3 - L`insegnamento di Archeologia Medievale nell`Università di Sassari

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3 - L`insegnamento di Archeologia Medievale nell`Università di Sassari
Marco Milanese
LA CERAMICA GREZZA MEDIEVALE IN SARDEGNA
1. METODI, FONTI, INDICATORI
Una riflessione sia pure sintetica sul tema delle ceramiche grezze medievali della Sardegna
si confronta oggi con un quadro documentario talmente frammentario e disomogeneo da
sconsigliare una valutazione complessiva del problema.
Nell’impostare tuttavia un primo approccio sistematico a questa classe tecnologica, uno
degli obiettivi di questo contributo è quello di eliminare letture semplificatorie e banalizzanti
delle ceramiche grezze medievali della Sardegna, luoghi comuni, non supportati da alcuna
documentazione oggettiva, quali richiami ad una presunta continuità antica o ad una produzione locale o domestica delle ceramiche grezze, solo sulla base dell’apparente semplicità
tecnologica dei manufatti.
Al contrario, dalle prime determinazioni archeometriche delle ceramiche grezze medievali
circolanti in Sardegna, esse risultano commerciate anche su distanze significative, secondo una
logica che parrebbe governata dall’ubicazione dei siti in rapporto alle caratteristiche delle argille
locali. Le indagini minero-petrografiche si stanno rivelando infatti particolarmente incisive
nell’identificazione di aree di provenienza anche lontane dagli insediamenti e che appaiono
solo in alcuni casi compatibili con la situazione geologica del territorio in cui si trovano gli
insediamenti.
La caratterizzazione archeometrica di questa classe tecnologica appare quindi fondamentale
per esplorare in tutta la sua portata storiografica un materiale che rischia altrimenti di essere
sbrigativamente liquidato in termini locali e di autoconsumo.
La ceramica grezza medievale appare predominante sulle altre classi nelle quantificazioni
dei contesti rurali ed urbani della Sardegna ancora nel XIV secolo, con punte talvolta significative anche in ambiente urbano.
Le fonti archeologiche e quelle archeometriche sembrano ad oggi le uniche vie che la
ricerca ha a disposizione per indagare la produzione ed il consumo di questi manufatti così
diffusi nel quotidiano del Medioevo sardo.
Le indagini degli ultimi anni – di pari passo al potenziamento dell’archeologia medievale
regionale (Fig. 1) – si stanno muovendo con una certa efficacia nell’identificazione degli aspetti
legati al consumo della ceramica grezza e delle prime letture archeometriche dei corpi ceramici,
mentre più difficoltosa risulta la documentazione “diretta” della produzione, non dedotta in
modo indiretto per via archeometrica, ma costruita sui luoghi fisici di lavorazione.
Questa difficoltà nell’identificazione delle aree e degli scarti della produzione è insita
nella natura stessa della qualità degli indicatori archeologici, per ragioni che si possono così
sintetizzare:
1. L’ipotesi di lavoro è che le ceramiche grezze medievali sarde fossero prevalentemente cotte
in fornaci a fossa, a catasta o a riverbero e non in forni verticali in muratura (con camera di
combustione distinta dalla camera di cottura), come nel caso delle ceramiche rivestite, anche
per l’esigua casistica conosciuta di ceramiche grezze prodotte in fornaci verticali.
2. Le tracce archeologiche dei processi produttivi a fossa, a catasta ed a riverbero sono molto
più complesse da identificare archeologicamente rispetto ai forni verticali in muratura, in
quanto necessitano di scavi stratigrafici estensivi capaci di caratterizzare in modo puntuale
paleosuperfici rubefatte e termotrasformate, associate ad indicatori di natura tecnologica.
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3. Le cotture proprie delle fornaci a fossa, a catasta o a riverbero sono più veloci e caratterizzate
da temperature inferiori rispetto a quelle proprie dei forni verticali.
4. La quantità di scarti prodotti nel primo caso è molto contenuta rispetto al numero elevato
di scarti proprio delle produzioni nei forni verticali. La differenza di temperatura può provocare al più qualche rottura accidentale nel primo caso (temperature più basse), fessurazioni e
fusioni vere e proprie tra manufatti nel secondo caso.
5. Mentre la riconoscibilità degli scarti prodotti dai forni verticali è conclamata, nel caso dei manufatti incidentati nei forni a catasta o a fossa non è tale ed è necessario un documento stratigrafico
raffinato (cfr. punto 2) per poterne cogliere i significati. La maggiore complessità tecnologica
di molte ceramiche cotte in forni verticali, sottoposte ad una doppia cottura, è un fattore che
incrementa il rischio di incidenti, collegato anche ai danni connessi con i rivestimenti.
