Le scarpe di Vigevano corrono con il lusso

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Le scarpe di Vigevano corrono con il lusso
21/08/12
Le scarpe di V igev ano corrono con il - I passi perduti sono italiani. Le - Il S ole 24 O RE
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21 agosto 2012
Le scarpe di Vigevano corrono con il lusso
I passi perduti sono italiani. Le impronte che li hanno sostituiti sono cinesi. Il distretto vigevanese della calzatura,
in provincia di Pavia, ha perso perfino il dialetto – che da queste parti è identità e cultura – per fare giocoforza
spazio al mandarino, ma l'élite sopravvissuta di imprenditori è, come un tempo, sempre con la valigia in mano e
i campionari dentro, pronta a salire su un aereo per chiudere in tutto il mondo affari milionari.
Nella città ducale in 50 anni è cambiato tutto ed è come se non fosse mai stato scritto il reportage di Giorgio
Bocca sul boom economico del dopoguerra.
Nel 1962, sul quotidiano Il Giorno, il giornalista scrisse di Vigevano: «Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se
esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste. Di abitanti cinquantasettemila, di operai
venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di librerie neanche una».
Ora a fare soldi non ci pensa più nessuno, gli abitanti sono 63.700, gli operai rimasti, uno dopo l'altro vanno in
cassa integrazione, le poche librerie chiudono e quasi tutti i milionari calzaturieri se ne sono andati o hanno
chiuso prima della crisi a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Quelli che sono rimasti, i soldi li hanno reinvestiti
nelle fabbriche: se la roulette ha girato per il verso giusto sono rimasti sul mercato, altrimenti ci hanno rimesso
anche il patrimonio.
Non solo: gli operai, nella città ducale a 45 km da Milano e 25 da Pavia, sono stati via via sostituiti da una pletora
indefinita e indefinibile di lavoratori edili che hanno contribuito al boom del mattone in una città dove le case non
si vendono più da anni anche se in consiglio comunale c'è chi ancora pensa di basare il futuro su una nuova
espansione urbanistica magari fatta a colpi di centri commerciali, compreso un outlet, di cui si favoleggia da
anni, che se mai fosse costruito diverrebbe il tappo che farebbe implodere un territorio in cui le infrastrutture
viarie – ferrovie e strade – sono degne di un Paese in via di sviluppo.
Forse per orgoglio, forse per cecità, qui analisti, sindacalisti e imprenditori contestano che un territorio possa
essere letto (anche) attraverso i numeri. Sarà ma – soprattutto a chi li usa per calzarli in una forma che poi
diventa scarpa – i numeri dovranno pur dire qualcosa sulla trasformazione del distretto.
Nel 1907 i calzaturifici erano 36, gli addetti 1.470, gli artigiani 8mila e le paia prodotte ogni giorno 1.110. Nel
1962 le imprese erano 970 e le paia sfornate ogni anno 27,5 milioni, di cui 14 esportate. Fu l'apice. Poi il crollo.
Nel 1992 le aziende rimaste erano 150 e oggi, dichiara Massimiliano Boccanera, dell'Unione industriali di
Vigevano, «le imprese industriali saranno al massimo una quindicina con circa 800 dipendenti di cui la metà è
assorbita dal calzaturificio Moreschi, vanto dell'area e fortemente legato all'idea del made in Italy». A queste
vanno aggiunte 40/45 medie imprese e all'incirca altre 300 realtà artigianali. «Anche per noi – dichiara Roberto
Gallonetto, segretario generale di Confartigianato Lomellina – è dura contarci. Quello che sappiamo è che nel
primo trimestre del 2011 le 41 aziende metalmeccaniche della calzatura non avevano chiesto una sola ora di
cassa integrazione. Nei primi tre mesi di quest'anno ne hanno chieste 801».
