lessico della gioia - LA GIOIA È UN TURBINE DI QUIETE

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lessico della gioia - LA GIOIA È UN TURBINE DI QUIETE
1
Lorenzo Gobbi
LESSICO DELLA GIOIA
Nuova edizione rivista
Prima edizione: Qiqajon Comunità di Bose
Magnano (BI) 1998
Nuova edizione: Servitium Edizioni
Fontanella di Sotto il Monte (BG) 1998
©1998 QIQAJON
©2008 SERVITIUM
©2014 LORENZO GOBBI
2
A Paola (1962-1998),
che fu mia moglie: filatrice
impareggiabile di gioia.
Possa il suo ricordo essere benedizione
per me e per tutti.
3
Premessa alla nuova edizione
E’ una grande emozione, per me, consegnare il manoscritto di questa nuova edizione
rivista di Lessico della gioia. La prima, uscita nell’aprile del 1998 presso le Edizioni Qiqajon
Comunità di Bose, presto ristampata e velocemente esaurita, non era più disponibile da
diversi anni. Ho ritoccato un po’ il testo di allora, apportando modifiche alla
punteggiatura ma soprattutto eliminando ausiliari, possessivi e dimostrativi in eccesso
che scorrazzavano qua e là come leprotti bizzarri, assieme alle orrende “d” di
riempimento, tutt’altro che eufoniche, e a molti dei trattini che utilizzavo, chissà perché,
con ingenua pervicacia. Non ho in alcun modo, però, alterato né la sostanza né la
struttura, neanche là dove avrei voluto aggiungere o togliere sensibilmente. Questo
nuovo volume, dunque, riprende il testo della prima edizione, con lievi e diffusi
aggiustamenti stilistici.
Lessico della gioia nacque tra il 1996 e il 1998, in un difficile periodo della mia vita,
segnato da gravi difficoltà di lavoro e di altro, e dalla malattia feroce e implacabile che
colpì Paola, mia moglie, poco più che trentenne (come me, del resto…). Scrissi per sua
volontà: a casa, nelle sere vuote della sua presenza fisica (“Vai a casa”, mi diceva, “e
scrivi ancora qualcosa sulla gioia… domani me lo leggi…”), o in ospedale, vegliando il
suo sonno. Quando uscì, a lei dedicato, fu una delle sue ultime gioie: anche per questo,
mi è particolarmente caro.
Avrei voluto aggiungere, e molto: il colloquio è continuato, nel segreto, in tutti
questi anni1.
Ho compreso, ad esempio, che il tempo è una pulsazione: diastole e sistole, ritmo
che è dentro di noi e che cresce con noi. Non siamo noi a muoverci in lui: è lui,
piuttosto, che vive in noi, e da noi si fa portare. Muore e rinasce: è intessuto di stagioni
che si compiono. Nulla finisce: tutto si compie, e cede il posto a ciò che seguirà. Le rose
verranno a maggio: non saranno al posto di quelle della scorsa primavera, ma
esattamente nel proprio luogo, in un tempo che sarà tutto loro. Le rose trascorse hanno
lasciato in dono un’eredità di terra e sole, d’aria e pioggia: una benedizione, un ricordo. Il
tempo muore, perché è costituito da una successione di battiti, ciascuno bastante a se
stesso. Il tempo nasce, perché viene nuovamente creato. Ogni inizio è un inizio assoluto:
al mattino, siamo nudi e appena creati, e ospitiamo in noi la vita del giorno passato
trasformata in vita nostra, ma mai pretenziosa – nascosta, dissolta nel fluire del sangue,
dispersa nell’energia che ci solleva dal letto e ci conduce fuori, nella successione delle
ore. Il tempo nuovo entra nel nostro organismo, e in esso viene assimilato, trasformato,
1
Una parte di tale colloquio si trova ora in Le api del sogno. Per Emily Dickinson, Amherst, Mass., di
prossima pubblicazione presso Servitium, e in “Beato l’uomo…”. Il Dio presente, fonte della gioia: alcuni spunti
biblici, “Servitium – Quaderni di ricerca spirituale”, n. 175, Serie terza, anno XLII, gennaio-febbraio
2008, pp. 23-33.
4
assorbito e fatto materia vivente, ma diversa da sé. Sa di essere seme che muore. Prepara
doni per ciò che verrà2.
Ho compreso anche che esiste una disciplina della gioia: cose da fare e cose da
non fare, piccole e quotidiane; persone da ascoltare e persone da cui distogliere lo
sguardo con retta intenzione, come ci dice il Salmo 1: “Ashré ha’ìsh ashér…”, “Beato
l’uomo che non cammina nella via degli empi, non si ferma con i malvagi e
nell’assemblea degli schernitori non si siede”. “Wehajàh ke’etz…”, prosegue il Salmo: “egli
sarà come un albero piantato presso corsi d’acqua, che dà il suo frutto a suo tempo, e il
suo fogliame non appassirà”.
Come quest’albero vorrei diventare: dare i miei frutti al tempo esatto, mutare
come è giusto al mutare delle stagioni, nascere e morire, subire volentieri i pregi e i difetti
del luogo in cui mi trovo, esposto alla pioggia e al gelo, al sole e al vento. Dubito che un
albero si annoi: al proprio interno, in ogni stagione ospita un intenso lavorìo vitale, un
fluire di linfe e un prepararsi di foglie e frutti; accresce i propri rami e il proprio tronco
con i frutti del proprio incessante elaborare; trasforma in tronco, rami, foglie e frutti ciò
che le radici gli permettono di assorbire. La sua vita, che si sviluppa nelle stagioni,
dipende da ciò di cui si nutre cercando nel terreno circostante - in un luogo favorevole
che gli è stato donato, perché nessun albero sceglie dove nascere. Ciò che vive è una
fedeltà al tempo, alle stagioni e alla propria natura: vive in obbedienza; dà frutti propri,
che nessuno può giudicare inadatti al paese o indegni della terra; essi giungono al tempo
adatto. Non ha alcun indennizzo per il ramo schiantato dal fulmine, né per le gemme
bruciate dal gelo; cresce, è fecondo a modo proprio: è pienamente se stesso, secondo la
propria specifica natura; il suo unico merito è nell’ostinazione delle radici, nella fedeltà
delle linfe; dei suoi frutti e della sua ombra chiunque potrà godere3.
(Il Salmo dice anche: “tutto ciò che fa, riuscirà”. Mi permetto di nutrire qualche
dubbio…)
Per queste e per altre ragioni, ho preferito non aggiungere nulla al mio Lessico della
gioia di allora: è bene ciò che è compiuto rimanga com’è.
Desidero esprimere ancora la mia gratitudine a Pier Paolo, mio fratello, che per
primo ha stimato questo lavoro, rivedendone allora il manoscritto e spendendovi
generose fatiche; soprattutto, nel febbraio del 1998, egli volle condividere con me la gioia
del proprio recente incontro con la Comunità di Bose, all’insegna della gratuità. Un
rinnovato ringraziamento va a fr. Enzo Bianchi, priore di Bose, che ha sfogliato allora il
manoscritto con mani generose, accogliendolo prontamente nel catalogo delle Edizioni
Qiqajon Comunità di Bose; e ai fratelli e alle sorelle della Comunità monastica, per la
stima e la vicinanza.
2
Di queste riflessioni, ho scritto in Carità della notte. Sul tempo e la separazione in alcune poesie di paul Celan:
una lettura personale, Servitium, Bergamo 2007.
3
Si veda, a questo proposito, il mio articolo“Beato l’uomo…”. Il Dio presente, fonte della gioia: alcuni spunti
biblici, “Servitium – Quaderni di ricerca spirituale”, n. 175, Serie terza, anno XLII, bennaio-febbraio
2008, pp. 23-33, dal quale riprendo qui, condensandoli, alcuni spunti.
5
Altra gratitudine, nuovissima e immensa, è dovuta a p. Espedito D’Agostini e a
Fabio Amigoni, rispettivamente direttore e redattore delle Edizioni Servitium, che hanno
pensato e voluto questa nuova pubblicazione, a dieci anni di distanza dalla prima: non
me lo aspettavo, e non speravo più che questo libro potesse tornare a vivere.
E un grazie, sempre, a Maddalena (Layla): lesse la prima edizione di Lessico della
gioia, mi scrisse, prendemmo a sentirci, poi a vederci, e ora… è mia moglie! E’ un motivo
in più, per me, e non certo piccolo, per aver caro questo libro. A causa di lei, vivo ogni
giorno nello stupore: lei è mia gioia e mia allegria, nella bontà faticosa dei giorni. Di ciò
che ho vissuto e vivo con lei, non rinuncerei a un solo istante.
L. G.
Verona, febbraio 2008
6
LESSICO DELLA GIOIA
7
1
Credere alla gioia
Omissions are not accidents
MARIANNE MOORE
Per dire la gioia, forse, non c’è che il lessico della luce. Lo usò mirabilmente, un tempo,
Marsilio Ficino, per spiegare che “niente più della luce richiama la natura del bene”:
In primo luogo, nell’ordine sensibile la luce ci appare la cosa più pura e più eminente; in
secondo luogo, la luce più agevolmente e ampiamente di tutto si diffonde nell’istante; in
terzo luogo, senza nuocere si diffonde su tutto e penetra in tutto in modo lievissimo e
sommamente blando; in quarto luogo, reca seco un calore vitale che tutto riscalda,
genera e muove; in quinto luogo, ha tutto presente, da niente viene indebolita e non si
mescola a niente…
Infine, tale è la luce… E forse la luce è la stessa vista dell’anima celeste 4…
Davvero queste parole sembrano dette per la gioia. Come la luce, la gioia ci mostra nel
mondo altezze e profondità: dimensioni impensate che essa misura, dilata ed esalta senza
violarle, con delicatezza davvero inesprimibile - al punto che è impossibile, spesso,
rendere ragione: a volte una gioia improvvisa ci sorge nell’animo e lo invade come una
luce soffusa, muta sulla propria origine. Come una luce raccolta alle porte del mondo o
nascosta tra le sue vene, dispersa alle radici dell’essere, la gioia sembra in attesa di un
varco, di una ragione anche solo apparente per irrompere intatta nel mondo.
Perché non credere alla gioia? La sua autorevolezza è assoluta, indubitabile: ne
basta appena il presentimento, perché la nostra esistenza muti radicalmente. Essa si
impone in noi e attorno a noi con una forza che è tutt’uno con la sua delicatezza:
delicato, gentile diventa l’uomo che accoglie le sue meraviglie. Sorge in noi una forza
nuova che ci permette di instaurare con tutto e con tutti relazioni inaudite, rinnovate.
Tutto si fa lieve, in noi e attorno a noi, ed esplode in una pienezza che non avremmo
mai immaginato, rivelando potenzialità insospettate. Tutto, alla presenza della gioia, è in
contatto con tutto: la gioia unisce, rivela corrispondenze segrete e fili sottili che legano le
cose l’una all’altra in unità nuove, ricche di significati. La nostra vita – “dono vano, dono
casuale” 5 – acquista una pienezza di senso che le sembra di avere sempre posseduto, ma
che solo ora risplende una volta per tutte: nella luce della nostra gioia. Alla danza che
sembra animare il nostro essere, con una fisicità prepotente, tutte le cose rispondono
con un identico ritmo, come se fossero da sempre in attesa del nostro cenno per
abbandonarsi al miracolo che le raduna attorno a noi. La festa si allarga all’intero
universo: finché dura il prodigio, siamo il suo cielo e il suo centro.
4
Marsilio Ficino (XV sec.), De sole, in Prosatori latini del Quattrocento, a cura di Eugenio Garin, Classici
Ricciardi-Einaudi, Torino 1977, vol. VII, pp. 970-973.
5
Alexander S. Puškin, Opere, a cura di Giovanni Giudici e Giovanna Spendel, Mondadori, Milano 1990,
p. 83.
8
E’ vero che presto tutto tace – al nostro primo mutamento: tutto si arresta,
mentre i significati che ci erano apparsi, luminosamente vitali, lasciano il posto all’aridità
di un gelo intollerabile. Le figure amiche, protese al nostro abbraccio, rivelano profili
sinistri, colmi d’inquietudine: come in una selva infernale, o in un deserto popolato di
rocce che il vento abbia scavato in forme quasi umane. Eppure, perché non credere alla
gioia? E’ come se, per qualche istante, un breve incanto rianimasse un castello assopito
negli effetti di un maleficio, e restituisse le statue che ancora vi dimorano all’antica vita
umana: alla festa che celebravano allora, quando la maledizione fu scagliata.
Ammettiamolo senza paura: ci circonda un gelo infinito, sterminato. Ci appare
una distesa immensa di spazi, ma non ci appartiene se non in piccolissima parte. Le voci
si perdono poco oltre la soglia delle labbra, gli sguardi si dissolvono a poca distanza dagli
occhi, e il nostro amore non sembra bastare. Abbiamo lo sguardo, abbiamo le parole;
sono nostri il tatto e la misura, la prospettiva, i significati e i sensi che le cose sembrano a
volte rivelare: anch’essi, però, appaiono estranei alle cose che vorrebbero cogliere ed
esprimere. Eppure, tra l’uomo e la luce (o il mare, il fuoco, la luna…) può nascere, come
un miracolo, un’intimità misteriosa: è bello pensare che le cose stesse ne gioiscano,
esattamente come l’uomo. Tra noi e loro si instaura una corrispondenza segreta ma vera:
è il miracolo tutto umano dell’espressione. Abbiamo un mondo da esprimere, da
chiamare all’essere ancora e ancora, in modo sempre nuovo: esprimendole, plasmiamo le
cose. E’ come se il mondo vero non fosse soltanto di carne, né solo di acqua, aria, terra e
fuoco, ma anche di sguardi e pensieri che scoccano e si perdono in un attimo,
nell’infinito silenzio del cosmo.
Una volta espresso, il mondo acquista significati e sensi che sembrano estranei alla
materia che lo compone: l’oro è solo un minerale dotato di particolari caratteristiche
fisiche, ma per noi è un prezioso pegno d’amore; il cobalto rappresenta la serenità,
mentre la giada è augurio di felicità e fortuna; il frumento e la vite, oltre al nutrimento
per le nostre cellule, danno frutti che gli amici consumano insieme, l’uno in onore
dell’altro, mentre da sempre le foglie impersonano il nostro destino6. E’difficile pensare
che la gioia sia estranea a tutto ciò: in suo nome, ogni cosa sembra chiamarci per
dialogare con noi… eppure, in ogni sua voce riconosciamo il fluire del nostro sangue
trasformato in ritmo di danza. Difficilmente potremmo nominare le cose in questo
modo, se non avessimo in noi la gioia.