2. CONTESTI E PROBLEMI
2.1 Altomedioevo
Lo stato della ricerca e delle edizioni analitiche di restituzioni e contesti di scavo altomedievali con ceramiche grezze necessitano ancora di ulteriori e mirati approfondimenti,
indirizzati al monitoraggio di associazioni e di comportamenti cronotipologici (PANI ERMINI
1994, p. 400; ROVINA 2001, p. 23 ss.). Il riferimento specifico che si può ricordare è quello con
ceramiche grezze decorate con cerchielli impressi, note dagli strati superficiali di siti nuragici
della Sardegna centro-settentrionale, datate al VI-VIII secolo, ma in genere prive di precisi
riferimenti stratigrafici e contestuali (LILLIU 1992), per i quali sono stati recentemente osservati
possibili collegamenti con produzioni di area toscana (BIAGINI 2006, pp. 186-187).
Le conoscenze sino ad oggi disponibili per questa fascia cronologica individuano comunque nell’abitato altomedievale di Santa Filitica (Sorso, SS) un sito di particolare interesse per
la presenza di un abitato bizantino (ROVINA 1999; 2003), con una frequentazione che dal
VII si spinge fino al IX secolo, come suggerisce il ritrovamento di una bolla plumbea del papa
Nicola I (858-867) e di un frammento di Forum Ware.
La ceramica grezza (pentole ed olle ansate) finora nota di questo sito proviene dalla fase III
(attribuita al tardo VI-inizi VII) di obliterazione della cisterna della preesistente villa romana
(GARAU 1999, p. 196, tav. I, nn. 5, 7).
Più complessa appare la valutazione delle grezze della fase V (in particolare, US 3003),
per la sua posizione stratigrafica superficiale (ROVINA 1999, pp. 188, 191, 193, fig. 20).
Se alcune olle con orlo ingrossato ed introflesso (GARAU 1999, p. 196, tav. I, nn. 1, 3-4)
sembrano rimandare ancora ad una continuità morfologica con modelli d’età imperiale e quindi
ad una possibile residualità di questi materiali, dalla stessa US 3003 provengono due testi
(GARAU 1999, p. 197, tav. II, nn. 1, 2), di cui uno del diametro di circa cm 15 (Fig. 2).
Gli interrogativi sollevati da quest’ultima presenza non paiono certo di scarso rilievo,
ma la posizione stratigrafica sopra richiamata e ben documentata nell’edizione preliminare
dello scavo (ROVINA 1999, p. 191, fig. 20 e p. 193) sembrerebbe agganciare i testi di Santa
Filitica alle fasi più tarde della frequentazione del sito, databili almeno al IX secolo, mentre
l’eventuale attestazione di questa forma nelle fasi più antiche potrebbe porre interrogativi
certamente ancora più complessi.
Certo è che il monitoraggio stratigrafico della presenza di questa forma a Santa Filitica e la
sua puntuale caratterizzazione archeometrica sembra il passaggio nodale che farebbe esprimere
a questo importante documento il suo potenziale informativo, non solo in termini di una
puntualizzazione cronologica, ma anche di un chiarimento sulla compatibilità o estraneità
petrografia del testo grezzo rispetto alle risorse locali.
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I primi dati archeometrici disponibili sulle ceramiche grezze di Santa Filitica nel loro
insieme suggeriscono la compatibilità tra la composizione dei corpi ceramici con la natura
delle argille locali e prospettano quindi l’ipotesi di una fabbricazione “locale” o “circumlocale”
del vasellame grezzo, in particolare per le fasi tardo-antiche ed altomedievali (ROVINA 2003,
p. 24), ma occorrerebbe un controllo minero-petrografico specifico sui testi.
Un altro contesto altamente significativo è il riempimento (US 31) di una fossa dall’area
adiacente il cimitero di Bonaria a Cagliari (MUREDDU 2002), attribuibile all’VIII secolo, con
una deposizione forse chiusa in un momento avanzato dell’VIII, per la presenza di un fr. di
Forum Ware. Lo scarico, interpretato come riferibile all’eliminazione di rifiuti domestici con
una dinamica omogenea e sufficientemente sincronica, rappresenta un documento stratigrafico
da approfondire nel quale si segnala la presenza di ceramiche grezze da fuoco.
2.2 Tra IX e XI secolo
Una recente ricognizione sulla diffusione del Forum Ware in Sardegna (MILANESE, BICCONE, ROVINA, MAMELI 2006) ha portato alla identificazione sistematica dei non numerosi
contesti stratigrafici o attestazioni di superficie riferibili a questo arco cronologico.
L’alta residualità dei contesti in cui si colloca il FW o il rinvenimento di superficie rende
complesso in molti casi identificare l’associazione ceramica di riferimento, ma l’archeologia urbana
di emergenza nel centro storico di Sassari ha evidenziato negli ultimi anni situazioni riferibili alla
villa medievale di Thathari, che potrebbero – quando sottoposte ad uno studio analitico – rivelarsi
informative anche per la ceramica grezza in questa fascia cronologica (ROVINA 2006).
In particolare, nel 2006 è stata identificata, nel corso di lavori di riqualificazione urbanistica di un’area adiacente il Duomo di Sassari, una superficie termotrasformata, con ceneri e
frammenti di ceramiche grezze solo parzialmente cotte, interpretata come la traccia di un’area
di produzione e, in modo più specifico, di una fornace a catasta cronologicamente compatibile
con il periodo di circolazione del FW (FIORI, com. pers.).