La filiera – dal modellista al costruttore di scatole, dal fabbricante di fibie a quello di stringhe, dal trinciatore al
chimico, dal conciatore al cucitore, dal tessile al verniciatore – si è sfibrata come un laccio vecchio. «Il fatto che
quel che rimane di questo distretto ancora resiste – dichiara Boccanera con una lucidità che molti degli associati
non hanno – è legato al sistema moda italiano, che traina il lusso e l'alta gamma. Per il resto la filiera è
completamente sfibrata. Pochi ormai i suolifici e i cordolifici. L'ultima azienda che produceva stringhe ha chiuso
10 anni fa. Per i particolari in metallo, che prima si trovavano in loco, i nostri produttori ora si rivolgono agli
artigiani toscani». Le difficoltà del settore calzaturiero hanno trascinato inevitabilmente nell'incertezza anche il
comparto meccano-calzaturiero che si era sviluppato floridamente negli anni del boom economico.
Una filiera che aveva permesso la nascita nell'85 del Cimac (il Centro italiano di materiali di applicazione di
applicazione calzaturiera) e l'anno successivo l'insediamento dell'Istituto di tecnologie industriali e automazione
(Itia) del Cnr (Centro nazionale di ricerche). L'annus horribilis è stato il 2002. I cinesi – che fino a quel momento
avevano importato dall'Italia macchine per produrre scarpe – in quell'anno cominciarono a fare in proprio anche
quelle, oltre alle scarpe. Addio qualità e sogni di gloria per il distretto vigevanese. «Nel '92 – ricorda Amilcare
Baccini, managing director di Assomac, l'associazione nazionale dei costruttori macchine ed accessori per
calzature, pelletteria e conceria che proprio a Vigevano ha sede – la Cina produceva 3,1 miliardi di scarpe
all'anno di cui due destinati ai mercati mondiali. Lo scorso anno ne ha prodotte 13 miliardi di cui 10,1 miliardi
esportate».
Già, il '92. È stato l'altro annus orribilis. «È stato l'anno in cui ci siamo addormentati come leader indiscussi nella
produzione di macchine, come geni conclamati del settore calzaturiero – ricorda ancora Baccini –, ma ci siamo
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risvegliati lo stesso anno con l'inizio di una crisi progressiva e con la consapevolezza che stava iniziando la
scalata della Cina come maggiore produttore del settore». Del resto – per rimanere al mondo delle macchine
per calzature – è difficile anche sperare nell'innovazione. «Siamo un settore maturo – spiega Baccini – e quindi
anche l'innovazione è complessa, perché il mercato è nato per meccanizzare singole operazioni e più di così non
è possibile fare». Competere con i numeri asiatici è impossibile, nonostante l'Italia, con 212 milioni di paia
esportate nel 2011 sia al terzo posto nel mondo dopo Cina e Vietnam (625 milioni) che poi altro non sarebbe
che una "colonia" della stessa Cina. Competere è impossibile anche perché i cinesi stanno riempiendo – anche
fisicamente – gli spazi lasciati vuoti nei magazzini da decine di tranciatrici, orlatrici e cucitrici, che producono
senza regole per il mercato di bassissima fascia.
L'ultima cantina trasformata in fabbrica che serviva clienti soprattutto fuori dal distretto – regolarmente affittata da
una cittadina cinese – la polizia locale di Vigevano l'ha scoperta e chiusa non più tardi di cinque mesi fa.
Realizzavano tomaie fuori da ogni regola. «Possiamo affermare – spiega Gallonetto – che l'attenzione degli
imprenditori e delle Forze dell'ordine è massima e questi risultati finalizzati a sventare la concorrenza sleale
sono anche frutto della buona collaborazione che si è instaurata nel distretto».
E allora – finiti i sogni di gloria che hanno portato marchi storici di aziende produttrici di macchine per calzature
come Atom e Molina&Bianchi a produrre anche in Cina per salvare centinaia di posti a Vigevano e da lì fornire i
mercati internazionali – oggi tutta la filiera meccano-calzaturiera si è asciugata nella speranza di non doversi
prosciugare.