La prima delle parole nacque, forse, da un primigenio stupore. In noi parla la
terra: noi la esprimiamo, perché siamo piante della terra. Tutto in noi è materia: aria,
acqua, terra e fuoco. Le scintille che scoccano lievi dai nostri dendrìti – là dove, come
minuscoli ippogrifi, particelle minerali le scortano da una cellula all’altra – sono della
stessa sostanza delle fibre verdi delle piante: la nostra anima è questo, materiale e
terrestre, ma compie miracoli davvero celesti.
6
Così già in Mimnermo (VII secolo a. C.), fr. 8 Gentili-Prato: “Al modo delle foglie che nel tempo
fiorito della primavera nascono e ai raggi del sole rapide crescono, noi simili a quelle…” (Lirici greci, tr.
di Salvatore Quasimodo, Mondadori, Milano 1960).
9
“L’anima – scrisse Cassiodoro – è luce… quando pensiamo, sentiamo che c’è in
noi un non so che di tenue, leggero, luminoso, che riesce a vedere senza la luce del sole e
senza l’aiuto di altri lumi”7. Questo elemento misterioso non può essere che la nostra
gioia: tenue, leggera, davvero luminosa, essa riesce a scorgere forme impensate,
senz’altro aiuto che la propria natura. E’ difficile pensare che non esista in noi un senso
che le corrisponda e che reagisca alla sua fosforescenza, come fanno alcuni minerali con
le gradazioni nascoste della luce; forse l’anima vi si identifica completamente, al punto da
formare con quel senso un’unica realtà. Come la gioia e lo stupore non vivono l’uno
senza l’altra, e non sono pensabili separatamente, così la nostra gioia sembra
intimamente connessa alla nostra identità irrinunciabile, tutta umana e terrestre, che
chiamiamo con un nome semplice e celeste. Non ci è difficile, infatti, cogliere in noi
qualcosa che ci distingua da tutte le cose, pur riconoscendoci materiali e terrestri come
loro; e non è un male chiamare con il nome di anima la particolarità della nostra natura
che ci permette di esprimere con gioia le cose, donando loro un significato tutto umano.
La gioia è tutt’uno con lo stupore, ma è anche inseparabile dall’amore - dal nostro
amore: unico e particolare, esso decide della nostra esistenza. “Dall’amore – scrisse Ugo
di San Vittore – viene tutto ciò che è bene, e tutto ciò che è male ne deriva. Quale che
sia, esso è in noi qualcosa di grande, e ne discende tutto ciò che viene da noi: questo è
l’amore”8. E’ certo che anche la nostra gioia ha qui la propria origine: essa ci giudica
rivelando la qualità del nostro amore. Chi ama poco o ama male impoverisce tutte le
cose, privandole della possibilità di essere espresse nella gioia.
Sono così differenti i modi di amare, che è come se esistessero anime difformi
quanto alla sostanza, portate ad amare così diversamente da far pensare all’incontro, nel
mondo, di popoli distinti, di vere etnìe spirituali; o, piuttosto, è come se esistessero sensi
diversi di un’anima unica dispersa nelle cose, capace di gustarle in vario modo a seconda
del luogo in cui si trova. Così la nostra lingua, pur essendo una, avverte il dolce sulla
punta, il sale ai lati, l’amaro al centro. L’amore, scrisse ancora Ugo di San Vittore, “è il
palato dello spirito”9: attraverso l’amore, l’anima coglie il mondo nei suoi diversi gusti.
L’amore suscita in noi il senso della gioia, con il quale l’anima è tutt’uno: attraverso
l’amore, è possibile esprimere le cose nella gioia e cogliere la gioia che esse ci rimandano,
in risposta alla nostra voce; dall’amore, l’anima riceve il particolarissimo modo di
esprimersi che la rende unica e individuale. Chi ama poco o ama male impoverisce se
stesso: è simile a un tronco contorto, nella cui cavità anche il più puro dei suoni
rimbomba orribilmente. Anziché esaltarle nell’atto di esprimerle, egli umilia le cose: esse
potranno solo moltiplicare e ripetergli, come se appartenessero a loro anziché a lui,
l’aridità e l’inconsistenza della sua umanità. Comunque sia, è certo che il mondo
7
Cassiodoro (V-VI secolo), De anima, in L’anima dell’uomo. Trattati dal V al IX secolo, a cura di Ilario
Tolomio, Rusconi, Milano 1979, p. 159.
8
Ugo di San Vittore (XII secolo), De substantia dilectionis, in Six opuscules spirituels, a cura di Roger Baron,
Paris 1969 (“Sources Chrétiennes” 155), p. 59 (la traduzione sopra riportata è dello scrivente; ora è in
Ugo di San Vittore, Conversando sull’amore, a cura di Lorenzo Gobbi, Il filo di Partenope, Napoli 2006).
9
Ugo di San Vittore, De substantia dilectionis, p. 86.
10
intimamente amato, gustato nel nome dell’amore, è così pervaso di significati e così
aperto alla gioia da suggerire per noi e per sé una foce infinita - e tendere a un’unica,
immensa esultanza. La suggerisce anche la nostra anima terrestre, che sa amare e gioire
in un modo che non è di questo mondo.
Nella nostra vita, certo, non c’è solo la gioia: altro ne popola i giorni, ma non è
bene parlarne per non rafforzarlo con il nostro consenso. Sta a noi scegliere a chi o a che
cosa vogliamo chiedere ragione della nostra intera esistenza: nella convinzione, cosciente
o meno, che essa sia un mistero semplice e che un’unica parola basti a rivelarla.
“Omissions – scrisse Marianne Moore – are not accidents”: spetta a noi riconoscere
nell’essere stesso una gradualità di sensi e di significati, e affidarci alla nostra scelta per
trovare pace.
Tra le molte domande che promettono la parola risolutiva, ce n’è forse una sola
capace di mantenere una promessa mai formulata ma solo accennata, come è nel suo
stile: la domanda sulla gioia. Possiamo porla a noi stessi in modi diversi, ma è bello farlo
chiamando a raccolta le nostre parole, perché in esse la terra si dona svelando al
contempo noi stessi. Faremo nostro, allora, il vanto di Gottfried Benn:
Tante volte ho chiesto a me stesso senza trovare risposta
da dove venga la delicatezza e il bene,
neanche oggi lo so, e ora devo andare10.
10
G. Benn, Aprèslude, a cura di Ferruccio Masini, Einaudi, Torino 1994, p. 50 (la traduzione sopra
riportata è dello scrivente, ed è tratta dal suo volume Elogio del frammento, Verona 1995. D’ora in poi,
salvo diversa indicazione, si intende riportata la traduzione italiana presente nell’edizione citata nel
corredo di note).
8
2
La gioia intorno
Vieni, è la gioia intorno…
Luce e ombra
S’alternano melodici,
dileguano oltre i monti
FRIEDRICH HÖLDERLIN
La gioia è l’esito di una liberazione: è sostanza di vita liberata. In essa, la nostra vita può
parlarci con infinita libertà, cioè con una sincerità disarmante. E’ ragionevole credere che
la gioia sia un rivelarsi fulmineo del mondo e del suo senso, e che scaturisca innanzi tutto
dalla prossimità dell’essere stesso che si dona a noi nel linguaggio che più gli è
congeniale: immagini, bagliori e luccichìi. Ce lo conferma Hölderlin , in uno dei suoi
sorprendenti colloqui con Diotìma:
Vieni, è la gioia intorno. Al bosco i rami
sono vento nel fresco della brezza
come ricci alla danza, e il cielo
è uno spirito lieto
che al suono della lira
ritma sopra la terra
pioggia e luce di sole. Sulle corde
un brulichìo molteplice di suoni,
battaglia innamorata.
Luce e ombra
s’alternano melodici,
dileguano oltre i monti.
Prima il cielo sommesso tocca il fiume
fraterno d’una gocciola d’argento.
Prossimo ora agita
la preziosa pienezza del suo cuore
sul bosco e il fiume, e - 1
Una pioggia primaverile, rapida e leggera, è l’immagine stessa della gioia. Il cielo la
alterna sapientemente alla luce del sole, come due aspetti di un unico dono che ne svela
la “preziosa pienezza” – quella stessa che si “àgita” in prossimità delle cose, pronta a
rivelarsi in questa armonia. Ciò che scende dal cielo non può che apparire “fraterno” al
fiume su cui si posa e con cui immediatamente si confonde, e non può che essere
riconosciuto come tale: l’acqua è la stessa, sia che venga dal cielo sia che al cielo ritorni, o
che dimori per poco sulla terra, tra gli argini verdi, senza perdervi la propria rapidità. In
suo nome “la terra / giovane e tersa / esce coi figli lieti dal lavacro”2. Il “lavacro”
purifica la terra, rendendola “giovane e tersa”: pronta alla vita rinnovata, fiera di se
stessa, restituita a uno stato originario. I suoi figli ne sono “lieti”, e ne seguono la sorte:
1
Friedrich Hölderlin, A Diotìma, in Diotìma e Hölderlin, a cura di Enzo Mandruzzato, Adelphi, Milano
1984, pp. 128-131.
2
Ibid.
8
9
rivelati e restituiti a se stessi nel semplice atto della contemplazione. L’amore non è
estraneo a tutto ciò: il prodigio che avviene sotto i nostri occhi è una “battaglia
innamorata” che dell’amore ha tutto il “brulichìo molteplice” – ed è bello pensare a
quale rigoglio improvviso d’amore lo spettacolo di questa gioia universale e terrestre
possa aver provocato nei due amanti, Diotìma e Hölderlin, che avranno certo
riconosciuto se stessi nel cielo e nella terra.
Se veramente Freude è da riferirsi all’antico tedesco Froh (perché ogni lingua è
un’intuizione del mondo, un rivelarsi concreto dell’essere in una fisicità nuova), e se
l’incerta etimologia si può ricondurre al significato di “svelto, veloce”, come per l’inglese
moderno frow3, non c’è che da chiedersi su quale rapidità l’espressione si formi: a quale
velocità voglia dare sostanza e figura. Verrebbe da pensare a una caratteristica interna
della gioia: la sua abitudine di lasciare rapidamente le nostre vite, di trascorrere in esse
come un vento che presto si perde ai confini del nostro piccolo essere, così facili da
raggiungere – o come la pioggia, che percorre velocemente, per la propria natura, lo
spazio che la separa dalla terra. Anche la luce del sole, altra immagine perfetta della gioia,
altro elemento che rende possibile il rigoglio della vegetazione terrestre, gode di una
rapidità senza rivali nell’ordine della natura. Ma è forse più giusto scorgervi
l’accelerazione che essa sembra imprimere sia alla nostra anima, proiettandola oltre se
stessa, sia alle cose che al nostro vibrare rispondono, animate da identico slancio.
Colpisce, nel testo di Hölderlin, che la gioia attorno agli amanti sia il dinamismo
di una fecondità liberata, di un rigoglio finalmente pronto a essere destato perché possa
dare frutti; e che ogni descrizione della gioia si accompagni, sempre e dovunque,
all’immagine di un fiorire incontenibile del mondo. Colpisce anche la rapidità e
l’immediatezza assoluta dell’identificazione: ciò che accade sotto gli occhi degli amanti è
la gioia stessa. La pioggia non sembra porsi alcun fine, né presupporre alcun osservatore:
è un puro accadere, un apparire provvisorio e gratuito. Colui che contempla però, la
riconosce all’istante e non le chiede nulla, nemmeno di durare ancora o di tornare al più
presto a visitare la terra: si limita a osservarla, e invita l’amata a fare altrettanto. Senza
questo reciproco rispetto, senza questa delicatezza infinita, difficilmente Hölderlin
avrebbe potuto pronunciarne il nome con tanta sicurezza. Soprattutto, il suo dire sembra
inserirsi spontaneamente, come un atto di devozione, nella liturgia terrestre e celeste che
il mondo sta celebrando proprio in quell’istante, incurante dello sguardo dell’uomo. Altri,
certo, avranno visto quella stessa pioggia e saranno passati oltre senza accorgersi di nulla;
qualcuno, forse, l’avrà profanata con parole insensate, o con un’indifferenza colpevole;
essa, però, non se ne sarà minimamente curata, assorta nel proprio celebrare.
Viene da chiedersi anche in nome di cosa il poeta possa averla riconosciuta così
chiaramente, con istinto sicuro, fino a pronunciarne il nome esaltandone la sacralità. Lo
univa a lei, forse, l’assoluta gratuità della presenza e la totale disponibilità alla
contemplazione. Gratuitamente e con discrezione, benché con disarmante evidenza, la
pioggia cercava la terra e suggeriva, così, l’essenza stessa della gioia: la rendeva
3
Si veda Sandra Bosco Coletsos, Le parole del tedesco, Garzanti, Milano 1993, pp. 216-217.
9
10
fisicamente presente. E’ difficile, però, credere che essa cercasse occhi attenti, capaci di
scorgerla: forse, il miracolo accadde perché Hölderlin l’attendeva con speranza, in una
tensione insostenibile ma con altrettanta discrezione, senza tentare di provocarlo.
Anch’egli, probabilmente, è stato còlto come di sorpresa dalla parola che ha catturato il
prodigio esultando, per trapiantarlo nei giardini tutti umani dell’espressione.
La lingua tedesca ospita altre parole nell’area semantica in cui Freude regna
incontrastata: nessuna, però, che possa starle a pari. E’ degna di nota Seligkeit,
“beatitudine”, dalla radice sal-; nell’alto tedesco antico è salida, ed esprime la beatitudine
che volle visitare l’età cavalleresca per cadere, poi, nella dimenticanza4. Possiamo
immaginare la gioia del cavaliere nell’orgoglio delle armi e delle insegne, nella devozione
generosa e ardente, nel fervore di un’assoluta dimenticanza di sé in omaggio all’ideale
della propria consacrazione; e anche nella fiera certezza del dovere perfettamente
compiuto senza interesse alcuno. Nel testo del Deutsches Requiem di Brahams, Seligkeit è la
beatitudine dei morti che hanno portato a compimento la loro fatica terrena nella
giustizia della fede. Come un antico signore feudale, il Signore per eccellenza li
ricompensa con una gioia celeste, immateriale e inimmaginabile: l’immancabile e giusta
ricompensa, che sa di legittima e quieta soddisfazione più che di gioia propriamente
detta.
