N.31 del 15 settembre 2013 - Circolo Culturale L`Agorà

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N.31 del 15 settembre 2013 - Circolo Culturale L`Agorà
N.31 del 15 settembre 2013
Intervista - Francesco Leoncini Dubcek? Un comunista, innovatore, ma comunista
martedì 10 settembre 2013
Ferdinando Leonzio
Il 20 agosto del 1968, i carri armati del Patto di Varsavia, dopo aver varcato i confini della
Cecoslovacchia per portare l’aiuto ‘fraterno’ del comunismo internazionale, misero fine alla
‘Primavera di Praga’, raro esperimento di liberalizzazione politica al di là della ‘cortina di ferro’.
L’Unione Sovietica riprendeva così il totale controllo del Paese interrompendo l’avventura riformista
di Alexander Dubcek. Nell’occasione abbiamo parlato con Francesco Leoncini, slavista
dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Quale influenza hanno esercitato sul socialismo internazionale il pensiero e l’azione di
Dubček?
Nell’intervista che egli rilasciò a l’Unità, in esclusiva mondiale, il 10 gennaio 1988, la prima dopo
vent’anni dalla ‘Primavera di Praga’, Dubček esprime chiaramente il suo pensiero: “Sono convinto
da sempre che il socialismo può e deve essere quell’ordinamento socio-politico, economico e
culturale capace di comprendere nel modo più pieno e totale e soddisfare i bisogni e gli interessi
della classe operaia e degli strati più larghi di lavoratori, delle nazioni. Al centro deve avere il
massimo di umanesimo, etica e moralità. Socialismo, pace, eguaglianza di diritti, autorealizzazione
dell’uomo e delle nazioni sono concetti che appartengono da sempre al mio credo. A questi valori
attribuisco una straordinaria importanza universale”. è evidente quindi che da queste affermazioni
ne esce un leader politico di grande spessore ideale, eppure la sua fortuna a livello mondiale non
fu pari al rilievo che il suo esperimento e il suo ruolo ebbero in quegli otto mesi del 1968 in
Cecoslovacchia. Anche i movimenti libertari di sinistra, che in quell’anno e successivamente furono
assai attivi in Occidente e nei quali militavano molti giovani, guardavano altrove. Per loro i luoghi
del socialismo e della rivoluzione erano altri e molto lontani, erano nella Cina di Mao, nella Cuba di
Castro e nell’America Latina di Che Guevara. L’infatuazione fu tale che di fronte a un processo
come quello che si stava sviluppando nel cuore dell’Europa, in una società industriale che per molti
aspetti ricordava le condizioni di quelle occidentali, e quindi tanto più doveva essere valutato
attentamente, portato avanti da una leadership comunista onestamente desiderosa di un
cambiamento rispetto al ‘comunismo da caserma’ del quale puzzava tutta l’Europa orientale, si
rispose con l’accusa irrefutabile che si trattava di un ‘esperimento tecnocratico’ ovverosia né più né
meno di un ritorno a una forma di capitalismo.
Il ‘maggio francese’ d’altra parte, pur esprimendo un forte richiamo ai valori di libertà, si scagliava
contro la società dei consumi ed era animato da un sentimento di collera contro l’imperialismo
americano in Vietnam, per cui poi l’intervento sovietico in Cecoslovacchia passò in secondo piano.
Va invece senz’altro messo in evidenza come l’esperienza del ’68 cecoslovacco trovasse ampia eco
nella socialdemocrazia tedesca. Certo sul piano dei rapporti internazionali la migliore iniziativa
secondo Brandt era quella di ‘non fare niente’, nel senso di non dare adito alla dirigenza sovietica
di accusare gli artefici del ‘nuovo corso’ di collusione con il nemico esterno. Ma all’interno del
partito, specie nella sua ala più progressista, si guardava con grande interesse, direi con
entusiasmo, a quanto stava accadendo a Praga e a Bratislava, che appariva particolarmente in
sintonia con le aspirazioni per un’ulteriore democratizzazione e liberalizzazione della società
tedesca. Quando nell’ottobre dell’anno successivo Willy Brandt si insediò quale Cancelliere, le sue
parole davanti al Bundestag sembravano riecheggiare il senso profondo del pensiero del leader
della ‘Primavera’: “Noi vogliamo osare più democrazia […] La partecipazione diffusa alle
deliberazioni e alle responsabilità nei vari campi della nostra società sarà una forza motrice per gli
anni a venire […] Noi vogliamo una società che offra più libertà e promuova più responsabilità”.
