PIZZA MARGHERITA: SOMIGLIANZA AL FIORE DAI

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PIZZA MARGHERITA: SOMIGLIANZA AL FIORE DAI
PIZZA MARGHERITA: SOMIGLIANZA AL FIORE DAI BIANCHI PETALI OPPURE
OMAGGIO ALLA REGINA MARGHERITA DI SAVOIA?
Tutto avvenne a Napoli: Gloria d'Italia e ancor del mondo lustro, madre di nobiltade e di
abbondanza, benigna nella pace e dura in guerra. (Miguel de Cervantes) - In Europa ci sono due
capitali: Parigi e Napoli. (Stendhal)
Il problema, sollevato da Antonio Cima, è se la pizza margherita sia stata inventata da Raffaele
Esposito nel 1889 e dedicata alla Regina omonima, in occasione della cena alla Reggia di
Capodimonte, oppure se tale forma di pizza circolasse a Napoli già nei decenni precedenti e che il
nome fosse derivato dalla forma del fiore, la margherita appunto, cui somigliava per la presenza
delle fette di mozzarella.
Che la pizza con mozzarella venisse consumata a Napoli già nella seconda metà dell’’800 è
veramente confermato in "Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti”, edizione
coordinata dal De Bourcard, nell'ambito della quale sono ritratte le usanze del tempo, i personaggi
tipici del popolo, ed un'ampia carrellata di feste popolari e religiose di Napoli, ed alla cui stesura si
dedicò per circa vent'anni, dal 1847 al 1866.
Come si può osservare in originale alla pag 124 del 2° volume dell’editore De Bourcard, nel
capitolo “Il pizzajuolo” curata da Emmanele Rocco, la muzzarella veniva aggiunta alle pizze dette
coll’aglio e l’oglio (in cui era previsto anche l’origano).
Il basilico era aggiunto, invece a quelle condite con formaggio grattugiato e strutto (pizza alla
mastunicola). Non c’è, invece, alcuna presenza del passato di pomodoro, ingrediente oggi
fondamentale della quasi totalità delle pizze.
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(pag 124 di Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti, Volume 2)
Nell’articolo di Antonio Cima Sfatiamo la favola risorgimentale sulla Pizza Margherita (Vedi
articolo) si cita un fantomatico libro del 1830 Napoli, contorni e dintorni nel quale l’autore, tale
“Riccio”, avrebbe parlato della preparazione già in quegli anni di una pizza con pomodoro,
mozzarella e basilico.
Fantasia!
Com’è possibile che il pomodoro fosse presente fra gli ingredienti della pizza nel 1830, come
sembra affermare il “Riccio”, mentre nella raccolta del De Bourcard pubblicata circa 25 anni dopo
non vi è traccia di esso?
Infatti nel passo sottostante Emmanuele Rocco, nel volume del De Bouchard, elenca gli ingredienti
delle varie pizze che venivano allora preparate e contenuti in vasi riposti su una specie di scaffale,
posto sopra il piano di lavoro del pizzajuolo: sale, formaggio grattugiato, origano, pezzetti di aglio.
Non è presente invece la scodella di passato di pomodoro, che oggi si trova in qualunque banco
di pizzeria.
Non è da identificare facilmente in quale periodo sia stato aggiunto il pomodoro, su questo piatto
semplice e povero, costituito da prodotti facilmente reperibili e di basso costo ( farina, olio, sale e
lievito), e che può vantare tuttavia origini antichissime.
E’ dunque verosimile che non si tratti di un falso storico (come vorrebbe Antonio Cima) il fatto che
si tramanda, secondo cui Raffaele Esposito abbia introdotto il pomodoro e, con l’accostamento alla
mozzarella ed al basilico, abbia portato a tavola, nella famosa cena dell’11 giugno 1889 al palazzo
Reale di Capodimonte, una pizza di sua invenzione, dedicata a Margherita di Savoia prima regina
d’Italia come consorte di Umberto I di Savoia, poiché la moglie di Vittorio Emanuele II, Maria
Adelaide d'Asburgo-Lorena, era morta nel 1855 e quindi prima della proclamazione del Regno
d'Italia avvenuta nel 1860.
Per quanto poi attiene alla storia della pizza, alcuni storici sostengono che lo stesso tipo di
alimento, con la medesima forma e i medesimi ingredienti, fosse già presente nella cucina degli
Etruschi. Sicura antenata della pizza fu la focaccia di epoca romana. A quei tempi era infatti molto
comune la preparazione di focacce di farro, una particolare specie di frumento usato dai Romani.