La lingua tedesca non ha solo parole: ha anche le voci della sua musica. Nella VII
Sinfonia sembra che Beethoven, allo stesso modo di Hölderlin, abbia còlto attorno a sé
una danza universale, un’esultanza di atomi e molecole, di galassie e di universi. Tutti i
gradi dell’essere si incontrano e si fondono di fronte a noi che li percepiamo vibrando, e
ci troviamo fisicamente coinvolti nella fisicità del loro ritmo: esso pare trasmettersi ai
battiti del nostro cuore, alle pulsazioni del sangue nelle nostre vene. Così è anche nel
Quartetto op. 132, che racchiude un Canto di ringraziamento alla divinità di un uomo che ha
riavuto la salute: un affluire di forze, una pace, una fecondità nuovamente possibile; una
gratitudine immensa che si ricrea in noi che semplicemente ascoltiamo, e non ci lascia
più.
Sarebbe in errore chi pensasse alla musica come a un linguaggio immateriale: la
sua fisicità, come quella della nostra voce, è un particolare modo di esistere della materia,
dell’aria che vibra e trasmette il proprio moto da una particella all’altra, fino a quando le
venga meno l’energia necessaria e ritorni allo stato di quiete. Abitatrice sovrana del
tempo, come la voce, anche la musica talvolta costringe se stessa alla cattività di una
pagina bianca; come le lettere dell’alfabeto, però, anche queste sue immagini restano
nascoste, in attesa, mute nella solitudine, fino a quando un uomo dotato di rara sapienza
non ne liberi l’energia donandola all’aria e distribuendola nella rapidità regolare del
tempo. Anche gli antichi, del resto, concepivano i segni dell’alfabeto come ordini diretti
alla voce e tenuti in serbo sul marmo o sul papiro, e non leggevano che a voce spiegata.
A distanza di molti anni, Agostino ricordava come un fatto straordinario che il vescovo
Ambrogio leggesse silenziosamente, senza muovere le labbra, e ancora si sforzava di
4
Si veda S. Bosco Coletsos, Le parole del tedesco, p. 216.
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comprenderne la ragione: per non essere trascinato in una discussione su quanto andava
leggendo da un visitatore indiscreto, o per risparmiare la voce, che aveva debolissima 5.
Nella Grecia antica, poeti spesso anonimi componevano epitafi in cui la voce del
passante, ritto di fronte alla tomba, risuonava a nome della tomba stessa, o di colui che
vi s’era nascosto per sempre, o ancora, si levava a rivolgergli un augurio pacato: “Ti sia
lieve la terra…”6. Come per le parole, certo, è bello pensare che elementi della musica
possano prendere vita anche senza essere fisicamente prodotti, nell’oscurità segreta della
mente: ma ciò non è che un prodigio della memoria, il cui sostrato è la pura materialità
della nostra coscienza. Eppure, nella musica crediamo di riconoscere, a volte, la presenza
stessa della gioia con un’evidenza indubitabile, perché davvero ci coinvolge fisicamente.
Essa non è un linguaggio immateriale: come potrebbe, altrimenti, essere percepito da noi
e trascinarci nel suo stesso moto? E’ questo, probabilmente, a renderla particolarmente
adatta ad ospitare la gioia: come la gioia, la musica è un moto che si propaga, un
particolare modo dell’esistere; come la gioia, la cogliamo in noi stessi nella forma di una
vibrazione.
Come Beethoven l’udì, Hölderlin vide realmente la gioia: le sue parole non sono
poetiche esagerazioni, né delicate immagini di una realtà puramente interiore. La gioia gli
apparve con evidenza immediata, in un linguaggio semplice al punto da essere
disarmante; del fatto che anche l’amata o chiunque altro potesse vederla con la stessa
chiarezza, entro i confini della realtà fisica, egli non dubitò minimamente.
5
Si veda Agostino, Confessiones VI 3,3 (“Corpus Christianorum”, Series latina XXVII, pp. 75-76). Da
questo passo prende spunto lo splendido saggio di Maria Tasinato, L’occhio del silenzio. Encomio della
lettura, Esedra Editrice, Padova 1997.
6
E’ formula tipica dell’epigrafia funeraria greca e romana, diffusissima e spesso ripresa dai poeti (si
veda, ad. es., Meleagro VI, 461 e Marziale V, 34; ma gli stessi esempi si potrebbero moltiplicare). La
frase tradotta sopra, per la verità, è la forma tipica dell’epigrafia latina: sit tibi terra levis, spesso cifrata in
STTL.
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3
“Proprio del gioco”
gioia < fr. joie < lat. gaudia, pl. di Gaudium
gioiello < fr. Jo(i)el < lat. jocale*, “proprio del
gioco”
E’ bello dare ascolto alle etimologie, e seguire con stupore le loro metamorfosi: è come
se il nostro comunicare giocasse con i significati con la stessa fantasia di un bambino che
scopra negli oggetti le funzioni più impensate, incurante delle loro destinazione
originaria. Colpisce anche la forma incerta con cui le parole sembrano entrare
timidamente nella lingua, pronte ad assumere il suono più gradito a chi le ospita sulle
proprie labbra. “Gioia” è da “gio’, gioi, gioglia”, dal francese joie, attestato attorno alla
fine dell’XI secolo e a sua volta riconducibile al latino gaudia, plurale di gaudium; già in
Giacomo da Leniti e in Iacopone da Todi troviamo rispettivamente “gioia” e “ioia”,
giunti attraverso l’elegante joi dalla lirica provenzale1. L’aggettivo corrispondente,
“gioioso”, è da gaudiosum attraverso l’antico francese goius, poi jous. Questa breve,
incantevole serie di suoni, dolcissima come un piccolo inciso dettato dall’affetto, ha
sempre condotto con sé due significati intimamente vicini, tra i quali è impossibile
stabilire una precedenza: gioia come pietra preziosa e gioia come inesprimibile stato
d’animo.
Le profondità della terra sembrano giocare con se stesse, in infinita libertà,
quando creano le pietre preziose impiegando simmetrie e architetture inaudite,
impensabili. Non pare che tanta bellezza e tanta dedizione abbiano uno scopo preciso,
né che siano destinate a qualcuno: chi ha la ventura di sorprenderne una, dopo lunghi
appostamenti e fatiche inenarrabili, si ritiene giustamente fortunato. Gratuitamente e
senza alcuno scopo, la terra le produce in sé, come per sovrabbondanza di vitalità, senza
curarsi del loro destino. Le custodisce gelosamente, è vero; ma non si oppone a chi le
scopra e le trattenga per sé, certa dell’onore che riceveranno. Sembra che esse
condensino in sé tutta la sapienza, la bellezza e la solidità di una materia che sceglie il
meglio di sé per donarsi – senza pensare ad altro che a offrirsi, semplicemente: incurante
di chi riceverà la grazia del suo dono.
Per godere di una gemma, è necessaria altrettanta gratuità: difficilmente chi si chiede
quanto costi può comprendere davvero quanto valga. Il suo valore è nella gratuità
disarmante, nella fioritura segreta e perfetta, nella perfezione ingiustificata della struttura.
Incurante di sé, la gemma esiste semplicemente; esistendo; si offre; acconsente a
qualunque destino - il nascondimento inviolato, la scoperta o la metamorfosi. E’ come se
l’immenso lavoro a cui la terra si sottopone per produrre un diamante, un quarzo o
1
Si veda M. Cortellazzo - P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna 1979-1988
(5 voll.), vol. II, p. 497.
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un’ametista fosse un gioco innocente: colpisce che la parola “gioiello” sia riconducibile,
attraverso il francese jo(i)el2, al latino parlato jocale3*, “proprio del gioco”.
Sia “felicità” che “letizia”, nelle loro radici latine, significano “fertile, fecondo”;
laetus, da laetamen, esprime la fertilità con una fisicità prepotente, tutta italica. E’ laetus
l’uomo che, come un campo appena concimato, sia stato posto nella condizione di
esprimere al meglio la propria fecondità; chi è felix, invece, è fecondo per natura, se pure
ha senso operare simili distinzioni. La terra feconda è l’immagine stessa della gioia, che è
sempre un rigoglio di vitalità, in potenza o in atto. E’ come se tra l’essere, l’esistere e
l’esprimere esistesse un’alleanza che continuamente si rinnova, negli atti mutevoli e
provvisori del nostro parlare.
Le definizioni che tentiamo di dare sembrano girare attorno alla gioia con la stessa
vivacità di uno stuolo di rondini che volano a scatti, descrivendo traiettorie spezzettate
fatte di tratti congiunti da angoli acuti, e di svolte improvvise verso tutte le direzioni
possibili nelle tre dimensioni dello spazio. Sembra che il centro dei loro voli, se pure
esiste, viva d’una mobilità pari alla loro, e che si sposti rapido con loro: per ubbidire,
forse, al proprio stesso desiderio di descrivere una figura regolare attorno all’irrequieta
vitalità del proprio centro. Così, ogni nostra parola insegue, la corteggia, le gira attorno e
descrive figure indefinibili, impossibili da ricondurre a ciò che ci è noto; ognuna richiama
tutte le altre, e convoca alleati necessari: le occasioni e le ragioni della gioia. Così,
riassumendo, il Grande dizionario della lingua italiana:
GIOIA: Vivo godimento dell’animo; temperata e serena certezza di chi è in possesso di
un bene ardentemente desiderato e sommamente caro, di chi è libero da dolori e da
sofferenze, da preoccupazioni e affanni; giubilo, gaudio.
2. Manifestazione di allegrezza, esplosione di giubilo (negli atti, nelle parole, nell’aspetto,
negli sguardi); gioconda esultanza, tripudio. 3. Ciò che è causa o occasione di diletto;
godimento; piacere, svago, divertimento; agiatezza, comodità; felicità, fortuna, successo.
Con riferimento alla dolcezza del sentimento amoroso; consolazione spirituale; con
riferimento alla beatitudine eterna; con speciale riferimento al godimento dei sensi. 4.
Bellezza, grazia, perfezione, magnificenza che impressiona gradevolmente lo spirito e i
sensi. 5. In senso concreto: persona (e in particolare donna) che per le sue rare
perfezioni fisiche e morali è oggetto di fervida ammirazione, di tenera compiacenza, di
appassionato amore, di premurose attenzioni (e può riferirsi anche ad animali o esseri
astratti personificati). Come appellativo (con una nota di delicata tenerezza)4.
Impressiona una simile manifestazione di solidarietà tra le nostre parole, che stringono la
gioia da più parti in un assedio incerto e appassionato; impressiona anche che le
definizioni di tutti i suoi sinonimi chiamino a loro volta a raccolta lo stesso piccolo
esercito, così da risultare quasi identiche – pur volendo cogliere della gioia una sfumatura
2
Attestato dal 1175, poi joyau, accostato a joie; si veda ancora M. Cortellazzo-P. Zolli, Dizionario II, p.
497.
3
La forma, come segnala l’asterisco, è ricostruita.
4
Grande dizionario della lingua italiana, a cura di S. Battaglia, UTET, Torino 1961, vol. VI, pp. 810-812.
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particolare o un singolo modo di esistere. Così, ad esempio, la definizione di “felicità”,
sempre nel Grande dizionario della lingua italiana:
Stato d’animo di chi si sente contento e felice perché possiede o crede di possedere ciò
che può soddisfare le sue necessità e appagare tutte le sue aspirazioni; vivo godimento
dei sensi o dello spirito; gioia dolce, serena, durevole; immunità da sofferenze fisiche e
morali, da ansie e da preoccupazioni5.
Un dizionario, certo, anche il migliore, tenta un’opera di sistemazione, di astratta
chiarificazione: interroga gli usi della lingua, riporta i più significativi. E’ meglio, forse,
interrogare le parole una per una, vedendole all’opera in altri contesti: là dove accolgono
la gioia sulla terra e la esprimono in un’intuizione viva e palpitante della terra stessa.
5
Grande dizionario della lingua italiana, V, pp. 795-796.
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4
Tutto era giusto
“Tutto era buono, tutto era giusto”
KATHERINE MANSFIELD
Energie incontenibili, calde di gratitudine, liberate d’improvviso nella nostra vita come
per effetto di una benedizione, di una benevolenza misteriosa ma vera, realmente
percepita: è questa la felicità per l’inglese bliss, accostabile a to bless, “benedire”. Se
possiamo dubitare che esista la felicità in sé, non possiamo negare di avere vissuto
momenti felici, sotto il segno della gratitudine: in ogni vita, prima o poi, entra un bene
inaspettato, e rinnova tutte le cose. Il miracolo accade, spesso, assieme a un fatto nuovo,
anche piccolo e insignificante: ci fa percepire immediatamente e con forza la realtà di una
benedizione che ci sovrasta, che ci è stata impartita come di sorpresa o che ci
accompagnava da molto, anche se ce ne accorgiamo solo ora. E’ come uno scatto della
coscienza: lo avvertiamo nella forma di un traboccare istintivo di gratitudine e di
tenerezza. Tutto ci è gradito, tutto suscita in noi una riconoscenza e un consenso
illimitati. E’ uno stato di benessere assoluto in cui persino i piccoli dolori (le minuscole
preoccupazioni, i fastidi insignificanti che in altre occasioni sanno portarci a rancori
insensati) sono oggetto di indulgenza paziente: la tenerezza ci invade, e ci disarma. Il
nostro corpo esulta, incontrollabile: cantiamo, o ci tratteniamo a fatica dal farlo e il canto
si espande appena a fior di labbra, sovrano dei nostri pensieri. Scendiamo le scale di casa
saltellando e sorridiamo sereni alla luce che filtra dai vetri smerigliati della porta,
intimamente persuasi; andiamo incontro con suoni teneri e infantili al gattino che dorme
accanto alla ruota della nostra auto, tendiamo la mano verso di lui che la rifiuta, incapace
di leggervi la linea profonda e nuova della nostra gioia, e l’allunghiamo allora verso
l’aiuola fiorita che ci soffermiamo ad accarezzare, come per rinsaldare un’amicizia antica.