La complessità delle restituzioni archeologiche della Sardegna meridionale è stata recentemente sintetizzata da Rossana Martorelli (2002, pp. 139-140), un quadro che indica la
necessità delle edizioni critiche dei contesti, avviate con l’impegnativa pubblicazione di Vico
III Lanusei (MARTORELLI, MUREDDU 2006).
2.3 XII secolo
Un importante contesto databile al XII secolo è stato rinvenuto negli scavi del palazzo
giudicale di Ardara, in corso dal 1998, ed è ad oggi l’unico insieme ceramico attendibilmente
riferibile (trattandosi di uno scarico di rifiuti in probabile giacitura primaria) a questo periodo, per l’associazione con due scodelle invetriate verdi e decorate a stampo, probabilmente
andaluse (BICCONE 2005).
Le ceramiche grezze del contesto di Ardara (Fig. 3) documentano la forma della pentola
cilindrica con orlo estroflesso o appena ingrossato, prive di quelle piccole prese a bugna, raggruppate, diffuse nel XIV secolo. I tipi morfologici presenti ad Ardara rappresentano un punto
fermo della cronotipologia delle ceramiche grezze sarde, in quanto possono essere indicati come
prototipi delle più note pentole cilindriche trecentesche circolanti nel nord-ovest dell’isola,
suggerendo una maggiore durata cronologica di questa forma, come parrebbe confermato
anche dal tegame con presa complanare all’orlo.
Le tecnologie individuate sembrano rimandare da un lato a produzioni artigianali che
utilizzano il tornio lento, dall’altro a produzioni di carattere domestico piuttosto grossolane,
un problema che necessita però di approfondimenti, anche in rapporto alle necessarie caratterizzazioni archeometriche (BICCONE 2005, p. 257).
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2.4 XIII secolo
Lo scavo di via Brenta a Cagliari, condotto tra il 1984 ed il 1986, ha evidenziato contesti
attribuibili alla prima metà del XIII secolo, che hanno restituito attestazioni di ceramiche
destinate alla cottura.
Dalle descrizioni disponibili si evincono caratteri tecnologici e morfologici differenti da
quelli finora discussi, con manufatti prodotti al tornio veloce, «gli impasti, arricchiti di inclusi selezionati – micacei, calcarei e nerastri – di medie e minute dimensioni uniformemente
distribuiti, allo scopo di assicurare un certo grado di refrattarietà sono per lo più rossicci con
scarse variazioni cromatiche, dovute a una cottura in ambiente riducente. Alla luce di dette
osservazioni, più che parlare di impasti da fuoco, forse sarebbe più adeguato definirli semidepurati o meno selezionati. Si potrebbe suggerire in via ipotetica che detti manufatti, più che
per la cottura, fossero destinati a riscaldare cibi già pronti ovvero liquidi».
Si osservano olle ed una forma ansata con breve orlo piatto, con decorazioni incise a
pettine: nel contesto si segnala la presenza di altre ceramiche “comuni” da fuoco e di invetriate
con la medesima funzione (GARAU 2002, p. 335).
Per il XIII secolo non disponiamo ad oggi di significativi contesti nel nord-ovest della Sardegna, ma solo di materiali residui in contesti di XIV secolo, identificabili in quanto tipi rivestiti,
mentre rimane ad oggi problematico identificare la residualità dei tipi grezzi di XIII secolo.
2.5 XIV secolo
Il quadro documentario pertinente il XIV secolo dispone di un numero maggiore di
attestazioni e permette di avanzare pertanto l’identificazione di tipi morfologici diffusi in
questo periodo.
Si tratta in primo luogo della pentola cilindrica con orlo estroflesso, caratterizzato da
piccole prese appuntite in genere multiple, disposte sul margine dell’orlo, da tegami ansati o
privi di anse e da coperchi.
Il riempimento di un silos per granaglie, rinvenuto negli scavi del Duomo di Sassari,
databile alla prima metà del XIV secolo, per la presenza di graffita arcaica savonese, maiolica
arcaica pisana, maioliche di tipo Pula ed altre smaltate catalane e valenzane (ROVINA 1986,
1989), ha restituito un ampio repertorio di ceramiche grezze di produzione sub-regionale,
nettamente prevalenti sulle invetriate dal punto di vista quantitativo (40,17% del totale complessivo delle attestazioni ceramiche del riempimento: CASULA 1995, tav. XIV). Le invetriate
sono note nella forma dell’olla con orlo estroflesso (ROVINA 1989, p. 165), una forma nota
anche nei contesti urbani di Alghero (Maddalena) e di Senorbì (CA), ma si tratta di attestazioni
ancora sporadiche: da notare comunque il forterilievo quantitativo delle grezze, nonostante si
tratti di un contesto urbano certamente privilegiato, per la posizione centrale nella topografia
della città medievale e per la ricchezza del repertorio d’importazione.