Chi resta è passato per una selezione naturale della specie che non sembra poi dispiacere più di tanto, anche
per chi ha fatto intelligentemente ricorso alla diversificazione. Chi prima si rivolgeva solo al mercato della scarpa
oggi – come a esempio Accoppiatura Padana srl – produce tessuti e articoli tecnici destinati anche
all'abbigliamento, all'insonorizzazione, al packaging, alle pellicole per la balistica.
Via la fuffa e via il superfluo, è rimasta la crema che esporta il lusso e l'altissima gamma. Maestri calzaturieri
come Massimo Martinoli e suo fratello Mario, seconda generazione, che con la Caimar a fine 2010 fatturavano
sei milioni con un utile di un milione, producono o hanno prodotto per l'altissima gamma del lusso per donne:
da Dior a Yves Saint Laurent da Givenchy a Alexander Mc Queen, da Manolo Blanik a Oscar de la Renta.
«Abbiamo 60 dipendenti – dice Massimo Martinoli – e produciamo 80mila scarpe all'anno. Esportavamo già
negli anni Settanta ma oggi il 99,99% della nostra produzione vola all'estero».
La storia di Martinoli è difficilmente replicabile oggi. Anzi: impossibile. Il padre, Cesare, nel 1944 fu aiutato
economicamente ad avviare la sua attività da Pietro Bertolini, uno dei proprietari della Ursus Gomme, la più
grande azienda di calzature in gomma e articoli tecnici di Vigevano nel secolo scorso. Fondata nel 1931 è fallita
nel 1987 e ora l'immensa area che occupava nel centro della città è stata riqualificata ed ospita anche l'Agenzia
delle entrate.
Ursus Gomme era capofila di una serie di aziende sviluppatesi negli anni – da Fisca Gomme a Giardini fino a
Icaiplast – che grazie alla chimica era riuscita ad accompagnare lo sviluppo del settore calzaturiero. Oggi hanno
chiuso quasi tutte o versano in condizioni gravissime.
Impossibile pensare oggi ad un commendator Bertolini che dà la spinta ad un giovane Cesare Martinoli che –
grazie a quell'aiuto – mise in piedi un'azienda gioiello e fu tra i primi – negli anni Cinquanta – a produrre scarpe
con tacchi a spillo e ad esportare negli Stati Uniti.
L'alta qualità e la gamma altissima contagiano ormai tutta la filiera incapace – a oggi – di partorire una scuola di
formazione anche se, come dice Martinoli, «avanza l'idea di un polo tecnologico che inglobi anche Cimac a ItiaCnr». Sarà anche che il futuro è la formazione in un polo tecnologico ma Boccanera commenta amaramente:
«Abbiamo e avremo anche le competenze necessarie per riuscire a trasmetterle ma poi mi domando: a chi?». Il
futuro sarà la formazione in un polo tecnologico ma intanto, come ricorda Gallonetto, «cerchiamo di fare
emergere e far conoscere nel mondo le nostre produzioni di qualità».
La qualità e l'attaccamento all'azienda – per chi è sopravvissuto alle intemperie e alle turbolenze dei mercati
globalizzati – qui sono chiodi fissi. Maria Liboi, socia al 25% dell'azienda di famiglia Novaelle srl, a fine 2010
fatturava 271mila euro ma l'utile era di appena 5.457 euro.
Negli anni d'oro tutto ok ma poi, come tutti quelli ora sul mercato, «abbiamo messo i nostri soldi in azienda per
mandarla avanti» dice l'"anima" di questa azienda artigianale che vende alle imprese vigevanesi che esportano
le proprie tomaie di altissima qualità. Ed è proprio in questa imprenditrice che manda avanti con mille sacrifici
l'azienda che si rispecchia il futuro di questo distretto. «C'è un ritorno all'acquisto del made in Italy – spiega –
anche nel nostro Paese. La grande catena Pittarello, ad esempio, dal nostro cliente vigevanese al quale
forniamo le tomaie, quest'anno ha preso centinaia di migliaia di scarpe».