Ci guardiamo intorno con stupore: è come se tutte le cose avessero congiurato fino a
oggi per la nostra felicità, con generosa discrezione, e solo ora volessero sorprenderci
con un fulgore abbagliante che è per noi, tutto per noi. Se ci assale un timore, è di non
saper ringraziare abbastanza; la nostra stessa felicità, però, ci rassicura.
Accadde questo a Katherine Mansfield quando incontrò John Millington Murry,
nel dicembre del 1911? Era giunta a Londra dalla Nuova Zelanda, in fuga da tutto e da
tutti, sola, spaventata e affamata di gioia come si può esserlo a ventitre anni; aveva avuto
due aborti, quattro amanti, un marito che aveva abbandonato; stringeva tra le mani
nervose le bozze del suo primo libro, certa di essere davvero una scrittrice. Ignorava a
quali delusioni quella felicità la destinasse1, come lo ignora Bertha Young, l’alter ego in cui
la Mansfield ritrasse la propria felicità (bliss) tradita:
1
A Murry scrisse nel 1918: “Mi hai ricacciata nella mia solitudine… Il nostro matrimonio. Non puoi
immaginare cosa avrebbe potuto rappresentare per me. Avrebbe dovuto risplendere al di sopra di
qualunque altra cosa nella mia vita. E dopo tutto non è stato che una parte dell’incubo”. Si veda A.
Guiducci, “La cometa Mansfield”, in K. Mansfield, Racconti, a cura di A. Guiducci, Rizzoli, Milano 1989,
15
16
Nonostante i suoi trent’anni, Bertha Young viveva ancora momenti come questo, in cui
aveva voglia di correre invece di camminare, di eseguire passi di danza su e giù per il
marciapiede, di giocare al cerchio, lanciare in aria qualcosa e poi riafferrarla, oppure
starsene lì, ferma, a ridere, a ridere di nulla, proprio di nulla. Che cosa volete fare se
avete trent’anni e, voltando l’angolo della strada, vi sentite sopraffatti all’improvviso, da
un senso di felicità, di assoluta felicità, come se aveste d’un tratto inghiottito un pezzo
lucente di quel tardo sole pomeridiano che vi bruciasse dentro, spargendo una
pioggerella di scintille in ogni intima fibra, in ogni dito delle mani e dei piedi? …
Quasi non osava guardarsi nel freddo specchio; eppure si guardò e le venne riflessa
l’immagine di una donna radiosa, dalle labbra tremanti atteggiate al sorriso, dai grandi
occhi scuri, in atto di ascolto, di attesa… di qualcosa di divino che doveva accadere… lei
sapeva che doveva accadere… infallibilmente2.
Il lembo di sole lucente che Bertha sente ardere in sé è come assimilato e diffuso nel suo
corpo di donna giovane e serena: ridotto a frammenti ma non impoverito, scorre caldo
lungo i filamenti dei nervi, acuisce i sensi, accelera i pensieri. E’ una luce che investe
tutto il mondo: vibra in lei ed esce da lei, incontenibile e piacevolmente irrequieta. Il
corpo torna alla mobilità dell’infanzia, o vi vorrebbe tornare con dolce insistenza. La sua
felicità si proietta all’esterno, nello spazio e nel tempo: nel futuro che sarà investito dalla
stessa benedizione e che vi risponderà con identica incontenibile gratitudine, o con
un’altra ancora più grande. Accade realmente a ciascuno di noi di leggere in ogni felicità
la promessa di un bene futuro ancora più alto, di un domani ancora più luminoso: la
profezia, ne siamo certi, non può mentire. E’ così calda, così piena la benevolenza che ci
investe, che sembra destinata ad aumentare indefinitamente, fino a un culmine che non è
stato ancora raggiunto. La nostra vita ha sorpreso anche noi mostrandosi capace di
accogliere in pienezza la felicità presente. Quella stessa felicità sembra sorridere tra sé per
la nostra gioia, come pensando: “Se è così felice ora, come lo sarà quando…?”. Il
presentimento risolve il nostro presente in un’attesa indeterminata; un timore vago lo
rafforza anziché mortificarlo. Riconosciamo in noi, come se fosse la prima volta ma con
assoluta certezza, una sovrabbondanza d’affetto che ci riabilita di fronte a noi stessi e ci
conferma la bontà della nostra natura: se qualche circostanza avversa l’aveva come
cancellata per un certo tratto, qual mancamento di pochi istanti ci appare insignificante a
confronto con la pienezza che solo ora si rivela in noi. La benedizione che c’investe,
certo, è un dono inaspettato: una grazia inspiegabile, meravigliosamente gratuita. Il senso
della nostra bontà perfettamente rivelata mette a tacere un timore appena accennato,
benché vivo e presente: non siamo indegni della benedizione ricevuta, la sorte non si è
sbagliata, sappiamo risponderle con una vibrazione buona, giusta, serena. Ella, ne siamo
certi, saprà apprezzarla, e vorrà rinnovare i suoi doni. La nostra gioia ci rassicura, ci
conferma che la sua stessa presenza è giusta; mai come ora, però, avvertiamo che nulla,
in realtà, ci è dovuto.
p. 36. Uno splendido saggio sulla Mansfield è il volume di P. Citati, Vita breve di Katherine Mansfield,
Mondadori, Milano 1980.
2
Katherine Mansfield, Felicità, in Racconti, Rizzoli, Milano 1992, pp. 303-304 (tr. di M. L. Agosti
Castelli).
16
17
Tutto si anima per il rigoglio dei nostri affetti, ogni cosa è affettuosa con noi e
danza assieme a noi, come l’albero di pero che Bertha si ferma a contemplare nel proprio
giardino, “alto e snello nella pienezza di una rigogliosa fioritura”, “perfetto, immobile
contro il cielo verde giada”, nel quale non le è difficile scorgere un chiaro “simbolo della
propria vita”3. Come noi diamo frutti nell’allegria e nella bontà dei nostri gesti, così la
natura intorno a noi esprime le nostre stesse sensazioni nel proprio linguaggio: i fiori, i
frutti, le foglie. Non ha senso chiederci se la gioia che vediamo fuori di noi riproduca per
imitazione i nostri gesti, come traducendoli in un altro alfabeto e facendoli propri, o se
accada il contrario: avvertiamo con chiara certezza che si tratta di significati identici,
persino delle stesse identiche parole, e che tutto si rivela come un’unica realtà grazie alla
nostra gioia. Il dubbio, prima o poi, ci assale, ma solo quando il miracolo è compiuto
definitivamente, e disperiamo che possa accadere ancora: solo allora possiamo dubitare
della sua realtà e di quanto ha voluto rivelarci nel linguaggio dei simboli, delle allusioni.
Non è un caso che un’espressione autenticamente gioiosa della realtà, sempre e
dovunque, scelga obbligatoriamente i simboli e le immagini, per coerenza con la propria
natura.
La nostra felicità ci permette relazioni nuove, inaudite: l’affetto donato non fa che
ricrearsi e moltiplicarsi, e noi stessi lo percepiamo come un guadagno. Anche negli altri
scorgiamo la stessa felicità che aumenta in noi: il contatto con noi, incontenibilmente e
indubitabilmente felici, sembra provocare e generare in loro un identico fiorire. Ciò non
conferma solo la potenza della nostra gioia, ma anche la sua capacità di far vibrare altri,
di trasmettersi e di ricrearsi: di essere davvero comunicata, di moltiplicarsi svelando
ovunque mondi insospettati. Bertha lo sperimenta accogliendo un’amica, Miss Fulton,
nella propria casa, e vedendosi circondata di presenze care:
Che cosa c’era nel contatto di quel braccio fresco capace di riaccendere, sì, riaccendere,
di far divampare, sì divampare, quella fiumana di felicità che non sapeva spiegarsi? […]
Oh, perché si sentiva così tenera verso il mondo intero, quella sera? Tutto era buono,
tutto era giusto. Tutto ciò che accadeva riempiva nuovamente la sua traboccante coppa
di beatitudine […] Qualcosa di strano e di terribile attraversò come un lampo la mente
di Bertha. Qualcosa di oscuro e sogghignante, che le sussurrava: “Presto questa gente se
ne andrà. La casa rimarrà tranquilla, silenziosa. Le luci si spegneranno… E tu e lui sarete
soli nella stanza buia, nel letto caldo…” […] Per la prima volta in vita sua Bertha
desiderò suo marito. Oh, lo aveva amato, ne era stata innamorata, certo, in ogni altro
modo, ma non proprio in quel modo… Ma ora: ardentemente! Ardentemente! La parola
le torturava il corpo infuocato. Era dunque questo il risultato finale di quel senso di
felicità? Ma allora, allora…4
Da un lato, ci è impossibile trovare le forme adatte alla comunicazione della nostra
felicità: atti e parole ci paiono così inadeguati alla sovrabbondanza che si agita in noi, e
ne rendono un’immagine sempre troppo lieve, troppo contenuta. Dall’altro, è
certamente vero che la facilità con cui la nostra gioia sembra uscire da noi per ritrovarsi
identica in altri ci fa toccare con mano l’efficacia assoluta della nostra comunicazione. La
3
4
K. Mansfield, Felicità, p. 308.
K. Mansfield, Felicità, pp. 312, 314 e 316-317.
17
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causa, forse, sta nelle corrispondenze che la nostra felicità rivela in ciò che ci circonda:
sembra che l’essere stesso, nella sua totalità, si mostri alla nostra gioia come una pianura
percorsa in ogni direzione da una fitta rete di sentieri e canali, lungo i quali vediamo
sfrecciare sicuri i pensieri e gli oggetti l’uno incontro all’altro, infallibilmente. Tutto è
buono, perché tutte le cose si rispondono a vicenda; tutto è giusto, perché ogni cosa e
ogni persona sembra piena di rispetto e di amorosa sollecitudine verso ogni altra; è
l’affetto, non possiamo dubitarne, a spingere ogni cosa alla ricerca di ogni altra, nella
condivisione di un'unica significato. Tutto è felicità, e si anima di fronte ai nostri occhi
proprio per farcelo sapere: tutto è indiscutibilmente uno. Ci fa sorridere la nostra antica
cecità che non sapeva, che non poteva vedere, e tanto più le barriere insensate che gli
uomini erigono l’uno contro l’altro, per rimanere separati. Ci siamo noi, ora: noi che
ubbidiamo per primi a un invito solare all’unità perfetta che anima tutte le cose, al quale
tutte sembrano ubbidire solo ora, inspiegabilmente. Forse, ciò accade grazie a noi: esse
attendevano immobili e mute il cenno della nostra ubbidienza per convergere liete verso
il proprio centro. La nostra gioia le rinnova e le scorta verso il loro ultimo destino, il più
luminoso: farsi una, ora e per sempre. Deciso dall’eternità, esso si compie grazie a noi.
All’apparire di questo pensiero confuso e quasi inammissibile, la nostra gioia ci appare
ancora più preziosa e la nostra gratitudine si moltiplica, ci oltrepassa e si protende verso i
confini stessi dell’universo: intuiamo in noi stessi un significato universale, una portata
salvifica che ci supera infinitamente. Siamo lo strumento di una rinascita cosmica: senza
averlo mai sospettato, eravamo attesi.
Altri pensieri sorgono dentro di noi: gli stessi che invadono Berta. Il sole che ella
ha ingoiato vuole ardere, esplodere, comunicarsi – corporeo, terrestre, innocente. Quel
sole attende in lei, nel suo corpo, l’uomo che è causa della felicità, che le ha dato una
casa, una figlia, gli amici. La sua gioia le rivela la pienezza della femminilità che esulta
nell’aprirsi, nell’accogliere, nel circondare di calore l’uomo che le ha donato la danza
luminosa delle cose. Ogni felicità scatena in noi una sensualità innocente: un desiderio
maschile di entrare delicatamente in tutte le cose, di abitarle in una gioia condivisa; e un
desiderio femminile di aprirci a tutte le cose, di lasciarle dimorare nell’intimità della
nostra esistenza. Verso tutte ci slanciamo, ci protendiamo; esse penetrano in noi
attraverso sensi più vivi, più acuti del solito, felici di percepire. Godiamo dello sguardo,
del tatto e dell’udito, ci protendiamo alla ricerca del contatto, indugiamo con lo sguardo
e accogliamo, percepiamo, lasciamo risuonare in noi ciò che così profondamente ci
attraversa per dimorare nei nostri pensieri.
L’uomo la sta ingannando: Miss Fulton è la sua amante. Bertha ne ha la
rivelazione improvvisa, inaspettata: tutto mente, tutto è falso. Che ne sarà della sua
felicità? E cos’era se non un inganno? Un destino immeritato la chiama a sé, la strappa
da quel mondo divenuto all’improvviso inabitabile.
“Incantevole come sempre, fiorito, immobile”5, solo il pero che Bertha aveva ammirato
rimane lo stesso nella sua esistenza che cambierà radicalmente – benché perda anch’esso
ogni significato e ammutolisca come un vecchio carillon che abbia esaurito all’improvviso
5
K. Mansfield, Felicità, p. 319.
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la sua carica e che la mano richiuda di scatto, riconsegnandolo al silenzio e
all’abbandono. Eppure, era stato come se Bertha fosse capitata per errore nella valle
incantata in cui, una sola volta in un millennio, gli spiriti verdi degli alberi prendono vita
e forma umana, ed escono dalle loro cortecce per fare festa nella notte; e lei li avesse
osservati a lungo nascosta tra le fronde, rapìta dalle loro danze.