Le grezze sono rappresentate da pentole cilindriche con diametri fino a cm 35, con orli
estroflessi a margine in genere indistinto, coppie di piccole prese impostate sull’orlo, ripetute
in più punti della circonferenza (ROVINA 1989, p. 166; CASULA 1995, XLV-L) (Fig. 4), tegami
con orlo indistinto dalla parete e coperchi con fori realizzati a crudo.
La situazione delle ceramiche grezze presenti nelle ben documentate fasi trecentesche del
villaggio di Geridu (Sorso, SS) (MILANESE 1996, 2000, 2001, 2004, 2006a; MILANESE, SANNA,
DEMURTAS, BICCONE, CHERCHI, MARRAS, in questo volume; FIORI 1996) non si discosta in
modo significativo dalla quella coeva (silos del Duomo) della vicina città di Sassari. Pentole
cilindriche con orli estroflessi e piccole prese multiple, qualche olla ansata o priva di anse,
tegami anch’essi con o senza anse ed una forma piuttosto bassa, interpretabile come variante
della forma del testo (MILANESE, BICCONE, FIORI 2000) (Fig. 5).
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A Geridu, alcune forme si distaccano tuttavia da questi tipi morfologici, come le pentole
con orlo estroflesso con decorazioni digitate e paiono riconducibili ad un differente contesto
produttivo, forse di carattere domestico, anche per la sporadicità delle attestazioni (ma non
si dispone dei dati archeometrici), mentre i tipi morfologici più codificati ai quali si è fatto
riferimento sembrano rimandare a caratteri di serialità di matrice artigianale specializzata.
I campioni finora analizzati di ceramiche grezze di Geridu sono caratterizzati da materiali
ricchi di frammenti di rocce ignimbritiche, con pomici e shards, provenienti dall’alterazione
di Vulcaniti terziarie. Formazioni geologiche di questo tipo sono tuttavia assenti a Geridu,
che insiste invece su terreni calcarei di periodo miocenico.
Le più vicine aree geologicamente compatibili con i markers petrografici individuati
nelle grezze di Geridu si trovano a non meno di 10-15 Km dal villaggio, in direzione di
Castelsardo.
La connotazione rurale del sito di Geridu rispetto alla città di Sassari sembra cogliersi – pur
in una identificabile koinè produttiva, in una maggiore rilevanza quantitativa delle grezze sulle
invetriate da fuoco, che a Geridu risultano solo sporadicamente attestate da qualche tegame
invetriato con prese sull’orlo, ancora da caratterizzare archeometricamente, ma per i quali si
potrebbe avanzare un’ipotesi di produzione in un centro della Linguadoca orientale.
Il problema rimanda alla dinamica di affiancamento e sostituzione delle ceramiche grezze
da parte dei tipi invetriati di tecnologia più avanzata, che sembra cogliersi con tempi e modi
differenziati, per aree geografiche e per ambiti socio-economici di consumo.
La prima variabile (l’area geografica) è ben identificabile nel settore nord-occidentale
dell’isola, coincidente grossomodo con il Logudoro e con il medievale Giudicato di Torres,
mentre la seconda variabile sembra capace di creare significative differenze nella medesima
fascia cronologica, anche se ad oggi mancano ancora serie di dati da territori veramente ristretti
e perfettamente omogenei dal punto di vista politico-istituzionale.
Alcuni contesti recentemente documentati (2005) negli scavi del castello di Bosa, riconducibili alla prima metà del XIV secolo e pertanto riferibili alla fase malaspiniana o – più facilmente
– già alla prima fase arborense del sito mostrano – stando alle prime osservazioni disponibili – il
totale predominio di pentole e tegami invetriati (talvolta attribuibili alla Linguadoca orientale,
talvolta di origine da determinare) sulle ceramiche grezze, evidenziando il peso del contesto socioeconomico nel rapporto tra grezze ed invetriate in questo periodo e forse anche una maggiore
facilità di accesso a merci importate non necessariamente di particolare pregio.
I coevi contesti urbani di Alghero – Bastione della Maddalena (2004) (MILANESE, FIORI,
CARLINI 2006; MILANESE, CARLINI 2005) rimandano ad una consistente presenza di invetriate
(anche in questo caso ben documentata l’origine nella Linguadoca orientale) in associazione
a ceramiche grezze. Il monitoraggio di diverse associazioni dagli scavi urbani dell’area dell’ex
Ospedale vecchio (MILANESE 1999), disposte variamente nel XIV secolo conferma un sostanziale equilibrio tra le produzioni grezze e quelle invetriate nella funzione della cottura, in
questo importante centro urbano della Sardegna medievale.
I recenti scavi di Castelsardo (fondamentale caposaldo strategico nel Medioevo per i Doria
in Sardegna: MILANESE 2006b) dell’area detta di Manganella (MILANESE, SANNA, DEMURTAS,
BICCONE, CHERCHI, MARRAS, in questo volume) sembrano prospettare una situazione non molto
differente, con una presenza di entrambe le classi nel XIV secolo, con ceramiche grezze associate
a pentole invetriate attribuibili alla Linguadoca orientale, anche se in alcune restituzioni di tardo
XIV-inizio XV secolo le grezze sembrano assenti, ma il dato appare del tutto preliminare e da
sottoporre ad ulteriori verifiche (PADUA com. pers.). Materiali residuali nei contesti di XIV secolo
di Castelsardo prospettano la presenza di fasi di XIII secolo (lo scavo delle sequenze non è ad
oggi completato), segnalate da frammenti di Cobalto-Manganese e di Spiral Ware, quindi una
più ampia potenzialità cronologica per la verifica della situazione delle ceramiche grezze.