In concreto comunque Dubček restò solo nel suo titanico confronto con il despota di Mosca mentre
i partiti comunisti occidentali riaffermarono ancora per molti anni la loro sostanziale fedeltà
all’Unione Sovietica. Alla fine del ’69 Nenni scriveva nel suo Diario, in riferimento alla situazione
italiana: “Noi stiamo perdendoci proprio a causa dei nostri errori”. Il messaggio radicale, ma non
violento, il ‘senso liberatorio del socialismo’ (Karel Kosík), che proveniva dalle sponde della Moldava
e del Danubio restava senza risposta.
Il gruppo dissidente de il manifesto espulso dal PCI, anche per la sua posizione sugli eventi
cecoslovacchi, intitolò l’editoriale del quarto numero della sua omonima rivista: ‘Praga è sola’, nel
settembre 1969. Pure i socialisti ‘di sinistra’ dell’allora PSIUP (Partito Socialista Italiano di Unità
Proletaria) restarono del tutto indifferenti alle istanze di rinnovamento che si erano manifestate in
un Paese di ‘democrazia popolare’.
Quali furono i rapporti tra Dubček e il PSI?
Ma, vede, Dubček, come lei sa, aveva avuto una formazione sovietica, aveva passato gran parte
della sua giovinezza in Kirghizia, dove i genitori lo avevano portato ancora bambino nella speranza
di contribuire a costruire una ‘nuova società’, poi aveva partecipato alla Resistenza ed era
successivamente diventato un funzionario del partito comunista cecoslovacco, il più duro e il più
ortodosso alla linea di Mosca. Lentamente però evolve verso una posizione critica nei confronti del
modello sovietico e quando diventa primo segretario del partito comunista slovacco, nel ’63,
dimostra una notevole apertura verso le esigenze di rinnovamento politico, sociale e culturale che
si stanno evidenziando all’interno del Paese, nello stesso tempo una singolare (per un comunista)
disponibilità verso le istanze nazionali della sua terra d’origine. Ma resta pur sempre fedele alla
fondamentale bontà del suo credo originario, pensa che si debba e si possa democratizzare il
sistema. Solo nel dicembre dell’89 deciderà di non rientrare nel suo vecchio partito, seppur ormai
rinnovato, e di abbracciare i programmi della sinistra europea e delle socialdemocrazie nordiche.
Di conseguenza il suo punto di riferimento essenziale in Occidente, dal momento in cui inizia il
‘nuovo corso’, resta il Partito comunista italiano, che lui vede come quello che maggiormente si
avvicina alle sue idee, nel senso cioè che al legame indissolubile alla ‘patria del socialismo’ esso
unisce una attenta valutazione critica dell’esperimento sovietico ed esprime un’elaborazione teorica
che ha effettivamente dei tratti di novità rispetto ad esso. Sarà proprio Luigi Longo, nella sua visita
a Praga nel maggio del ’68 a definire ‘nuovo corso’ la strada intrapresa da Dubček e a fargli
un’ampia apertura di credito. Il 31 marzo di quello stesso anno egli aveva concesso a l’Unità la sua
prima intervista a un giornale straniero. Qui egli aveva affermato che il potere acquisito dal suo
partito non era dato ‘una volta per sempre’ e che era necessario rinnovarsi e ‘fare uno sforzo per
conquistare di continuo la fiducia e l’appoggio dell’opinione pubblica’. Bisognava inoltre cambiare
anche il modello politico se si voleva modificare il modello economico.
Nel lungo periodo della “normalizzazione” resterà solo un tenue filo con il PCI, essenzialmente ad
opera di funzionari, in particolare grazie all’impegno di Luciano Antonetti. Questi divenne poi, a
partire dal viaggio in Italia nel 1988, propiziato dall’Università di Bologna che volle insignire il
protagonista della ‘Primavera’ della laurea honoris causa in Scienze Politiche, l’interprete e l’amico
italiano più vicino al leader slovacco. In Italia una prima collaborazione tra PCI e PSI in funzione di
uno studio degli avvenimenti del ’68 cecoslovacco si ebbe nel luglio dell’88 con l’organizzazione di
un convegno a Bologna tra Fondazione – Istituto Gramsci e Fondazione Nenni.
Durante il suo primo viaggio nel nostro Paese Dubček incontrò anche Craxi, ma è significativo che
l’esponente socialista abbia voluto al suo fianco come interprete non tanto Antonetti, che era un
funzionario del PCI, ma Jiri Pelikan, già direttore della televisione cecoslovacca durante il ‘nuovo
corso’, esule in Italia dopo l’invasione, rifiutato dal PCI e accolto invece dal PSI, che aveva da
subito finanziato la sua rivista Listy. Essa aveva iniziato le sue pubblicazioni a Roma nel 1970 ed
era divenuta l’organo del movimento di opposizione cecoslovacco all’estero. Dubček e il PSI
restarono sostanzialmente estranei tra loro.