19
20
5
L’abbandono
Felicità del sughero abbandonato
alla corrente
che stempra attorno i ponti arrovesciati
e il plenilunio pallido del sole
EUGENIO MONTALE
Ci sono altre felicità, ma nessuna che sembri derivare direttamente dalla nostra natura;
piuttosto, ciascuna presuppone l’opera di una causa esterna a noi, vera o illusoria che sia,
oppure un atto della nostra volontà. E’ così la “felicità del sughero abbandonato / alla
corrente / che stempra attorno i ponti arrovesciati / e il plenilunio pallido del sole” di
cui ci parla Montale1: unica felicità concretamente possibile, forse; l’unica che non potrà
mentire. Fondata sul nostro consenso, sull’abbandono cosciente benché non sempre
perfettamente voluto, questa felicità dura finché avanza la corrente, e si rinnova in ogni
istante. Difficile pensare che sia soltanto una felicità dimidiata, perché nata da una
rinuncia: se la rinuncia è davvero una scelta, l’abbandono apre a un mondo rovesciato e
mutevole – ma, in compenso, perfettamente vero, anche se le increspature dell’acqua
spezzano le linee e deformano le immagini riflesse. Chi s’è abbandonato alla corrente
può vivere felicità davvero impensabili per chi viva, invece, il tormento continuo della
scelta e lotti per mantenere una propria direzione. Chi s’è abbandonato coscientemente,
in un impeto di fiducia e di generosa dimenticanza di sé, può diventare davvero il più
felice degli uomini, e trovare una felicità costante, duratura: solo a queste condizioni. La
freschezza dei suoi pensieri sarà pari a quella dei flutti che lo portano lentamente
attraverso la pianura, nella dolcezza delle loro traiettorie; nessun rancore lo insidierà,
nessuna invidia, nessuna cupidigia. E’ difficile immaginare un punto di osservazione sul
mondo più felice di questo, né una condizione di più autentica fecondità dello spirito,
finalmente libero di dare germogli luminosi. Soprattutto, egli potrà gettare ovunque, con
noncuranza e signorilità invidiabili, sguardi pieni di affettuosa tenerezza, tersi,
disinteressati: senza scopo, senza vanità.
Spaventa constatare quanta energia sia stata impiegata per negare, con un astio e
una foga davvero sconfinati, la possibilità di qualsiasi felicità, e come la negazione sia
sempre stata assoluta, radicale. Leopardi, ad esempio, vi spese forze non indifferenti nel
bilancio della sua esistenza: le sue argomentazioni sono note. Eppure, si ha l’impressione
che fosse uomo di grandi gioie – ma temute, fuggite, negate o piuttosto gelosamente
nascoste, trattenute.
Si fatica a capire cosa intenda esattamente Leopardi con il termine “felicità”:
paradossalmente, ciò accade proprio a causa dello sforzo continuo di definizione, diffuso
in rivoli diversi che ora si intersecano ed ora si sovrappongono, confondendosi l’uno con
l’altro. E’ un rovello continuo, martellante, di cui è difficile mettere a nudo le intime
1
E. Montale, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1984, p. 179.
20
21
radici: sembra che Leopardi stesso le mascheri continuamente, che le copra pur girando
loro intorno, avvicinandosi ad esse e subito ritraendosi - e portandoci lontano, verso
luoghi nei quali non le troveremo mai. Sembra che voglia fingere un gioco le cui regole
cambiano continuamente e la cui conclusione è rimandata all’infinito, come se non fosse
in alcun modo prevista dalle regole stesse. Certo, è solo un’impressione, ma è difficile
liberarsene: gli argomenti si snodano rigorosi, evidenti e persuasivi di fronte ai nostri
occhi; ogni apparente incoerenza che crediamo di avervi sorpreso non fa che rafforzare
la loro verità, come se essi attendessero il nostro contributo per esprimere pienamente i
propri significati e fossero semplici accenni, frammenti di un quadro ben più terribile,
eppure… Perché tanta ostinazione nel respingere, nello smascherare lucidamente ed
implacabilmente qualunque possibilità di felicità? Perché tanta resistenza alla corrente,
tanta diffidenza verso il fiume delle cose?
Sembra a volte di intuire nelle sue parole una sorta di gelosia per qualunque
fecondità (cioè, per qualunque felicità) che non sia universale e umana nello stesso
tempo. Egli riconduce l’intero universo all’aridità di uno squallore sconfinato, di una
massa inerte e senza vita che ci circonda da ogni parte, pura materia che incessantemente
diviene, indifferente al proprio stesso splendore; ed è cosciente che solo noi
contempliamo la bellezza del cielo stellato provandone un brivido. E’ difficile, fino a
questo punto, dargli torto: quel brivido è in noi e solo in noi; il cielo stesso, se un incanto
lo animasse e gli donasse la coscienza, non lo comprenderebbe e ne sarebbe stupìto. La
nostra gioia riguarda noi, e noi soltanto: il suo ripetersi e moltiplicarsi nelle cose è
probabilmente un’illusione, un gioco di luci senza alcun fondamento, anche se sembra
nascondere altro, con prudente riserbo. E’ come se Leopardi si ribellasse,
coscientemente o meno, alla cecità del cosmo che non vede in noi la causa della propria
bellezza, che non riconosce il nostro merito nel crearla continuamente e nel donargliela
un istante dopo l’altro: ci ricompensa ingiustamente, follemente, con un dolore
altrettanto inascoltato. Se non è la nostra gioia a interessare l’universo, a rendercelo
amico, almeno il dolore potrà unirci a lui, e farci sentire meno soli: il dolore dev’essere
l’unica realtà, infinita, illimitata; dev’essere la sostanza vera di tutte le cose, anche se cerca
astutamente di mascherarsi, e ci promette con parole suadenti una felicità che non ci
vorrà mai concedere se non per poco, parzialmente, nella più stretta misura dell’umano.
Non sarebbe giusto che l’universo fosse puro splendore, senza che ne fossimo noi la
causa manifesta, noi gli artefici riconosciuti ed onorati: che il suo splendore sussista,
eternamente fecondo ma ad altre condizioni, non sembra davvero tollerabile. Una felicità
parziale, momentanea, tutta nostra ed effimera come noi non può che essere un atto
d’ingiustizia: un atto umiliante di pura malvagità. Nel nome di questo rancore, ogni
segnale di pace, ogni parola amica, ogni sorriso delle cose attorno a noi è respinto con
sdegno, e interpretato come uno scherno feroce: una beffa nata soltanto dalla volontà di
far male, di umiliarci con una cattiveria sottile, tanto più violenta quanto più mascherata.
Mai un uomo può essere lucido come quando analizza, a partire da qualunque elemento,
21
22
l’astuta malizia di colui che ha scelto come proprio nemico, anche se questi gli tendesse
la mano con fraterna innocenza2.
“Felicità raggiunta – ammoniva Montale – si cammina / per te su fil di lama / […]
e dunque non ti tocchi chi più t’ama”3: quale che sia la felicità che crediamo di
possedere, essa nasconde insidie davvero mortali. E’ un fatto che c’inquieta nel
profondo, ma difficilmente ne sospettiamo in tempo. Forse, solo una signorile passività
può salvarci: goderne come abbandonati, senza cercare di aumentarla né di rafforzarla,
né tantomeno di comprenderla; senza provocarla, senza farne dipendere la nostra intera
esistenza, senza identificarci con essa. Essere pronti a perderla in qualunque momento, e
amarla per questo con delicato rispetto, quasi con timore. Realmente la felicità, anche
quando sembra indubitabilmente nostra, trattiene sempre qualcosa per sé che ci
sgomenta non appena l’intuiamo, e ci separa da lei una volta per tutte: essa non dipende
dalla nostra intima natura ma dalle circostanze, o al massimo da un atto della nostra
volontà. Ciò non significa che non l’abbiamo veramente conosciuta, né che dobbiamo
cancellarne con rabbia anche il ricordo: possiamo separarci da lei nella pace, senza
rancori, con signorile dignità. Possiamo affidarci alla corrente perché ci culli per un
tratto, lieti fino a quando torneremo a incagliarci tra i giunchi delle rive, per un tempo
indefinito: sarà stato pur sempre un guadagno, e difficilmente dimenticheremo i riflessi
colorati che si sono aperti al nostro passaggio, come in segno di fervido saluto. Anche se
abbandonati nel fango – per sempre, o fino alla prossima volta che i flutti vorranno
prenderci con sé – ci rallegreremo pensando che essi esistono ancora, e che accolgono
altri sull’acqua luminosa; ma ci sarà difficile dire cosa possa davvero rivelarci della felicità
ciò che abbiamo appena sperimentato.
A Leopardi, comunque, nemmeno Montale si sente di dar torto:
[…] il tuo mattino
è dolce e turbatore come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case4.
2
Quanto sopra, è vero, meriterebbe approfondimenti e ampia documentazione – ma ciò
oltrepasserebbe gli intenti di questo scritto, che non vuole in nessun modo mettere in discussione la
grandezza di Leopardi; né proporre valutazioni strettamente critiche sulla sua teoria della felicità: si
tratta solo di un’impressione personale, suffragata da una lunga consuetudine di lettura.
3
E. Montale, Tutte le poesie, p. 40.
4
E. Montale, Tutte le poesie, p. 40.
22
23
6
Lampi
Un attimo affrancato dall’ordine temporale ha ricreato in noi,
per percepirlo, l’uomo affrancato dall’ordine temporale.
E che costui confidi nella propria gioia è comprensibile…
MARCEL PROUST
I pochi trattati esistenti sulla felicità, a cominciare dal De vita beata di Seneca, deludono
immancabilmente. E’ difficile che le loro frasi brillanti possano mutare un’esistenza
consapevole di sé, intimamente persuasa: al di là di un abbandono cosciente, dettato
dalla sovrabbondanza e dalla generosità, sono ben pochi gli atti della nostra volontà che
possono portarci alla felicità. I trattati si sforzano di indicarci un cammino che possiamo
pianificare, e ci inducono a una serie di esercizi esistenziali che dovrebbero condurci,
quasi obbligatoriamente, alla felicità stessa; persone sensibili ma prive di profondità –
ancora prive, soprattutto, della libertà che nasce dalla consapevolezza – possono trovarvi
sollievo, o riceverne addirittura indicazioni risolutive; ma è difficile che ciò accada a chi
abbia intimamente aderito alla propria esistenza, e tenda con forza all’unità. E’ come se,
per i trattati, la felicità fosse uno stato che possiamo conquistare con le nostre forze,
attraverso una gestione attenta delle nostre risorse; l’infelicità deriverebbe soltanto dai
nostri errori operativi, frutto dell’inesperienza e capaci di impedire alla vita di donarci il
proprio necessario contenuto di felicità. Potrebbero goderne, allora, soltanto coloro che
sanno attrarla a sé con un lavoro paziente e ben organizzato, infallibile se svolto a
determinate condizioni. L’intende così il tedesco glücklich, “felice”, da Glück, “fortuna”: la
felicità è il compenso di chi sa accettare le sfide della sorte, di chi gioca con lei a proprio
vantaggio e la rende complice del proprio benessere, conquistandolo una volta per tutte
grazie all’abilità e al coraggio di osare1.
Tutto ciò, certo, fa sorridere: ogni felicità, anche la più intensamente voluta, fa
irruzione nella nostra vita come una grazia immeritata e celeste, che nulla poteva davvero
provocare; ci coglie sempre di sorpresa, anche se l’attendevamo con fervida speranza.
Essa ci supera infinitamente, perché oltrepassa le nostre attese e le confonde con il
proprio aspetto imprevisto; la sua provenienza è inimmaginabile. La felicità che avevamo
atteso e lungamente pregustato, quella per cui ci eravamo a lungo preparati, alla quale
avevamo innalzato, proprio nel centro della nostra coscienza, un altare ancora
desolatamente vuoto, ci delude: ciò che doveva condurcela – ne eravamo sicuri – giunge
a mani vuote, e ci annienta con la delusione. In un luogo, in una persona, in una
situazione ci sembrava di aver visto la felicità annidarsi e chiamarci: essa ci attirava con
insistenza, rivolgeva proprio a noi le parole lusinghiere che credevamo inequivocabili e
senza le quali non ci saremmo mai avventurati in quella direzione, mossi dalla nostra
speranza. E’ un gioco di inganni e di attese, di delusioni e ricerche, di speranze e
disperazioni necessarie che sono tutt’uno con la natura della gioia: non sempre possiamo
capire se ci guidano a lei poco alla volta, con una pietà solo apparentemente crudele, o se
1
Si veda Sandra Bosco Coletsos, Le parole del tedesco, p. 216.
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24
ce ne allontanano spietatamente. Per questo, forse, la felicità non può essere definita da
una parola, neanche dalla più luminosa, ma può essere soltanto raccontata.
Senza ambiguità, Leopardi chiarì perfettamente che la felicità può consistere
unicamente in un ritorno al passato attraverso la memoria, o in uno sbilanciarsi opposto
della coscienza che si protende alla visione del futuro: plasmandoli e creandoli entrambi
alla luce di se stessa. Più che l’inesistenza della felicità, ciò può significare la sua natura di
semplice stato della coscienza, di vigorosa e istantanea ermeneutica del nostro esistere. Il
presente accoglie e congiunge in se stesso il passato e il futuro, mobile tra l’uno e l’altro;
è tale la sua forza creativa nel semplice atto del ricordo, che sa trasformare in causa di
felicità persino un’impressione vissuta nella più completa indifferenza o nella più acerba
desolazione. Sembra che l’arte della felicità sia l’arte della scoperta dei significati – o della
loro invenzione, che è la stessa cosa. Inventare, anche nell’etimologia, significa scoprire,
collegare, liberare possibilità nuove nell’esistente: non ci è mai possibile creare dal nulla,
neanche con la fantasia. Nella felicità, ciò che cade in un istante sotto il dominio della
coscienza riconduce se stesso all’unità perfetta, e tutti i suoi elementi ci appaiono in una
luce tale, così chiaramente collocati nell’esistere, che sembrano suggerirci implicitamente
anche il perfetto senso degli altri: la pienezza dei loro significati. Come uno scatto, come
un lampo nella coscienza, la felicità ci illumina dall’interno: vedendo attraverso noi stessi,
ci cogliamo mobili nel tempo ma capaci di congiungere le cose e i fatti che vivono
dentro di noi, di saldarli l’uno all’altro, di ricondurli ad unità in se stessi e con noi;
scopriamo nella realtà fenomenica la trama altrettanto reale dei significati. Ci occorreva
una luce particolare, dalla frequenza inimmaginabile, per cogliere l’ossatura nascosta
dell’esistente: la stessa che ora ci sorprende nella chiarezza della propria evidenza.