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Alla seconda metà del XIV secolo è stato attribuito uno scarico di vasellame in uso nel piccolo
ma importante monastero vallombrosano (poi controllato dall’Ospedale di San Jacopo di Altopascio) di Santa Maria di Seve (Banari, SS) (SODDU 2000, pp. 16-20), ad oggi solo in parte edito.
Una breve nota preliminare ci informa della presenza di ceramiche grezze riferibili a pentole, olle e tegami, un piccolo contenitore definito saliera, un testo attribuito alla cottura del
pane ed un coperchio (FIORI 2000, pp. 43-45) (Fig. 6). I manufatti, prodotti al tornio lento
e lisciati in superficie, presentano forme confrontabili con le pentole cilindriche con piccole
prese multiple e con le olle ansate o prive di anse, note a Sassari, a Geridu e ad Ardu (ROVINA
2006, p. 169), confermando in tal modo una koinè morfologica di carattere subregionale.
Del tutto da approfondire appare l’ipotesi che un forno a riverbero rinvenuto nello scavo sia
stato utilizzato anche per la cottura di manufatti ceramici: l’assenza di verifiche archeometriche
impedisce per ora una discussione di questa ipotesi, ma si vuole in questa sede osservare che per
il loro carattere di alta refrattarietà, le argille locali (di origine vulcanica), utilizzate fino al XX
secolo per la produzione di sos furréddos (bracieri portatili), potrebbero essere state impiegate
nell’ambito dell’economia locale e monastica anche in epoca medievale.
Le campagne di scavo realizzate nel castello di Monteleone (MILANESE 2005) hanno
restituito attestazioni di ceramiche grezze in contesti dalla seconda metà del XIV al pieno XV
secolo (PADUA 2004).
Le forme sono riconducibili a pentole e tegami con orli indistinti e piccole prese (Fig. 7),
morfologicamente riconducibili alle caratteristiche prima descritte per altri siti. Le prime analisi
archeometriche condotte evidenziano una compatibilità con argille locali, derivanti dal disfacimento delle rocce igninbritiche, stratigraficamente sottostanti i calcari nel rilievo su cui sorge il
castello di Monteleone. Anche in questo caso, le argille di partenza potrebbero essere state scelte
per la loro composizione vulcanica e quindi per la loro refrattarietà: rifiniture sommarie ed incerte
sembrano infine ulteriori indicatori di conferma di una compatibilità con una produzione almeno
in parte locale, realizzata per il consumo della popolazione residente nel castello.
Le fasi trecentesche degli scavi del monastero benedettino (camaldolese) di San Nicola di
Trullas (Semestene) (BONINU, PANDOLFI 2004), ubicato nella parte meridionale del Meilogu e
del Giudicato medievale di Torres, ai margini dell’altopiano di Campeda, hanno recentemente
restituito ceramiche grezze. Esse occupano una parte consistente delle restituzioni ceramiche
(43%) e la totalità della ceramica da fuoco, con pentole ed olle, per le quali sono stati identificati corpi ceramici omogenei. Sono stati osservati indicatori di una «lavorazione a mano
su un supporto fisso costituito da ceste o piccole stuoie in materiale vegetale, una lisciatura
sommaria delle pareti probabilmente eseguita a mano», che rimandano ad una «produzione
domestica» (FIORI 2004, pp. 41-43). In effetti, anche nel caso del monastero di San Nicola di
Trullas si potrebbe avanzare un’ipotesi che l’economia monastica includesse al proprio interno
una produzione di vasellame grezzo per la cottura degli alimenti, pur in presenza di soluzioni
alternative, come potrebbe prospettare il paiolo in rame rinvenuto nel monastero di Seve, di
cui si ignorano però le dimensioni e quindi le funzioni.
Una produzione locale – in attesa di controlli archeometrici – che potrebbe essere sostenibile anche sulla base della presenza di consistenti formazioni vulcaniche nel territorio,
intervallate a formazioni di calcari miocenici, dove in particolare le prime parrebbero adatte
a fornire argille con caratteristiche di refrattarietà.
Nella parte meridionale del Giudicato di Torres, nella curatoria di Planargia, una ricognizione condotta nel villaggio medievale di San Giovanni/Santu Maltine (Magomadas, nei
pressi di Bosa) ha evidenziato materiali databili al XIV secolo-inizi XV, periodo al quale sembra
di poter riferire anche una pentola o casseruola grezza con orlo ingrossato a debole canale
(BIAGINI 2006, fig. 14.3) (Fig. 8). Per la sua forma particolare, questo reperto si distacca con
chiarezza dal repertorio morfologico delle grezze “settentrionali”, individuato in precedenza:
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esso sembra piuttosto risentire in modo evidente delle suggestioni morfologiche delle coeve
ceramiche invetriate da fuoco prodotte nella Linguadoca orientale, attestate nel XIV secolo a
Bosa, Alghero e Castelsardo (MILANESE, CARLINI 2005, p. 232-237) e di cui potrebbe pertanto
rappresentare una sorta di imitazione, peraltro finora non attestata altrove.