Riferisce Virgilio che i contadini erano soliti macinare i chicchi di farro, setacciarne la farina
ottenuta, impastarla con acqua, erbe aromatiche e sale, schiacciarla per farla diventare sottile,
conferendole la classica forma rotonda. Il libum, o placenta, così ottenuto, veniva cotto al calore
delle ceneri del focolare. La semplice focaccia prima di farro poi di frumento attraversò il medioevo
e giunse senza variazioni sostanziali ai primi anni del rinascimento.
Successe però che, con l’importazione dei nuovi prodotti alimentari dall’America dopo il 1492, il
Nord d’Italia giungesse a sostituire il frumento con il mais.
Il Sud, invece, continuò a basare la propria alimentazione sulla schiacciata di farina di frumento (dal
lat. pinsa, appunto).
L’uso della pizza, nella forma e denominazione attuale, è attestato dunque fin dal 1600, nelle
regioni meridionali dell’Italia. Con innegabile ingegno si cercò infatti di rendere più appetibile e
saporita la tradizionale schiacciata di pane. La pasta, cotta in forni a legna, veniva condita con aglio,
strutto e sale grosso, oppure, nella versione più "ricca", con caciocavallo e basilico.
Il luogo dove si diffuse e si trasformò nella pizza moderna nelle sue varie forme (in realtà si trattò
di una reinvenzione) fu Napoli che agli inizi del XVII secolo, con quasi 300000 abitanti, era la più
grande città d'Europa dopo Parigi - tre volte più estesa di Roma - ed era la nuova capitale
dell'arte, meta di mercanti, crogiolo di traffici marittimi, ecc.
Nel primo censimento dello stato unitario (1861), Napoli era
con 484.000 abitanti la maggiore città d’Italia.
In una città così grande il problema di mettere qualcosa nello
stomaco è stato da sempre una delle maggiori
preoccupazioni di gran parte della popolazione. I mangiatori
di erba erano una percentuale altissima della popolazione.
Lo riferisce l’Abate Galiani, che nel 1777 scriveva nel suo
“Vocabolario”, alla voce verdura: “Fu tanta la passione che
per la foglia cappuccia ebbero i napoletani del secolo passato, che ne acquistarono il nome di
mangiafoglia. Molti celebrarono le lodi della foglia. Ora restano eclissate dai maccheroni”. (Noi
aggiungiamo: anche dalla pizza)
Nonostante Napoli si trovasse sul mare, a quei tempi non si parlava certo di dieta mediterranea.
Quella dei napoletani del XVI secolo era una dieta del cavolo: tale era infatti la “foglia cappuccia”
di cui parla Ferdinando Galiani. Costava poco, e si coltivava facilmente nei mille orti della città e
del contado. Insomma, si andava avanti con ortaggi. Il pane era una ricchezza. Di carne se ne
vedeva poca.
Per chi viveva di espedienti e riusciva a racimolare qualche soldo, mangiare per strada, con le mani,
un piatto di maccheroni fumanti, oppure consumare in piedi e ripiegata in quattro una pizza, era
l’unico modo per mangiare qualcosa di diverso dalle erbe, come ci conferma Matilde Serao nel
suo straordinario Il ventre di Napoli.
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Le pizzerie non dovevano essere poi luoghi ben frequentati se, sempre nel capitolo Il Pizzajuolo,
Emmanuele Rocco, nella raccolta del De Bourcard si esprime così
Lettore, sei stato mai frequentator dei pizzajuoli?
— No.
— Ebbene, questo scritto non è per te.
Il frequentatore dei pizzajuoli è un giovane scapato, che non ha occupazione alcuna o è semplicemente occupato
a star seduto dalle undici alle tre, fornito di stomaco forte e di poca moneta.
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… e le pizzerie non dovevano essere luoghi accoglienti se le loro stanze vengono descritte dal De
Bourcard come luridi camerini.
…. dove cinici avventori, forti di appetito e deboli di borsa, trascurando la famiglia, vanno a farsi
la pizza (si dice così ancora oggi a Napoli).
La vera pizza moderna, così come la intendiamo oggi, nasce dopo un determinato momento
storico: la scoperta, nel 1492 dell'America da parte di Cristoforo Colombo. E fu proprio il
navigatore genovese a portare in Europa la pianta del pomodoro, che solo nel 1596 verrà esportata
a Napoli dalla Spagna, dove era utilizzata come pianta ornamentale.
Prima edizione 1786 del Cuoco Galante
Cucina Teorico Pratica di I. Cavalcanti
Nel corso dell'Ottocento il pomodoro viene inserito nei primi trattati gastronomici europei, come
nell'edizione del 1819 del Cuoco Galante a firma del cuoco napoletano di corte Vincenzo Corrado,
dove sono descritte molte ricette con pomodori farciti e poi fritti. Nel 1839, il napoletano don
Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino in appendice alla seconda edizione della Cucina teorico
pratica, fornisce la ricetta per una salsa di pomodori da mettere sopra il pesce, la carne, i polli, le
uova. Nella stessa epoca si realizza il connubio tra pasta e pomodoro e sicuramente anche tra pizza
e pomodoro.