A far scoccare il lampo, spesso, basta la pochezza di una sensazione, come il gusto
della celebre madeleine di Marcel Proust2.La causa esterna è poco più che un pretesto: ciò
che conta è la reazione fisica, la sensazione: spesso, essa va perduta, perché presuppone
una disponibilità della coscienza, una condizione di particolare ricettività e una prontezza
di risposta. E’ una disponibilità che ci appare spesso involontaria; ma la nostra coscienza
sembra vivere per lo più di vita propria e ubbidire a leggi che nemmeno noi riusciamo a
comprendere. La felicità, forse, è il lampo istantaneo che svela la trama invisibile dei
collegamenti e dei significati e la riconosce come perfettamente reale; o, piuttosto, il
permanere nella coscienza, come sulla rètina dei nostri occhi, della macchia luminosa che
segue quello scatto abbacinante. Grazie a lei, gustiamo la dolcezza della visione
stupefacente che ci ha còlti di sorpresa, pochi istanti fa.
Sarà questa la gioia celeste? C’è da crederlo, o almeno da sperarlo. Potremmo
spiegarci, così, la sensazione di beatitudine, la pace profonda che sa donarci la visione di
un quadro straordinario, di un vero ritratto del cosmo sub specie aeternitatis: la Tempesta, del
Giorgione. E’ un’immagine che ha tanto da dirci sulle cose, sui lampi che possono
sorprenderle e sulla felicità a cui possiamo aspirare, e che lo fa nel linguaggio stesso della
2
Si veda Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, I. La strada di Swann, a cura di Maria Bongiovanni
Bertini, tr. it. di N. Ginzburg, Einaudi, Torino 1984, p. 49.
24
25
felicità: attraverso una folgore che domina nell’alto e che permane in noi. E’ quasi
impossibile staccare gli occhi: quando li volgiamo altrove, ci accorgiamo che
quell’immagine ci ha lasciato nell’intimo una gioia pacata e aperta alla speranza; essa, a
propria volta, calma a poco a poco il respiro, distende i muscoli del viso, ci solleva
lentamente ad uno sguardo sereno, ci spinge a cercare alle nostre spalle, nell’alto, quella
folgore incomparabile. Un giovane assorto, alla nostra sinistra, ci appare bello del
proprio divino pensare; sulla destra, una donna nutre di sé il proprio figlio allattandolo al
seno, e la sua nudità risplende serena, come un segno di fiducia innocente nel tutto; sullo
sfondo, un ponte, le piante, le case lontane. E’ come se, per un istante, uniti dal lampo
che non sembra sorprenderli, l’umano, il divino e tutte le cose si offrissero assieme allo
sguardo, nel mistero di una serena compresenza: come se volessero dirci che tutto è
giusto in un puro, semplice esistere - il ponte, le piante, le case lontane, la donna che
nutre e risplende, il giovane assorto in se stesso. Se è questa la visione beatifica che
appare, a volte, ai morenti – ai loro occhi già chiusi alla luce materiale, pronti ad un’altra
di cui non possiamo assicurare l’esistenza ma spesso rapiti nell’ultimo istante da qualcosa
che appare solo a loro – potremo scivolare sereni nella morte, a qualunque condizione:
sapremo lasciarci sorprendere.
Come in un ciclo interminabile di affreschi, nella Recherche di Marcel Proust anche
il più piccolo tratto di penna insegue la felicità, la mette alla prova, ne verifica le concrete
possibilità d’esistenza e la conquista attraverso tappe successive e necessarie il cui
significato, però, appare solo alla fine, quando tutto sembra irrimediabilmente perduto.
La parola “felicità” vi compare raramente; spesso, è trasformata nel proprio contrario o
accompagnata dall’ammissione della propria impossibilità; si rivela estranea all’ ambito
dell’esistenza nel quale era stata smarrita, pur senza essere mai stata posseduta; viene alla
fine smascherata come un’illusione interiore, come un gioco di luci che non poteva
durare perché Marcel è cambiato, e tutto con lui. Ogni istante conduce alla scoperta di
un senso, di un’identità e di un destino: l’unità, che era stata misconosciuta a causa dei
tanti errori di prospettiva, è conquistata solo grazie ad essi, una volta compresi ad uno ad
uno. Solo smettendo di cercare questo strano Graal in luoghi dove non potrà offrire
altro che vuote immagini di sé, cioè riflessi ingannevoli e privi dell’efficacia salvifica che
solo la gioia possiede, solo calandosi in se stessi è possibile scoprire la propria identità, il
proprio posto nel mondo: il potere di condurre ad un’unità le cose dentro di sé3. Solo
alla fine, dopo un atto di capitolazione assoluta, dopo una resa senza condizioni ad un
futuro di sterile inerzia, la gioia potrà irrompere spontanea in Marcel con il dono di un
senso e di un destino:
A volte, proprio nel momento in cui tutto ci sembra perduto, giunge il messaggio che ci
può salvare … Di colpo, come quel personaggio delle Mille e una notte, che senza saperlo
3
La bibliografia su Marcel Proust è sterminata, e quanto sopra costituisce solamente una valutazione
personale: la confessione della ricchezza di una lettura. Per svilupparlo e documentarlo adeguatamente
occorrerebbero altre competenze ed altri intenti, che esulano dagli obiettivi di questo scritto.
25
26
compiva precisamente il rito capace di far apparire, visibile a lui solo, un docile genio
pronto a portarlo lontano4,
Marcel incontra il proprio destino e si fa pronto all’obbedienza. Dimentico di sé, devoto
come un antico pellegrino, segue d’ora in poi la propria felicità, “la gioia per la realtà
ritrovata”5, verso l’oltre-tempo, “perché subito l’essenza permanente e ordinariamente
nascosta delle cose venga liberata”6:
Un attimo affrancato dall’ordine temporale ha ricreato in noi, per percepirlo, l’uomo
affrancato dall’ordine temporale. E che costui confidi nella propria gioia è
comprensibile, anche se il semplice sapore di una madeleine non sembri contenere i
motivi di tale gioia; come è comprensibile che la parola morte non abbia più senso per
lui: situato fuori dal tempo, che mai dovrebbe temere dell’avvenire?7
Marcel non esita: non può esitare. Ciò che lo chiama è “verità”, “perfezione”, “gioia
veramente pura”8.
A ognuno di noi la propria Recherche: la Recherche per eccellenza ne rende possibile
infinite altre, santificata com’è dal sacrificio di una vita incomparabile. Ognuno ha i suoi
tempi, i suoi luoghi, i suoi miti, i suoi errori e una felicità propria che splende e gli basta;
molte divinità popolano la nostra vita, anche se non sempre è in nostro potere
riconoscerle; non sempre accade che le cose cerchino proprio in noi quell’unità che
sembrano desiderare forse a tratti, senza insistenza – attorno a noi più che nel nostro
petto; ma ognuno può disporsi a un sacrificio non comune.
4
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, VII. Il tempo ritrovato, a cura di Maria Bongiovanni Bertini, tr.
it. di Giorgio Caproni, Einaudi, Torino 1991, pp. 196 e 198-199.
5
Ibid., p. 210.
6
Ibid., p. 203.
7
Ibid., p. 203.
8
Ibid., p. 211.
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28
7
Geometrie della letizia
Stavo coricata e non parlavo, e quando
mi si nominava Dio non potevo sostenerlo
per l’eccesso di piacere
ANGELA DA FOLIGNO
Per “felicità”, dunque, intendiamo qualcosa di fulmineo e provvisorio, uno stato della
coscienza le cui cause e leggi ci sfuggono ma la cui evidenza è assoluta e indubitabile,
benché spesso mortalmente fragile, o addirittura illusoria. Chiamiamo così gli effetti
dell’amore, o la spensieratezza dell’età giovanile; e vi sentiamo una leggerezza tutta
umana, un liberarsi di risorse puramente terrestri – in una parola: rigorosamente profane.
Difficilmente la parola “felicità” può riferirsi all’àmbito religioso, anche se, nella felicità,
assistiamo come agli atti di una liturgia terrestre che esalta le cose e le proietta oltre se
stesse. E’ troppo vasta la nostra gratitudine, troppo indeterminata per riconoscere una
causa definita, e tanto meno una causa metafisica di tipo personale, un Dio nel senso
vero del termine.
Certo, il ringraziamento a Dio affiora anche sulle labbra di chi si rivolga, in cuor
suo, alla totalità di ciò che esiste: la sua esuberanza, però, ha poco a che vedere con la
compunzione religiosa. Soprattutto, la nostra gratitudine cerca con insistenza il tatto: si
protende ad accarezzare le cose e vuole comunicare a ciascuna l’esultanza della propria
fioritura. E’ incontenibilmente fisica, terrestre: quasi un atto di fede nella divinità
evidente del tutto di cui ogni singola cosa, anche la più piccola, è come il luminoso
messaggero. In preda all’ebbrezza della felicità, ogni uomo, almeno per un po’, è
animista e panteista d’istinto, senza esitazioni: nulla gli è più estraneo dell’infinito silenzio
del Dio personale, che vive nascosto al di là delle cose. La nostra esultante mobilità non
comprende la fermezza silenziosa di un’architettura gotica; la nostra leggerezza,
spontaneamente animata, rifiuta di slanciarsi nell’alto seguendo la spinta degli archi e
delle colonne, perché vuole espandersi orizzontalmente, e la penombra delle volte ci
disgusta. Vogliamo celebrare all’aperto, nella piena luce del sole, i riti del canto e della
danza.
Il linguaggio profano parla a volte di “gioie dell’amore” e di “gioie dell’infanzia”,
ma si tratta di un uso impoverito, in cui è facile constatare la mancanza di autentici
significati. Il linguaggio religioso, invece, utilizza assai poco i termini “gioia” e “felicità”,
e tende a non presentarli mai da soli, come se si sentisse in dovere di distinguere, di
specificare: la felicità celeste non viene mai confusa con quella terrena. Forse, nel
cristianesimo, si discute di “felicità” eterna più che di “gioia” eterna perché si pensa alla
presenza del corpo risorto, finalmente liberato, ma è un’ipotesi priva di reale
fondamento. Si sente parlare, a volte, della gioia del perdono, della gioia della salvezza,
della gioia della conversione, delle gioie della castità e della condivisione, della pace che
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29
deriva da un’intensa vita di preghiera; si ha l’impressione, però, che la gioia in sé sia
oggetto di prudente diffidenza.
Un solo uomo, Gesù Cristo, ha dichiarato con parole semplici e incomparabili di
possedere una gioia tutta propria, e di poterla donare senza riserve: “Questo vi ho detto
perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”1. Lo ha affermato una volta
soltanto, in un discorso d’addio che è una dichiarazione d’amore perfetto e di assoluta
regalità, nell’attesa di una morte atroce perfettamente accettata perché vissuta nella
pienezza di un significato. Con divino riserbo, una volta soltanto, ha seminato
un’inquietudine tra i nostri pensieri. Tra le Sue parole, questa più di altre ci lascia confusi,
tremanti, senza respiro: “la mia gioia…” Ci arrestiamo di fronte a lei, come di fronte alla
spada di fuoco che Adamo avrà contemplato con terrore, brandìta da un angelo
implacabile. E’ comprensibile che non osiamo nemmeno pensare a ciò che essa si limita
appena a suggerire, sulle labbra del Verbo dischiuse per noi. Come accadde a Pietro,
anche a noi verrebbe da dire “Allontanati, Signore” 2, certi di essere prossimi al centro
imperscrutabile del Suo mistero. Egli, invece, ci tiene avvinti, ci segue con occhi
insostenibili e non sembra curarsi dei nostri pensieri: “vi ho chiamato amici… io, il
Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi… io ho scelto voi… io vivo e voi vivrete” 3.
Se non ha temuto di annientarci con queste dichiarazioni inaudite – ma che la nostra
umanità, alla fine, riesce a sostenere – ha avuto forse un delicato riguardo per noi
tacendo della propria gioia: vi ha accennato fuggevolmente, una volta soltanto 4.
Sembra che la gioia sia di casa soprattutto nel linguaggio dei mistici, anche se,
assieme all’impossibilità assoluta di comunicarla adeguatamente, vi troviamo espressa più
che altro la certezza altrettanto assoluta di averla provata. Il suo regno, infatti, è
l’esperienza, non la comprensione: l’espressione che ne deriva è potentemente fisica,
frutto di sensi sovracuti ed eccitati fino allo spasimo. Negli scritti dei mistici, il lessico
della gioia è apparentemente vario e articolato: vi compaiono in gran numero parole
come “giubilo, gaudio, beatitudine, letizia, dolcezza, consolazione, diletto, piacere”. Esse
sembrano, però, rigorosamente sinonime. Le unisce e le confonde l’una con l’altra
l’affermazione di inadeguatezza che le circonda immancabilmente, assieme ad un
numero impressionante di iperboli, sineddoche e ossimòri che rendono l’espressione
violenta e insostenibile. Altrettanto insostenibile, infatti, è la gioia che vogliono
significare: “Stavo coricata e non parlavo, e quando mi si nominava Dio non potevo
1
Gv 15, II.
Lc 5,8.
3
Gv 15,15; 13,14; 15,16; 14,19.
4
E’ certamente vero che il “il tema della gioia è ampiamente diffuso nel Nuovo Testamento a motivo
della sua concentrazione cristologica”, come nota G. Ferraro, La gioia di Cristo nel quarto vangelo, Paideia
Editrice, Brescia 1988, p. 13; lo studio di Ferraro analizza tutti i passi in cui ricorrono i numerosi
riferimenti alla gioia (χαίρω, 8 volte; χαρά, 9 volte; γαλλιάομαι, 2 volte) con finezza di dottrina e
ampiezza di respiro spirituale. L’affermazione sopra riportata, dunque, è una forzatura alla verità
filologica; ma è difficile spiegare come in quell’unico passo sembri di scorgere con tremore il rivelarsi di
una realtà straordinariamente intima al mistero del Verbo fatto carne, al punto da sentirsene quasi
annientati.