A Senorbì, nell’area della Trexenta, 40 km a Nord di Cagliari, è da tempo segnalato il sito
di Corte Auda, identificabile con il villaggio medievale di Aluda, dove un ampio scavo d’emergenza ha consentito il recupero di materiali databili al XIV secolo (maiolica arcaica pisana in
associazione), fra cui si segnalano tegami grezzi ad orlo indistinto, con prese a linguetta sotto
l’orlo, unitamente a ceramica invetriata da fuoco, in particolare olle massicce con invetriatura
interna incolore (SALVI 1990, pp. 86-91).
Circa 30 km a Sud di Cagliari, nel noto ripostiglio dal villaggio di Pula (CA), databile al
pieno XIV secolo, un’olla globulare priva di rivestimento, con breve collo estroflesso e fondo
convesso (BLAKE 1986, fig. 5, pl. 8, n. 40; PORCELLA 1988, p. 198, CE 39) si distacca ancora
dalle forme grezze maggiormente attestate nel nord dell’isola e sembra riferirsi ad una differente
evoluzione formale, che ha potrebbe aver presenti modelli invetriati di larga circolazione anche
nel nord (Duomo di Sassari, Alghero).
2.6 XV secolo
Per tutto il corso del XV secolo, i contesti di scavo di Alghero (Ospedale Vecchio) documentano con continuità la presenza di ceramiche grezze a fianco di quelle invetriate, ma
manca ad oggi una caratterizzazione cronotipologica dei materiali.
Negli scavi del castello di Monreale (Sardara, CA), ubicato nel Campidano settentrionale, ai
piedi della Marmilla (circa 50 km a Nord di Cagliari) sono state rinvenute numerose ceramiche
grezze, in particolare da un immondezzaio rinvenuto nella torre nord-ovest del mastio (ambiente
alfa), in un contesto di ampia cronologia (seconda metà XIV-metà XV secolo). I tegami e le
casseruole rinvenuti sono di tipo grezzo (anche foggiati a mano, a tornio lento) e sono del tutto
assenti forme invetriate per la cottura degli alimenti. Le olle (o pentole) sono globulari, con brevi
anse impostate sotto l’orlo, presentano annerimento superficiale ed hanno orlo estroflesso con
solcature multiple e fondo piano o convesso, per una cottura sulle braci o su treppiede a riverbero
(PINNA 2001, pp. 76-84). Sempre da Sardara (ma rinvenute in loc. Sa Costa) sono segnalate due
olle da fuoco, esposte presso il locale Museo Archeologico (PINNA 2001, p. 82).
Questi ultimi manufatti appaiono morfologicamente identici ad olle grezze rinvenute
recentemente (2005) negli scavi del castello di Bosa, in uno scarico databile al secondo quarto-metà del XV secolo e riferibile ad un momento significativo di transizione nella storia del
sito. Si tratta di olle ansate, tornite, caratterizzate da un consistente, omogeneo ed intenzionale
scurimento superficiale, con corpo ceramico rosso mattone compatto, diffusi inclusi bianchi
calcarei di granulometria regolare, probabilmente macinati a parte, setacciati ed aggiunti alla
massa argillosa, che denotano un processo produttivo codificato, riconducibile ad un artigianato specializzato. La forma è globulare (con decorazioni ondulate “a pettine”), le brevi anse
tubolari sono impostate subito sotto l’orlo, che è estroflesso ed anch’esso segnato da marcate
solcature parallele (Figg. 9-10). I caratteri morfologici – pur sfuggendo ancora ad oggi il
centro produttivo delle olle di Sardara e di Bosa, sembrano denotare a chi scrive un esplicito
riferimento ai modelli invetriati di produzione catalana, attestati con chiarezza nei contesti
della vicina città di Alghero (MILANESE, CARLINI 2005, figg. 10-11 e tav. IV).
2.7 XVI secolo
Le conoscenze ad oggi disponibili provengono principalmente dagli scavi di Alghero,
Sassari e di Bosa, ma anche da Thiesi nel Meilogu e da altri siti.
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Questi dati permettono di affermare che nel XVI secolo, pur in un quadro di larga diffusione delle ceramiche invetriate da fuoco d’importazione dall’area catalana, dalla Linguadoca
orientale e di produzioni regionali, le ceramiche grezze sono ancora presenti: la difficoltà
maggiore è rappresentata dalla valutazione della residualità dei contesti, agevole per alcune
classi rivestite (smaltate, ingobbiate), più difficoltosa per i manufatti privi di rivestimento, la
cui residualità viene talvolta dedotta indirettamente e valutando l’indice di frammentazione
dei reperti e i processi di formazione della stratificazione archeologica.