Le prime pizzerie, senza dubbio, sono nate a Napoli e fino a metà del '900 il prodotto era
un'esclusiva di Napoli. Fin dal 1700 erano attive nella città diverse botteghe, denominate "pizzerie",
la cui fama era arrivata sino al re di Napoli.
Si narra che nel 1772, Ferdinando I° di Borbone, re di Napoli dal 1751 al 1899 (re lazzarone o re
nasone), avesse violato le regole dell'etichetta entrando nella pizzeria di Antonio Testa detto n'
Tuono, che aveva la bottega alla Salita S. Teresa (abbastanza lontana dal Palazzo Reale). Meglio
andò quando nel 1780 Pietro Cavicchio, noto col soprannome Pietro o’ pizzajuolo, iniziò l’attività
nella sua bottega per pizze chiamata “Pietro… e basta così”, in Salita di S. Anna di Palazzo 2,
angolo Via Chiaia, questa voltà in prossimità del Palazzo Reale.
Ferdinando di Borbone, famoso per i travestimenti che gli consentivano di mescolarsi al volgo,
assaggiò entusiasta in diverse occasioni le pizze di Pietro o’ Pizzajuolo.
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Il re, nelle sue fughe dal Palazzo, assaggiava le diverse varietà di quel piatto che tanto piaceva al
suo popolo e, ritornando a Corte, lo descrisse con parole ispirate. Nobiluomini e nobildonne della
Corte napoletana lo imitavano forse anch’essi travestiti, ma il re non riuscì mai a convincere
Carulina, la regina, Maria Carolina d'Asburgo, figlia dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, che
boicottò la pizza come cibo da servire a Corte. Per continuare a mangiarla il re doveva andare, con
sotterfugi e travestimenti, nella vicina “Pietro e ….basta così”.
Ferdinando II (il tirannico re bomba), successo al padre Francesco I dopo il suo breve regno, non
ebbe, invece, alcun ritegno nel manifestare pubblicamente la predilezione per i piatti del suo
popolo. Scrive il De Cesare ne La fine di un regno: “A Ferdinando II, napoletano in tutto,
piacevano quei cibi grossolani del quali i napoletani sono ghiotti: il baccalà, il soffritto, la
mozzarella, le pizze e i vermicelli al pomodoro..” Al contrario del suo predecessore, egli non volle
rinunciare ai suoi gusti, ma piuttosto, preferì costringere i suoi cortigiani ad adattarsi. Ci riuscì
anche perché Maria Cristina di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele I, era una santa donna nel vero
senso della parola, infatti è sta riconosciuta come venerabile dalla Chiesa cattolica.
Nelle trattorie napoletane nasceva proprio allora la "ristorazione con un solo piatto", la pizza e, di
fatto, nascevano le prime pizzerie. Intanto il re Ferdinando II si fece costruire nel parco della
Reggia di Capodimonte, accanto ai magnifici forni degli Asburgo per la cottura delle famose
ceramiche di Capodimonte, un forno per le pizze da Domenico Testa, figlio del grande n' Tuono.
Ma ritorniamo alla pizza Margherita.
Nella seconda metà dell’800 la pizzeria “Pietro e…basta così” era divenuta di proprietà di
Raffaele Esposito e di sua moglie Maria Giovanna Brandi.
La fama delle pizze di Pietro, preparate ormai altrettanto bene da Raffaele Esposito, giunse
all’orecchio di Camillo Galli, Capo dei Servizi di tavola della Real Casa, così in occasione della
visita a Napoli dei reali di Savoia Umberto I° e Margherita (prima regina d’Italia) il Galli chiese ad
Esposito di preparare delle pizze per i reali ed i commensali di una cena alla Reggia di
Capodimonte.
Si racconta che Raffaele e la Moglie abbiano trasportato le pizze cotte in Salita Sant’Anna di
Palazzo su un carretto trainato da un asinello fino a Capodimonte (distante circa 4 km con un tempo
certamente non inferiore alla mezz’ora). Ma questo sembra molto remoto, in quanto la vera pizza
napoletana (cioè quella cotta in pochi secondi nel forno a legna mantenuto a temperatura molto
elevata) quando si raffredda diventa davvero pessima. Pertanto bisogna ritenere che Raffaele
Esposito abbia preparato le pizze nel forno di Ferdinando di Borbone.