2
29
30
sostenerlo per l’eccesso di piacere”, scrive Angela da Foligno, che per ottenere il dono
della castità si offrì nuda al Crocifisso, nominando per lui ad una ad una le membra del
proprio corpo5. Tutto è iperbole, sineddoche o ossimòro: sostiamo pensosi tra questi
chiostri inquietanti, perché in essi la gioia allontana dalla vita presente, suscita desideri di
morte, si alterna al dolore più profondo o vi si accompagna regolarmente. Incontriamo
talvolta espressioni luminose, che ci folgorano placando una sete che sembrano
contemporaneamente suscitare in noi, e che non sapevamo di provare nell’intimo; ma
attraversiamo altre volte, seguendole, architetture spettrali, a cui conduce l’orrore di sé e
della propria natura, sotto le cui volte vengono spesso sognate e desiderate morti atroci,
agonie interminabili e ingiurie insostenibili6. Una divinità imperscrutabile, che non
desideriamo incontrare, inonda alla fine l’essere umano così desideroso di annientamento
con la pienezza sorprendente d’una gioia fatta di visioni, profumi, suoni, voci, sensazioni
gustative e tattili, che erompe in grida, tremori, deliqui. L’avverte un corpo macerato,
negato, rifiutato; ne accoglie lo strepito un’aria sentita come ostile, una terra che si
desidera lasciare. Le tante iperboliche affermazioni di dolcezza non valgono a cancellare
alcune impressioni di sconcerto: ci è impossibile desiderare un bene, per quanto assoluto,
che escluda ogni altro anziché comprenderlo e insegnarci ad amarlo. E’ una gioia che
avremmo paura di condividere perché ci sentiamo d’istinto come una radice d’ingiustizia,
di colpevole durezza – verrebbe da dire: d’empietà.
Nel linguaggio dei santi, è soprattutto il termine “letizia” ad assumere contenuti
sconcertanti, disegnando attorno a noi figure dalle geometrie non euclidee. Esse
sembrano come sovrapporsi al mondo che ci è noto per deformarne l’aspetto e
rendercelo paurosamente estraneo – al fine, forse, di guarirci; ma ci è difficile
comprendere da cosa. Lo usò Francesco per tracciare le linee di un paradosso che ancora
oggi ci inquieta e ci dà la misura di una santità sulle cui soglie ci arrestiamo pensosi
benché tenacemente avvinti, affascinati. Ci appare un disegno che non è di questo
mondo: un contrasto stridente tra il fulgore della letizia di Francesco e la concreta
miseria dei suoi piedi nudi nella neve, del vento freddo sulle carni coperte a malapena
dalla tela grezza di un sacco. E’ notte: Francesco e Frate Leone percorrono un cammino
faticoso, tormentati dal gelo dell’inverno, dalla fame, dalla stanchezza. Possiamo
immaginare i pensieri di Frate Leone, che saranno stati tanto simili ai nostri: le mura, il
fuoco, un saluto, un pasto caldo tra presenze amiche. Francesco, invece, è lontano:
5
Angela da Foligno, Il libro dell’esperienza, a cura di Giovanni Pozzi, Adelphi, Milano 1992, pp. 155 e 72.
L’itinerario di Angela e il suo linguaggio sono esemplari. Certo, l’esperienza mistica è una realtà
estremamente complessa, che non è intenzione dello scrivente liquidare in poche battute. Si possono
vedere gli studi di Gershom Scholem (per la mistica ebraica), di Louis Massignon (per la mistica
islamica), di Michel de Certeau (per la mistica cristiana); sulla mistica femminile italiana, Scrittrici mistiche
italiane, a cura di G. Pozzi e C. Leopardi, Marietti, Genova 1988, offre un panorama completo e ben
contestualizzato; sulla mistica femminile medievale, sono ottimi gli studi di Anna Benvenuti Papi. Testi
mistici cristiani e islamici sono stati oggetto, negli ultimi anni di validissime iniziative editoriali (ad. es.,
per la mistica islamica, autori come Rumi, Ibn-Arabi, Al Ghazali e Attar sono reperibili in ottime
traduzioni italiane). Preziosissimo, naturalmente, Martin Buber, Confessioni estatiche, Adelphi, Milano
1987.
6
Si veda, ad es., Angela da Foligno, Il libro dell’esperienza, p. 76; ma è tratto comune a molti racconti
mistici.
30
31
chiama a sé il compagno come per avvicinarlo, simbolicamente, ai propri pensieri. Sa che
la sua vita sarà raccontata, ammirata, imitata, e che anche il disagio presente ha un
testimone:
Frate Leone, avvegna dio che’ frati minori in ogni terra dieno grande esempio di santità
e buona edificazione: nondimeno, scrivi e nota diligentemente che ivi non è perfetta
letizia 7.
Forse il gelo, la fatica, la fame, anziché fargli pregustare la letizia dell’arrivo, lo spingono
ad aderire più intimamente alla propria identità profonda, scaturita dalle nozze con
Madonna Povertà. Il momento che sta vivendo ne è una conseguenza e una
manifestazione; soprattutto, ne è una parte condivisa con Frate Leone. Francesco
avverte la presenza lontana di un pericolo, come i lupi fiutano nell’aria la preda nel bosco
che vanno attraversando. Richiama a sé il compagno atre due, tre, quattro, cinque volte;
il pericolo è messo a fuoco un poco alla volta, smascherato lucidamente e identificato
con assoluta precisione:
O Frate Leone, benché ‘l frate minore illumini i ciechi, distenda gli attratti, cacci i
demoni, renda l’udire a’ sordi, l’andare a’ zoppi, il parlare a’ motuli e, che maggior cosa,
risusciti un morto di quattro dì … se ‘l frate minore sapesse tutte le lingue e le scienze e
tutte le scritture, sì ch’e’ sapesse profetare e rivelare non solamente le cose future ma
eziandio i segreti delle coscienze e degli animi … benché ‘l frate minore parli con lingua
d’angelo e sappi i corsi delle stelle e le virtù delle erbe, e fossongli rivelati tutti i tesori
della terra … benché ‘l frate minore sapesse sì bene predicare e convertisse tutti
gl’infedeli alla fede di Cristo: scrivi che ivi non è perfetta letizia8.
Frate Leone, alla fine, non resiste alla distruzione implacabile di ogni certezza, di ogni
logica, di ogni evidenza: incautamente, domanda a Francesco di indicargli dove sia mai,
allora, la perfetta letizia – per lasciarsi trascinare in una dimensione sconosciuta, dalle
geometrie davvero sconcertanti. La risposta di Francesco è nota, ed è simile, nella
sostanza, a un disegno di Maurits Cornelis Escher: giungere al convento per essere
scacciati, malmenati, insultati dal portinaio arrabbiato, abbandonati nella notte, esposti
ancora al gelo, alla fame, alla stanchezza e riconoscere che l’ira è giusta, pensare
Umilmente e caritativamente che quel portinaio veracemente ci cognosca, e che Iddio il
faccia parlare contra noi: o Frate Leone, scrivi che qui è perfetta letizia 9.
7
I Fioretti di San Francesco, c. VIII: “Della pazienza, dove è perfetta letizia, scrive Santo Francesco”; cito,
per praticità, Gianfranco Contini, Letteratura italiana delle origini, Sansoni, Firenze 1985, pp. 544-545.
8
I Fioretti di San Francesco, pp. 544-545.
9
I Fioretti di San Francesco, p. 545.
31
33
8
Gloria dell’amore
Questo amore, o beatitudine, nei libri sacri
è detto gloria, e non a torto.
BENTO DE SPINOZA
Per “letizia” avremmo inteso una gioia pacata, lieve, quieta: Francesco ci parla d’altro,
anche se ci riporta a una gioia intensamente voluta, cercata, costruita con l’impegno di
tutta una vita. Sembra che la “letizia” sia frutto di un’alchimia spirituale che trasforma
ogni cosa senza nulla creare, e senza distruggere nulla: esserne l’artefice è forse il
miracolo più alto che un uomo possa compiere.
Alla letizia si giunge attraverso cunicoli dalle mura possenti, corridoi dalle
geometrie perfettamente squadrate, camminamenti ornati di merlature a guardia
dell’abisso: ciò è perfettamente vero, ed è comprensibile che ne siamo sconcertati. E’
così, ad esempio, nell’Ethica ordine geometrico demonstrata di Bento de Spinoza: il percorso
tra gli assiomi, gli scolii, le definizioni, i corollari e le dimostrazioni sembra fatto per
metterci alla prova; il premio è riservato ai valorosi. La parola “letizia” comincia ad
affacciarsi nella terza parte, in cui vaghiamo ancora timorosi alla scoperta degli affetti e
della loro origine: ci conforta con una dolcezza inattesa che rinnova il nostro impegno e
ci spinge oltre, sempre più oltre. Prima timidamente, poi con chiarezza sempre maggiore,
la “letizia” si rivela e finalmente si dichiara senza ambiguità, perfettamente solare: è il
“passaggio dell’uomo da una minore ad una maggiore perfezione”1.Restiamo commossi
e stupìti; Spinoza subito ci conferma nell’intuizione che ha voluto farci incontrare come
se fosse una nostra scoperta o una consapevolezza che avevamo smarrito: “se l’uomo
nascesse con la perfezione alla quale passa, ne sarebbe in possesso senza alcun affetto di
letizia”2. Abbiamo incontrato il messaggero luminoso della nostra metamorfosi verso la
pienezza – verso la perfetta sintonia con la realtà. Ripensiamo a qualcosa che ci era già
stato detto: “Per realtà e perfezione intendo la stessa cosa”3. Ci sentiamo finalmente
“lieti”, posti a poco a poco in una condizione di una fecondità inaudita. Sono parole
amorevoli, gesti quasi meccanici e solo apparentemente distaccati, che ci liberano poco
alla volta da tutto ciò che ci impedisce, come un contadino paziente disinfesta il suo
unico campo dalle erbe vili che lo soffocano, con malcelata sollecitudine:
L’uomo forte considera principalmente che tutte le cose procedono dalla necessità della
natura divina, e che, perciò, tutto quel che pensa sia molesto e cattivo, tutto quanto
inoltre gli sembra empio, orribile, ingiusto, turpe, nasce dal fatto che egli concepisce le
cose in modo turbato, frammentario e confuso4.
1
Bento de Spinoza, Etica, parte III, Definizioni degli affetti 2, a cura di Giorgio Colli, tr. di Sossio
Giametta, Bollati Boringhieri, Torino 1959, p. 193.
2
Ibid., p. 193.
3
Ibid., parte II, definizione 6, p. 68.
4
Ibid., parte IV, proposizione 73, scolio, p. 282.
33
34
Viene alla mente Francesco, che chiama sorella anche la morte perché sa che può
apparire un male soltanto ad occhi confusi, privi della visione del tutto, turbati dalla
paura di ciò che non conoscono. Come il santo accetta ogni cosa in nome della propria
conoscenza di Dio, così Spinoza ci chiama a conversione: “per questa ragione, [l’uomo
forte] si sforza innanzitutto di concepire le cose come sono in se stesse, e di rimuovere
gli ostacoli alla vera conoscenza”5, cioè i peccati capitali della mente. Si affaccia alla
memoria anche la pietà sconcertante del Verbo, quando fu innalzato sul legno
incomprensibile del male: “Padre, perdona: non sanno quello che fanno”- un’indulgenza
totalmente divina e pienamente umana al tempo stesso, che disarma e smaschera il male
nella sua radice più profonda: la non-conoscenza, la non-vicinanza, la non-fedeltà,
cosciente o involontaria, alla verità del mondo e delle cose prima ancora che del Cristo
umiliato e morente – e l’antica persuasione di Socrate, che il male sia, in se stesso,
ignoranza.
Se questo è il potere della verità, possiamo davvero sperare che sia stata pronunciata la
parola eterna e sovrumana che riveli l’essenza delle cose e ci apra all’obbedienza, che ci
collochi esultanti nel tutto che ci porta? Se è così, quell’unica parola saprà riconciliarci
con il mondo, per unirci a esso nel vincolo sereno della verità – e liberare in noi la vita
più limpida e segreta, che ancora non ci è stata rivelata.
Alla fine della parte quarta, la parola “letizia” scompare per cedere il posto alla
“beatitudine”. Anch’essa si dichiara poco alla volta, fino a un’esplosione di giubilo che
stenteremo a dimenticare – benché seminascosta, frantumata tra un corollario e uno
scolio della quinta parte:
L’amore di Dio per gli uomini e l’amore e l’amore intellettuale della mente per Dio sono
una sola e medesima cosa […] Si può così comprendere in cosa consista la nostra
salvezza, ossia beatitudine, ossia libertà: vale a dire nell’amore costante ed eterno per
Dio, ossia nell’amore di Dio per gli uomini. Questo amore, o beatitudine, nei libri sacri è
detto gloria, e non a torto6.
Tutto ritorna: la gioia è gloria, è libertà; è sostanza di vita liberata. In questa libertà è la
nostra salvezza; essa è tutt’uno con l’amore – con quell’unico amore in cui tutte le cose
sono accolte, riabilitate e compendiate come in un’unica fiamma originaria: l’amore di
Dio e dell’uomo, un amore così forte e così vero che non ci è possibile distinguerne i
termini, fusi già l’uno con l’altro, inscindibili, resi uno com’è unica, ormai, la direzione
del loro amore inesprimibile.
C’è da chiedersi se questa libertà sia veramente possibile, se veramente possa
rivelarsi in una gioia che sia sua e nostra al tempo stesso, perfettamente reale e terrestre
quanto intimamente divina, celeste. Possiamo invocarla, forse, con una fatica fatta di
consapevole, inesausta vigilanza: attenderla, consumarci per essa volentieri, certi di dover
tentare, può essere già una letizia che riempie il nostro essere oltre i limiti del sostenibile
5
6
Ibid.
Ibid., parte V, proposizione 36, corollario, scolio, pp. 322-323.
34
35
– anche a prezzo dei piedi nudi nella neve, del vento gelido che urla sulle carni
miseramente coperte.
Se l’Etica è una teologia della gioia, quasi certamente è l’unica possibile. Può stupirci, o
addirittura offenderci, che la salvezza ci venga offerta con un gesto di sfida, e che il
fuoco purificatore sia custodito in una cripta quasi inaccessibile, nella sacralità inviolata
del buio; non è difficile, però, scorgere in questa alterìgia la sapienza della carità perfetta.