Ad Alghero, sia negli scavi dell’area dell’Ospedale vecchio che in quelli di Piazza Santa
Croce, le numerose ceramiche grezze rinvenute nei contesti cinquecenteschi non possono che
rappresentare la continuità delle produzioni precedenti, ma si sottolinea che la valutazione del
fenomeno non può che passare attraverso la determinazione della residualità, non tanto per confermare la presenza della classe, ma i suoi specifici caratteri morfologici in questo periodo.
Le prime analisi petrografiche condotte su alcuni campioni di ceramiche grezze provenienti da contesti cinquecenteschi di Alghero hanno consentito di individuare 3 corpi ceramici
di provenienza regionale e 3 di provenienza alloctona (MILANESE, MAMELI, COSSEDDU, in
questo volume).
In particolare, tra le famiglie petrografiche regionali-autoctone, la prima è l’unica sicuramente riferibile alla Sardegna Nord-Occidentale (Mejlogu) (abbondanza di shards vetrosi e pomici,
associate a inclusi litici, provenienti dalle successioni vulcaniche che caratterizzano la Sardegna
Nord Occidentale), mentre le altre due sono caratterizzate da argille che, seppur compatibili
con la geologia di alcune aree della Sardegna settentrionale (rispettivamente Goceano-Monte
Acuto-Baronie e Anglona), non trovano riscontro nella geologia del territorio algherese.
Tra le famiglie petrografiche alloctone, la prima e l’ultima sono caratterizzate da argille
che trovano riscontri nell’area valenzana (Spagna), mentre la seconda è costituita da un’argilla
proveniente dallo smantellamento di ofioliti (gabbri), incompatibile con i litotipi presenti in
Sardegna, ma riconducibile invece ad aree di provenienza collocabili nell’Appennino Settentrionale.
Ad Alghero, lo scavo stratigrafico del riempimento di un pozzo nell’area dell’Ospedale
vecchio, obliterato nel corso della seconda metà del XVI secolo, si colloca come contesto privilegiato per l’osservazione del problema, mentre il materiale ceramico recuperato nel 2006
dallo sterro non autorizzato di un pozzo in Piazza Civica (MILANESE et al. 2006), databile al
tardo XVI secolo, evidenzia comunque una presenza di ceramiche grezze, probabilmente in
parte d’importazione dall’area catalana.
3. CONCLUSIONI
La discussione condotta in questo testo palesa lo stato ancora embrionale delle conoscenze, ma al contempo il forte potenziale disponibile in termini di fonti archeologiche e di
dati stratigrafici.
I punti strategici ai quali si sono riferiti i dati discussi e sui quali si può articolare la ricerca
futura si possono schematizzare come segue: 1. Caratterizzazione morfologica; 2. Cronologia;
3. Identificazione delle aree di produzione regionale e delle importazioni; 4. Circolazione;
5. Rapporto Grezze-Invetriate; 6. Interpretazione socio-economica ed antropologica della
produzione e del consumo.
Si è sottolineato come in alcune aree della Sardegna nord-occidentale si colga – affermato
per tutto il XIV secolo – un linguaggio comune nella morfologia della classe, identificabile
nel predominio della pentola cilindrica sull’olla e sulla presenza di piccole prese multiple
disposte a gruppi sull’orlo, con un percorso che sembrerebbe rimandare ai secoli centrali del
Medioevo.
– 330 –
Si sarebbe tentati di individuare in queste pentole grezze (talora con diametro di cm 35)
la versione economica, il surrogato in terracotta della perola o caldera, il paiolo, per lo più in
metallo, presente negli inventari di beni redatti a Sassari negli anni 1347-1352 (GALOPPINI
1989, pp. 209 e 269).
Tuttavia il problema è probabilmente più articolato: stante, infatti, il forte divario
esistente tra il valore di una grande pentola grezza e di un paiolo di rame, occorre valutare
anche la tipologia del focolare domestico in cui i recipienti potevano o non potevano essere
utilizzati, necessitando infatti il paiolo metallico di una catena alla quale veniva sospeso e di
un focolare dotato di cappa, probabilmente presente nel Trecento solo in alcune case della
città di Sassari, mentre nelle ville rurali, dove la cappa non era probabilmente mai presente
(al contrario, l’archeologia ha finora documentato solo il focolare a fiamma libera, ubicato in
prossimità della porta per un più rapido smaltimento dei fumi), ben difficilmente, anche per
questo motivo, il paiolo metallico poté sostituire la pentola grezza.
Sul versante dell’identificazione dei centri di produzione, le prime indagini archeometriche
hanno spazzato via il falso mito della produzione locale, evidenziando invece come non solo
una città economicamente vivace come Alghero ricevesse ceramiche grezze da diversi areali,
dalla scala locale a quella subregionale, all’importazione da lunghe distanze (Spagna, forse
Toscana), ma anche il villaggio rurale di Geridu acquisisse le ceramiche grezze in grandi
quantitativi da centri produttivi operanti nella zona di Castelsardo, caratterizzati da argille
derivanti dall’alterazione di Vulcaniti e segnate da marcatori come pomici e shards.