Non sarà una formula magica ma unire qualità e giusto prezzo nel mercato domestico – oltre ai fasti delle piazze
internazionali – è senza dubbio la sfida del distretto (meglio: di ciò che resta) nei prossimi anni.
IL RATING DEL SOLE
Il punteggio
Attraverso una griglia di 12 variabili ciascun distretto è definito nei suoi punti di forza e di debolezza. Il distretto è
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gravato da un costo del lavoro elevato e da un deficit infrastrutturale mai colmato. Le aziende riescono però a
compensare con grandi capacità innovative e produttive
IL GIUDIZIO
PUNTI DI FORZA
1
INNOVAZIONE
Le imprese industriali ed artigianali del distretto di Vigevano sono in grado di tenere il passo con il tempo. Non
soltanto nel mercato domestico, ma anche e soprattutto nelle piazze internazionali dove il gusto italiano riesce a
imporsi senza per questo svilire usi e tradizioni dei Paesi che importano le scarpe prodotte nel territorio pavese.
Un esempio classico è la disponibilità dei Paesi appartenenti all'ex Unione Sovietica a importare le calzature di
lusso.
ALTA
2
PRODUTTIVITÀ
La filiera è in grado di produrre "pezzi" di qualità eccelsa che ha pochissimi rivali (e oltretutto in Italia). Tutto
questo nonostante si lamenti la mancanza di una scuola di formazione (soltanto in quest'ultimo periodo
amministratori pubblici e imprenditori stanno valutando l'ipotesi di un polo tecnologico di innovazione). Per
fortuna le fabbriche sono in grado di formare addetti e operai in grado di soddisfare in qualunque momento ogni
esigenza dei clienti.
BUONA
3
DIMENSIONI D'IMPRESA
Moreschi a parte – che occupa circa il 50% degli addetti del comparto calzaturiero industriale – le imprese
vigevanesi sono di media dimensione o di livello artigianale. Questo permette – nel momento in cui la crisi
globale morde – di mantenere le posizioni e cercare di sostenere anche i livelli occupazionali. Soprattutto
quando – come nel caso vigevanese – esistono alcuni brand che danno visibilità alla filiera.
DISCRETA
PUNTI DI DEBOLEZZA
1
ANTIDOTI ALLA CONCORRENZA SLEALE
Il distretto calzaturiero di Vigevano soffre la concorrenza cinese. Nono soltanto quella oltreconfine, che nasce
prorio nei confini patrii del gigante asiatico, ma anche quella che lentamente si sta sviluppando all'interno dello
stesso distretto.
Laggiù le aziende producono a ritmi irraggiungibili e con un costo del lavoro estremamente basso, qui – invece –
iniziano a occupare gli spazi lasciati negli anni dagli imprenditori locali fornendo prodotti di fascia bassissima e
al di fuori da ogni regola.
INSUFFICIENTE
2
ATTRATTIVITÀ
Il distretto di Vigevano appare poco appetibile per chi volesse trasferire qui competenze e conoscenze. E non
tanto perché manchino strutture altamente qualificate (come Cimac e Itai Cnr) in grado di accompagnare le
aziende, ma soprattutto perché le infrastrutture viarie (strade e ferrovie) lasciano molto a desiderare.
Inoltre, soltanto adesso la politica locale sta pensando alla realizzazione di un polo tecnologico dell'innovazione.
SCARSA
3
COSTO DEL LAVORO
Il costo del lavoro appare una variabile "impazzita". Gli imprenditori
sono disponibilissimi a pagare bene le professionalità di livello, ma chiedono libertà in ingresso e in uscita
soprattutto nei momenti in cui bisogna far fronte ai picchi di produzione o alle depressioni economico-produttive.
Oltretutto il costo del lavoro non ha paragoni con il concorrente diretto: i Paesi asiatici.
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