Esposito preparò tre varietà di pizze: una alla “mastunicola”, con olio, basilico e formaggio
grattugiato, una alla “marinara” aglio, pomodoro ed origano, l’ultima, forse ideata da Esposito
oppure già conosciuta a Napoli, che conteneva gli ingredienti della mastunicola e della marinara,
ma con l’aggiunta della mozzarella (cioè con pomodoro, mozzarella e basilico).
Le pizze furono molto apprezzate dai commensali presenti alla cena a corte e particolarmente dalla
Regina. Alla domanda di Camillo Galli sul nome della terza pizza allora sconosciuta, Raffaele
Esposito rispose che si trattava della Pizza Margherita, in omaggio alla Regina.
La Pizzeria Brandi (dal nome della proprietaria di allora Maria Giovanna Brandi), erede dell’antica
“Pietro e Basta Così”, conserva, fra tanti altri cimeli, i ringraziamenti ufficiali da parte di Camillo
Galli, capo dei Servizi di Tavola della Real Casa, per conto della Regina Margherita di Savoia.
Negli anni '70, poichè gli eredi di Maria Giovanna Brandi non intendevano proseguire l'attività la
pizzeria passava in proprietà al suo pizzaiolo, Vincenzo Pagnani che, dagli inizi degli anni '60,
aveva sfornato pizze secondo quella tradizione.
Il forno di destra nella foto di sopra è stato costruito recentemente da Stefano Ferrara, il cui omonimo nonno costruiva forni fin dal 1920.
Per quanto riguarda la pizza sotto le varie forme si può dire che è oggi il prodotto più
commercializzato ed imitato della gastronomia globale. Sono ben 56 milioni i dischi di pasta che
vengono preparati nelle 23.000 pizzerie italiane con un giro d’affari (relativo all’anno 2011) di oltre
3 miliardi di euro. Per non parlare dei colossi americani: i titoli fumanti di Pizza Hut e Papa John's
International appaiono da anni nel listino della Borsa di New York; ma, anche la più piccola
Domino’s Pizza, ultima entrata a Wall Street, è un’azienda che può vantare 4,2 miliardi di dollari di
fatturato e 7.400 punti vendita.
Pur caratterizzata da una tipicità geografica regionale, s’è dunque mostrata in grado di raggiungere
ogni angolo del mondo e di essere apprezzata da tutti gli uomini. L’enorme successo ha moltiplicato
l’interesse per un’ufficiale rivendicazione di paternità del “prodotto ottenuto secondo la tradizione
italiana”, come recita il preambolo della richiesta ministeriale alle autorità europee, ma meglio
sarebbe dire napoletana.
È stato detto: “La pizza napoletana non ha inventori, non ha padri, non ha padroni, ma è il frutto
della genialità del popolo napoletano”. Basterebbe pensare che fino al 1950 le uniche pizzerie si
trovavano a Napoli, mentre nel resto d’Italia se ne contavano solo dieci (cioè circa la terza parte
delle pizzerie che operano oggi ad Amantea ed hinterland). Dagli italiani, anzi, è stata conosciuta
grazie alla sua
diffusione planetaria. Si potrebbe affermare, addirittura, che l’abbiano scoperta prima gli americani
e poi gli italiani.
A proposito della poca diffusione delle pizzerie in Italia in genere ed in particolare ad Amantea, mi
piace ricordare quello che accadde a noi giovinetti della 4^ liceo in visita d’istruzione di un giorno a
Napoli e Pompei nell’aprile del 1964. Guidati da Franco (Ciccio) De Pasquale, che al seguito del
padre ingegnere e direttore dei lavori per il raddoppio dei binari delle FFSS si era trasferito da
Napoli ad Amantea con tutta la famiglia ed era divenuto nostro compagno al Liceo, fummo condotti
alla Pizzeria Trianon, tempio riconosciuto della pizza margherita, nei pressi della famigerata
Forcella.
Lì avremmo dovuto gustare una delle migliori pizze napoletane al mondo. Ma quale non fu la nostra
delusione nell’assaggiare un piatto di una sostanza rovente e semiliquida (che raffreddandosi
diventava collosa ed insapore)! Al contrario schifata appariva la faccia di Franco (napoletano
verace) che ci guardava con la compassione con cui i napoletani osservano i cafoni.
In realtà, si trattava di una pizza margherita da manuale, cotta in pochi secondi in un forno rovente
prossimo ai 1000 gradi e con al centro un ciuffo di basilico bruciacchiato, che soprattutto allora
eravamo incapaci di apprezzare, data la poca conoscenza che noi avevamo di questo gustoso piatto
(pensate che allora, ad Amantea, muoveva i primi passi la Pizzeria Vairo che preparava ancora la
pizza nelle teglie cosparse d’olio!)
Amantea 29 marzo 2012
Dante Perri