Si può pertanto iniziare a costruire l’ipotesi, almeno per il Nord-Ovest dell’isola, dell’esistenza nel Medioevo di un commercio circumlocale di ceramiche grezze, prodotte in territori
di origine vulcanica verso quelli di natura calcarea, le cui argille non sono invece dotate di un
sufficiente grado di refrattarietà, da renderle adatte alla produzione di manufatti che dovevano
essere usati a contatto con alte temperature e sottoposti a prolungati stress termici.
I caratteri materiali dei prodotti rimandano a forme di artigianato specializzato, in cui
l’intero processo produttivo è codificato e standardizzato nei diversi passaggi, finalizzato alla
produzione di un repertorio morfologico essenziale (basato sulle forme della pentola, del
tegame e di quantitativi forse più ridotti di olle) sufficientemente affermato sui mercati del
Logudoro nel basso Medioevo.
Ancora in questa direzione interpretativa, ma da caratterizzare archeometricamente sono
le olle ansate databili alla prima metà del XV secolo, dai castelli di Bosa e di Monreale (Sardara), che potrebbero ricondursi sia a centri regionali, sia ad un’importazione, che in questo
caso riporterebbe probabilmente alla penisola iberica.
La presenza di forme di artigianato (e dell’indotto economico da questo provocato) tuttavia
non esclude forme (peraltro documentate) di produzione domestica o per l’autoconsumo, ma è
probabile che queste siano prevalentemente limitate agli insediamenti ubicati su aree vulcaniche
e non calcaree, almeno per la produzione di ceramiche grezze per la cottura degli alimenti.
Le dinamiche di affiancamento e sostituzione delle ceramiche grezze da parte di ceramiche invetriate di pari funzione non seguono nel Medioevo sardo, a quanto oggi percepibile,
un percorso cronologicamente lineare, in quanto dipendenti da numerose varianti, quali la
disponibilità sul mercato di vasellame invetriato da fuoco, i collegamenti mercantili privilegiati
sulle lunghe distanze (Marsiglia, penisola iberica ed italiana), la disponibilità all’acquisto di
manufatti più costosi e di medesima funzione, la rete produttiva di riferimento, la cultura
gastronomica ed alimentare.
In territori a forte vocazione agricola e pastorale (fondamentale per l’analisi di ogni specifico insediamento è la disponibilità di dati archeozoologici ed archeobotanici), le pentole grezze
realizzate in resistenti argille vulcaniche erano commerciate nel nord dell’isola a distanze significative per la preparazione (a riverbero delle braci ardenti del focolare, con l’utilizzo o meno di
– 331 –
un treppiede metallico o di più semplici pietre) di zuppe di leguminose e di verdure (Fig. 11),
arricchite da grassi animali sotto forma di lardo essiccato o di carni ovine necessitanti anch’esse di
lunghe cotture in brodi che le singole tradizioni locali riutilizzano per pietanze a base di pane.
La cronologia della produzione, nonostante l’indubbia e generalizzata affermazione delle
ceramiche invetriate da fuoco alle soglie dell’età moderna, non sembra però interessata da
una vera e propria cesura cronologica, in quanto ancora in contesti di XVII e XVIII secolo
è percepibile una vivace produzione ed un’attività artigianale è documentata nella memoria
locale a Castelsardo, ad Osilo e a Banari, sempre in aree di natura vulcanica, con manufatti
che ancora nel XIX erano oggetto di un commercio locale o regionale, “di nicchia”, come nel
caso dei furréddos di Banari.
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pp. 13-20.
1a
Figg. 1-1a – Località citate nel testo.
1
Fig. 2 – Santa Filitica (Sorso, SS). Testi grezzi dall’US 3003.
– 334 –
Fig. 3 – Ardara (SS). Ceramiche grezze databili al XII secolo (BICCONE 2005, tav. 2).
Fig. 4 – Sassari. Pentola grezza di grandi dimensio- Fig. 5 – Geridu (SS). Testo grezzo (variante subregionale?).
ni dal silos del Duomo (ROVINA 2000, p. 72).
– 335 –
Fig. 6 – Santa Maria di Seve (Banari, SS). Ceramiche grezze di XIV secolo (FIORI 2000, p. 43).
Fig. 7 – Monteleone Roccadoria (SS). Orli di pentole e tegami (XIV-inizi XV secolo).
Fig. 8 – Santu Maltine (Magomadas, OR). Pentola grezza di XIV secolo (BIAGINI 2006, fig. 14.3).
– 336 –
Fig. 9 – Bosa (OR). Olla ansata da contesto di
secondo quarto XV secolo.
Fig. 10 – Bosa (OR). Orlo di olla ansata. Sul distacco dell’ansa, si nota lo scurimento superficiale
intenzionale.
Fig. 11 – Sorso (SS), Museo dei Villaggi Abbandonati della Sardegna. Particolare della ricostruzione di
un ambiente del villaggio di Geridu (prima metà XIV secolo).
– 337 –