamo per chiodo. Si tratta in realtà di una punta metallica, lunga circa 23-24 centimetri, su una delle cui estremità si trova non una “testa”, ma un anello in cui è inserito un altro anello più grande. Insieme a un robusto filo di ferro è unito anche un altro oggetto, un cavallotto, che presenta due ulteriori anelli alle estremità. Questo non ha proprio nulla a che vedere con un morso di cavallo… Una convincente interpretazione, che dà anche valore storico più profonda alla reliquia custodita in Duomo, è stata espressa dall’ingegner Ernesto Brunati in due studi di una quindicina di anni fa (E. BRUNATI, Pensando alla crocifissione, in Collegamento pro Sindone, 1996, May/June, pp. 24-35; ID., Il Santo Chiodo del Duomo di Milano, in Collegamento pro Sindone, 1999, May/June, pp. 13-34). 12 Il chiodo vero e proprio (A) termina da un lato con la punta (C), dall’altro con un anello (B); a questo anello se ne trova agganciato un altro (D). Insieme al chiodo si conserva un cavallotto (G) con le estremità ad anello (E), e un filo di ferro (H). (Disegni originali di Ernesto Brunati) Secondo lo studioso l’interpretazione tradizionale (del morso) va abbandonata, dal momento che proprio quella strana forma può al contrario spiegare molte delle difficoltà che si presentano circa la pratica della crocifissione nel mondo romano. Quel chiodo pare effettivamente essere stato utilizzato per il genere di supplizio che fu inflitto anche a Gesù. L’apparente stranezza che ci colpisce deriva dal fatto che il nostro immaginario su questo tema è stato deformato dalle rappresentazioni 13 iconografiche tradizionali, fatte da gente che le crocifissioni non le aveva mai viste praticare (come appare anche dalle classiche ferite nel palmo delle mani, in contraddizione con le impronte sulla Sindone). I Romani (come i Persiani e molti altri popoli orientali) mettevano in croce parecchia gente e risparmiavano anche sui chiodi, non solo con il reimpiego dei patibula. Il recuperarli era più difficile se picchiati fino in fondo nel legno del “patibulum”, cioè nella sbarra trasversale che il condannato si portava sulle spalle fino al luogo dell’esecuzione dove erano già fissi in permanenza i pali verticali (stipites). I condannati erano invece trafitti a terra nel metacarpo con il chiodo a forma di punteruolo e legati ad esso attorcigliando il filo di ferro al cavallotto. Era poi il chiodo stesso ad essere agganciato al palo trasversale della croce con il suo anello. Soltanto dopo, eventualmente, si “inchiodavano” anche i piedi del condannato a un’asticella di legno, perché il peso del corpo appeso non lacerasse il braccio. Dunque, quello che vediamo oggi nel chiodo di Milano non è un ferro rimodellato per ricavarne un “morso” per il cavallo, ma con tutta verosimiglianza un ferro originale impiegato per appendere i condannati sulla croce. Ma è proprio il chiodo che ha trafitto il braccio di Gesù? Tutto quanto si è detto fin qui non risolve il problema dell’autenticità del santo Chiodo custodito nel Duomo di Milano, ma neanche toglie autorevolezza 14 al culto pubblico che la Chiesa ha riservato e riserva a tale reliquia, perché sappiamo che il culto delle reliquie (e delle sante icone) è sempre un culto «mediato», in cui la venerazione non va direttamente alle immagini o alle reliquie esposte per se stesse, ma esclusivamente a ciò che esse rappresentano e ricordano. In questo caso, il richiamo – anche da un punto di vista storiografico più preciso – il Santo Chiodo ci riporta a contemplare la terribile morte in Croce di Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio, veramente morto per l’ingiustizia umana e veramente risorto per la potenza del Padre, capace di vincere anche la morte. 15