35
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9
Un cadere cosciente
“E noi che la felicità la pensiamo
in ascesa sentiremo la commozione,
che quasi ci atterra sgomenti,
per una cosa felice che cade”
RAINER MARIA RILKE
E’ difficile immaginare un dialogo tra angeli. Gocce di pura gioia in se stessi,
comunicheranno forse per mezzo di gesti impalpabili: vibrazioni minime, sussurri colmi
di luce. Al sorgere del giorno, due di essi erano fermi nell’attesa: luce divina che si
stagliava contro la luce terrestre per accrescerla senza mutarla. Attendevano tre donne
che avanzavano nell’alba, sollevando polvere con i piedi agili e scarni, abituati a un
continuo camminare; il passo delle donne era svelto, sollecito, come accade con stupore
di notare, a volte, in chi si rechi all’appuntamento con un morto.
“E’ risorto, non è qui… andate, ditelo ai suoi fratelli…” – parole inaudite che forse
ripetevano tra sé, nella mente incorporea, per esserne più certi loro stessi: per
consegnarle alle vibrazioni irripetibili dell’aria con certezza maggiore. A cenni,
riflettevano; forse, silenziosamente profetavano, pensando all’unisono piuttosto che
scambiandosi parole.
E’ lecito credere, forse, che la gioia che stavano per annunciare avesse in sé una
complessità che li turbava – se pure può turbarsi chi è stato creato dalla pura gioia: chi è
nato nella luce per riconoscersi fatto di luce e non di altro. Difficile che non turbi anche
noi, generati nella gioia ma nati nel dolore, entrati a fatica nell’aria che ha bruciato i
nostri polmoni e ha provocato in noi un vagìto come primo saluto, in risposta alle grida
della donna che ci ha partorito.
Ardevano di gioia, gli angeli, come sempre - perché questa è la loro natura: gioia
incorporea e cosciente, riflessa, divenuta persona per la sovrabbondanza della gioia di un
Altro. Eppure, avvertivano in sé un’inquietudine, una vibrazione nuova che li
attraversava ed urgeva in loro per diffondersi nell’aria. “E’ risorto, non è qui…”: la gioia
stessa di Dio era mutata. Anche per loro, quel giorno era nascita, inizio, creazione.
Molti angeli popolano la poesia di Rilke, dalle Frühen Gedichte (Prime poesie) sino alle
Duineser Elegien (Elegie Duinesi): quei due soli vi mancano. E’ facile amare Rilke, ma è
difficile amare i suoi primi angeli: esseri femminei, quasi di cartapesta, dall’ “anima fatta
di canto”1, che stringono “mani tremanti” nella “notte solitaria”2 del giovane poeta;
esseri che portano, “nella patria dei cherubini”, i suoi “pianti precoci”, i suoi “piccoli
dolori”3. E’ facile, comunque, amare d’istinto questo poeta inizialmente lezioso, questo
1
Rainer Maria Rilke, Poesie, a cura di Giuliano Baioni, Einaudi-Gallimard, Torino 1994, vol. I, p. 39. Ma
si veda, per farsene un’idea, l’intera sezione degli Engellieder (“Canti di angeli”), alle pp. 35-39, e la Gebet
(Preghiera) all’angelo alle pp. 40-41, assieme a tanti altri testi sparsi nelle Frühen Gedichte.
2
Ibid., p. 35.
3
Ibid., p. 37.
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adolescente che seppe a poco a poco rassodarsi e che divenne alla fine uomo oltre
misura fino a poter dire di sé, con piena ragione, di vivere ormai nel “puro spazio
cosmico”, e di avere raggiunto “la siderea aridità di un corpo celeste”4. E’ facile amarlo
per la sua totale metamorfosi – e per le tante debolezze, per le incertezze che non volle
celare ma che non ebbe pudore di mostrare una per una fino a raggiungere un pudore
più alto, assoluto. Nelle Duineser Elegien, finalmente, ogni angelo appare all’intuizione del
poeta per quello che dev’essere nella realtà, se è vera la parola che due di loro
annunciarono in un mattino irripetibile: “tremendo”5. La voce tedesca, schrecklich, ricorda
da vicino l’espressione greca deinòs con cui Sofocle descrisse la natura dell’uomo: terribile
e splendido a un tempo.
Tremende dovevano essere quelle due figure, rese miti forse per un solo istante, come
tremenda era la gioia che dovevano annunciare: una gioia terribile e splendida, capace
realmente di annientarci ma anche di colmarci con doni inauditi – la più pura espressione
della carità celeste. “E’ risorto, non è qui…”: è mutata la gioia di Dio – è mutata la gioia
dell’uomo.
Al termine della X Elegia, come un augurio, Rilke afferma che
se risvegliassero, i morti senza fine, una metafora in noi,
vedi, indicherebbero forse gli amenti delle avellane, penduli, oppure
la pioggia, che sulla terra cade a primavera. – 6
Se la nostra vita è un mistero semplice, una semplice parola può bastare a rivelarla senza
ambiguità: non può esservi dubbio che Rilke l’abbia cercata con tutto se stesso, fino allo
stremo delle forze, e abbia tentato di riconoscerla ovunque attorno a sé, persino nel
dolore e nella malattia che lo ha consegnato alla terra:
Vieni tu, ultimo ch’io riconosco,
nelle fibre del corpo insanabile dolore:
come arsi nello spirito, ecco ardo
in te7 […]
L’ha trovata, forse, nel silenzio della contemplazione, nel puro sguardo: gli “amenti delle
spoglie avellane”, “la pioggia, che sulla scura terra cade a primavera”. E’ una metafora
semplice, suggerita “dai morti senza fine”: una metafora tragica e pura, mesta, composta
in una pace dolorosamente serena. Eppure, il Risorto sembra suggerircela identica,
donandocela come realtà: come possibilità inaudita di gioia. Gli angeli, certo, lo sapevano
bene:
4
Lettera a Karl von Heidt, 11 marzo 1913; si veda G. Baioni, “Rainer Maria Rilke. La musica e la
geometria”, in R. M. Rilke, Poesie I, p. 1.
5
R. M. Rilke, Duineser Elegien I, 5, in Id., Poesie II, p. 57.
6
R. M. Rilke, Duineser Elegien X, 106-109, in Id., Poesie II, p. 107.
7
R. M. Rilke, Poesie II, p. 327; si tratta, come segnala il curatore del volume, dell’ultima annotazione di
Rilke, a Val-Mont, verso la metà del dicembre 1926, poco prima della morte.
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E noi che la felicità la pensiamo
in ascesa sentiremmo la commozione,
che quasi ci atterra sgomenti,
per una cosa felice che cade8.
Il Risorto – “la vita” che “si è fatta visibile”9 – ci aveva già amati con rispetto e cortesia
ineguagliabili: aveva taciuto la propria gioia, vi aveva accennato una volta soltanto, ma
aveva promesso che sarebbe stata nostra, e che nessuno mai avrebbe potuto privarcene10;
per questo ci aveva già donato il pane e il vino, e ci aveva preannunciato il Consolatore.
Possiamo immaginarlo, esultante, attraversare vivo la pietra che avrebbe dovuto
imprigionarlo per sempre, respirare la luce consueta in modo nuovo, osservare attorno a
sé con gioia inesprimibile. Come ultimo dono, forse, il più alto tra i molti, ha voluto per
noi un cadere cosciente, un nuovo cadere: ci ha donato il suo stesso destino. Siamo
pioggia: d’acqua, per lo più, è formata la nostra materia pensante, il nostro organismo
vivente. Anch’egli, fattosi goccia, è caduto nella terra, così che anche noi, ora, cadiamo
come gocce di sangue tra le Sue mani ferite, in un mistero d’amore che svelerà, alla fine
dei tempi, un mistero inconcepibile di gioia. Egli è qui, vivo e presente: cade con noi tra
le Sue stesse mani, entra con noi nella terra che non ci appartiene più perché anch’egli
l’ha attraversata, come scivola dell’acqua nel terreno e si perde tra le radici degli alberi,
tra i minerali della terra. Con divina finezza, ha rispettato la nostra natura più vera: ha
voluto che noi lo sapessimo per bocca dei suoi angeli, grazie alla testimonianza di tre
donne di Gerusalemme. Attraverserà con noi quella pietra che ha già oltrepassato nella
solitudine, rivivrà l’esultanza di quel giorno assieme a noi? Tutto, ora, gli appartiene: ogni
nostra ferita, ogni nostra infermità è Sua di diritto, perché ha varcato quella pietra,
perché ha promesso di attraversarla ancora una volta con ciascuno di noi, perché ci ha
donato il Suo corpo e il Suo sangue, e li ha lasciati cadere nella terra. Ha voluto che lo
sapessimo e ha mandato i suoi angeli: perché, come ci suggerisce Rilke, potessimo cadere
“felicemente”, glücklich: in una gioia cosciente, voluta e cercata nella fedeltà al Suo
mistero e alla terra che l’ha accolto. Nel Suo nome, possiamo riconciliarci con la nostra
natura, che è un puro cadere; possiamo amarla con tutto il cuore ed esserle intimamente
fedeli perché cadiamo con Lui e in Lui, nella terra che è Sua e di nessun altro. Così
Ignazio d’Antiochia chiese d’essere macinato dai denti delle belve per divenire frumento
di Cristo, e se ne rallegrò; così Stefano cadde sotto una pioggia di pietre, e vide i cieli
aperti; così caddero Paolo, Perpetua, Felicita, Policarpo e molti altri.
C’è verità in queste parole? Non mente il Vangelo della gioia? Sono veramente un
tempio il pane e il vino, muti e incomprensibili nella semplicità della propria grandezza?
Viene da pensare che il pane, nella sua evanescenza, venga a nutrire il nostro corpo per
appesantirlo, perché cada in linea retta; e che il Consolatore ci sia stato dato perché
sappiamo riconoscere con esattezza la traiettoria del nostro cadere. La fede in Lui, del
resto, è una fede di pura speranza: pochi e lontani i testimoni, inauditi gli angeli terribili.
E’ un fuoco alto la speranza.
8
R. M. Rilke, Duineser Elegien X, 110-113, in Id., Poesie II, p. 107.
1Gv 1, 2.
10
Gv 16, 23: “Nessuno vi potrà togliere la vostra gioia”.
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Gli angeli, forse, erano in pena per le donne che dovevano arrivare, ascoltare, capire;
erano in pena per coloro che il Risorto aveva scelto come propri fratelli, e che sulla Sua
parola avrebbero creduto, sofferto e sperato. Non sarà troppo per loro, si saranno
chiesti, sapranno e vorranno cadere così, “felicemente”, fedeli alla terra e alla gioia? Forse,
accolsero questa pena nella gioia che li pervadeva, e che nuovamente li creava come
all’alba del loro primo giorno, quando ancora non esisteva l’universo; forse, la loro gioia
ne risultò mutata e accresciuta, in un modo che non possiamo spiegare.
Come uomini, con stupore e gratitudine, siamo pronti a farci tutt’uno con essa: a osare, a
amare fino all’estremo. A cadere con Lui, fiduciosi nella Sua gioia: la stessa che provò
attraversando vivo quella pietra, terribile e splendido nella propria esultanza.
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Per celeste cortesia
- Ma perché voi ebrei rispondete sempre
a una domanda con un’altra domanda?
- E perché no?
STORIELLA YIDDISH
Il colloquio potrebbe continuare: benché il Tempio di Gerusalemme abbia potuto, un
tempo, accogliere la gloria di Dio, nessuna pagina può ancora cogliere la gioia in tutta la
sua gloria, e il discorso procederebbe all’infinito. E’ bene che continui, ma nel segreto.
Un uomo chiedeva a un vecchio ebreo: “Ma perché voi ebrei rispondete sempre a
una domanda con un’altra domanda?” Possiamo immaginare il suo sorriso mite, appena
abbozzato ma intensamente luminoso quando rispose a fior di labbra, con disarmante
innocenza: “E perché no?”
Così dobbiamo fare: interrogare la gioia che ci chiama, interpretare i suoi inviti, chiederle
la ragione della sua natura e della sua provenienza. Avremo lo stupore di molte scoperte:
incontreremo, tra gli alberi e le case che ci sono familiari, lo splendore di un mondo
rinnovato, ricco e semplice da amare come mai avremmo immaginato; impareremo ad
attraversare il tempo accogliendo e irradiando in esso una luce inesauribile, che resterà
dopo di noi; e a lasciarlo con serena dignità, “sazi di giorni” come gli antichi patriarchi.
Possiamo riconoscere nella gioia gli occhi del nostro Dio, quale che sia, e coglierne
ovunque i cenni: d’invito, di disponibilità, di perfetta sussistenza. Forse così ci parla il
Cristo: il Dio che è sceso così profondamente nella terra fino a farsi pianta della terra,
fino a dirsi “figlio dell’uomo”, che dimora forse tra le sue vene, tra lo stupore muto dei
minerali e dei cristalli che non sanno percepire, e che affiora a tratti nel brulicare della
vita – per farsi presente: per farsi riconoscere. Da chi, se non da noi? Perché, se non per
puro amore, per divina sovrabbondanza, per celeste cortesia – immotivata,
perfettamente gratuita? Possiamo lasciarlo trasparire nel mondo che gli appartiene: l’ha
conquistato con la forza paziente della propria gioia, e noi glie lo dobbiamo.
Forse, i cieli sono vuoti, gelidi, muti. Forse, è un altro il Dio che li abita, e nulla
ha a che fare con la gioia; forse, ne ha solo permesso l’esistenza, o l’ha bonariamente
tollerata, scuotendo il capo per la nostra sciocca ingenuità; forse, ha creato abissi di
dolore per domarci, e vuole da noi un tributo inesauribile di sangue in ricordo di
un’antica offesa; forse, la gioia non è tra i suoi messaggi, ma li contraddice tutti per
tentarci – e mentiva anche “l’uomo dei dolori”.
Possiamo pregarlo, allora, di una piccola, estrema cortesia. Nel giorno in cui le trombe
squilleranno e i cieli e la terra dovranno passare – questi cieli, questa terra che così
appassionatamente amiamo perché semplicemente sono – l’angelo, gentile, taccia sul
luogo del nostro riposo, passi oltre e ci lasci sparire, ci dissolva assieme alla terra con cui
ci siamo confusi ed identificati: difficilmente i nuovi cieli ne saranno offuscati, né la
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nuova terra sentirà la mancanza del nostro peso. Chiunque sia, non vorrà negare questa
grazia a chi la chiede nel nome della gioia.
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